di Fabio Massimo Nicosia
Montaigne propone un parallelismo tra legge e scienza, nel senso che anche questa procede per finzioni legittime su ciò che sarebbe vero e ciò che sarebbe falso, e non è un caso che una così claudicante scienza sia divenuta oggi prepotente formula di legittimazione di un’autorità che già Bakunin aveva previsto come irresistibile e insindacabile, posto che, di fronte a uno “scienziato”, il quale si profonda in determinate iniziatiche asserzioni, il popolo, che lo fronteggia, non è in oggettiva condizione di eccepire alcunché, o almeno questo crede lo scienziato, stante il carattere fortemente arbitrario del suo operato, e che tuttavia viene oggi proposto come “certezza” e non come fonte di dubbio e libera ricerca in concorrenza; in effetti, nella vulgata dei mass-media e della pubblicistica minore, si è venuto via via sostituendo, negli ultimi tempi, il concetto di scienza genuino degli epistemologi, quello per cui la scienza non produce certezze, ma solo congetture quante siano le conferme che queste ottengano, con un concetto degenerato, e che però viene posto a fondamento delle scelte politiche e delle decisioni dei giudici, per il quale la scienza retrocede all’ipse dixit dell’autorità.
Sicché si è a
poco a poco passati dal motto “la scienza non spiega tutto” a quello “esiste
solo ciò che la scienza spiega, in quanto scientifico” (“ciò che
la scienza non spiega non esiste, in quanto non scientifico”), sicché è
prevedibile che il prossimo passo, che ci verrà proposto, sia “ciò che la
scienza spiega è obbligatorio (”ciò che la scienza non spiega è vietato,
in quanto non scientifico”), salvo che ciò che non è “scientifico”
rappresenta la grande parte e la più importante del vivere umano: inclinazioni,
sentimenti, emozioni, gusti, etc. In realtà, come anche abbiamo visto con
riferimento alle sentenze della corte costituzionale sugli obblighi vaccinali,
fondate su un ricorso molto approssimativo, per non dire di peggio, al concetto
di scienza, sembra di dovere precisare che il paventato governo della scienza
si profili in realtà come governo della pseudo-scienza; il che è anche
comprensibile, dato che i detentori del potere reale non hanno alcun interesse
ad ancorare le proprie azioni a un concetto davvero rigorosamente scientifico,
preferendo, per evidenti ragioni “pratiche”, attaccarsi a una versione
caricaturale della scienza; per esempio, nessuna scienza sociale conferma
davvero la necessità che gli uomini siano governati da un novero ristretto di
loro stessi, eppure ciò avviene a dispetto di ogni assenza di conferma
scientifica al riguardo.
Questo non ci impedisce di affrontare il tema anche in
termini più generali, perché, in effetti, ormai, la scienza, pretendendo di proporsi come la modalità privilegiata della
conoscenza, non considera gli ambiti “non scientifici” forme magari deteriori modi
di conoscenza, ma nega loro il carattere di strumento del conoscere tout
court; il che diviene di massima utilità per i detentori del potere,
proprio nel momento in cui poi maneggiano una versione ulteriormente scadente e
caricaturale di scienza, in modo da potere elevare questa stessa a strumento
agevole di dominio; quando in realtà si potrebbe sostenere l’esatto
opposto, ossia che siano quelle scientifiche, in quanto costrette entro
orizzonti troppo ristretti, le modalità di conoscenza di rango deteriore, in
quanto del tutto incapaci di accedere e di fornire spiegazioni su altri determinati
ambiti, che essa stessa a ben vedere autosottrae alla propria capacità di
attenzione e di comprensione; a questo punto, si comprende come Bakunin avesse
semmai sbagliato per difetto e non per eccesso: ossia, il grande anarchico
esprimeva la preoccupazione che la scienza, in quanto insieme di strumenti di
conoscenza privilegiati nelle mani di alcuni, potesse diventare strumento della
