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venerdì 17 novembre 2023

Nuove prospettive sulla questione dello sfruttamento del lavoratore

di Fabio Massimo Nicosia 

Vorrei qui esporre dubbi e problemi, che investono la questione dello sfruttamento del lavoratore, come fenomeno, qui, non storico, legato a una fase particolare dell’emergere con virulenza del capitalismo moderno, ma approfondendo la disamina analitica, procedendo al di là di quanto la pur importante prospettiva esclusivamente storica ci suggerisce, e quindi sforzandoci di recepire delle nozioni concettuali astratte, le quali possano aiutarci di più a capire le questioni senza pregiudizi e paraocchi di alcun tipo.

L’ipotesi di lavoro, sulla quale intendo qui ragionare, è quella, per la quale il concetto di “sfruttamento del lavoratore” debba essere distinta analiticamente in due nozioni diverse: a) il fatto storico che il lavoratore subordinato sia stato, ed eventualmente sia, assoggettato gerarchicamente al datore di lavoro, inteso come titolare privilegiato dei mezzi di produzione materiali più importanti, che rappresenta per lo più un fenomeno politico; b) il fatto che da tale assoggettamento del lavoratore il datore di lavoro, come appena descritto, ricavi un beneficio economico, che nel linguaggio marxiano viene chiamato “plusvalore”, sul presupposto che il lavoratore produca più valore di quanto non ne riceva come contropartita sotto forma di retribuzione.

Senonché, il fatto che il lavoratore subordinato, ferma restando la sua situazione di assoggettamento politico, produca più valore di quanto non ne riceva in cambio non può costituire una petizione di principio, ma rappresenta un’affermazione di fatto, che deve essere verificata di volta in volta empiricamente, ammesso e non concesso che una simile operazione sia possibile. Prima di procedere in tale ragionamento, vorrei provare a fornire una definizione del termine “capitalismo”, senza alcuna pretesa che si tratti dell’unica definizione possibile, né che si tratti di definizione esaustiva, di tal che ognuno è autorizzato a rimpolparla con gli ulteriori attributi che ritiene; ebbene, a mio avviso e in questa fase, “il capitalismo è un sistema politico-economico, caratterizzato dal possesso unilaterale dei mezzi di produzione materiali più importanti da parte di una minoranza privilegiata, tale in quanto tutelata da un sistema legale, la quale viene posta in condizione altresì di impossessarsi, istituzionalmente o di fatto, di porzioni rilevanti di capitale comune senza compenso e con il minore indennizzo delle esternalità procurate, al fine di realizzare prodotti da collocare sul mercato, in modo tale da trarne utili attraverso la loro cessione alla platea  dei consumatori”.

Come si vede, non ho inserito, come di solito avviene, soprattutto da parte degli autori di estrazione marxista, l’elemento dello sfruttamento del lavoratore, o, per meglio dire, di una massa indistinta di lavoratori, in tale definizione, non perché ciò non sia effettivamente avvenuto storicamente, o non possa comunque sempre avvenire; ma perché non mi pare un elemento costitutivo della definizione, trattandosi di elemento contingente e non necessario ed essenziale, posto che, mentre non possiamo immaginare un “capitalismo senza consumatori”, è ipotizzabile invece concretamente anche un “capitalismo senza lavoratori”, sol che pensiamo all’ipotesi di una completa automazione delle fabbriche, pur restando queste di proprietà privata.

Ora, non sfuggirà che, quale che sia il trattamento riservato ai lavoratori, è dall’esborso di denaro da parte del consumatore che il capitalista trae il suo profitto, così come è dell’esborso del consumatore che il lavoratore trae il suo salario, mentre la questione del suo sfruttamento economico segna una questione di rapporto di distribuzione interna del ricavo conseguito dalle mani del consumatore, dato che, dal punto di vista del proprietario dei mezzi di produzione, il costo del lavoratore è un costo come un altro, vale a dire equiparabile al costo di un qualsiasi altro fattore di produzione, come cioè se il lavoratore rappresentasse un mezzo di produzione come un altro, una sorta di “macchina umana” con un suo costo di mantenimento esattamente come le macchine nel vero senso della parola, che è rappresentato appunto dal salario: prova ne sia che oggi il lavoratore appare totalmente fungibile con le macchine in un sistema di piena automazione; tal per cui se si addita Amazon come sede del massimo sfruttamento del lavoratore, in quanto ridotto a macchina e robot, si sta dicendo al contempo che egli è fungibile con la macchina e il robot, tant’è vero che Amazon sta attivamente lavorando in tale direzione, ossia in quella della sostituzione piena del lavoratore con le macchine.

