-->

mercoledì 19 aprile 2023

Principio di indennizzo di Kaldor-Hicks e libertà di migrazione (versione completa)

di Fabio Massimo Nicosia


La filosofia morale consiste in un’attività di ricerca intellettuale su ciò che è meglio per l’uomo. In una prospettiva religiosa, tale ricerca rappresenta un omaggio a Dio, al patto stipulato con lui in ordine al fatto che avremmo fatto del nostro meglio per onorarlo, in quanto egli stesso interessato a che noi si svolgesse tale attività, per le ragioni che vedremo più avanti, vale a dire che tale nostra attività va a vantaggio di lui stesso in quanto divinità davvero sinceramente interessata alle sorti dell’Uomo; a questo punto, ci si potrebbe chiedere se la ricerca delle soluzioni più vantaggiose per l’essere umano debbano avere di mira l’essere umano in quanto singolo, ovvero in quanto appartenente a un gruppo sociale, magari il gruppo sociale dell’umanità intera, facendo propria una logica, per la quale tra interessi e diritti del singolo e interessi e diritti del gruppo si possano venire a determinare delle antinomie e delle contrapposizioni, con la conseguenza che parlare di bene del singolo essere umano e di bene dell’umanità significherebbe parlare di due cose diverse, se non addirittura opposte.

 La scelta tra interesse pubblico e interesse individuale ci viene spesso proposta come una sorta di scelta a somma zero ed escludente, dato che viene proposta come una sorta di trolley problem, nel quale l’individuo viene trattato come il famoso “uomo grasso”, il quale meriterebbe di essere sacrificato, perché, dall’altra parte dei binari, si situa un “collettivo”, ossia cinque persone, tal per cui la quantità fa premio sull’eventuale qualità, in modo tale che “cinque” deve per forza valere più di “uno“; il che è un nonsenso, ad esempio se tra i cinque c’è qualcuno che odiamo, o di cui non ce ne frega nulla, mentre il grassone è persona che amiamo, ad esempio perché è nostro figlio. O magari anche solo perché tra i cinque ve ne sono di per nulla attaccati alla vita, mentre il grassone è attaccatissimo perché adora cibarsi, e allora sarà lui, e non i cinque, a subire il danno maggiore dall’esserne privato.

Invece, con riferimento all’universo politico-giuridico, è pur vero che vi sono conflitti, ma tra individui e tra gruppi, non mai tra un interesse individuale e un presunto interesse collettivo ipostatizzato, che sia qualcosa di diverso dalla sommatoria degli interessi e dei diritti individuali, salvo quanto preciserò più avanti; dimodoché l’interesse pubblico dovrebbe semmai consistere nel rispetto e nell’esaltazione di tutti i diritti individuali e non nel loro sacrificio, come se l’interesse pubblico non fosse una pura astrazione, ma qualcosa che si inverasse nel materiale, in quanto autonomo dagli invece davvero concreti interessi individuali.

Ovvero ancora, se pure una nozione autonoma di interesse pubblico potesse essere individuata, questa non potrebbe mai ignorare e contrapporsi agli interessi e ai diritti individuali, dato che questi prevalgono nell’ordinamento lessicografico e nella gerarchia delle fonti -in quanto diritti umani, diritti fondamentali della persona-, e quindi non è mai possibile che l’inferior possa prevalere sul superior, travestendosi esso, in quanto fictio, in superior, in ribaltamento di ogni logica dotata di senso.

