di Fabio Massimo Nicosia
Se la proprietà privata è intrinsecamente atto coercitivo, per quanto conveniente al soggetto proprietario, che dire di quelle dottrine, antiche e moderne, che legittimano la proprietà della stessa terra sul “lavoro”? Che nesso c’è tra il tuo “lavoro”, tra il fatto che tu abbia “lavorato”, e il fatto che io debba per conseguenza subire una limitazione della mia libertà personale, ad esempio non potendo io passare o giocare a palla rilanciata nel luogo ove tu abbia “lavorato”, per il sol fatto che tu abbia “lavorato”? Posto che quello che è lavoro per te, per me potrebbe essere una mera esternalità negativa e un puro disturbo, tanto più se hai lavorato azionando alle otto del mattino martelli pneumatici e spazzafoglie a motore, è evidente che se la società, usiamo questo termine onnicomprensivo, esprime una preferenza per il tuo “lavoro” rispetto ai miei diritti di passaggio e di gioco, è perché opera un calcolo utilitaristico, un confronto interpersonale e sociale di utilità, tal per cui il tuo lavoro viene sentenziato utile, e quindi premiato, non c’è altra giustificazione, diversamente sarebbe puro arbitrio.
Crollano perciò nel ridicolo le dottrine che fondano la proprietà dei beni
esterni sul “diritto naturale”, come se esistesse un diritto naturale tuo a
possedere superiore al diritto naturale mio di passare, e come se il tuo
diritto di possedere si autofondasse e non richiedesse giustificazione nel suo
dimostrarsi benefico, per te e per tutti: prevale il tuo perché il suffragio
sociale ritiene meritevole di protezione il prodotto del tuo lavoro, in caso
contrario tu passi in seconda linea. Il diritto si fonda sull’utilità,
altrimenti non ha ragion d’essere un diritto “sia fatta giustizia e crepi il
mondo”, dato che se crepa il mondo vuol dire che non è giustizia, è giustizia
se va tendenzialmente a vantaggio di tutti.
Per questo ho sostenuto che le radici del diritto naturale vanno comunque
ravvisate nell’utilità, e che l’utilitarismo è l’unico diritto naturale
possibile, in quanto fondato sulla tautologia che l’uomo ricerca il piacere,
nel senso più lato possibile di cosa buona per sé, ed evita il male, nel senso
lato di cosa negativa per sé; tal per cui io posso considerare, in questa
accezione, utile pregare e donare le mie ricchezze ai poveri e considerare
dolore l’arricchirmi, se ciò comporta enfatizzazione dei miei lati peggiori; naturalmente
si tratta di estremizzazioni a fini esplicativi, ma che servono anche a fare
comprendere che accanto a un utilitarismo economico esiste un utilitarismo
morale, che è aperto a ogni bene si possa perseguire, fino a giungere al punto
soglia, nel quale etico ed economico confluiscono nell’idea dello stare bene e
nel non fare male agli altri.
Ma torniamo al punto: perché il tuo lavoro diventa fondamento di un tuo
diritto di proprietà, e dovrebbe diventare altresì fondamento di un obbligo
morale e giuridico mio a rispettare la tua proprietà? Perché non posso invadere
la tua proprietà, anche se tu vi hai “lavorato”, fatto che per me potrebbe
risultare di nessunissimo interesse? Su cosa si fonda, quindi, a questo punto,
il diritto di proprietà individuale? Di solito, il proprietarista invoca a tale
proposito John Locke, come se il suo avallo nei confronti della proprietà
privata fosse aprioristico e non argomentato; la verità è ben diversa, dato che
Locke fonda la proprietà esattamente sul concetto ineludibile di utilità,
perché deve essere chiaro che i diritti sulle risorse esterne -tutt’altro discorso
è quello sulla persona, come vedremo- hanno senso e sono tutelati solo se sono
utili, altrimenti possono andare a farsi benedire, dato che non sono di alcun
interesse per nessuno, cosa che i rothbardiani non riescono a capire, giungendo
al limite del terrapiattismo con le loro fissazioni sui supposti “diritti
naturali”.
E allora scorriamo il testo originale del “Secondo trattato sul governo”
di Locke; fondamentale è il passaggio introduttivo del Capitolo V, Of
Property, § 25, ove si sancisce quanto segue: “Whether we consider
natural Reason, which tells us, that Men, being once born, have a right to
their Preservation, and consequently to Meat and Drink, and such other things,
as Nature afford for their Subsitence”. Quindi tutti gli uomini hanno, di
base, per diritto di ragione, un diritto naturale alla propria
conservazione (si badi che qui la ragione è fonte del diritto), a
nutrirsi e a tutto ciò che è necessario alla propria sussistenza: qui siamo a
un perfetto punto di intersezione tra il diritto dell’uomo, della persona, in
quanto essere e corpo, e il suo diritto esterno, in quanto proiezione economica
del suo essere soggetto dotato della dignità fondamentale, che gli consente poi
di godere di diritti morali e di rivendicarli, a conseguire le risorse
indispensabili alla propria sopravvivenza e vita piena; si badi, tutti gli
uomini hanno tali diritti di ragione, non solo coloro i quali riescano a
rendersi “proprietari privati” di una quota di risorse esterne.
