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sabato 28 ottobre 2023

Marginalismo e fondamento politico dello sfruttamento del lavoratore

 di Fabio Massimo Nicosia

Proviamo a porre in essere una simulazione, a partire dal far propria pienamente, a scopo euristico, strumento di ricerca di fatti ipotetici a scopo di chiarificazione, la teoria marginalista e austriaca del soggettivismo integrale dei valori, quale mezzo di determinazione dei prezzi di mercato, e quindi, in prima battuta, di astratta sovranità del consumatore; immaginiamo quindi di assumere che un prezzo sia tale perché i consumatori sono disponibili a spendere, per un certo prodotto, una determinata somma e non un’altra; anzitutto, ciò potrebbe valere, alla lettera, esclusivamente in caso di monopsonio, ossia in un mercato in cui sia presente un solo consumatore, dato che, in un mercato reale, in cui in effetti i consumatori sono molti, posto che i loro giudizi soggettivi sul valore assegnato ai beni, con conseguente disponibilità a spendere con riferimento a una determinata somma, e non a una superiore, dovremmo ritenere che i prezzi di mercato siano determinati dalla media dei giudizi soggettivi di valore dei diversi consumatori; già, quindi, questo concetto di media viene a intaccare il mito della soggettività integrale, dato che non abbiamo più un soggetto “sovrano” in carne e ossa, e quindi dotato di mente e capacità di giudizio, nella determinazione del prezzo, ma un soggetto inevitabilmente collettivo, la cui forza esclusivamente sarebbe in grado di determinare un dato prezzo, o, quantomeno, incidere con forza sulla sua quantificazione.

Senonché, a questo punto, sempre facendo propria una teoria soggettivistica nella determinazione del prezzo, dovremmo ritenere che, analogamente, siano giudizi soggettivi a determinare anche i costi di produzione, dato che, per le moderne teorie liberali soggettivistiche, non solo il prezzo finale, ma anche i costi sono oggetto di giudizio individuale: vale a dire che, data in linea di principio la necessità di affrontare un dato costo in qualsiasi ambito del mercato, della società e della propria vita personale, quel costo verrà individualmente stimato non diversamente da come viene indivdualmente stimato e determinato un dato prezzo finale. Poniamo dunque che, in un dato processo produttivo, un imprenditore debba affrontare un dato costo di produzione, ad esempio riferito all’acquisto di impianti, alla loro manutenzione, alla locazione del suolo e dell’immobile aziendale, all’acquisto di materie prime, alla logistica, e infine, il più delicato socialmente, il costo del lavoro; in base alla dottrina marginalista, dovremmo ritenere che ciascuno di questi costi, relativi a fattori di produzione essenziali da conseguire per l’imprenditore, sia il suo giudizio soggettivo a determinare l’ammontare, vale a dire la sua disponibilità a spendere a un dato prezzo per ciascuna di quelle voci; senonché anche qui vale quanto si è detto prima, ossia che non dandosi nel mercato un unico monopolista mondiale di tutto, anche i giudizi soggettivi degli imprenditori con riferimento ai costi da affrontare nel processo produttivo concorrono a formare una media, il che significa che, in tal modo, si viene a determinare un prezzo di mercato di senso oggettivo con riferimento a ciascun fattore di produzione da acquisire.