giustificazione di una nuova forma dell’oppressione politica, in quanto la
scienza venga invocata a sostegno di determinate scelte nell’”interesse
pubblico”. In realtà, ormai sappiamo che il pericolo, che incombe, è ancora più
grave, dato che la scienza verrà invocata non solo a sostegno di scelte di
politica pubblica in ambito sanitario, ambientale e simili, ma, siccome è la scienza a stabilire che cosa è scienza,
essa darà una versione sempre più ristretta di che cosa è scienza, ossia di che
cosa è se stessa, stabilendo che tutto quanto vi si colloca al di fuori, ossia
un perimetro sempre più ampio di concetti e condotte, non è scienza; ma
siccome, in tale contesto, affermare che qualcosa ha il crisma della
scientificità significa contrassegnarla con un giudizio di valore positivo in
ordine al suo essere “vero”, si giungerà ad affermare che tutto ciò che vi si
colloca al di fuori è “falso”, fuffa priva di credibilità e superstizione, pur
se si tratti della grande maggioranza delle cose che contino in una vita umana
e di relazione; a quel punto, diventa molto facile che tutto ciò che abbiamo
qualificato “falso”, in quanto “non scientifico”, venga puramente e
semplicemente vietato, e sia ritenuto ammissibile, tanto in termini di
libertà di manifestazione del pensiero, quanto sul piano della libera scelta
degli stili di vita, solo ciò che sia “approvato dalla scienza”, finendo con il
venire qualificato illecito ciò che non sia approvato: ad esempio un certo tipo
di atto sessuale, il mancato uso del preservativo, un certo modo di
alimentarsi, addirittura un certo genere di letture; avvisaglie in tal senso sono
già presenti, ad esempio persino sul divieto di fumare in casa propria, oltre
che all’aperto. La scienza diventa così strumento non meramente cognitivo,
ma immediatamente valutativo, e quindi però anche dispositivo, in
quanto finisce con lo “stigmatizzare” tutta una serie di atti e di
comportamenti, come se lo strumento originario della scienza fosse
stigmatizzare chi non ne segua i “dettami”, e ciò incorrendo in chiara fallacia
naturalistica.
Ora, è facile
prevedere che un comportamento “stigmatizzato in quanto non scientifico”
conosca, come modo del suo divieto, la cura, psichiatrica e non, che
subito diventa cura coatta, per cui il praticante attività non approvate
dalla scienza diviene oggetto dello stigma del malato, che gli
psichiatri, a loro volta apostoli di una evidente pseudo-scienza, affermano non
essere uno stigma morale, ma che poi funziona nei fatti da pretesto per le più
ampie vessazioni, giustificate in quanto “mediche”; e proprio in quanto non
coinvolgenti lo stigma morale, esse saranno ancora più invasive nei confronti
della persona rispetto a una tradizionale sanzione penale o amministrativa: a
questo punto, il “malato” vede fortemente indeboliti i propri diritti di difesa,
dato che dall’accusa di un reato ci si può difendere con i tradizionali canoni
della difesa penale, ma dall’accusa di essere un “malato ascientifico” diventa
pressoché impossibile difendersi, dato che lo “scienziato” è il depositario dei
giudizi validi sulla questione, certamente più accreditato di te e del tuo
difensore. Il problema di fondo è che, delimitando e restringendo il proprio
stesso campo di estensione, estroiettando da sé tutta una serie di fenomeni,
che non vengono solo considerati “non scientifici”, ma “deteriori in quanto non
scientifici”, la scienza finisce anche con il pretendere di definire da sé
che cosa sia scientifico, attribuendo a se stessa un tale potere
totalitario di giudizio, al di là di qualsiasi legittimazione esterna; ne deriva
che ogni “spiegazione scientifica” è endogena, in quanto a propria volta
scientifica, non solo in quanto “spiegazione”, e quindi “spiega”, ma anche in
quanto “è spiegata” in nome di parametri scientifici, i quali però vanno
verificati nella loro conformità ai medesimi criteri postulati come
