di Fabio Massimo Nicosia
Vorrei qui esporre dubbi e problemi, che investono la questione dello sfruttamento del lavoratore, come fenomeno, qui, non storico, legato a una fase particolare dell’emergere con virulenza del capitalismo moderno, ma approfondendo la disamina analitica, procedendo al di là di quanto la pur importante prospettiva esclusivamente storica ci suggerisce, e quindi sforzandoci di recepire delle nozioni concettuali astratte, le quali possano aiutarci di più a capire le questioni senza pregiudizi e paraocchi di alcun tipo.
L’ipotesi di lavoro, sulla quale intendo qui
ragionare, è quella, per la quale il concetto di “sfruttamento del lavoratore”
debba essere distinta analiticamente in due nozioni diverse: a) il fatto
storico che il lavoratore subordinato sia stato, ed eventualmente sia,
assoggettato gerarchicamente al datore di lavoro, inteso come titolare
privilegiato dei mezzi di produzione materiali più importanti, che rappresenta
per lo più un fenomeno politico; b) il fatto che da tale assoggettamento del
lavoratore il datore di lavoro, come appena descritto, ricavi un beneficio
economico, che nel linguaggio marxiano viene chiamato “plusvalore”, sul
presupposto che il lavoratore produca più valore di quanto non ne riceva come
contropartita sotto forma di retribuzione.
Senonché, il fatto che il lavoratore subordinato,
ferma restando la sua situazione di assoggettamento politico, produca più
valore di quanto non ne riceva in cambio non può costituire una petizione di
principio, ma rappresenta un’affermazione di fatto, che deve essere verificata di
volta in volta empiricamente, ammesso e non concesso che una simile
operazione sia possibile. Prima di procedere in tale ragionamento, vorrei provare
a fornire una definizione del termine “capitalismo”, senza alcuna pretesa che
si tratti dell’unica definizione possibile, né che si tratti di definizione
esaustiva, di tal che ognuno è autorizzato a rimpolparla con gli ulteriori
attributi che ritiene; ebbene, a mio avviso e in questa fase, “il capitalismo
è un sistema politico-economico, caratterizzato dal possesso unilaterale dei
mezzi di produzione materiali più importanti da parte di una minoranza
privilegiata, tale in quanto tutelata da un sistema legale, la
quale viene posta in condizione altresì di impossessarsi, istituzionalmente o
di fatto, di porzioni rilevanti di capitale comune senza compenso e con il
minore indennizzo delle esternalità procurate, al fine di realizzare prodotti
da collocare sul mercato, in modo tale da trarne utili attraverso la loro
cessione alla platea dei consumatori”.
Come si vede, non ho inserito, come di solito avviene,
soprattutto da parte degli autori di estrazione marxista, l’elemento dello sfruttamento
del lavoratore, o, per meglio dire, di una massa indistinta di lavoratori, in
tale definizione, non perché ciò non sia effettivamente avvenuto storicamente,
o non possa comunque sempre avvenire; ma perché non mi pare un elemento
costitutivo della definizione, trattandosi di elemento contingente e non necessario
ed essenziale, posto che, mentre non possiamo immaginare un “capitalismo
senza consumatori”, è ipotizzabile invece concretamente anche un “capitalismo
senza lavoratori”, sol che pensiamo all’ipotesi di una completa automazione
delle fabbriche, pur restando queste di proprietà privata.
Ora, non sfuggirà che, quale che sia il trattamento
riservato ai lavoratori, è dall’esborso di denaro da parte del consumatore che
il capitalista trae il suo profitto, così come è dell’esborso del consumatore
che il lavoratore trae il suo salario, mentre la questione del suo sfruttamento
economico segna una questione di rapporto di distribuzione interna del
ricavo conseguito dalle mani del consumatore, dato che, dal punto di vista del proprietario
dei mezzi di produzione, il costo del lavoratore è un costo come un altro, vale
a dire equiparabile al costo di un qualsiasi altro fattore di produzione, come
cioè se il lavoratore rappresentasse un mezzo di produzione come un altro, una
sorta di “macchina umana” con un suo costo di mantenimento esattamente come le
macchine nel vero senso della parola, che è rappresentato appunto dal salario:
prova ne sia che oggi il lavoratore appare totalmente fungibile con le macchine
in un sistema di piena automazione; tal per cui se si addita Amazon come sede
del massimo sfruttamento del lavoratore, in quanto ridotto a macchina e robot,
si sta dicendo al contempo che egli è fungibile con la macchina e il robot,
tant’è vero che Amazon sta attivamente lavorando in tale direzione, ossia in
quella della sostituzione piena del lavoratore con le macchine.