Ma non è finita, dato che questa sorta di cartello naturale degli imprenditori nel determinare il prezzo dei fattori di produzione si scontra con un altro cartello naturale, e quindi con un’altra modalità di oggettivazione del concorso dei giudizi soggettivi individuali ricondotti a media, riguardante il convergere delle pretese, ossia ancora dei giudizi individuali, dei titolari di quei fattori di produzione: vale, a dire, se devo prendere in locazione un suolo o un immobile, il mio giudizio sul valore e sulla mia disponibilità a spendere, dovrà confrontarsi con il giudizio soggettivo sulla disponibilità del titolare del suolo e dell’immobile a locare a un determinato canone di locazione e non a una somma inferiore; se devo acquisire materie prime, la mia disponibilità soggettiva a spendere a una certa somma per ottenere quelle risorse naturali, dovrà confrontarsi con la disponibilità soggettiva del titolare delle risorse naturali a cederle non al di sotto di un certo importo, e così via; fino ad arrivare al tema delicato del costo del lavoro, sicché dovremmo ritenere che la disponibilità del cartello naturale degli imprenditori, a non remunerare i lavoratori oltre una certa somma, si confronti con la disponibilità della media dei lavoratori dei vari settori a non essere compensati al di sotto di una data somma: in altri termini, come si vede, la teoria soggettivistica del valore marginalista e austriaca conduce toto coelo a un generalizzato confronto nei termini del rapporto di forza in ogni ambito, dato che ciascuna delle contrattazioni sopra evidenziata avverrà, secondo la teoria della negoziazione e dei giochi, nel senso che ciascuna delle parti cercherà di massimizzare il proprio utile nelle diverse fasi della contrattazione, e quindi con riferimento all’acquisizione delle risorse naturali, all’acquisizione del suolo e dell’immobile, ai costi di logistica, ai costi di impianto e ai costi del lavoro; che cosa succede, a questo punto? Che, in ciascuna delle altre fasi si confrontano di fatto, se non dei monopolisti, dei soggetti dotati di una certa forza contrattuale, che deriva loro dal controllo unilaterale del fattore produttivo su base proprietaria; laddove i lavoratori rappresentano una massa indistinta di persone, del tutto prive di significativi titoli proprietari, se non del proprio know how e capitale umano -quindi fattori, allo stato, del tutto impalpabili e intangible-, la quale è costretta a una dura competizione al proprio interno, essendo i lavoratori svariati milioni in numero, per accedere ai posti di lavoro disponibili, che sono, in quanto offerta, di gran lunga inferiori rispetto alla domanda di lavoro da parte loro: si viene così a determinare quello che, evocando Marx, potremmo definire dumping tra proletari, sicché il loro giudizio di valore soggettivo originario, quanto alla propria disponibilità a lavorare per una retribuzione, che non vada al di sotto di un certo importo, viene umiliata e ridicolizzata, giacché il lavoratore, giudizio soggettivo o no, è costretto a cedere all’oggettività dei rapporti di forza e ad accontentarsi di un importo inferiore alle speranze e alle aspettative.

Senonché, a questo punto, si pone un problema: vale a dire che, poiché il lavoratore, con quel compenso, deve poter vivere, ed eventualmente mantenere dei familiari, occorre di necessità che quel compenso consenta effettivamente al lavoratore di vivere a livelli ch’egli stesso giudichi umani e sufficienti, diversamente il lavoratore, constatando l’insufficienza dell’importo conseguito periodicamente per le necessità della sua esistenza, potrebbe iniziare a rifiutare il lavoro offerto a determinati importi, per quanto oggi la questione sia ulteriormente complicata dall’incedere prepotente della robotica e dell’intelligenza artificiale; ma restiamo per ora alla tradizione, al fine di provare a comprendere meglio il concetto di sfruttamento. A questo punto, stante la debolezza e instabilità intrinseca, dovuta al comunque inevitabile dumping tra proletari, del cartello naturale dei lavoratori, può accadere che i lavoratori cerchino di costituirsi in cartello artificiale, vale a dire in sindacato, al fine di incidere in tal modo sui rapporti di forza dati e di conseguire remunerazioni più elevate rispetto a quelle in atto offerte; tale evento funziona così da detonatore, nel senso che ciascuna delle categorie sopra indicate può subire la tentazione di trasformare il proprio cartello naturale, produttore di medie, in cartello artificiale, al fine di munirsi a propria volta, categoria per categoria, di un proprio sindacato, in modo tale che ciascuna delle contrattazioni sopra indicate avvenga collettivamente, tale istituzionalmente e non per mero fatto, sicché l’incidenza dei rapporti di forza collettivi sulla determinazione di ciascun prezzo sia consacrata; ferma restando la debolezza del sindacato dei lavoratori, per la ragione indicata, ossia per la difficoltà di raccogliere in sindacato i disoccupati, salvo che poi i loro interessi categoriali collidono con quelli dei lavoratori, dato che i lavoratori spingono per una retribuzione sempre più elevata, mentre i disoccupati spingono per una retribuzione sempre più bassa rispetto a quella pretesa dai lavoratori, in quanto i disoccupati stessi, presi dalla disperazione o dalla difficoltà del vivere, siano disponibili ad accettare remunerazioni più basse rispetto a quelle sindacali, pur di conseguire un posto di lavoro.

In particolare, i lavoratori, per la detta ragione che il loro salario deve servire alla sopravviveneza e alla vita del lavoratore stesso e, nel caso, della sua famiglia mireranno a conseguire una remunerazione virtualmente ispirata all’art 36, c. 1, della costituzione italiana, disposizione per la quale “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”, il che nel nostro mondo del lavoro attuale, ricolmo oltretutto di situazioni di precariato, avviene assai di rado.