In realtà, a ben vedere, in un’ottica utilitarista coerente, ossia libertaria e non autoritativa, il bene collettivo, pubblico o comune, escluso dunque che possa sacrificare interessi individuali, i quali meritano invece quantomeno la presa in considerazione nel calcolo di utilità, può essere inteso esclusivamente come momento “paretiano” di massimizzazione di tutti gli interessi individuali, sul presupposto che la cooperazione non sacrifica l’individuo, ma massimizza appunto la sua utilità, giacché ognuno si giova del supporto dell’altro: e allora, in tale chiave, l’interesse collettivo o comune non può che essere inteso che come un momento, nel quale ciascun interesse individuale, conciliandosi con l’interesse di ciascun altro individuo, guadagna dalla cooperazione, non perde dal fatto della coesistenza e della convivenza con gli altri: in altri termini, può dirsi perseguito un interesse comune solo quando ciascun membro della collettività o della comunità abbia guadagnato qualcosa dal fatto che si sia perseguito il bene comune: non che si spacci per “comune” l’interesse di alcuni, a discapito di quello di altri, i quali vengono sacrificati come individui, con il pretesto che si è perseguito il fasullo bene comune, che invece è solo l’interesse della parte più forte e menzognera; semmai, nell’estrema ipotesi che il perseguimento di un bene supposto “comune” finisca invece con il pregiudicare interessi rilevanti di una parte del gruppo, vorrà dire che la parte danneggiata o pregiudicata meriterà di essere compensata con un indennizzo, come meglio vedremo.

In realtà, il vero problema che si viene a determinare non è tanto quello dell’ipotetico conflitto tra “individuo” e “gruppo”, posto che il gruppo, dal punto di vista sensoriale, non ci appare se non come una sommatoria di individui, con la conseguenza che, a rigore, dovremmo perseguire il bene di ciascuno dei membri del gruppo; il problema vero che si pone è quindi semmai quello dei conflitti di interesse tra singoli esponenti del gruppo. In tal caso, quindi occorrerà una combinazione di strategie; anzitutto, dovremo disporre di un criterio, o di una serie o pacchetto di criteri, di soluzione delle antinomie tra interessi, e quindi potrebbe trattarsi di criteri aprioristici sulla nostra capacità di individuare, ad esempio, dei diritti individuali, tal per cui il conflitto sia risolvibile premiando chi sia titolare di quei diritti individuali, vale a dire categorie di interessi, che noi già a priori abbiamo stabilito di volere privilegiare, in quanto abbiamo già preventivamente stabilito trattarsi di interessi i più importanti e intangibili, se non infrangibili, almeno sul piano morale.

Ciò deriva quindi dalla cultura politica dell’operatore morale, vale a dire dalla sua inclinazione personale, tal per cui il libertario tenderà a favorire come preliminari nell’ordinamento lessicografico determinati tipi di pretesa, facendoli assurgere a diritti, e non altri, come ad esempio la pretesa di stabilire l’agenda di comportamento altrui, oltre che la personale propria, il che sarebbe proprio dell’inclinazione che abbiamo stabilito essere quella autoritaria; a meno che, operare intrusioni nell’agenda altrui non sia esattamente un modo per difenderci e tutelarci da autoritari, nel senso che l’agenda, nella quale abbiamo intenzione di interferire, sia quella autoritaria, di tal che il nostro comportamento deve intendersi come puramente difensivo, e quindi legittimo dal punto di vista della stessa inclinazione libertaria.

Un primo modo per risolvere conflitti tra individui nell’ambito di un gruppo è quindi rappresentato dalla pre-assegnazione di determinati diritti, tal per cui il bene conteso viene assegnato a chi abbiamo riconosciuto titolare del relativo diritto, e non all’altro.

Vi sono però due casi difficili da considerare, che, grosso modo, sono riconducibili ai seguenti:

a)     Nessuno dei soggetti in conflitto è chiaramente titolare di un diritto sopra un determinato bene della vita;

b)     Entrambi i soggetti in conflitto appaiono prima facie titolari di un diritto, tal per cui non è agevole stabilire a priori a chi il bene conteso debba essere assegnato.

Non risponde al vero, infatti, che, come risulterebbe dallo schema hohfeldiano, a fronte di un titolare di un diritto si debba necessariamente collocare il titolare di un obbligo, dato che può invece capitare che, a fronte del titolare di un diritto, si situi a propria volta un altro titolare di un diritto o, in genere, di diritti; ovvero ancora le situazioni morali possono risultare confuse e intrecciate, per cui in una relazione tra A e B si possono venire a intessere reti di diritti e di obblighi, per cui non v’è un chiaro assoggettato all’altro, di tal che il fascio di diritti vada interamente assegnato all’uno o all’altro; il che si direbbe la situazione normale tra esseri umani, a ognuno dei quali abbiamo prestabilito spettare dei diritti umani e fondamentali, essendo ciascun individuo di pari dignità di fronte all’altro.

