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giovedì 15 giugno 2023

John Locke "socialista libertario" e il reddito di cittadinanza

di Fabio Massimo Nicosia

Da anni girano nuove letture accademiche (ovviamente americane o non italiane, dato che gli italiani in questo ambito sono molto carenti, evitando argomenti specifici e tecnici in quanto filosofi politici, preferendo restare sul vago) su John Locke, con le quali si è smesso di fornire letture banalizzanti di Locke come cantore principalmente della proprietà privata e del proto-capitalismo (stiamo parlando di un autore del diciassettesimo secolo), come facevano i primi lettori marxisti (cattivi lettori), per cogliere gli aspetti dell'Autore che definiremmo "sociali": in particolare, questi aspetti sono rappresentati da due elementi fondamentali: a) lockean proviso (Dio ha donato la Terra in comune agli uomini); b) carità (Dio ha donato la Terra in comune agli uomini).

La mia tesi è che tali elementi non siano di contorno, come probabilmente è stato ritenuto a lungo, ma vanno a segnare nel profondo la teoria lockeana della proprietà, fino a farmi dire in questi giorni che Locke è addirittura un autore "socialista", appunto nei termini che egli è al contempo il fondatore del liberalismo moderno e del socialismo moderno, intendendosi il suo socialismo come socialismo liberale, libertario e utopistico: ossia, ritengo Locke l'autore che ha avviato il percorso che conduce al socialismo utopistico dell'ottocento, dato che la sua concezione del diritto di proprietà nasce di già intrisa delle limitazioni che immagineremmo in un autore socialista e non ci aspetteremmo da un autore squisitamente liberale, o, oggi, neo-liberale.

a) Il lockean proviso, la clausola di Locke, fu evidenziata per primo, almeno credo, da Robert Nozick; in ogni caso, fu con Nozick che si aprì il dibattito al riguardo, soprattutto nei circoli left-libertarian americani, i quali, in quanto filosofi analitici, sono attratti da questo tipo di dettagli e li prendono molto sul serio.

Il lockean proviso esprime il principio, per il quale l'occupante è legittimato a divenire proprietario del suolo che ha occupato, esclusivamente se residua agli altri atrettanto suolo e altrettanto buono; questo parrebbe un problema dell'ultimo occupante, più che del primo, in ogni caso, tale clausola esprime il concetto che, avendo Dio donato la Terra in comune agli uomini, ragionando in termini proprietaristi, ognuno deve averne la sua quota, nessuno può rimanere privo di titoli di proprietà, altrimenti dove andrebbe a stare il poveraccio? Sarebbe sempre soggetto al volere dell'altro, e quindi non sarebbe libero, ma subordinato ai soggetti proprietari.

Ne ricavo che, se quota per me non c'è, mi compete una rendita di esistenza, in modo tale da potere pagare l'affitto di un luogo dove stare, mi compete una sorta di risarcimento per il fatto che a me non è stata assegnata alcuna quota di Terra, nonostante il fatto che mi spettasse in quanto destinatario a mia volta del dono divino.

b) Il punto della "carità" è forse addirittura più intrigante, dato che vediamo il concetto religioso fare prorompente ingresso nel discorso filosofico politico, e lo fa in modo meraviglioso, dato che si tratta di ricostruzione originalissima. Non è originale l'idea che la carità sia un diritto soggettivo perfetto da parte del povero, dato che tale concetto risale a canonisti medievali come il francescano Ockham, che rappresentava un po' la "sinistra" di quel movimento; essendo diritto soggettivo perfetto del povero, e non mera liberalità del ricco, il ricco è gravato da un obbligo giuridico compiuto in tal senso: il punto più originale sta quando Locke mi dice che il ricco non è proprietario pieno di tutti i suoi beni, ma mero depositario di beni che sono comuni, almeno fin quando la povertà non sia debellata!

Tale esigenza di carattere sociale, che discende sempre a propria volta dall’essere stati tutti i beni della Terra donati da Dio in comune agli uomini, viene quindi ad assumere, a mio avviso, carattere preclusivo rispetto alla legittimità delle appropriazioni individuali, e il collocare in posizione di primazia lessicografica il bene dei poveri su quello delle appropriazioni, mi fa pensare, insieme a discorso sul lockean proviso, a un Locke socialista vero e proprio, pur riaffermando il filosofo il diritto alla proprietà privata, di tal che ci troviamo in realtà alle origini del socialismo liberale e libertario. A questo va aggiunto che, in tal modo, Locke, del quale viene normalmente sottolineata l’attenzione al tema del lavoro, in quanto atto fondativo della facoltà stessa del divenire proprietari, in realtà stia scindendo l’idea del reddito da quello di lavoro, in quanto, in nome della carità, ognuno ha in realtà diritto di conseguire un reddito vitale, indipendentemente dal fatto del lavorare; non solo: poggiando la carità sulla comunione originaria dei beni, il diritto a conseguire un reddito, non solo non deriva quindi concettualmente dall’atto del lavorare, ma deriva dal fatto di essere originariamente comproprietari del Mondo, ergo dalla titolarità di un diritto di proprietà, inteso come qualcosa di primordiale e preliminare rispetto all’atto del lavorare, e non come esito dell’atto del lavorare: o meglio, la proprietà individuale consegue dal lavoro, ma la proprietà comune originaria compete a tutti indipendentemente dal fatto che lavorino: basta l’esistenza, ma l’esistenza non è “mera”, ma da subito associata al fatto istituzionale “comproprietà del Mondo”.

Ne deriva anche che, se Locke riteneva di primario rilievo il sostentamento del povero fino ad abolizione della miseria, egli sarebbe stato anche a favore di forme come il reddito di cittadinanza, il reddito di base, la rendita di esistenza e simili, proprio in base alla ragione detta, ossia l’avere lui, forse per primo, scisso il diritto al conseguimento di un reddito dall’onere del lavorare.