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mercoledì 10 maggio 2023

John Locke e i fondamenti utilitaristici del diritto di proprietà

 di Fabio Massimo Nicosia

Se la proprietà privata è intrinsecamente atto coercitivo, per quanto conveniente al soggetto proprietario, che dire di quelle dottrine, antiche e moderne, che legittimano la proprietà della stessa terra sul “lavoro”? Che nesso c’è tra il tuo “lavoro”, tra il fatto che tu abbia “lavorato”, e il fatto che io debba per conseguenza subire una limitazione della mia libertà personale, ad esempio non potendo io passare o giocare a palla rilanciata nel luogo ove tu abbia “lavorato”, per il sol fatto che tu abbia “lavorato”? Posto che quello che è lavoro per te, per me potrebbe essere una mera esternalità negativa e un puro disturbo, tanto più se hai lavorato azionando alle otto del mattino martelli pneumatici e spazzafoglie a motore, è evidente che se la società, usiamo questo termine onnicomprensivo, esprime una preferenza per il tuo “lavoro” rispetto ai miei diritti di passaggio e di gioco, è perché opera un calcolo utilitaristico, un confronto interpersonale e sociale di utilità, tal per cui il tuo lavoro viene sentenziato utile, e quindi premiato, non c’è altra giustificazione, diversamente sarebbe puro arbitrio.

Crollano perciò nel ridicolo le dottrine che fondano la proprietà dei beni esterni sul “diritto naturale”, come se esistesse un diritto naturale tuo a possedere superiore al diritto naturale mio di passare, e come se il tuo diritto di possedere si autofondasse e non richiedesse giustificazione nel suo dimostrarsi benefico, per te e per tutti: prevale il tuo perché il suffragio sociale ritiene meritevole di protezione il prodotto del tuo lavoro, in caso contrario tu passi in seconda linea. Il diritto si fonda sull’utilità, altrimenti non ha ragion d’essere un diritto “sia fatta giustizia e crepi il mondo”, dato che se crepa il mondo vuol dire che non è giustizia, è giustizia se va tendenzialmente a vantaggio di tutti.

Per questo ho sostenuto che le radici del diritto naturale vanno comunque ravvisate nell’utilità, e che l’utilitarismo è l’unico diritto naturale possibile, in quanto fondato sulla tautologia che l’uomo ricerca il piacere, nel senso più lato possibile di cosa buona per sé, ed evita il male, nel senso lato di cosa negativa per sé; tal per cui io posso considerare, in questa accezione, utile pregare e donare le mie ricchezze ai poveri e considerare dolore l’arricchirmi, se ciò comporta enfatizzazione dei miei lati peggiori; naturalmente si tratta di estremizzazioni a fini esplicativi, ma che servono anche a fare comprendere che accanto a un utilitarismo economico esiste un utilitarismo morale, che è aperto a ogni bene si possa perseguire, fino a giungere al punto soglia, nel quale etico ed economico confluiscono nell’idea dello stare bene e nel non fare male agli altri.

Ma torniamo al punto: perché il tuo lavoro diventa fondamento di un tuo diritto di proprietà, e dovrebbe diventare altresì fondamento di un obbligo morale e giuridico mio a rispettare la tua proprietà? Perché non posso invadere la tua proprietà, anche se tu vi hai “lavorato”, fatto che per me potrebbe risultare di nessunissimo interesse? Su cosa si fonda, quindi, a questo punto, il diritto di proprietà individuale? Di solito, il proprietarista invoca a tale proposito John Locke, come se il suo avallo nei confronti della proprietà privata fosse aprioristico e non argomentato; la verità è ben diversa, dato che Locke fonda la proprietà esattamente sul concetto ineludibile di utilità, perché deve essere chiaro che i diritti sulle risorse esterne -tutt’altro discorso è quello sulla persona, come vedremo- hanno senso e sono tutelati solo se sono utili, altrimenti possono andare a farsi benedire, dato che non sono di alcun interesse per nessuno, cosa che i rothbardiani non riescono a capire, giungendo al limite del terrapiattismo con le loro fissazioni sui supposti “diritti naturali”.

