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martedì 9 maggio 2023

Lavoro non commissionato e valore di mercato

 di Fabio Massimo Nicosia

Oltre al problema di chi non lavora, e che però rivendica il diritto a un reddito, in nome al preliminare diritto di non morire di fame, ci troviamo di fronte, a ben vedere, a un altro grave problema, più sottile, ossia che c'è gente che lavora assai e non riceve alcun reddito, ad esempio una casalinga; in effetti, lavoro e reddito sono due concetti logicamente distinti, esiste una scissione tra il concetto del “lavorare” e quello dell’essere “compensato”, dato che il reddito proveniente dal mercato è esclusivamente quello che premia attività richieste dal mercato. Quindi io posso lavorare fino allo sfinimento, ma se la mia attività non è richiesta dal mercato e, ad esempio, rappresenta una mia scelta, io non avrò alcun reddito.

Tuttavia, non mi si potrà dire “chi non lavora non mangia” con tono di rimprovero, dato che io lavoro, per diana, però non “mangio”, nel senso di non ho alcun reddito se si tratta di lavoro non richiesto dal mercato, eppure produco valore ed esternalità positive, che non vengono immediatamente internalizzate, ma potranno esserlo nel futuro, se ad esempio il mio lavoro di scrittore verrà apprezzato nel tempo.

Si tratta di un’ipotesi di fallimento del mercato, dato che il mercato fallisce nel compensare attività volontarie non richieste esplicitamente da terzi, quindi fallisce nel remunerare questo valore extra-mercato e queste esternalità positive non internalizzate: il mercato fallisce nel compensare tutti quelli che creano effettivamente valore, e però non hanno nessuno che li compensi per il valore creato, anche quando tale va riconosciuto oggettivamente, dato che poi altri effettivamente se ne giovano e ne fruiscono; in altri termini, i fautori liberisti del mercato, come ad esempio con particolare rigore gli anarco-capitalisti, ritengono che un’attività produttiva non esplicitamente richiesta in via preventiva da un soggetto differenziato, che si sia dichiarato disponibile a remunerare detta attività produttiva, in pratica non esprima alcun valore; in realtà l’argomento prova troppo, dato che l’attività di un killer può godere di quei requisiti, eppure è dubbio che produca valore e non disvalore disproduttivo; d’altra parte, che l’attività non esplicitamente richiesta da un terzo non valga nulla per nessuno non è logicamente sostenibile in termini assoluti, dato che è perfettamente concepibile che un’attività “non richiesta” sia ugualmente produttiva per qualcuno, e in effetti su tale presupposto si fonda l’istituto dell’arricchimento senza causa, nonché lo stesso istituto della negotiorum gestio, i quali però presentano evidenti limiti applicativi, e non possono operare indiscriminatamente: ad esempio, avendo io lavorato molto intensamente negli ultimi cinque anni nella produzione intellettuale, in particolare editando numerosi nuovi libri, potrei fare causa alla Repubblica Italiana per arricchimento senza causa, dato che la società italiana si è giovata di un incremento di conoscenze a causa del mio lavoro di studio, eppure io non ne ho ricavato un quattrino, per la sola ragione che non ho avuto committente?

In realtà, la sopra ricordata tesi liberista, per la quale solo il lavoro commissionato da un terzo, disposto a pagare quel lavoro, produrrebbe valore, è alquanto squinternata, anche se poi la tesi opposta incontra difficoltà quando deve spiegare da dove debba scaturire la remunerazione. In effetti, poniamo un tipo di prestazione di lavoro x, e immaginiamo due diverse ipotesi: a) il lavoro x è stato commissionato da un terzo, particolarmente interessato da quel lavoro x, al punto di essere disponibile a remunerare il lavoratore; b) Il lavoro x non è stato commissionato da nessuno, ed è stato svolto dal lavoratore semplicemente per il piacere di farlo, o per altra ragione sua personalissima, che l’ha indotto a quel lavoro, pur non avendo ricevuto con riferimento a esso alcuna promessa di pagamento.

Ora, se confrontiamo le due ipotesi, notiamo subito che il lavoro svolto è identico, ossia stiamo parlando dello stesso lavoro x; tuttavia, per il liberista, esso avrebbe “valore” solo nell’ipotesi a), dato che solo lo scambio creerebbe valore, mentre l’azione volontaria, spontanea, ma non richiesta non avrebbe alcun valore, in quanto solo il mercato crea i valori, e qui non abbiamo assistito ad alcun negozio o commercio.

Sicuramente c’è qualcosa che stride in tale ragionamento, in particolare mi colpisce il fatto che ad attribuire valore al tuo lavoro, non sia la qualità del tuo lavoro stesso, ma l’atto costitutivo di un terzo, che funziona come atto linguistico performativo, come una sorta di “battesimo”, il che però ci fa fuoriuscire dal razionale, per entrare interamente nel mondo dei simboli, per cui in realtà l’atto del terzo fa di questi una sorta di alchimista, di tal che quel lavoro, filtrato dal alambicco, ottiene per magia un “valore”, che diversamente non avrebbe; salvo che i simboli possono essere i più disparati e di segno opposto: ad esempio, in base a nuovi e diversi simboli, la Repubblica Italiana, intesa però non come “Stato”, si badi -tanto per respingere al mittente le accuse di “statalismo”-, ma come comunità individuata, potrebbe premiare il mio indefesso lavoro, estremamente produttivo, di un lustro, ma mai remunerato da veruno, e da veruno neanche di Inveruno, il che a mio avviso consente di essere individuato come, in prima approssimazione, salvo quanto si preciserà, come fallimento del mercato, giacché il mercato fallisce nel remunerare lavori produttivi di valore, e però “non richiesti”, come se il fatto di essere richiesti assumesse chissà quale valore sacramentale costitutivo magicamente di valore, rispetto allo stesso identico lavoro, nel caso in cui questo non sia richiesto.

