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venerdì 27 ottobre 2023

A proposito della "definizione della definizione" di scienza

 di Fabio Massimo Nicosia

Montaigne propone un parallelismo tra legge scienza, nel senso che anche questa procede per finzioni legittime su ciò che sarebbe vero e ciò che sarebbe falso, e non è un caso che una così claudicante scienza sia divenuta oggi prepotente formula di legittimazione di un’autorità che già Bakunin aveva previsto come irresistibile e insindacabile, posto che, di fronte a uno “scienziato”, il quale si profonda in determinate iniziatiche asserzioni, il popolo, che lo fronteggia, non è in oggettiva condizione di eccepire alcunché, o almeno questo crede lo scienziato, stante il carattere fortemente arbitrario del suo operato, e che tuttavia viene oggi proposto come “certezza” e non come fonte di dubbio e libera ricerca in concorrenza; in effetti, nella vulgata dei mass-media e della pubblicistica minore, si è venuto via via sostituendo, negli ultimi tempi, il concetto di scienza genuino degli epistemologi, quello per cui la scienza non produce certezze, ma solo congetture quante siano le conferme che queste ottengano, con un concetto degenerato, e che però viene posto a fondamento delle scelte politiche e delle decisioni dei giudici, per il quale la scienza retrocede all’ipse dixit dell’autorità.

Sicché si è a poco a poco passati dal motto “la scienza non spiega tutto” a quello “esiste solo ciò che la scienza spiega, in quanto scientifico (“ciò che la scienza non spiega non esiste, in quanto non scientifico”), sicché è prevedibile che il prossimo passo, che ci verrà proposto, sia “ciò che la scienza spiega è obbligatorio (”ciò che la scienza non spiega è vietato, in quanto non scientifico”), salvo che ciò che non è “scientifico” rappresenta la grande parte e la più importante del vivere umano: inclinazioni, sentimenti, emozioni, gusti, etc. In realtà, come anche abbiamo visto con riferimento alle sentenze della corte costituzionale sugli obblighi vaccinali, fondate su un ricorso molto approssimativo, per non dire di peggio, al concetto di scienza, sembra di dovere precisare che il paventato governo della scienza si profili in realtà come governo della pseudo-scienza; il che è anche comprensibile, dato che i detentori del potere reale non hanno alcun interesse ad ancorare le proprie azioni a un concetto davvero rigorosamente scientifico, preferendo, per evidenti ragioni “pratiche”, attaccarsi a una versione caricaturale della scienza; per esempio, nessuna scienza sociale conferma davvero la necessità che gli uomini siano governati da un novero ristretto di loro stessi, eppure ciò avviene a dispetto di ogni assenza di conferma scientifica al riguardo.

Questo non ci impedisce di affrontare il tema anche in termini più generali, perché, in effetti, ormai, la scienza, pretendendo di proporsi come la modalità privilegiata della conoscenza, non considera gli ambiti “non scientifici” forme magari deteriori modi di conoscenza, ma nega loro il carattere di strumento del conoscere tout court; il che diviene di massima utilità per i detentori del potere, proprio nel momento in cui poi maneggiano una versione ulteriormente scadente e caricaturale di scienza, in modo da potere elevare questa stessa a strumento agevole di dominio; quando in realtà si potrebbe sostenere l’esatto opposto, ossia che siano quelle scientifiche, in quanto costrette entro orizzonti troppo ristretti, le modalità di conoscenza di rango deteriore, in quanto del tutto incapaci di accedere e di fornire spiegazioni su altri determinati ambiti, che essa stessa a ben vedere autosottrae alla propria capacità di attenzione e di comprensione; a questo punto, si comprende come Bakunin avesse semmai sbagliato per difetto e non per eccesso: ossia, il grande anarchico esprimeva la preoccupazione che la scienza, in quanto insieme di strumenti di conoscenza privilegiati nelle mani di alcuni, potesse diventare strumento della giustificazione di una nuova forma dell’oppressione politica, in quanto la scienza venga invocata a sostegno di determinate scelte nell’”interesse pubblico”. In realtà, ormai sappiamo che il pericolo, che incombe, è ancora più grave, dato che la scienza verrà invocata non solo a sostegno di scelte di politica pubblica in ambito sanitario, ambientale e simili, ma, siccome è la scienza a stabilire che cosa è scienza, essa darà una versione sempre più ristretta di che cosa è scienza, ossia di che cosa è se stessa, stabilendo che tutto quanto vi si colloca al di fuori, ossia un perimetro sempre più ampio di concetti e condotte, non è scienza; ma siccome, in tale contesto, affermare che qualcosa ha il crisma della scientificità significa contrassegnarla con un giudizio di valore positivo in ordine al suo essere “vero”, si giungerà ad affermare che tutto ciò che vi si colloca al di fuori è “falso”, fuffa priva di credibilità e superstizione, pur se si tratti della grande maggioranza delle cose che contino in una vita umana e di relazione; a quel punto, diventa molto facile che tutto ciò che abbiamo qualificato “falso”, in quanto “non scientifico”, venga puramente e semplicemente vietato, e sia ritenuto ammissibile, tanto in termini di libertà di manifestazione del pensiero, quanto sul piano della libera scelta degli stili di vita, solo ciò che sia “approvato dalla scienza”, finendo con il venire qualificato illecito ciò che non sia approvato: ad esempio un certo tipo di atto sessuale, il mancato uso del preservativo, un certo modo di alimentarsi, addirittura un certo genere di letture; avvisaglie in tal senso sono già presenti, ad esempio persino sul divieto di fumare in casa propria, oltre che all’aperto. La scienza diventa così strumento non meramente cognitivo, ma immediatamente valutativo, e quindi però anche dispositivo, in quanto finisce con lo “stigmatizzare” tutta una serie di atti e di comportamenti, come se lo strumento originario della scienza fosse stigmatizzare chi non ne segua i “dettami”, e ciò incorrendo in chiara fallacia naturalistica.

