di Fabio Massimo Nicosia
Proviamo a porre in essere una simulazione, a partire dal far propria pienamente, a scopo euristico, strumento di ricerca di fatti ipotetici a scopo di chiarificazione, la teoria marginalista e austriaca del soggettivismo integrale dei valori, quale mezzo di determinazione dei prezzi di mercato, e quindi, in prima battuta, di astratta sovranità del consumatore; immaginiamo quindi di assumere che un prezzo sia tale perché i consumatori sono disponibili a spendere, per un certo prodotto, una determinata somma e non un’altra; anzitutto, ciò potrebbe valere, alla lettera, esclusivamente in caso di monopsonio, ossia in un mercato in cui sia presente un solo consumatore, dato che, in un mercato reale, in cui in effetti i consumatori sono molti, posto che i loro giudizi soggettivi sul valore assegnato ai beni, con conseguente disponibilità a spendere con riferimento a una determinata somma, e non a una superiore, dovremmo ritenere che i prezzi di mercato siano determinati dalla media dei giudizi soggettivi di valore dei diversi consumatori; già, quindi, questo concetto di media viene a intaccare il mito della soggettività integrale, dato che non abbiamo più un soggetto “sovrano” in carne e ossa, e quindi dotato di mente e capacità di giudizio, nella determinazione del prezzo, ma un soggetto inevitabilmente collettivo, la cui forza esclusivamente sarebbe in grado di determinare un dato prezzo, o, quantomeno, incidere con forza sulla sua quantificazione.
Senonché, a questo punto, sempre facendo
propria una teoria soggettivistica nella determinazione del prezzo, dovremmo
ritenere che, analogamente, siano giudizi soggettivi a determinare anche i
costi di produzione, dato che, per le moderne teorie liberali soggettivistiche,
non solo il prezzo finale, ma anche i costi sono oggetto di giudizio
individuale: vale a dire che, data in linea di principio la necessità di
affrontare un dato costo in qualsiasi ambito del mercato, della società e della
propria vita personale, quel costo verrà individualmente stimato non
diversamente da come viene indivdualmente stimato e determinato un dato prezzo
finale. Poniamo dunque che, in un dato processo produttivo, un imprenditore
debba affrontare un dato costo di produzione, ad esempio riferito all’acquisto
di impianti, alla loro manutenzione, alla locazione del suolo e dell’immobile
aziendale, all’acquisto di materie prime, alla logistica, e infine, il più
delicato socialmente, il costo del lavoro; in base alla dottrina marginalista,
dovremmo ritenere che ciascuno di questi costi, relativi a fattori di
produzione essenziali da conseguire per l’imprenditore, sia il suo giudizio
soggettivo a determinare l’ammontare, vale a dire la sua disponibilità a
spendere a un dato prezzo per ciascuna di quelle voci; senonché anche qui vale
quanto si è detto prima, ossia che non dandosi nel mercato un unico
monopolista mondiale di tutto, anche i giudizi soggettivi degli
imprenditori con riferimento ai costi da affrontare nel processo produttivo concorrono
a formare una media, il che significa che, in tal modo, si viene a determinare
un prezzo di mercato di senso oggettivo con riferimento a ciascun fattore di
produzione da acquisire.
Ma non è finita, dato che questa sorta di
cartello naturale degli imprenditori nel determinare il prezzo dei fattori di
produzione si scontra con un altro cartello naturale, e quindi con un’altra
modalità di oggettivazione del concorso dei giudizi soggettivi individuali
ricondotti a media, riguardante il convergere delle pretese, ossia ancora dei
giudizi individuali, dei titolari di quei fattori di produzione: vale, a dire,
se devo prendere in locazione un suolo o un immobile, il mio giudizio sul
valore e sulla mia disponibilità a spendere, dovrà confrontarsi con il giudizio
soggettivo sulla disponibilità del titolare del suolo e dell’immobile a locare
a un determinato canone di locazione e non a una somma inferiore; se devo
acquisire materie prime, la mia disponibilità soggettiva a spendere a una certa
somma per ottenere quelle risorse naturali, dovrà confrontarsi con la
disponibilità soggettiva del titolare delle risorse naturali a cederle non al
di sotto di un certo importo, e così via; fino ad arrivare al tema delicato del
costo del lavoro, sicché dovremmo ritenere che la disponibilità del cartello
naturale degli imprenditori, a non remunerare i lavoratori oltre una certa
somma, si confronti con la disponibilità della media dei lavoratori dei vari
settori a non essere compensati al di sotto di una data somma: in altri
termini, come si vede, la teoria soggettivistica del valore marginalista e