A tale elemento di pari dignità tra gli esseri umani, corrisponde anche la pari assegnazione di quote sul mondo esterno, il che vale, sia seguendo la tradizione vetero-testamentaria, così come esplicitata da John Locke, per la quale “Dio ha assegnato la Terra in comune agli uomini”, sia seguendo altre tradizioni, magari di origine “pagana” in senso lato, vale a dire che la Terra sia un soggetto autonomo, che diviene possibile individuare come “Gaia”, di tal che si viene a instaurare una sorta di rapporto, morale e giuridico, o simil-morale e simil-giuridico, tra Gaia e gli uomini, sicché agli uomini compete l’assegnazione di una sorta di diritto di uso o di stazionamento sul Pianeta, ma, anche in tal caso, tale diritto di uso e di stazionamento non può che proporsi originariamente come identico uomo per uomo, così come identico convenzionalmente appare il diritto di ciascuno di procacciarsi le risorse naturali necessarie al proprio sostentamento, in quanto ciascuno titolare di un effettivo diritto immediato sulla propria quota di risorse naturali, diritto inalienabile, in quanto relativo a beni indispensabili per la sopravvivenza.

Su tale base perfettamente egualitaria, si vengono quindi a instaurare le ulteriori negoziazioni, là dove non si tratti di area riservata, in una fascia privilegiata nell’ordinamento lessicografico, per la rispettiva assegnazione di diritti; e in tale fase emerge la rilevanza dell’istituto monetario, giacché le negoziazioni, comportando il trasferimento di maggior diritto in capo a uno dei contraenti, richiede di necessità che l’altro sia indennizzato a fronte di quanto concede di maggior diritto in capo all’altro.

Il principio di indennizzo (di Kaldor-Hicks o altrimenti denominato), o di compensazione, ha un preciso fondamento morale, che si esprime nell’idea che qualsiasi scelta allocativa, sia essa effettuata dalle parti direttamente interessate, o, in ipotesi deteriore, da un terzo in quanto percepito o auto-percepito come “autorità”, non deve andare a discapito di nessuna delle parti interessate, pur quando il gioco si appalesi inizialmente come a somma zero e non a somma positiva, dato che, in tale ultimo caso, le parti convergerebbero senza difficoltà sul punto in grado di offrire la reciproca soddisfazione, laddove la situazione a somma zero è fonte di conflitto per il possesso di risorse virtualmente scarse, di tal che il principio di indennizzo funziona esattamente nel senso di ripagare, non con un premio di mera consolazione, lo sconfitto per la contesa per il conseguimento della risorsa scarsa: il principio di compensazione, in altri termini, serve ad assicurare che, nelle contese umane, individuali e sociali, non vi siano mai perdenti; pur consapevoli che in casi estremi come la morte o le lesioni gravi e permanenti nessun indennizzo potrà mai davvero compensare la perdita.

In ogni caso, il principio di compensazione o indennizzo è a sua volta riconducibile al principio fondamentale della pari dignità e, quindi, della titolarità da parte di ognuno di una quota di mondo, il che non può essere leso nemmeno in sede di negoziazione; tal per cui io posso rinunciare ad aspirare a un determinato bene, in quanto tu mi abbia persuaso che sta meglio in mani tue che in mani mie, anche perché tu lo apprezzi di più o lo puoi valorizzare meglio a vantaggio dell’intera comunità, solo a condizione che la mia rinuncia alla contesa sia compensata da quello che considero un pari valore rispetto a quanto sto rinunciando, pari valore da esprimersi in forma monetaria, di tal che anche il mio giudizio soggettivo possa trovare soddisfazione, ovviamente sempre nell’ambito dei rapporti di forza, per quanto io possa sempre fare appello in modo persuasivo all’equità nella compensazione; ovviamente, ragionando in termini squisitamente morali e non di autointeresse, la controparte sarebbe tenuta ad accettare di riconoscere all’altro il compenso, che essa stessa reputa “giusto”, ma non v’è modo evidentemente di coartare tale foro interno, se non disponendo noi a nostra volta di adeguata capacità negoziatrice, il conseguimento della quale viene quindi in definitiva ad assumere a propria volta un’autonoma valenza morale.