scientifici, e così all’infinito; ma tale regresso all’’infinito determina la
conseguenza che alla scienza, che si pretende autosufficiente nel determinare ciò
che è scientifico, finisce invece con il fare difetto proprio di un fondamento
scientifico ultimo; ciò nonostante, la scienza pretende di proporsi come
sistema autoreferenziale e autopoietico, ma anche autofondantesi, per
cui è la scienza a fondare la scienza come nel caso del famoso Barone di
Munchausen, quando è regola che un sistema autopoietico goda però anche di una Grundnorm,
che non può essere meramente interna al sistema stesso, dato che deve
funzionare come autorizzazione all’operatività del sistema, dato che lo
stesso teorema di incompletezza di Gödel non ammetterebbe che l’autorizzazione
al funzionamento di un sistema possa essere interna al sistema stesso; semmai
si pone un problema di collegamento, tra l’autorizzazione, esterna al
sistema, e il sistema stesso, tal per cui il fatto-autorizzazione irrompe nel
sistema a sostenerlo, sicché essa è esterna, ma anche interna, così come le
fondamenta di un palazzo gli sono esterne, ma anche ne costituiscono
proseguimento radicale; a meno che il sistema pretenda di potere fare a meno di
tale autorizzazione, e quindi proporsi come sistema meramente autoritario e
chiuso all’esterno, e però nel nostro caso con regresso all’infinito
all’interno, giacché ogni criterio di spiegazione va spiegato a propria volta,
con la presunzione che questo ricorsivo interno non abbia a che fare mai con il
proprio esterno; ma poiché ciò è fisiologicamente impossibile, dato che
comporterebbe l’impazzimento e l’auto-negazione del sistema stesso in quanto
dotato di senso, il sistema sarà sempre comunque permeabile all’esterno, ma
tale esterno può essere solo di due generi, da soli o in combinazione, a
fungere poi di fatto come fondamento del sistema, pur se non dichiarato, o pur
se addirittura risibilmente negato: a) empirico; b) metafisico. a) Dal punto di
vista empirico, il sistema scientifico vive, come ogni altro sistema, in un ambiente,
che in ultima analisi è il sistema dei bisogni, degli interessi e dei poteri,
tal per cui lo scienziato reale non è mai fondamento ultimo della propria
attività, dato che deve sempre rendere conto a quell’ambiente degli interessi,
il quale esso stabilisce, non tanto “che cosa sia scientifico”, questione
astratta, per la quale non ha alcun interesse, ma “che cosa debba fare lo
scienziato”, che è questione ben più concreta e scottante, e che però poi si
riverbera nei fatti anche sulla preliminare questione astratta di “che cosa sia
scientifico”, che viene fatto corrispondere a “che cosa lo scienziato di fatto
fa”: salvo che ciò che di fatto lo scienziato fa non è stabilito da esigenze
interne al sistema della scienza, ma da esigenze esterne, appartenenti
all’ambiente degli interessi. b) Dal punto di vista metafisico, la pretesa
della scienza di autofondarsi, sicché la scienza si fondi sulla scienza, è
filosoficamente infondata, dato che necessariamente una scienza abbisogna di
un’epistemologia, che sia l’una o l’altra, a meno di non ammettere che lo
scienziato possa operare al buio di se stesso, ossia totalmente sguarnito della
capacità di dotare di senso il proprio operato; tale epistemologia, la quale
attribuisce senso logico all’agire scientifico, non può essere a propria volta
“scientifica”, se non in senso lato, ossia rispondendo a criteri logici propri
distinti da quelli della scienza, dato che serve a munire l’operato scientifico
di giustificazione di senso, per cui il consesso sociale riconosce l’agire
dello scienziato come sensato (e quindi utile); ma una giustificazione di senso
dell’agire scientifico non può che essere altro e distinto, e quindi esterno,
allo stesso agire scientifico; in altri termini, si tratta di una giustificazione
metafisica e non empirica, nel senso di “scientifica” (anche se è empirica