A questo punto il libertarian obietterà che il cibo non può essere
un “diritto naturale”, se richiede, per essere garantito come diritto, una
prestazione altrui, sicché si tratterebbe di un “diritto positivo” e non
meramente “negativo”; in realtà, il libertarian che ragiona così
dimostra la sua scarsa dimestichezza con il libero conio, e quindi ragiona in
termini monopolistici, anzi, per usare il loro linguaggio, “statalistici”, dato
che, con il libero conio, ognuno può auto-dotarsi dello strumento
indispensabile, la moneta, per operare nel mercato; inoltre il libertarian
dimentica che per Locke nessuno può essere privato della sua quota di Mondo,
posto che ogni appropriazione deve residuarne di altrettanta e altrettanta
buona agli altri, come vedremo, di tal che è escluso che alcuno sia ridotto in
miseria; quantomeno dovrà essere risarcito, e quindi continuerà a non essere in
miseria; inoltre fa qui al libertarian difetto un altro elemento
fondamentale dal punto di vista del diritto morale: ossia che per Locke, come
per non pochi canonisti antichi, la carità è un diritto soggettivo, in
quanto sul cristiano ricade l’obbligo di operare in carità; sicché, nel
§ 42 del “Primo trattato sul governo” leggiamo: “But we know God hath not
left one Man so to the Mercy of another, that he may starve him if he please…
so Charity gives every Man a Title to so much of anothers’s Plenty”. Del
resto, se non è caritatevole il possidente rischia bene di perdere il suo
possesso ad opera dell’indigente, quindi forme redistributive convengono
storicamente anche al possidente.
Veniamo quindi senza indugio al § 26: “God, who hath given the World to
Men in common, hath also given them reason to make use of it to the best
advantage of Life, and convenience. The Earth, and all that is therein, is
given to Men for the Support and Comfort of their being”; qui sono dunque
chiarissimi due elementi: a) Dio ha dato il mondo in comune agli uomini; b) Gli
uomini possiedono il mondo per farne un uso di ragione a vantaggio della loro
vita e per la propria convenienza. La Terra e tutto quanto vi pertiene è
dato agli uomini per supportarli e per il loro conforto. Il
fondamento della (com)proprietà dei beni da parte degli uomini è rappresentato
dalla loro utilità, da null’altro di mistico.
Al § 27 Locke statuisce di fatto il principio dell’habeas corpus,
modernamente definito self-ownership, e per certi versi riconducibile al
pur reso molto debole concetto di privacy: “…every Man has a Property
in his own Person. This no Body has any Right to but himself”. E a questo
punto scatta il collegamento tra la dignità dell’autoproprietà della persona e
la sua attitudine economico-produttiva, la quale si esprime con il lavoro:
“The Labour of his Body, and the Wor of his Hands, we may say, are properly
his”. Ciò significa che quando un individuo rimuove qualcosa dallo stato di
natura in cui si prova, egli ha “mixato” il proprio lavoro con questa cosa, e
ne è divenuto proprietario; con l’avvertenza -cosiddetto Lockean proviso,
clausola di Locke-, che per ogni appropriazione deve rimanere abbastanza e
altrettanto buono in comune per gli altri, il che rappresenta sempre una
giustificazione utilitarista, dato che quanto deve residuare agli altri vale
per la loro buona vita, non per inutili trastulli.
Al § 28 si precisa che la cesura tra il momento del common e il
momento proprietario è dato dal lavoro: attraverso il lavoro un bene esce dal common
e diventa di proprietà privata, “his private right”; e non occorre
il consenso degli altri, altrimenti uno, in attesa di un tale consenso,
potrebbe intanto morire di fame; tuttavia tale principio vale sempre in quanto
l’appropriazione operi “since there was still enough, and as good left”
(§ 33), vale a dire che io posso appropriarmi di beni senza il consenso degli
altri, sempre a condizione che per gli altri risulti abbastanza e di buono per
potere fare altrettanto.