Detto in termini meno moralizzati e più tecnico-economici, il principio di indennizzo consente di simulare lo scambio, o di introdurlo dove inizialmente non c’è, trasformando il gioco a somma zero in un gioco win-win, in cui tutti vincono, o, quantomeno, limitano le perdite, ove l’indennizzo non sia pienamente satisfattivo, vale a dire inferiore rispetto al compenso, che fosse conseguito in una libera negoziazione.

Venendo al punto a) sopra ipotizzato, vale a dire quello di due contendenti a un bene, che quindi si propone qui come scarso o esclusivo, tale da non consentire la soddisfazione piena, attraverso esso bene, di entrambi i contendenti -e fermo restando che non si deve trattare di scarsità artificiosamente determinata: ad esempio, attraverso l’assegnazione monopolistica d’autorità di un bene immateriale, in ipotesi un marchio o un brevetto-, il punto di rilevanza morale dal quale prendere le mosse è che, in realtà, quel bene, se non è puro frutto dell’ingegno umano, ma ha a che fare con l’universo delle risorse naturali, esso bene appartiene ab origine, almeno virtualmente, a entrambi i contendenti; anzi, a rigore, appartiene all’intera umanità, la quale interamente andrebbe compensata, fatte salve le difficoltà pratiche, sicché in questo caso prendiamo in esame la sola ipotesi che un soggetto sconfitto meriti egli solo compensazione indennitaria, quale premio per essersi auto-selezionato nella contesa per il conseguimento del bene.

In tal caso si determina un’aspettativa, la cui coltivazione comporta comunque dei costi di investimento, ragione di più per legittimare una pretesa indennitaria in caso di soccombenza; immaginiamo, ad esempio, che due individui stiano competendo duramente per l’appropriazione di un tesoro, e che uno, diciamo in modo corretto, vale a dire non disseminando il percorso dell’altro di insidie in malafede, o “sgomitando” fattivamente, riesca a giungere primo sul luogo del tesoro e se ne appropri: ebbene, mia impressione è che l’altro non meriti di rimanere esclusivamente con un palmo di naso, ma, in un’ottica pienamente morale e, diciamo pure, di sensibilità religiosa, visto il contesto nel quale in questo momento sto operando, quindi una sensibilità improntata al principio di solidarietà, meriti a propria volta un compenso a carattere, come ho già sottolineato, non meramente consolatorio o di mera riparazione dei costi sopportati, anche perché il vincitore, anche non appropriandosi interamente di quanto scoperto, mantiene comunque l’aura morale del “vincitore”, il che è comunque spendibile come moneta sociale, quindi il beneficio dell’essere arrivato primo non viene a cadere, pur in presenza di una almeno parziale divisione del beneficio materiale.

Facciamo inoltre l’ipotesi classica della negoziazione coaseana, da Ronald Coase, attraverso la quale assegnare determinati diritti, ad esempio il diritto del vicino di casa di ascoltare musica ad alto volume, rispetto alla contrapposta pretesa dell’altro vicino di non essere disturbato dalla musica ad alto volume dell’altro: in un caso del genere, quale che sia la soluzione accolta, qualcuno resterà sacrificato in qualcuna delle proprie aspettative, e quindi subentrerà l’aspettativa subordinata ad essere indennizzato per l’avvenuto sacrificio dell’aspettativa principale. Va però notato come, in un caso del genere, il tipo di diritto in ballo non rappresenti un apriori, ma emerga costitutivamente all’atto in cui una delle parti lo metta sul tavolo come rilevante, laddove tra altre controparti esso potrebbe rappresentare una facoltà del tutto irrilevante, nemmeno emergente in una negoziazione, in quanto non sia di interesse per alcuna delle parti: quasi a dire che il novero dei diritti non costituisce un numerus clausus, ma sia la negoziazione degli interessi rilevanti a farli emergere sul campo.