nel senso di socialmente riconosciuta), per quanto poi tale metafisica si
assuma il compito di chiudere il circolo, e quindi spiegare essa, e non la
scienza, il senso del rapporto ultimo col “fatto”: quello con il quale la
scienza assume, piuttosto illusoriamente, di mantenere rapporti, tale per cui
poi il rapporto dello scienziato con il “fatto”, vale a dire poi in buona
sostanza con la “cosa in sé”, finisce con il rivelarsi a propria volta del
tutto metafisico e, semmai, “creativo” in una qualche accezione, stante lo
scollegamento tra la sua pretesa attività osservativa e il fatto-cosa-in-sé,
tal per cui il rapporto avviene con il “fenomeno”, salvo che questo, a
differenza che nell’originale kantiano, è interamente linguistico, dato
che per autoattribuirsi una parvenza di capacità osservativa ed esplicativa, in
assenza della conoscibilità del noumeno-cosa-in-sé, lo scienziato necessita di
una narrazione con la quale rapportarsi, ovverossia una resocontazione
dell’inconoscibile fatto, in modo da trasformarlo da cosa in sé, su cui non sa
nulla, in fenomeno-articolazione linguistica, sul quale sentirsi in grado di
potere dire qualcosa, pur noi consapevoli che egli non sta parlando di “fatti”,
ma di una ricostruzione fantasiosa attorno al fatto, che potremmo anche
chiamare “meta-fatto”; che, appunto in omaggio al secondo Wittgenstein, noi
sappiamo non essere conoscenza empirica, ma semmai meramente analitica,
rispetto però, paradossalmente, riferita a un atto linguistico di fonte
metafisica, per cui è metafisico il concetto che siamo costretti ad analizzare;
tutto questo perché, avendo noi stabilito che il tentativo di avere a che fare
con i fatti è fallimentare, dato che non si ha mai a che fare con fatti, ma
sempre con loro interpretazioni e rappresentazioni soggettive, inevitabilmente
anche assiologiche attorno al
dover-essere-di-ciò-che-va-fatto-attorno-al-fatto, ciò comporta che si viene a
determinare un effetto di sostituzione del fatto, su cui non sapremo mai
abbastanza, e forse non sapremo mai nulla, con una sorta di suo riflesso
simbolico, sul quale riteniamo invece di potere discorrere e confrontarci,
per quanto forse del tutto vanamente, o forse invece con un qualche costrutto,
ma solo in quanto si ritenga che il costrutto stesso sia anche solo meramente
funzionale al vivere associato e alle sue consustanziali menzogne: a questo
punto, il corrispondentismo di Tarski non viene negato, solo muta il suo
oggetto, che non è più la “verità del fatto”, formula che perde addirittura di
significato (scetticismo sui fatti), ma la plausibilità del meta-fatto,
o addirittura, in ulteriore slittamento di grado, la generica verisimiglianza
di una narrazione attorno al meta-fatto, sicché alla fine ci si può chiedere
solo se uno strumento “funzioni”, ad esempio, se una data pastiglia faccia
passare il mal di testa, senza che si possa dire molto altro a proposito di
questa pragmatica funzionalità, se non appunto il fatto che essa sia
riscontrata.
Ora, nonostante tutto, alla pretesa di dominio autoreferenziale dello scienziato si può reagire in vari modi, se non fosse che, nel linguaggio comune contemporaneo, è alla sua scientificità che viene associato il carattere di “vero” o “falso” di un enunciato, con la conseguenza che v’è ressa davanti alla porta per farsi riconoscere il carattere di “scientifico”; ergo, o si allarga, si estende ad altri fattori di conoscenza il concetto di “scienza” e di “scientifico”, o si stabilisce che il carattere scientifico o non scientifico di un tema non è questione poi così importante e rilevante, con la conseguenza che ci possiamo disinteressare della relativa controversia, non discuterne e, anzi, lasciarla cadere in desuetudine in quanto questione rilevante, constatando quanto la distinzione tra cura dell’apofantico e del semantico non apofantico sia illusoria e inutilizzabile.