In tale prospettiva, però, il capitalista Bezos sta lavorando dialetticamente anche contro se stesso, dato che, in una prospettiva di piena automazione di Amazon, l’intelligenza artificiale, nel rendere virtualmente superflui i lavoratori, anche intellettuali, può ben rendere superfluo anche il capitalista, dato che pare dimostrato che l’I.A. possa giungere a compiere anche scelte di gestione aziendale, semplificando qui il discorso, vale a dire ricomprendendo nella figura imprenditoriale anche quella manageriale, nel mondo reale più spesso distinta da quella proprietaria; allora a questo punto sorgono seri dubbi sul fatto che un’Amazon totalmente automatizzata, contributo del signor Bezos compreso, possa sensatamente continuare a rimanere di proprietà privata del signor Bezos, dato che, se tutti i lavoratori in esubero vengono congedati, dovrebbe venire congedato e licenziato lo stesso signor Bezos, in quanto figura del tutto pleonastica, il che, da un punto di vista utilitaristico, rende ben difficile continuare a giustificare la titolarità, da parte sua, dell’azienda; ma in questo momento non intendo approfondire troppo questo aspetto.

Tornando al filo logico del discorso iniziale, affermare che il profitto del capitalista provenga dallo sfruttamento del lavoratore, come ritengono i marxisti, elide il fatto evidente che il profitto rappresenta un evento monetario, e quindi deve necessariamente provenire dall’esborso di denaro da parte di qualcuno, e quindi non può che provenire dall’acquirente dei beni e servizi prodotti e messi sul mercato dall’impresa, e non dal fatto che, all’interno dell’impresa, sia maltrattato qualcuno al fine di fornire quei beni e servizi, il che, di per sé, rileva ad altri fini che non a quelli di conseguire un utile monetario; in altri termini, un lavoratore può essere oppresso nella propria dignità all’interno dell’azienda, può anche rimetterci in salute, e magari perdere la vita, ma ciò di per sé non ha ancora a che fare, da un punto di vista analitico, con il fatto che il proprietario dei mezzi di produzione ne abbia ricavato un utile, e non magari un danno. In altri termini, il cosiddetto plusvalore rispetto al pluslavoro dell’operaio può esistere come non esistere: ad esempio, in ipotesi, un lavoratore potrebbe anche essere pagato più di quanto non ottenga come profitto il suo datore di lavoro, pur quando il suo salario sia insufficiente, dato che il mercato non è affatto in grado di garantire davvero all’imprenditore che otterrà dalla sua impresa un utile significativo, e allora lo stesso lavoratore ne verrà danneggiato, ma ciò ancora non basta a collegare la situazione di oppressione del lavoratore con un guadagno economico del datore di lavoro; in quel caso, l’imprenditore, o comunque il titolare dei mezzi di produzione, può accettare di accontentarsi, anche per lunghi periodi, di ricavare poco o nulla come profitto o utile, pur di assicurare la continuità vitale dell’azienda: in tal caso, il lavoratore continuerà a essere un subordinato gerarchico, pur guadagnando più del suo datore di lavoro, sicché il suo assoggettamento continuerà ad esistere, ma si tratterà sempre di assoggettamento politico, morale e in dignità, e non necessariamente economico. Insomma, Marx fissa i propri contenuti definitori con riferimento a un’impresa di successo, ma il mercato non garantisce affatto il successo di ciascuna impresa, il che, si badi, non vale comunque ad elidere la supremazia gerarchica del proprietario dei mezzi di produzione rispetto al lavoratore, almeno fin quando il fallimento non finisca con l’espropriare il proprietario stesso a vantaggio del mercato, vale a dire, nello specifico, dei suoi creditori.

Tutto questo non serve a negare che, in situazione “normale”, il capitalista ricavi un utile dall’essere in grado di assoggettare i lavoratori: semplicemente, vale a precisare che ciò può funzionare solo limitatamente ai fini di una definizione analitica, la quale, del resto, come riconosceva Marx, ha per oggetto “il sistema” e non ciascuna sua specifica espressione aziendale e imprenditoriale, pur se, con riferimento a ognuna di essa, vale la regola che è l’ordinamento legale a tutelare la titolarità del mezzo di produzione, senza ovviamente però poter garantire che da tale tutela legale preliminare emerga effettivamente un profitto, che dipende dalle attitudini imprenditoriali del proprietario, dalle contingenze del mercato, dalla fortuna, e da infiniti altri eventi ed elementi.