E allora veniamo al § 34, in cui i termini usati sono molto espliciti: “God
gave the World to Men in Common; but since he gave it them for their benefit,
and the greatest Conveniencies of Life…”; mi sono limitato a riportare la
parte che qui ci interessa: a) Dio ha dato il Mondo in comune agli uomini; b)
L’ha fatto a loro beneficio e per la loro più grande convenienza. Se c’erano
ancora dubbi che le assegnazioni di beni e di quota di mondo hanno fondamento
utilitario, credo siano stati fugati; il che viene immediatamente confermato al
§ 35 ove si ribadisce che “The measure of Property, Nature has well set, by
the Extent of Mens Labour, and the Convenience of Life”.
In definitiva, per Locke, Dio ha concesso agli uomini, a tutti gli uomini,
di base in comune, la Terra e tutte le sue risorse, affinché, in conformità del
resto con la “Genesi”, gli uomini ne traggano tutto il giovamento che ne
debbono trarre: se poi ciò comporta un livello di frammentazione
dell’originaria proprietà comune in proprietà individuali, ciò di sicuro non
comporta il decadere della ratio originaria “genetica”, vale a dire che
tutte le opzioni effettuate da Locke, quanto al regime della proprietà privata una
volta instaurata, mantengono sempre quel presupposto giustificativo di tipo
utilitarista, dato che la ricerca di Locke non avviene mai sulla base di
astratti e aprioristici criteri di giustizia assiomatica, ma sempre avendo di
mira che cosa è meglio per l’uomo, che cosa è meglio per tutti gli uomini:
e allora, sotto determinate condizioni ristrette, la proprietà può divenire un
istituto di tal fatta, quindi “utile”.
Ecco allora spiegato in che senso il lavoro, in quanto rivelatosi utile, in
quanto socialmente utile, può rivelarsi fondamento giustificativo della
proprietà, sempre sulla base di un confronto interpersonale di utilità, sicché
viene deciso che la proprietà è utile a garantire maggiori quote di produzione
a vantaggio di tutti, piuttosto che lasciare la terra in una comunione brada
(poi qui si aprirebbe la discussione sulla possibile efficienza di un common,
così come argomentato dalla premio Nobel Elinor Ostrom); salvo che tale utilità
non è presunta o acquisita una volta per tutte, ma è soggetta a costante
riverifica, non solo attraverso i meccanismi del mercato, che possono rivelarsi
come si è visto parziali, ma anche attraverso la discussione pubblica e la
decisione democratica. L’”utilità” si staglia quindi come valore fondamentale,
posto alla base della definizione dei regimi proprietari; fermo restando che,
siccome l’utilità, come il piacere in Bentham, rappresenta concetto del tutto
formale e cornice, poi con esso termine se vengono a esprimere le preferenze
più diverse, anche non monetarie, in omaggio al motto di Nietzsche, per il
quale “Voi utilitaristi, anche voi amate ogni utile solo come veicolo delle vostre inclinazioni”,
prima tra tutte un’altra inclinazione di tipo formale, che è quella libertaria.
Se questo è il regime morale, e quindi poi giuridico, dei beni esterni,
tutt’altro discorso va fatto per i diritti personalissimi, per i diritti dell’habeas
corpus e dell’integrità psico-fisica, che, a mio avviso, si stagliano
supremi intangibili e infrangibili al vertice dell’ordinamento lessicografico,
e quindi della gerarchia delle fonti in quanto diritti umani e fondamentali, ma
soggetti a calcolo utilitaristico in chiave restrittiva, per la semplice
ragione che, in tal caso, il calcolo utilitaristico si presume come già
avvenuto a priori, di tal che l’utilità del diritto umano e fondamentale
si presume iuris et de iure, non ammette prova contraria, oltre a essere
intangibile esso in quanto correlato e conseguente immediatamente al
principio-fonte suprema della dignità dell’essere umano, in quanto
immediato interlocutore di Dio, indipendentemente da alcuna considerazione
sul regime giuridico di suoi eventuali beni; vale a dire che il diritto
relativo alla persona e al suo corpo è cosa ben diversa dal diritto che
disciplina i beni esterni, cosa che certi libertarian non hanno mai
compreso, dato che essi, posta una disciplina per il corpo, poi l’hanno estesa
meccanicamente ai beni, in chiaro abuso logico, dato che nulla di razionale e
persuasivo costringe a che, elaborato un certo regime morale sulla persona, poi
tale regime morale debba estendersi fino a valere anche per le cravatte e i
torni, e ancor peggio alla terra, a meno che non si dimostri uno stretto nesso
di fatica personale tra la persona e le sue cravatte e i suoi torni, mentre la
terra è fuori discussione, essendo comune per volontà diretta di Dio, oltre che
per le ragioni libertarie che si sono illustrate; ma si tratta di un onere della
prova che va soddisfatto, altrimenti, prima facie, tali beni materiali
sottostanno al regime del giudizio di utilità, al quale sottostanno tutti i
beni materiali esterni.
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