Ora, è facile prevedere che un comportamento “stigmatizzato in quanto non scientifico” conosca, come modo del suo divieto, la cura, psichiatrica e non, che subito diventa cura coatta, per cui il praticante attività non approvate dalla scienza diviene oggetto dello stigma del malato, che gli psichiatri, a loro volta apostoli di una evidente pseudo-scienza, affermano non essere uno stigma morale, ma che poi funziona nei fatti da pretesto per le più ampie vessazioni, giustificate in quanto “mediche”; e proprio in quanto non coinvolgenti lo stigma morale, esse saranno ancora più invasive nei confronti della persona rispetto a una tradizionale sanzione penale o amministrativa: a questo punto, il “malato” vede fortemente indeboliti i propri diritti di difesa, dato che dall’accusa di un reato ci si può difendere con i tradizionali canoni della difesa penale, ma dall’accusa di essere un “malato ascientifico” diventa pressoché impossibile difendersi, dato che lo “scienziato” è il depositario dei giudizi validi sulla questione, certamente più accreditato di te e del tuo difensore. Il problema di fondo è che, delimitando e restringendo il proprio stesso campo di estensione, estroiettando da sé tutta una serie di fenomeni, che non vengono solo considerati “non scientifici”, ma “deteriori in quanto non scientifici”, la scienza finisce anche con il pretendere di definire da sé che cosa sia scientifico, attribuendo a se stessa un tale potere totalitario di giudizio, al di là di qualsiasi legittimazione esterna; ne deriva che ogni “spiegazione scientifica” è endogena, in quanto a propria volta scientifica, non solo in quanto “spiegazione”, e quindi “spiega”, ma anche in quanto “è spiegata” in nome di parametri scientifici, i quali però vanno verificati nella loro conformità ai medesimi criteri postulati come scientifici, e così all’infinito; ma tale regresso all’’infinito determina la conseguenza che alla scienza, che si pretende autosufficiente nel determinare ciò che è scientifico, finisce invece con il fare difetto proprio di un fondamento scientifico ultimo; ciò nonostante, la scienza pretende di proporsi come sistema autoreferenziale e autopoietico, ma anche autofondantesi, per cui è la scienza a fondare la scienza come nel caso del famoso Barone di Munchausen, quando è regola che un sistema autopoietico goda però anche di una Grundnorm, che non può essere meramente interna al sistema stesso, dato che deve funzionare come autorizzazione all’operatività del sistema, dato che lo stesso teorema di incompletezza di Gödel non ammetterebbe che l’autorizzazione al funzionamento di un sistema possa essere interna al sistema stesso; semmai si pone un problema di collegamento, tra l’autorizzazione, esterna al sistema, e il sistema stesso, tal per cui il fatto-autorizzazione irrompe nel sistema a sostenerlo, sicché essa è esterna, ma anche interna, così come le fondamenta di un palazzo gli sono esterne, ma anche ne costituiscono proseguimento radicale; a meno che il sistema pretenda di potere fare a meno di tale autorizzazione, e quindi proporsi come sistema meramente autoritario e chiuso all’esterno, e però nel nostro caso con regresso all’infinito all’interno, giacché ogni criterio di spiegazione va spiegato a propria volta, con la presunzione che questo ricorsivo interno non abbia a che fare mai con il proprio esterno; ma poiché ciò è fisiologicamente impossibile, dato che comporterebbe l’impazzimento e l’auto-negazione del sistema stesso in quanto dotato di senso, il sistema sarà sempre comunque permeabile all’esterno, ma tale esterno può essere solo di due generi, da soli o in combinazione, a fungere poi di fatto come fondamento del sistema, pur se non dichiarato, o pur se addirittura risibilmente negato: a) empirico; b) metafisico. a) Dal punto di vista empirico, il sistema scientifico vive, come ogni altro sistema, in un ambiente, che in ultima analisi è il sistema dei bisogni, degli interessi e dei poteri, tal per cui lo scienziato reale non è mai fondamento ultimo della propria attività, dato che deve sempre rendere conto a quell’ambiente degli interessi, il quale esso stabilisce, non tanto “che cosa sia scientifico”, questione astratta, per la quale non ha alcun interesse, ma “che cosa debba fare lo scienziato”, che è questione ben più concreta e scottante, e che però poi si riverbera nei fatti