Il punto
rilevante diventa quindi un altro: che, man mano che si riduce l’ambito
semantico ricondotto a “scienza”, in quanto si ritenga di qualificare
“scientifico” solo ciò che risponda a criteri estremamente rigorosi di
esclusione, il che risponde alla metafisica epistemologica ad esempio di un
Popper, il quale, da liberale, intende limitare e non enfatizzare il potere
sociale dello scienziato, tutto quanto rimane fuori da quell’ambito semantico
ristretto risulta invece, non tributario di pari dignità, sia pure in un ambito
di cui si nega il carattere “scientifico”, che non funziona da marchio di
qualità, per cui qualcosa potrebbe essere ottima e abbondante pur se priva di
quel marchio; ma ricondotto a residuo squalificato privo di senso, al più
“chiacchiera” nel senso di Heidegger; laddove invece ci troviamo nel vasto
campo della cultura, e quindi della morale, della politica, del diritto,
del costume, dell’estetica, della spiritualità, della religione, della vita
umana in ogni ambito; venendosi a determinare però il paradosso che lo
scienziato, nella nostra società elevato a oracolo in quanto specialista del
“rigoroso” -mentre il rimanente non lo sarebbe-, invece di rimanere confinato
nel suo ristrettissimo ambito del riconosciuto, in base a criteri rigorosi,
rigoroso, pretende di spadroneggiare anche negli altri ambiti, che sono
ambiti totalmente liberi, in quanto sottratti a criteri stringenti, sui
quali lo “scienziato” è in realtà del tutto impreparato, e però vive in una
realtà sociale, nella quale egli, e non altri “specialisti” degli altri
settori, viene invitato nei mass-media a pontificare su questo e su quello,
dato che il sistema della comunicazione vuole dare ad intendere alla comunità
degli associati che, essendo lo scienziato per definizione “rigoroso”,
mantenga un suo tale “rigore” anche quando opera fuori dall’ambito della sua
“rigorosa” scienza: ad esempio discorrendo amabilmente su quali
provvedimenti legislativi adottare in un dato ambito, su quale debba essere
l’atteggiamento della popolazione con riferimento a determinati fenomeni, e
così via, ossia ambiti umanistici, che non gli pertengono per competenza
in alcun modo.
C’è poi un
altro elemento da considerare: vale a dire che, nel momento in cui viene data
una definizione estremamente ristretta di cuò che sarebbe “scienza”, ad esempio
esclusivamente ciò che corrisponda, nella prassi, a determinati protocolli
stabiliti dalla “comunità scentifica” (il cosiddetto “metodo scientifico”), divengono
estremamente numerose le modalità di conoscenza del mondo, che vengono espulse
da quel concetto deliberatamente ristretto di scienza; il che vale a svalutarle
come pseudo-scienze, quando, più verosimilmente, si tratta semplicemente di
modalità epistemiche diverse da quella definizione stretta di scienza,
che, si badi, non può essere considerata “vera” in assoluto quasi fosse un dogma
religioso, trattandosi di mera deliberazione positiva da parte di un
determinato gruppo sociale e di chi lo sostiene. In questo modo si viene ad assegnare
a quel gruppo sociale il monopolio dell’accesso alla conoscenza, in modo tale da
potere tacciare come stregoni e mistificatori tutti coloro i quali esercitino
modalità di conoscenza del mondo esterne al modello codificato; nella migliore delle
ipotesi, la metafisica non è più considerata sede delle anticipazioni ardite,
ma del vaniloquio; e la stessa teologia viene sottratta alla possibilità di venire
considerata scienza, com’era presso gli antichi, in quanto prolungamento verso
l’alto della fisica, per essere ristretta all’asfittica questione della “fede”
personale, precludendo così la possibilità ch’essa divenga sede del confronto
intersoggettivo, della discussione e dell’argomentazione logica; perché uno
degli scopi di quel modello ristretto su ciò che debba intendersi per scientifico
è di premiare l’elemento dell’osservazione, a discapito di quello del discorso,
fingendo d’ignorare che l’osservazione non vale nulla in assenza di linguaggio
e di logica del discorso.