E allora scorriamo il testo originale del “Secondo trattato sul governo” di Locke; fondamentale è il passaggio introduttivo del Capitolo V, Of Property, § 25, ove si sancisce quanto segue: “Whether we consider natural Reason, which tells us, that Men, being once born, have a right to their Preservation, and consequently to Meat and Drink, and such other things, as Nature afford for their Subsitence”. Quindi tutti gli uomini hanno, di base, per diritto di ragione, un diritto naturale alla propria conservazione (si badi che qui la ragione è fonte del diritto), a nutrirsi e a tutto ciò che è necessario alla propria sussistenza: qui siamo a un perfetto punto di intersezione tra il diritto dell’uomo, della persona, in quanto essere e corpo, e il suo diritto esterno, in quanto proiezione economica del suo essere soggetto dotato della dignità fondamentale, che gli consente poi di godere di diritti morali e di rivendicarli, a conseguire le risorse indispensabili alla propria sopravvivenza e vita piena; si badi, tutti gli uomini hanno tali diritti di ragione, non solo coloro i quali riescano a rendersi “proprietari privati” di una quota di risorse esterne.

A questo punto il libertarian obietterà che il cibo non può essere un “diritto naturale”, se richiede, per essere garantito come diritto, una prestazione altrui, sicché si tratterebbe di un “diritto positivo” e non meramente “negativo”; in realtà, il libertarian che ragiona così dimostra la sua scarsa dimestichezza con il libero conio, e quindi ragiona in termini monopolistici, anzi, per usare il loro linguaggio, “statalistici”, dato che, con il libero conio, ognuno può auto-dotarsi dello strumento indispensabile, la moneta, per operare nel mercato; inoltre il libertarian dimentica che per Locke nessuno può essere privato della sua quota di Mondo, posto che ogni appropriazione deve residuarne di altrettanta e altrettanta buona agli altri, come vedremo, di tal che è escluso che alcuno sia ridotto in miseria; quantomeno dovrà essere risarcito, e quindi continuerà a non essere in miseria; inoltre fa qui al libertarian difetto un altro elemento fondamentale dal punto di vista del diritto morale: ossia che per Locke, come per non pochi canonisti antichi, la carità è un diritto soggettivo, in quanto sul cristiano ricade l’obbligo di operare in carità; sicché, nel § 42 del “Primo trattato sul governo” leggiamo: “But we know God hath not left one Man so to the Mercy of another, that he may starve him if he please… so Charity gives every Man a Title to so much of anothers’s Plenty”. Del resto, se non è caritatevole il possidente rischia bene di perdere il suo possesso ad opera dell’indigente, quindi forme redistributive convengono storicamente anche al possidente.

Veniamo quindi senza indugio al § 26: “God, who hath given the World to Men in common, hath also given them reason to make use of it to the best advantage of Life, and convenience. The Earth, and all that is therein, is given to Men for the Support and Comfort of their being”; qui sono dunque chiarissimi due elementi: a) Dio ha dato il mondo in comune agli uomini; b) Gli uomini possiedono il mondo per farne un uso di ragione a vantaggio della loro vita e per la propria convenienza. La Terra e tutto quanto vi pertiene è dato agli uomini per supportarli e per il loro conforto. Il fondamento della (com)proprietà dei beni da parte degli uomini è rappresentato dalla loro utilità, da null’altro di mistico.

Al § 27 Locke statuisce di fatto il principio dell’habeas corpus, modernamente definito self-ownership, e per certi versi riconducibile al pur reso molto debole concetto di privacy: “…every Man has a Property in his own Person. This no Body has any Right to but himself”. E a questo punto scatta il collegamento tra la dignità dell’autoproprietà della persona e la sua attitudine economico-produttiva, la quale si esprime con il lavoro: “The Labour of his Body, and the Wor of his Hands, we may say, are properly his”. Ciò significa che quando un individuo rimuove qualcosa dallo stato di natura in cui si prova, egli ha “mixato” il proprio lavoro con questa cosa, e ne è divenuto proprietario; con l’avvertenza -cosiddetto Lockean proviso, clausola di Locke-, che per ogni appropriazione deve rimanere abbastanza e altrettanto buono in comune per gli altri, il che rappresenta sempre una giustificazione utilitarista, dato che quanto deve residuare agli altri vale per la loro buona vita, non per inutili trastulli.

Al § 28 si precisa che la cesura tra il momento del common e il momento proprietario è dato dal lavoro: attraverso il lavoro un bene esce dal common e diventa di proprietà privata, “his private right”; e non occorre il consenso degli altri, altrimenti uno, in attesa di un tale consenso, potrebbe intanto morire di fame; tuttavia tale principio vale sempre in quanto l’appropriazione operi “since there was still enough, and as good left” (§ 33), vale a dire che io posso appropriarmi di beni senza il consenso degli altri, sempre a condizione che per gli altri risulti abbastanza e di buono per potere fare altrettanto.