anche sulla preliminare questione astratta di “che cosa sia scientifico”, che viene fatto corrispondere a “che cosa lo scienziato di fatto fa”: salvo che ciò che di fatto lo scienziato fa non è stabilito da esigenze interne al sistema della scienza, ma da esigenze esterne, appartenenti all’ambiente degli interessi. b) Dal punto di vista metafisico, la pretesa della scienza di autofondarsi, sicché la scienza si fondi sulla scienza, è filosoficamente infondata, dato che necessariamente una scienza abbisogna di un’epistemologia, che sia l’una o l’altra, a meno di non ammettere che lo scienziato possa operare al buio di se stesso, ossia totalmente sguarnito della capacità di dotare di senso il proprio operato; tale epistemologia, la quale attribuisce senso logico all’agire scientifico, non può essere a propria volta “scientifica”, se non in senso lato, ossia rispondendo a criteri logici propri distinti da quelli della scienza, dato che serve a munire l’operato scientifico di giustificazione di senso, per cui il consesso sociale riconosce l’agire dello scienziato come sensato (e quindi utile); ma una giustificazione di senso dell’agire scientifico non può che essere altro e distinto, e quindi esterno, allo stesso agire scientifico; in altri termini, si tratta di una giustificazione metafisica e non empirica, nel senso di “scientifica” (anche se è empirica nel senso di socialmente riconosciuta), per quanto poi tale metafisica si assuma il compito di chiudere il circolo, e quindi spiegare essa, e non la scienza, il senso del rapporto ultimo col “fatto”: quello con il quale la scienza assume, piuttosto illusoriamente, di mantenere rapporti, tale per cui poi il rapporto dello scienziato con il “fatto”, vale a dire poi in buona sostanza con la “cosa in sé”, finisce con il rivelarsi a propria volta del tutto metafisico e, semmai, “creativo” in una qualche accezione, stante lo scollegamento tra la sua pretesa attività osservativa e il fatto-cosa-in-sé, tal per cui il rapporto avviene con il “fenomeno”, salvo che questo, a differenza che nell’originale kantiano, è interamente linguistico, dato che per autoattribuirsi una parvenza di capacità osservativa ed esplicativa, in assenza della conoscibilità del noumeno-cosa-in-sé, lo scienziato necessita di una narrazione con la quale rapportarsi, ovverossia una resocontazione dell’inconoscibile fatto, in modo da trasformarlo da cosa in sé, su cui non sa nulla, in fenomeno-articolazione linguistica, sul quale sentirsi in grado di potere dire qualcosa, pur noi consapevoli che egli non sta parlando di “fatti”, ma di una ricostruzione fantasiosa attorno al fatto, che potremmo anche chiamare “meta-fatto”; che, appunto in omaggio al secondo Wittgenstein, noi sappiamo non essere conoscenza empirica, ma semmai meramente analitica, rispetto però, paradossalmente, riferita a un atto linguistico di fonte metafisica, per cui è metafisico il concetto che siamo costretti ad analizzare; tutto questo perché, avendo noi stabilito che il tentativo di avere a che fare con i fatti è fallimentare, dato che non si ha mai a che fare con fatti, ma sempre con loro interpretazioni e rappresentazioni soggettive, inevitabilmente anche assiologiche attorno al dover-essere-di-ciò-che-va-fatto-attorno-al-fatto, ciò comporta che si viene a determinare un effetto di sostituzione del fatto, su cui non sapremo mai abbastanza, e forse non sapremo mai nulla, con una sorta di suo riflesso simbolico, sul quale riteniamo invece di potere discorrere e confrontarci, per quanto forse del tutto vanamente, o forse invece con un qualche costrutto, ma solo in quanto si ritenga che il costrutto stesso sia anche solo meramente funzionale al vivere associato e alle sue consustanziali menzogne: a questo punto, il corrispondentismo di Tarski non viene negato, solo muta il suo oggetto, che non è più la “verità del fatto”, formula che perde addirittura di significato (scetticismo sui fatti), ma la plausibilità del meta-fatto, o addirittura, in ulteriore slittamento di grado, la generica verisimiglianza di una narrazione attorno al meta-fatto, sicché alla fine ci si può chiedere solo se uno strumento “funzioni”, ad esempio, se una data pastiglia faccia passare il mal di testa, senza che si possa dire molto altro a proposito di questa pragmatica funzionalità, se non appunto il fatto che essa sia riscontrata.