In tale prospettiva, però, il capitalista Bezos sta
lavorando dialetticamente anche contro se stesso, dato che, in una prospettiva
di piena automazione di Amazon, l’intelligenza artificiale, nel rendere
virtualmente superflui i lavoratori, anche intellettuali, può ben rendere
superfluo anche il capitalista, dato che pare dimostrato che l’I.A. possa
giungere a compiere anche scelte di gestione aziendale, semplificando qui il
discorso, vale a dire ricomprendendo nella figura imprenditoriale anche quella
manageriale, nel mondo reale più spesso distinta da quella proprietaria; allora
a questo punto sorgono seri dubbi sul fatto che un’Amazon totalmente
automatizzata, contributo del signor Bezos compreso, possa sensatamente
continuare a rimanere di proprietà privata del signor Bezos, dato che, se tutti
i lavoratori in esubero vengono congedati, dovrebbe venire congedato e licenziato
lo stesso signor Bezos, in quanto figura del tutto pleonastica, il che, da un
punto di vista utilitaristico, rende ben difficile continuare a giustificare la
titolarità, da parte sua, dell’azienda; ma in questo momento non intendo
approfondire troppo questo aspetto.
Tornando al filo logico del discorso iniziale, affermare
che il profitto del capitalista provenga dallo sfruttamento del lavoratore, come
ritengono i marxisti, elide il fatto evidente che il profitto rappresenta un
evento monetario, e quindi deve necessariamente provenire dall’esborso
di denaro da parte di qualcuno, e quindi non può che provenire dall’acquirente
dei beni e servizi prodotti e messi sul mercato dall’impresa, e non dal fatto
che, all’interno dell’impresa, sia maltrattato qualcuno al fine di fornire quei
beni e servizi, il che, di per sé, rileva ad altri fini che non a quelli di
conseguire un utile monetario; in altri termini, un lavoratore può essere
oppresso nella propria dignità all’interno dell’azienda, può anche rimetterci
in salute, e magari perdere la vita, ma ciò di per sé non ha ancora a che
fare, da un punto di vista analitico, con il fatto che il proprietario dei
mezzi di produzione ne abbia ricavato un utile, e non magari un danno. In
altri termini, il cosiddetto plusvalore rispetto al pluslavoro dell’operaio può
esistere come non esistere: ad esempio, in ipotesi, un lavoratore
potrebbe anche essere pagato più di quanto non ottenga come profitto il suo
datore di lavoro, pur quando il suo salario sia insufficiente, dato
che il mercato non è affatto in grado di garantire davvero all’imprenditore che
otterrà dalla sua impresa un utile significativo, e allora lo stesso lavoratore
ne verrà danneggiato, ma ciò ancora non basta a collegare la situazione di
oppressione del lavoratore con un guadagno economico del datore di lavoro; in
quel caso, l’imprenditore, o comunque il titolare dei mezzi di produzione, può
accettare di accontentarsi, anche per lunghi periodi, di ricavare poco o nulla
come profitto o utile, pur di assicurare la continuità vitale dell’azienda:
in tal caso, il lavoratore continuerà a essere un subordinato gerarchico,
pur guadagnando più del suo datore di lavoro, sicché il suo assoggettamento
continuerà ad esistere, ma si tratterà sempre di assoggettamento politico,
morale e in dignità, e non necessariamente economico. Insomma, Marx fissa i
propri contenuti definitori con riferimento a un’impresa di successo, ma il
mercato non garantisce affatto il successo di ciascuna impresa, il che, si
badi, non vale comunque ad elidere la supremazia gerarchica del proprietario
dei mezzi di produzione rispetto al lavoratore, almeno fin quando il fallimento
non finisca con l’espropriare il proprietario stesso a vantaggio del mercato,
vale a dire, nello specifico, dei suoi creditori.
Tutto questo non serve a negare che, in situazione “normale”,
il capitalista ricavi un utile dall’essere in grado di assoggettare i
lavoratori: semplicemente, vale a precisare che ciò può funzionare solo
limitatamente ai fini di una definizione analitica, la quale, del resto, come
riconosceva Marx, ha per oggetto “il sistema” e non ciascuna sua specifica
espressione aziendale e imprenditoriale, pur se, con riferimento a ognuna di
essa, vale la regola che è l’ordinamento legale a tutelare la titolarità del
mezzo di produzione, senza ovviamente però poter garantire che da tale tutela
legale preliminare emerga effettivamente un profitto, che dipende dalle attitudini
imprenditoriali del proprietario, dalle contingenze del mercato, dalla fortuna,
e da infiniti altri eventi ed elementi.