E allora veniamo al § 34, in cui i termini usati sono molto espliciti: “God gave the World to Men in Common; but since he gave it them for their benefit, and the greatest Conveniencies of Life…”; mi sono limitato a riportare la parte che qui ci interessa: a) Dio ha dato il Mondo in comune agli uomini; b) L’ha fatto a loro beneficio e per la loro più grande convenienza. Se c’erano ancora dubbi che le assegnazioni di beni e di quota di mondo hanno fondamento utilitario, credo siano stati fugati; il che viene immediatamente confermato al § 35 ove si ribadisce che “The measure of Property, Nature has well set, by the Extent of Mens Labour, and the Convenience of Life”.

In definitiva, per Locke, Dio ha concesso agli uomini, a tutti gli uomini, di base in comune, la Terra e tutte le sue risorse, affinché, in conformità del resto con la “Genesi”, gli uomini ne traggano tutto il giovamento che ne debbono trarre: se poi ciò comporta un livello di frammentazione dell’originaria proprietà comune in proprietà individuali, ciò di sicuro non comporta il decadere della ratio originaria “genetica”, vale a dire che tutte le opzioni effettuate da Locke, quanto al regime della proprietà privata una volta instaurata, mantengono sempre quel presupposto giustificativo di tipo utilitarista, dato che la ricerca di Locke non avviene mai sulla base di astratti e aprioristici criteri di giustizia assiomatica, ma sempre avendo di mira che cosa è meglio per l’uomo, che cosa è meglio per tutti gli uomini: e allora, sotto determinate condizioni ristrette, la proprietà può divenire un istituto di tal fatta, quindi “utile”.

Ecco allora spiegato in che senso il lavoro, in quanto rivelatosi utile, in quanto socialmente utile, può rivelarsi fondamento giustificativo della proprietà, sempre sulla base di un confronto interpersonale di utilità, sicché viene deciso che la proprietà è utile a garantire maggiori quote di produzione a vantaggio di tutti, piuttosto che lasciare la terra in una comunione brada (poi qui si aprirebbe la discussione sulla possibile efficienza di un common, così come argomentato dalla premio Nobel Elinor Ostrom); salvo che tale utilità non è presunta o acquisita una volta per tutte, ma è soggetta a costante riverifica, non solo attraverso i meccanismi del mercato, che possono rivelarsi come si è visto parziali, ma anche attraverso la discussione pubblica e la decisione democratica. L’”utilità” si staglia quindi come valore fondamentale, posto alla base della definizione dei regimi proprietari; fermo restando che, siccome l’utilità, come il piacere in Bentham, rappresenta concetto del tutto formale e cornice, poi con esso termine se vengono a esprimere le preferenze più diverse, anche non monetarie, in omaggio al motto di Nietzsche, per il quale “Voi utilitaristi, anche voi amate ogni utile  solo come veicolo delle vostre inclinazioni”, prima tra tutte un’altra inclinazione di tipo formale, che è quella libertaria.

Se questo è il regime morale, e quindi poi giuridico, dei beni esterni, tutt’altro discorso va fatto per i diritti personalissimi, per i diritti dell’habeas corpus e dell’integrità psico-fisica, che, a mio avviso, si stagliano supremi intangibili e infrangibili al vertice dell’ordinamento lessicografico, e quindi della gerarchia delle fonti in quanto diritti umani e fondamentali, ma soggetti a calcolo utilitaristico in chiave restrittiva, per la semplice ragione che, in tal caso, il calcolo utilitaristico si presume come già avvenuto a priori, di tal che l’utilità del diritto umano e fondamentale si presume iuris et de iure, non ammette prova contraria, oltre a essere intangibile esso in quanto correlato e conseguente immediatamente al principio-fonte suprema della dignità dell’essere umano, in quanto immediato interlocutore di Dio, indipendentemente da alcuna considerazione sul regime giuridico di suoi eventuali beni; vale a dire che il diritto relativo alla persona e al suo corpo è cosa ben diversa dal diritto che disciplina i beni esterni, cosa che certi libertarian non hanno mai compreso, dato che essi, posta una disciplina per il corpo, poi l’hanno estesa meccanicamente ai beni, in chiaro abuso logico, dato che nulla di razionale e persuasivo costringe a che, elaborato un certo regime morale sulla persona, poi tale regime morale debba estendersi fino a valere anche per le cravatte e i torni, e ancor peggio alla terra, a meno che non si dimostri uno stretto nesso di fatica personale tra la persona e le sue cravatte e i suoi torni, mentre la terra è fuori discussione, essendo comune per volontà diretta di Dio, oltre che per le ragioni libertarie che si sono illustrate; ma si tratta di un onere della prova che va soddisfatto, altrimenti, prima facie, tali beni materiali sottostanno al regime del giudizio di utilità, al quale sottostanno tutti i beni materiali esterni.

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