Ora, nonostante tutto, alla pretesa di dominio autoreferenziale dello scienziato si può reagire in vari modi, se non fosse che, nel linguaggio comune contemporaneo, è alla sua scientificità che viene associato il carattere di “vero” o “falso” di un enunciato, con la conseguenza che v’è ressa davanti alla porta per farsi riconoscere il carattere di “scientifico”; ergo, o si allarga, si estende ad altri fattori di conoscenza il concetto di “scienza” e di “scientifico”, o si stabilisce che il carattere scientifico o non scientifico di un tema non è questione poi così importante e rilevante, con la conseguenza che ci possiamo disinteressare della relativa controversia, non discuterne e, anzi, lasciarla cadere in desuetudine in quanto questione rilevante, constatando quanto la distinzione tra cura dell’apofantico e del semantico non apofantico sia illusoria e inutilizzabile.

 

Il punto rilevante diventa quindi un altro: che, man mano che si riduce l’ambito semantico ricondotto a “scienza”, in quanto si ritenga di qualificare “scientifico” solo ciò che risponda a criteri estremamente rigorosi di esclusione, il che risponde alla metafisica epistemologica ad esempio di un Popper, il quale, da liberale, intende limitare e non enfatizzare il potere sociale dello scienziato, tutto quanto rimane fuori da quell’ambito semantico ristretto risulta invece, non tributario di pari dignità, sia pure in un ambito di cui si nega il carattere “scientifico”, che non funziona da marchio di qualità, per cui qualcosa potrebbe essere ottima e abbondante pur se priva di quel marchio; ma ricondotto a residuo squalificato privo di senso, al più “chiacchiera” nel senso di Heidegger; laddove invece ci troviamo nel vasto campo della cultura, e quindi della morale, della politica, del diritto, del costume, dell’estetica, della spiritualità, della religione, della vita umana in ogni ambito; venendosi a determinare però il paradosso che lo scienziato, nella nostra società elevato a oracolo in quanto specialista del “rigoroso” -mentre il rimanente non lo sarebbe-, invece di rimanere confinato nel suo ristrettissimo ambito del riconosciuto, in base a criteri rigorosi, rigoroso, pretende di spadroneggiare anche negli altri ambiti, che sono ambiti totalmente liberi, in quanto sottratti a criteri stringenti, sui quali lo “scienziato” è in realtà del tutto impreparato, e però vive in una realtà sociale, nella quale egli, e non altri “specialisti” degli altri settori, viene invitato nei mass-media a pontificare su questo e su quello, dato che il sistema della comunicazione vuole dare ad intendere alla comunità degli associati che, essendo lo scienziato per definizione “rigoroso”, mantenga un suo tale “rigore” anche quando opera fuori dall’ambito della sua “rigorosa” scienza: ad esempio discorrendo amabilmente su quali provvedimenti legislativi adottare in un dato ambito, su quale debba essere l’atteggiamento della popolazione con riferimento a determinati fenomeni, e così via, ossia ambiti umanistici, che non gli pertengono per competenza in alcun modo.