Ora, non è del tutto insensato, in realtà, immaginare che il tuo lavoro non abbia valore per autocertificazione, ma in quanto convalidato da un terzo -e quindi non sto difendendo alcuna forma di “valore-lavoro”, che sia connesso a un presunto “lavoro” quale esso sia-, in quanto questo terzo sia percepito come soggetto socialmente rilevante e rappresentativo; quello che contesto è che l’avallo del committente sia l’unico modo per convalidare socialmente un valore, mentre ve ne possono essere infiniti altri; in mancanza di adeguata fantasia al riguardo, lo Stato, a quel punto, viene inevitabilmente percepito come l’unico strumento per fare fronte a questi fallimenti del mercato, in quanto non esistano forme di reddito di base o di utile universale garantito, tal per cui poi non occorra mettersi al riparo delle ali dello Stato pur di ottenere un qualche reddito, che il mercato non è in grado di offrire in questo genere di situazioni: in questo senso, l’utile universale rappresenta anche un buon antidoto ai fallimenti del mercato, che sono tali, non nel senso che il mercato davvero “fallisca”, dato che non si richiede al mercato il requisito dell’onnipotenza; ma nel senso che il mercato non è attrezzato a risolvere ogni e qualsiasi problema dell’umanità, il che lancia la sfida di come risolvere quei problemi, senza farsi ammaliare dall’ipotesi coercitiva come unica alternativa pratica efficace al mercato e a quanto il mercato non può fare, non è consustanzialmente in grado di fare, in quanto strettamente legato al meccanismo della domanda e dell’offerta, vale a dire il meccanismo per il quale ogni attività svolta deve essere per forza “domandata” da qualcuno disposto a spendere per conseguire i benefici di quella attività.

Tutto ciò finisce con il favorire il fatto che poi quei soggetti, i quali subiscono una chiara frustrazione dal fatto di avere beneficato la società, senza trarne beneficio a propria volta, stante l’inceppamento, in questi casi, del sistema degli scambi volontari -ma anche tramite l’insorgenza di un chiaro meccanismo di free-riding, dato che una serie di soggetti si giovano di quel lavoro senza essere costretti a remunerarlo-, cerchino poi di ottenere compensi dallo Stato: ad esempio gli intellettuali e gli studiosi -non a caso oggetto di sistematico attacco da parte dei liberisti, in quanto additati come molto spesso nemici del mercato e del capitalismo-, i quali lavorano per produrre studi e ricerche, magari per propria passione personale, e quindi possono anche lavorare moltissimo, eppure rimanere in miseria.

Quel che preme comunque di rilevare è che non esiste una correlazione, una relazione biunivoca, tra lavoro e reddito, ossia capacità di quel lavoro di produrre reddito, a meno di non arrivare all’assurdo di negare carattere di lavoro a quello non richiesto dal mercato, e quindi non in grado di produrre reddito; ad esempio, se un soggetto scrive libri teorici profondissimi per cinque anni, e per cinque anni non guadagna assolutamente nulla in quanto quei libri teorici non gli sono stati domandati da alcun agente del mercato, noi comprendiamo di essere di fronte a una distonia, ossia che c’è qualcosa che non funziona in un simile meccanismo, che si rivela contrario alle nostre intuizioni morali quanto al diritto di quello scrittore comunque di sbarcare il lunario in qualche modo; e tuttavia una soluzione di mercato esiste, ed è la seguente: vale a dire che quello scrittore, che sarei io, di libri teorici non richiesti e non remunerati ha comunque acquisito, in quei cinque anni, un formidabile know-how, che, in una logica piena di mercato, anzitutto assume valore contabile; solo che io, in quanto persona fisica, non dispongo della possibilità di redigere un bilancio formale, dotato di stato patrimoniale; mentre lo potrei fare se costituissi una società, e conferissi come capitale immateriale alla società quel mio know how, che potrei dare in pegno non spossessorio, o potrei farne impiego in mille altre forme di carattere finanziario; in particolare, il know how, periziato e contabilizzato, assume in un’ottica libertaria, quale quella che qui viene seguita, il carattere, come si è visto, di vero e proprio sottostante di un’emissione monetaria reputazionale; ma naturalmente tale soluzione presuppone che la nozione del libero conio sia sufficientemente accettata e diffusa; diversamente si apre lo spazio a soluzioni esclusivamente stataliste, ma allora diventa inutile lamentarsene in nome di principi liberali e liberisti, che si sono appena confessati fallimentari, in quanto nemmeno capaci di individuare la soluzione radicale detta del libero conio, che però sarebbe anche la più coerente dal punto di vista liberale e liberista, solo che liberali e liberisti fossero persone coerenti.


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