La questione
diventa complessa, e va nuovamente riconsiderata; immaginiamo allora due cerchi
concentrici, tra i quali, il minore rappresenta l’ambito ricoperto da quanto
viene riconosciuto come “scienza”, e il settore rimanente fino a limite del
cerchio maggiore come ambito ricoperto da “altre forme di conoscenza, diverse
dalla scienza”; immaginiamo ora che, per ragioni scientifiche, pseudo-tali, di
sociologia della scienza, o puramente politiche, il cerchio minore si riduca di
dimensione, espellendo dall’ambito della scienza riconosciuta una serie di
modalità epistemiche, che quindi passano da “scienza” a “altre forme di conoscenza
diverse dalla scienza”. Ebbene, l’effetto sociale di un simile procedimento può
essere duplice e contradittorio, in ogni caso dialettico; perché, se prevale la
chiave di lettura autoritaria, come sembra essere nel nostro tempo, solo ciò
che è ricompreso nel cerchio minore, in quanto “scientifico”, risulta epistemicamente
legale, e quanto vi è al di fuori illegale: e siccome il cerchio minore,
abbiamo visto, si riduce, si riduce con esso l’area legale, e molti strumenti
di conoscenza diventano epistemicamente illegali e, non di rado, politicamente
illegali, vale a dire che non sarebbero affatto forme di conoscenza; se
invece prevale una chiave di lettura diversa, accade che l’opinione pubblica faccia
proprio l’approccio opposto, vale a dire ridimensionare la scienza come
strumento esclusivo di conoscenza, riconoscendo sempre di più il valore
cognitivo di altro che scienza non sia. Il fatto è però anche che,
paradossalmente, fuori dal cerchio ristretto scientista, si colloca anche la
filosofia, e quindi la filosofia della scienza, e quindi ancora la stessa
definizione di scienza, che è filosofica, metafisica e arbitraria, e quindi
non è e non può essere a propria volta “scientifica”, in quanto meramente
linguistica, ove si ritenga che il meramente linguistico non basti a
rappresentare scienza, in quanto non “osservativo”: in tal modo, la
definizione di scienza non rientra nella definizione di scienza, o, detto
altrimenti, l’attività del definire la scienza non è attività scientifica. La
scienza, in tal modo, viene subordinata a quanto supposto non è scientifico, in
quanto affidata alle cure dell’apparentemente ”irrazionale”, ossia alla
definizione arbitraria e libera di che cosa sia “scienza”, che è atto
metafisico e non scientifico: del resto, non mi risulta che esista alcuna
definizione definitiva condivisa su che cosa sia da considerarsi scienza, sicché
la pretenziosità di molti scienziati e l’eccesso di presunzione di se stessi
non ha alcun fondamento, se nemmeno sappiamo quale sia e debba essere
esattamente il loro ambito di competenza e il loro ruolo sociale.