 

C’è poi un altro elemento da considerare: vale a dire che, nel momento in cui viene data una definizione estremamente ristretta di cuò che sarebbe “scienza”, ad esempio esclusivamente ciò che corrisponda, nella prassi, a determinati protocolli stabiliti dalla “comunità scentifica” (il cosiddetto “metodo scientifico”), divengono estremamente numerose le modalità di conoscenza del mondo, che vengono espulse da quel concetto deliberatamente ristretto di scienza; il che vale a svalutarle come pseudo-scienze, quando, più verosimilmente, si tratta semplicemente di modalità epistemiche diverse da quella definizione stretta di scienza, che, si badi, non può essere considerata “vera” in assoluto quasi fosse un dogma religioso, trattandosi di mera deliberazione positiva da parte di un determinato gruppo sociale e di chi lo sostiene. In questo modo si viene ad assegnare a quel gruppo sociale il monopolio dell’accesso alla conoscenza, in modo tale da potere tacciare come stregoni e mistificatori tutti coloro i quali esercitino modalità di conoscenza del mondo esterne al modello codificato; nella migliore delle ipotesi, la metafisica non è più considerata sede delle anticipazioni ardite, ma del vaniloquio; e la stessa teologia viene sottratta alla possibilità di venire considerata scienza, com’era presso gli antichi, in quanto prolungamento verso l’alto della fisica, per essere ristretta all’asfittica questione della “fede” personale, precludendo così la possibilità ch’essa divenga sede del confronto intersoggettivo, della discussione e dell’argomentazione logica; perché uno degli scopi di quel modello ristretto su ciò che debba intendersi per scientifico è di premiare l’elemento dell’osservazione, a discapito di quello del discorso, fingendo d’ignorare che l’osservazione non vale nulla in assenza di linguaggio e di logica del discorso.

 

La questione diventa complessa, e va nuovamente riconsiderata; immaginiamo allora due cerchi concentrici, tra i quali, il minore rappresenta l’ambito ricoperto da quanto viene riconosciuto come “scienza”, e il settore rimanente fino a limite del cerchio maggiore come ambito ricoperto da “altre forme di conoscenza, diverse dalla scienza”; immaginiamo ora che, per ragioni scientifiche, pseudo-tali, di sociologia della scienza, o puramente politiche, il cerchio minore si riduca di dimensione, espellendo dall’ambito della scienza riconosciuta una serie di modalità epistemiche, che quindi passano da “scienza” a “altre forme di conoscenza diverse dalla scienza”. Ebbene, l’effetto sociale di un simile procedimento può essere duplice e contradittorio, in ogni caso dialettico; perché, se prevale la chiave di lettura autoritaria, come sembra essere nel nostro tempo, solo ciò che è ricompreso nel cerchio minore, in quanto “scientifico”, risulta epistemicamente legale, e quanto vi è al di fuori illegale: e siccome il cerchio minore, abbiamo visto, si riduce, si riduce con esso l’area legale, e molti strumenti di conoscenza diventano epistemicamente illegali e, non di rado, politicamente illegali, vale a dire che non sarebbero affatto forme di conoscenza; se invece prevale una chiave di lettura diversa, accade che l’opinione pubblica faccia proprio l’approccio opposto, vale a dire ridimensionare la scienza come strumento esclusivo di conoscenza, riconoscendo sempre di più il valore cognitivo di altro che scienza non sia. Il fatto è però anche che, paradossalmente, fuori dal cerchio ristretto scientista, si colloca anche la filosofia, e quindi la filosofia della scienza, e quindi ancora la stessa definizione di scienza, che è filosofica, metafisica e arbitraria, e quindi non è e non può essere a propria volta “scientifica”, in quanto meramente linguistica, ove si ritenga che il meramente linguistico non basti a rappresentare scienza, in quanto non “osservativo”: in tal modo, la definizione di scienza non rientra nella definizione di scienza, o, detto altrimenti, l’attività del definire la scienza non è attività scientifica. La scienza, in tal modo, viene subordinata a quanto supposto non è scientifico, in quanto affidata alle cure dell’apparentemente ”irrazionale”, ossia alla definizione arbitraria e libera di che cosa sia “scienza”, che è atto metafisico e non scientifico: del resto, non mi risulta che esista alcuna definizione definitiva condivisa su che cosa sia da considerarsi scienza, sicché la pretenziosità di molti scienziati e l’eccesso di presunzione di se stessi non ha alcun fondamento, se nemmeno sappiamo quale sia e debba essere esattamente il loro ambito di competenza e il loro ruolo sociale.