Senonché, tanto più i lavoratori, attraverso lotte sindacali di tipo corporativo, riescano ad avvicinarsi a tale simbolico obiettivo, vale a dire a conseguire una retribuzione, la quale consenta loro non solo la sopravvivenza, ma anche un vivere libero e dignitoso, quanto più diventano ceto socialmente privilegiato, quantomeno rispetto alla massa dei disoccupati, i quali, ben lontani da quell’obiettivo costituzionale nelle loro condizioni di vita, si accontenterebbero di ben meno pur di ottenere un posto di lavoro e un salario, e non patire il digiuno. Il che non significa però, si badi, che, nel caso in cui i datori di lavoro riescano a limitare le pretese dei sindacati dei lavoratori, allora ciò vada a immediato vantaggio dei disoccupati, dato che non è nelle mire del datore di lavoro tenere bassi i salari allo scopo di soddisfare la domanda di lavoro dei disoccupati; il che poi comporta fenomeni come la richiesta di sussidi sociali, o come l’invenzione di posti di lavori superflui nella pubblica amministrazione, o il diffondersi delle pensioni di invalidità, tutti strumenti istituzionali, volti sostanzialmente a lenire la condizione del disoccupato, senza incidere sugli eventuali momentanei “privilegi”, conseguiti dai lavoratori con le lotte sindacali di tipo corporativo; privilegi soggetti costantemente però alle leggi del mercato, e quindi caduchi e non stabilizzati, tanto più con l’estendersi dei fenomeni di globalizzazione del mercato capitalistico, il quale determina il fenomeno, con l’abbattimento delle frontiere nei confronti della domanda di libera circolazione dei capitali, per il quale i capitalisti cercheranno la propria forza-lavoro là dove costa molto meno, innescandosi così una nuova e ulteriore forma di dumping tra proletari, nel senso che il prezzo di mercato dei salari dei lavoratori delle nostre parti occidentali subisce la prepotente concorrenza dei livelli di remunerazione molto più bassi, ai quali i lavoratori dei paesi poveri sono disposti a lavorare, determinandosi così, o la “svalutazione interna”, vale a dire il crollo del livello dei salari delle nostre parti, ovvero la pura e semplice disoccupazione dei lavoratori occidentali, i quali vanno a incrementare la massa disoccupata, nonché la domanda di tariffe e dazi nei confronti dei paesi poveri o già poveri o emergenti, domanda che però si scontra con le regole internazionali sul libero commercio, che, di norma, sanzionano come illegittimi quegli interventi di tipo protezionistico.

In tutto questo quadro -fondato interamente su rapporti di forza e ben poco su autentici giudizi soggettivi del valore, del tutto utopistici e irreali persino in un mercato idealistico, ossia nel quale gli scambi avvengano senza attriti o costi di transazione, vale a dire ignorando irrealisticamente i rapporti di forza-, dove si ravvisa lo sfruttamento del lavoratore, cercando di utilizzare il termine “sfruttamento” con un certo grado di adeguata tecnicità, ossia al di là di ogni giudizio di tipo morale? Nel fatto che egli si muova in un contesto, nel quale i rapporti di forza gli sono ampiamente sfavorevoli, ma ciò non in omaggio ad astratti leggi di mercato, le quali condurrebbero immancabilmente allo sfruttamento di qualcuno, ma in conseguenza di assetti istituzionali di tipo monopolistico od oligopolistico, quanto al controllo dei vari fattori di produzione: e così le risorse naturali, il suolo, i valori immobiliari, la titolarità proprietaria dei macchinari, e così via, per non parlare del fattore forse principale, vale a dire il finanziamento e il denaro, a propria volta sotto controllo unilaterale da parte della casta bancaria, dal vertice costituito dalle banche centrali fino all’insieme del sistema del credito: il lavoratore, quindi, correttamente, il proletario non possiede assolutamente nulla di tutto ciò, il che dimostra ancora che la fonte del suo sfruttamento, una cui componente è rappresentata dalla precarietà del posto di lavoro e dalla spada di Damocle costante della disoccupazione, è interamente conseguenza di un rapporto di forza, e quindi politica e non volgarmente economica, tale da potersi considerare solo in quanto la politica sia considerata un elemento costitutivo dell’economia politica, salvo però in tal modo rivoluzionare i concetti di questa, la quale diviene costretta a introdurre tra i suoi oggetti di insegnamento e studio anche i rapporti di forza, e quindi l’incidenza su questi degli interventi dello Stato e delle varie istituzioni che ne fanno corollario, e quindi su quali siano i poteri, politici prima che economici, di una banca centrale, ma anche di una regione, di un comune, di una parrocchia, e così via.

 

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