austriaca conduce toto coelo a un generalizzato confronto nei termini
del rapporto di forza in ogni ambito, dato che ciascuna delle
contrattazioni sopra evidenziata avverrà, secondo la teoria della negoziazione
e dei giochi, nel senso che ciascuna delle parti cercherà di massimizzare il
proprio utile nelle diverse fasi della contrattazione, e quindi con riferimento
all’acquisizione delle risorse naturali, all’acquisizione del suolo e
dell’immobile, ai costi di logistica, ai costi di impianto e ai costi del
lavoro; che cosa succede, a questo punto? Che, in ciascuna delle altre fasi si
confrontano di fatto, se non dei monopolisti, dei soggetti dotati di una certa
forza contrattuale, che deriva loro dal controllo unilaterale del fattore
produttivo su base proprietaria; laddove i lavoratori rappresentano una massa
indistinta di persone, del tutto prive di significativi titoli proprietari, se
non del proprio know how e capitale umano -quindi fattori, allo stato,
del tutto impalpabili e intangible-, la quale è costretta a una dura
competizione al proprio interno, essendo i lavoratori svariati milioni in
numero, per accedere ai posti di lavoro disponibili, che sono, in quanto
offerta, di gran lunga inferiori rispetto alla domanda di lavoro da parte loro:
si viene così a determinare quello che, evocando Marx, potremmo definire dumping
tra proletari, sicché il loro giudizio di valore soggettivo originario,
quanto alla propria disponibilità a lavorare per una retribuzione, che non vada
al di sotto di un certo importo, viene umiliata e ridicolizzata, giacché il
lavoratore, giudizio soggettivo o no, è costretto a cedere all’oggettività dei
rapporti di forza e ad accontentarsi di un importo inferiore alle speranze e
alle aspettative.
Senonché, a questo punto, si pone un
problema: vale a dire che, poiché il lavoratore, con quel compenso, deve poter vivere,
ed eventualmente mantenere dei familiari, occorre di necessità che quel
compenso consenta effettivamente al lavoratore di vivere a livelli ch’egli
stesso giudichi umani e sufficienti, diversamente il lavoratore, constatando
l’insufficienza dell’importo conseguito periodicamente per le necessità della
sua esistenza, potrebbe iniziare a rifiutare il lavoro offerto a determinati
importi, per quanto oggi la questione sia ulteriormente complicata
dall’incedere prepotente della robotica e dell’intelligenza artificiale; ma
restiamo per ora alla tradizione, al fine di provare a comprendere meglio il
concetto di sfruttamento. A questo punto, stante la debolezza e instabilità
intrinseca, dovuta al comunque inevitabile dumping tra proletari, del
cartello naturale dei lavoratori, può accadere che i lavoratori cerchino di
costituirsi in cartello artificiale, vale a dire in sindacato, al fine
di incidere in tal modo sui rapporti di forza dati e di conseguire
remunerazioni più elevate rispetto a quelle in atto offerte; tale evento
funziona così da detonatore, nel senso che ciascuna delle categorie sopra
indicate può subire la tentazione di trasformare il proprio cartello naturale,
produttore di medie, in cartello artificiale, al fine di munirsi a propria
volta, categoria per categoria, di un proprio sindacato, in modo tale che
ciascuna delle contrattazioni sopra indicate avvenga collettivamente,
tale istituzionalmente e non per mero fatto, sicché l’incidenza dei rapporti di
forza collettivi sulla determinazione di ciascun prezzo sia consacrata; ferma
restando la debolezza del sindacato dei lavoratori, per la ragione indicata,
ossia per la difficoltà di raccogliere in sindacato i disoccupati, salvo che
poi i loro interessi categoriali collidono con quelli dei lavoratori, dato che
i lavoratori spingono per una retribuzione sempre più elevata, mentre i
disoccupati spingono per una retribuzione sempre più bassa rispetto a quella
pretesa dai lavoratori, in quanto i disoccupati stessi, presi dalla
disperazione o dalla difficoltà del vivere, siano disponibili ad accettare
remunerazioni più basse rispetto a quelle sindacali, pur di conseguire un posto
di lavoro.
In particolare, i lavoratori, per la detta
ragione che il loro salario deve servire alla sopravviveneza e alla vita del
lavoratore stesso e, nel caso, della sua famiglia mireranno a conseguire una
remunerazione virtualmente ispirata all’art 36, c. 1, della costituzione
italiana, disposizione per la quale “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità
e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla
famiglia un'esistenza libera e dignitosa”, il che nel nostro mondo del lavoro attuale, ricolmo
oltretutto di situazioni di precariato, avviene assai di rado.