 

Tutto ciò, in effetti, non ha molto senso; il punto è che, nel nostro tempo, prevale una concezione della scienza che pone al centro di essa un presunto “metodo scientifico” ristretto, fondato prevalentemente sull’”osservazione”, pretendendo, del tutto illogicamente, di subordinare il ruolo del linguaggio, che invece inevitabilmente prevale, dato che un’osservazione linguisticamente non articolata non è dotata di alcun significato, non lo è nemmeno tra le scimmie e gli altri animali non umani o, se si vuole, inferiori. Va invece sottolineato che è scienza anche quella esclusivamente fondata sul confronto tra i ragionamenti, indipendentemente da alcuna osservazione specifica, che non sia quella generale, comune a ciascuna persona; ad esempio, nelle scienze sociali, abbondano i pleonastici raccoglitori di “dati”, dati accumulati in assenza di alcuna capacità di teorizzazione in ordine alla comprensione dei dati stessi, il che mostra ancora il primato del linguaggio sull’osservazione. Tutto ciò comporta, ad esempio, la marginalizzazione del discorso detto teologico, che in realtà è discorso pienamente scientifico, se inteso ad esempio in senso aristotelico (Dio come primo motore), sulla base della banale affermazione che l’esistenza di Dio non è dimostrabile, dato che Dio non sarebbe direttamente “osservabile”; peraltro, quando si va a chiedere a uno scienziato mainstream, donde scaturirebbero materia e universo in assenza di Dio, avremo risposte come “la materia è sempre esistita”, o anche “l’universo è nato per caso”, che pretendono di essere argomentazioni logicamente superiori a “Dio esiste”, quando nemmeno le due asserzioni testé riportate, né sono dimostrabili, né tampoco sono osservabili, di tal che non resta che confrontare le due argomentazioni, quella a favore dell’esistenza di Dio e quella contraria, per discutere su quale sia la migliore, e anche tutto questo è scientifico, anzitutto definendo “materia”, “caso”, “Dio” e tutti i termini che si usano spavaldamente in questo genere di discussioni, senza che si sappia mai esattamente di che cosa si stia trattando, perché quando si dice “la materia è sempre esistita”, di che cosa, esattamente, si sta dicendo essere sempre esistita?

 

Salvo che, per comprendere tutto questo, occorre sostituire la centralità del principio di osservazione con la centralità del principio di argomentazione, che non esclude, ma affianca con forza l’osservazione empirica, che del resto è comune agli uomini, anche in assenza di alambicchi e microscopi. Sicché la scienza di oggi perde ogni valenza centrale e di primazia intellettuale, per ridursi a mera ancilla technologiae, e sul fronte tecnologico che essa può venirci incontro, in quanto “scienza applicata”, aiutandoci a rendere nulla più che “più comoda” la nostra vita, e però anche “più controllata”, è non è in grado, la scienza, di fornirci nulla di più di questo porsi al servigio del sistema, né tantomeno è in grado di fornirci un modello culturale di riferimento adeguato, per quanto riguarda, come detto, le cose che nella vita contano davvero, giacché l’approccio scientista, o comunque lo si voglia chiamare, è asfittico, non dà conto di troppe cose, limita indebitamente addirittura la capacità dell’uomo di percepire e “sentire”: il discorso sulla spiritualità e sulla sua valorizzazione, addirittura in termini routinari, nella vita della persona, è soprattutto un discorso sulla sua piena capacità nell’ambito del tema della percezione; il che poi ha anche molto a che fare con il desiderio di sapere e conoscere, cibo e nutrimento dell’animo e fonte di autorealizzazione e, nei casi più importanti, di vera e propria felicità, in generale di appagamento.

 

In realtà, va poi detto che l’autentico fascino accattivante della tecnologia consiste nel fatto che essa, nella sua rozza brutalità, sembra confermare, il che poi svolge una funzione grandemente consolatoria, l’esistenza del principio di causa-effetto, dato che premendo un interruttore si accende subito la luce, o si mette immediatamente a funzionare un frullatore; e infatti abbiamo preso a turbarci l’animo se internet si interrompe improvvisamente, o non “parte” come vorremmo, il che, oltre a farci imprecare, ci convince che tali meraviglie della tecnica siano ancora a un livello embrionale, dato che il funzionamento secco del tipo interruttore della luce è ancora di là da venire; per non dire di come ci arrabbiamo in presenza di un blackout, o di un calo di tensione nel contatore elettrico. Naturalmente le questioni gravi sono ben altre, ad esempio il fatto che buona parte della tecnologia che utilizziamo consiste in cascami della ricerca militare, vale a dire del complesso militare-industriale, che tanto ha peso sulle scelte globali fondamentali e, quindi, sulle nostre vite.


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