Tutto ciò, in
effetti, non ha molto senso; il punto è che, nel nostro tempo, prevale una concezione
della scienza che pone al centro di essa un presunto “metodo scientifico” ristretto,
fondato prevalentemente sull’”osservazione”, pretendendo, del tutto
illogicamente, di subordinare il ruolo del linguaggio, che invece
inevitabilmente prevale, dato che un’osservazione linguisticamente non articolata
non è dotata di alcun significato, non lo è nemmeno tra le scimmie e gli altri
animali non umani o, se si vuole, inferiori. Va invece sottolineato che è
scienza anche quella esclusivamente fondata sul confronto tra i ragionamenti,
indipendentemente da alcuna osservazione specifica, che non sia quella
generale, comune a ciascuna persona; ad esempio, nelle scienze sociali,
abbondano i pleonastici raccoglitori di “dati”, dati accumulati in assenza di
alcuna capacità di teorizzazione in ordine alla comprensione dei dati stessi,
il che mostra ancora il primato del linguaggio sull’osservazione. Tutto ciò
comporta, ad esempio, la marginalizzazione del discorso detto teologico, che in
realtà è discorso pienamente scientifico, se inteso ad esempio in senso
aristotelico (Dio come primo motore), sulla base della banale affermazione che
l’esistenza di Dio non è dimostrabile, dato che Dio non sarebbe direttamente “osservabile”;
peraltro, quando si va a chiedere a uno scienziato mainstream, donde
scaturirebbero materia e universo in assenza di Dio, avremo risposte come “la
materia è sempre esistita”, o anche “l’universo è nato per caso”,
che pretendono di essere argomentazioni logicamente superiori a “Dio esiste”,
quando nemmeno le due asserzioni testé riportate, né sono dimostrabili, né
tampoco sono osservabili, di tal che non resta che confrontare le due
argomentazioni, quella a favore dell’esistenza di Dio e quella contraria, per
discutere su quale sia la migliore, e anche tutto questo è scientifico,
anzitutto definendo “materia”, “caso”, “Dio” e tutti i termini che si usano
spavaldamente in questo genere di discussioni, senza che si sappia mai
esattamente di che cosa si stia trattando, perché quando si dice “la materia
è sempre esistita”, di che cosa, esattamente, si sta dicendo essere sempre
esistita?
Salvo che,
per comprendere tutto questo, occorre sostituire la centralità del principio di
osservazione con la centralità del principio di argomentazione, che non
esclude, ma affianca con forza l’osservazione empirica, che del resto è comune
agli uomini, anche in assenza di alambicchi e microscopi. Sicché la scienza di oggi perde ogni valenza centrale e di primazia intellettuale,
per ridursi a mera ancilla technologiae, e sul fronte tecnologico che
essa può venirci incontro, in quanto “scienza applicata”, aiutandoci a rendere
nulla più che “più comoda” la nostra vita, e però anche “più controllata”, è non
è in grado, la scienza, di fornirci nulla di più di questo porsi al servigio
del sistema, né tantomeno è in grado di fornirci un modello culturale di
riferimento adeguato, per quanto riguarda, come detto, le cose che nella vita
contano davvero, giacché l’approccio scientista, o comunque lo si voglia
chiamare, è asfittico, non dà conto di troppe cose, limita indebitamente
addirittura la capacità dell’uomo di percepire e “sentire”: il discorso sulla
spiritualità e sulla sua valorizzazione, addirittura in termini routinari, nella
vita della persona, è soprattutto un discorso sulla sua piena capacità
nell’ambito del tema della percezione; il che poi ha anche molto a che fare con
il desiderio di sapere e conoscere, cibo e nutrimento dell’animo e fonte di
autorealizzazione e, nei casi più importanti, di vera e propria felicità, in
generale di appagamento.
In realtà, va poi detto che l’autentico fascino
accattivante della tecnologia consiste nel fatto che essa, nella sua rozza
brutalità, sembra confermare, il che poi svolge una funzione grandemente
consolatoria, l’esistenza del principio di causa-effetto, dato che premendo un
interruttore si accende subito la luce, o si mette immediatamente a funzionare
un frullatore; e infatti abbiamo preso a turbarci l’animo se internet si
interrompe improvvisamente, o non “parte” come vorremmo, il che, oltre a farci
imprecare, ci convince che tali meraviglie della tecnica siano ancora a un
livello embrionale, dato che il funzionamento secco del tipo interruttore della
luce è ancora di là da venire; per non dire di come ci arrabbiamo in presenza
di un blackout, o di un calo di tensione nel contatore elettrico. Naturalmente le questioni gravi sono ben altre, ad
esempio il fatto che buona parte della tecnologia che utilizziamo consiste in
cascami della ricerca militare, vale a dire del complesso militare-industriale,
che tanto ha peso sulle scelte globali fondamentali e, quindi, sulle nostre
vite.
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