Senonché, tanto più i lavoratori,
attraverso lotte sindacali di tipo corporativo, riescano ad avvicinarsi a tale
simbolico obiettivo, vale a dire a conseguire una retribuzione, la quale
consenta loro non solo la sopravvivenza, ma anche un vivere libero e dignitoso,
quanto più diventano ceto socialmente privilegiato, quantomeno rispetto
alla massa dei disoccupati, i quali, ben lontani da quell’obiettivo
costituzionale nelle loro condizioni di vita, si accontenterebbero di ben meno
pur di ottenere un posto di lavoro e un salario, e non patire il digiuno. Il
che non significa però, si badi, che, nel caso in cui i datori di lavoro
riescano a limitare le pretese dei sindacati dei lavoratori, allora ciò vada a
immediato vantaggio dei disoccupati, dato che non è nelle mire del datore di
lavoro tenere bassi i salari allo scopo di soddisfare la domanda di lavoro dei
disoccupati; il che poi comporta fenomeni come la richiesta di sussidi sociali,
o come l’invenzione di posti di lavori superflui nella pubblica amministrazione,
o il diffondersi delle pensioni di invalidità, tutti strumenti istituzionali,
volti sostanzialmente a lenire la condizione del disoccupato, senza incidere
sugli eventuali momentanei “privilegi”, conseguiti dai lavoratori con le lotte
sindacali di tipo corporativo; privilegi soggetti costantemente però alle leggi
del mercato, e quindi caduchi e non stabilizzati, tanto più con l’estendersi
dei fenomeni di globalizzazione del mercato capitalistico, il quale determina
il fenomeno, con l’abbattimento delle frontiere nei confronti della domanda di
libera circolazione dei capitali, per il quale i capitalisti cercheranno la
propria forza-lavoro là dove costa molto meno, innescandosi così una nuova e
ulteriore forma di dumping tra proletari, nel senso che il prezzo di
mercato dei salari dei lavoratori delle nostre parti occidentali subisce la
prepotente concorrenza dei livelli di remunerazione molto più bassi, ai quali i
lavoratori dei paesi poveri sono disposti a lavorare, determinandosi così, o la
“svalutazione interna”, vale a dire il crollo del livello dei salari delle
nostre parti, ovvero la pura e semplice disoccupazione dei lavoratori
occidentali, i quali vanno a incrementare la massa disoccupata, nonché la
domanda di tariffe e dazi nei confronti dei paesi poveri o già poveri o
emergenti, domanda che però si scontra con le regole internazionali sul libero
commercio, che, di norma, sanzionano come illegittimi quegli interventi di tipo
protezionistico.
In tutto questo quadro -fondato
interamente su rapporti di forza e ben poco su autentici giudizi soggettivi del
valore, del tutto utopistici e irreali persino in un mercato idealistico, ossia
nel quale gli scambi avvengano senza attriti o costi di transazione, vale a
dire ignorando irrealisticamente i rapporti di forza-, dove si ravvisa lo
sfruttamento del lavoratore, cercando di utilizzare il termine “sfruttamento”
con un certo grado di adeguata tecnicità, ossia al di là di ogni giudizio di
tipo morale? Nel fatto che egli si muova in un contesto, nel quale i rapporti
di forza gli sono ampiamente sfavorevoli, ma ciò non in omaggio ad astratti
leggi di mercato, le quali condurrebbero immancabilmente allo sfruttamento di
qualcuno, ma in conseguenza di assetti istituzionali di tipo monopolistico od
oligopolistico, quanto al controllo dei vari fattori di produzione: e così le
risorse naturali, il suolo, i valori immobiliari, la titolarità proprietaria
dei macchinari, e così via, per non parlare del fattore forse principale, vale
a dire il finanziamento e il denaro, a propria volta sotto controllo
unilaterale da parte della casta bancaria, dal vertice costituito dalle banche
centrali fino all’insieme del sistema del credito: il lavoratore, quindi,
correttamente, il proletario non possiede assolutamente nulla di tutto ciò,
il che dimostra ancora che la fonte del suo sfruttamento, una cui componente è
rappresentata dalla precarietà del posto di lavoro e dalla spada di Damocle
costante della disoccupazione, è interamente conseguenza di un rapporto di
forza, e quindi politica e non volgarmente economica, tale da potersi
considerare solo in quanto la politica sia considerata un elemento costitutivo
dell’economia politica, salvo però in tal modo rivoluzionare i concetti di
questa, la quale diviene costretta a introdurre tra i suoi oggetti di
insegnamento e studio anche i rapporti di forza, e quindi l’incidenza su questi
degli interventi dello Stato e delle varie istituzioni che ne fanno corollario,
e quindi su quali siano i poteri, politici prima che economici, di una banca
centrale, ma anche di una regione, di un comune, di una parrocchia, e così via.
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