Peraltro, constato che diversi marxisti, ultimamente, stanno riconoscendo che il lavoratore avrebbe poco da lamentarsi del salario che riceve, dato che, derivando questo dal mercato del lavoro, il salario stesso non avrebbe nulla di “illegale”, quantomeno nella logica attuale; tuttavia, in tal modo viene a cadere, o a fortemente ridimensionarsi, l’affermazione che il lavoratore produce più di quanto non riceva, puramente e semplicemente perché una tale valutazione è tecnicamente impossibile, se non forse a seguito di un’analisi peritale particolarmente complessa; dato che se pure l’operaio realizza cento tondini in un giorno, non è corretto affermare che egli abbia “prodotto” cento tondini, visto che la produzione dei cento tondini è stata resa possibile da un’organizzazione aziendale, dalla scelta di una certa location, dall’impianto di certi macchinari e così via: quindi al lavoratore non è imputabile la realizzazione di cento tondini, ma di una loro percentuale da stabilire, e allora occorrerebbe capire se la sua remunerazione è adeguata rispetto a tale percentuale; un modo per approssimarsi a un tale accertamento consisterebbe nel sostituire il lavoratore subordinato con un lavoratore autonomo, operante nel libero mercato e non all’interno della verticistica organizzazione aziendale, e cercare di capire quale sarebbe la remunerazione di mercato per un simile lavoratore autonomo, in modo da poterla confrontare con il salario dell’omologo lavoratore subordinato, per comprendere se il subordinato sia discriminato rispetto all’autonomo, tenendo però conto delle altre variabili della condizione lavorativa (ferie, trattamento di fine rapporto, ecc.).

Ora, se è pressoché impossibile vagliare l’”illegalità” del salario operaio in se stesso in astratto, essendo frutto e prodotto di un’interazione di mercato, sia pure sindacalmente mediata, il lavoratore scopre invece l’”illegalità” del suo salario esattamente quando si propone come consumatore, ove riscontri sul mercato l’inadeguatezza del salario stesso a fare fronte ai suoi bisogni; da questo punto di vista, Josiah Warren segna un punto su Marx, nel momento in cui fa coincidere la figura del lavoratore con quella del consumatore, in modo tale che egli, nel momento in cui constata di essere sfruttato come consumatore, scopre di essere stato sfruttato anche come lavoratore, dato che lo scambio lavoro/per/lavoro, immaginato da Warren, rende palese come, con riferimento al salariato, lo scambio sia ineguale, dato che il lavoro-beni che offre è sovrabbondante rispetto al lavoro-beni che riceve in cambio, di tal che, ricevendo in cambio beni in quantità inadeguata ai propri bisogni, poniamo i bisogni primari, pur a fronte di un proprio lavoro consistente, scopre di avere lavorato in eccesso, e di stare concedendo alla controparte più lavoro-beni di quanto non ne stia ricevendo di ritorno: l’inadeguatezza del salario si evidenzia quindi al momento del consumo, al momento dello scambio di mercato volto all’acquisto di beni essenziali, giacché in tal modo il salario viene a raffrontarsi con quanto il mercato effettivamente richieda per concedere beni in cambio, mostrando così quando il lavoratore sia stato effettivamente sfruttato: ad esempio, nella logica del primo Warren del tempo-lavoro, se il lavoratore si vede costretto dai prezzi di mercato a offrire il prodotto di quattro ore di lavoro, per ottenere in cambio quello che alla controparte è costata solo un’ora di lavoro, ciò significa, sempre nella logica warreniana, che egli ha lavorato tre ore di troppo, e quindi scopre di essere stato sfruttato come lavoratore, esattamente nel momento in cui constata di venire sfruttato come consumatore: vale a dire constata l’inadeguatezza del proprio salario a fare fronte alle sue esigenze di vita, e quindi scopre anche la completa assurdità della sua condizione di lavoratore subordinato, che lo coinvolge totalmente nel suo orario di vita, e nemmeno gli consente di acquisire sul mercato beni in misura soddisfacente per lui, posto che lo sfruttamento resta pur sempre un sentimento anzitutto soggettivo, pur se noi siamo in grado di individuarne gli indici oggettivi.

Altro discorso è quello relativo al fatto che poi possano essere i consumatori a venir trasformati in lavoratori, in quanto essi, all’atto del consumo, siano indotti da qualche artificio tecnologico a collaborare, in forma non remunerata, con attività di valorizzazione da parte dell’azienda stessa ai propri esclusivi scopi economici ed eventualmente politici, e questa rappresenta una forma moderna di sfruttamento, sulla quale tornermo più avanti.

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