Peraltro, constato che diversi marxisti, ultimamente,
stanno riconoscendo che il lavoratore avrebbe poco da lamentarsi del salario
che riceve, dato che, derivando questo dal mercato del lavoro, il salario
stesso non avrebbe nulla di “illegale”, quantomeno nella logica attuale; tuttavia,
in tal modo viene a cadere, o a fortemente ridimensionarsi, l’affermazione che
il lavoratore produce più di quanto non riceva, puramente e semplicemente
perché una tale valutazione è tecnicamente impossibile, se non forse a seguito
di un’analisi peritale particolarmente complessa; dato che se pure l’operaio
realizza cento tondini in un giorno, non è corretto affermare che egli abbia “prodotto”
cento tondini, visto che la produzione dei cento tondini è stata resa possibile
da un’organizzazione aziendale, dalla scelta di una certa location, dall’impianto
di certi macchinari e così via: quindi al lavoratore non è imputabile la
realizzazione di cento tondini, ma di una loro percentuale da stabilire, e
allora occorrerebbe capire se la sua remunerazione è adeguata rispetto a tale
percentuale; un modo per approssimarsi a un tale accertamento consisterebbe nel
sostituire il lavoratore subordinato con un lavoratore autonomo, operante nel
libero mercato e non all’interno della verticistica organizzazione aziendale, e
cercare di capire quale sarebbe la remunerazione di mercato per un simile
lavoratore autonomo, in modo da poterla confrontare con il salario dell’omologo
lavoratore subordinato, per comprendere se il subordinato sia discriminato
rispetto all’autonomo, tenendo però conto delle altre variabili della
condizione lavorativa (ferie, trattamento di fine rapporto, ecc.).
Ora, se è pressoché impossibile vagliare l’”illegalità”
del salario operaio in se stesso in astratto, essendo frutto e prodotto di un’interazione
di mercato, sia pure sindacalmente mediata, il lavoratore scopre invece l’”illegalità”
del suo salario esattamente quando si propone come consumatore, ove riscontri
sul mercato l’inadeguatezza del salario stesso a fare fronte ai suoi bisogni;
da questo punto di vista, Josiah Warren segna un punto su Marx, nel momento
in cui fa coincidere la figura del lavoratore con quella del consumatore,
in modo tale che egli, nel momento in cui constata di essere sfruttato come
consumatore, scopre di essere stato sfruttato anche come lavoratore, dato
che lo scambio lavoro/per/lavoro, immaginato da Warren, rende palese
come, con riferimento al salariato, lo scambio sia ineguale, dato che il
lavoro-beni che offre è sovrabbondante rispetto al lavoro-beni che riceve in
cambio, di tal che, ricevendo in cambio beni in quantità inadeguata ai propri
bisogni, poniamo i bisogni primari, pur a fronte di un proprio lavoro
consistente, scopre di avere lavorato in eccesso, e di stare concedendo alla
controparte più lavoro-beni di quanto non ne stia ricevendo di ritorno: l’inadeguatezza
del salario si evidenzia quindi al momento del consumo, al momento dello
scambio di mercato volto all’acquisto di beni essenziali, giacché in tal modo
il salario viene a raffrontarsi con quanto il mercato effettivamente richieda
per concedere beni in cambio, mostrando così quando il lavoratore sia stato
effettivamente sfruttato: ad esempio, nella logica del primo Warren del
tempo-lavoro, se il lavoratore si vede costretto dai prezzi di mercato a
offrire il prodotto di quattro ore di lavoro, per ottenere in cambio quello che
alla controparte è costata solo un’ora di lavoro, ciò significa, sempre nella
logica warreniana, che egli ha lavorato tre ore di troppo, e quindi scopre di
essere stato sfruttato come lavoratore, esattamente nel momento in cui constata
di venire sfruttato come consumatore: vale a dire constata l’inadeguatezza
del proprio salario a fare fronte alle sue esigenze di vita, e quindi
scopre anche la completa assurdità della sua condizione di lavoratore
subordinato, che lo coinvolge totalmente nel suo orario di vita, e nemmeno gli
consente di acquisire sul mercato beni in misura soddisfacente per lui, posto
che lo sfruttamento resta pur sempre un sentimento anzitutto soggettivo, pur se
noi siamo in grado di individuarne gli indici oggettivi.
Altro discorso è quello relativo al fatto che poi
possano essere i consumatori a venir trasformati in lavoratori, in
quanto essi, all’atto del consumo, siano indotti da qualche artificio tecnologico
a collaborare, in forma non remunerata, con attività di valorizzazione da parte
dell’azienda stessa ai propri esclusivi scopi economici ed eventualmente
politici, e questa rappresenta una forma moderna di sfruttamento, sulla quale
tornermo più avanti.
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