In altri termini, ponendo il caso che si decida di assegnare al soggetto che intende ascoltare la musica il diritto di farlo, si tratterà di ripartire i costi della coibentazione del muro divisorio, in modo tale da attutire l’impatto della musica e renderlo non pregiudizievole per l’altro; oppure si potrà imporre a chi intende ascoltare la musica di farlo esclusivamente attraverso cuffie, per quanto tale soluzione non sia ottimale, se tale individuo trae soddisfazione esattamente dalla diffusione della musica attraverso le stanze. Per equità, dovrebbe ritenersi che, o chi ottiene il diritto ad ascoltare la musica ad alto volume indennizzi l’altro per il disturbo, oppure che si assuma per intero i costi di una coibentazione efficace.

Venendo invece al punto b), a me viene in mente la delicata questione della migrazione da paese a paese. Posto che, come ovvio, i confini sono arbitrari, e quindi ragioniamo in una logica di divisione del mondo in Stati, dobbiamo pur riconoscere che tale divisione corrisponde tuttora a un’esigenza che esprime profili di giustizia: vale a dire la convinzione che un unico pervasivo Stato mondiale sia una soluzione peggiore dell’altra. In ogni caso, se pure non esistesse la divisione del mondo in Stati, potrebbero comunque esistere altre divisioni territoriali, fino alla semplice proprietà, per cui si porrebbe comunque il problema di disciplinare gli spostamenti significativi di persone, i quali non avvengano in spazi destinati a essere “pubblici” in modo incondizionato. Del resto, se i flussi sono estremamente abbondanti, non saranno divieti sulla carta o la cartellonistica stradale a interromperli; si tratta però di individuare uno statuto morale del tema, nel quale parrebbero fronteggiarsi almeno due diritti, entrambi meritevoli di presa in considerazione

Tornando quindi al punto della migrazione, o, visto dall’altro punto di vista, dell’immigrazione, si tratta di vicenda piena di risvolti e sfaccettature, e probabilmente non sarò in grado di coglierle tutte in modo pienamente convincente; emergono comunque a tale proposito una serie di elementi, anche contraddittori, o comunque di segno divergente, tra i quali individuo qui:

- la configurabilità di un diritto di migrare inteso come diritto di circolazione per il mondo, dato che, se noi assumiamo che l’essere umano è, in linea di principio, comunista del mondo, egli dovrà pur potersi muovere per la sua vasta comproprietà; vero è però anche che noi ammettiamo che la Terra sia suddivisa, non per intero, stante la necessità di parti comuni in atto, in usufrutti individuali, quindi sempre in linea generale non si dovrebbero poter attraversare detti usufrutti a piacere; per quanto si possa sempre immaginare la configurabilità di un diritto di passaggio: di passaggio, però, non di occupazione di spazi già occupati da altri;

- la configurabilità di un diritto a recarsi dove si ritiene di potere vivere meglio: se una persona vive in una zona depressa, o soggetta a guerre e persecuzioni, del mondo, incontra uno stato di necessità, accanto a quello di libertà comunque nella circolazione, che gli fornisce un fondamento di legittimazione a recarsi dove valuta di potere stare meglio, ossia di migliorare le proprie condizioni e il proprio tenore di vita;

- la configurabilità dell’ipotesi che il trasferimento del migrante altrove possa andare a vantaggio degli stessi popoli di destinazione, ad esempio alla luce di determinate esigenze del mercato del lavoro, o anche di esigenze, da alcuni sentite, di arricchimento del proprio bagaglio culturale dal punto di vista etnico, vale a dire introduzione di nuovi costumi, di nuove tecniche culinarie, etc.

- la configurabilità però anche dell’ipotesi che l’ultimo punto, dal punto di vista soggettivo, sia percepito come foriero di esternalità negative e non positive.

Noi possiamo immaginare una nazione, dato che le nazioni esistono nel nostro mondo e non possiamo fare finta di nulla, come una sorta di comunità, non certamente perfettamente volontaria, ma comunque non priva di elementi volontaristici, che non ne fanno una comunità ermeticamente “chiusa”, ma che comunque esprime degli elementi di autosufficienza, e comunque di omogeneità culturale, tale per cui un eccesso di immigrazione può essere percepito come una minaccia.

Possiamo dire, in casi come questi, che al diritto di spostarsi corrisponde il diritto a respingere lo spostamento, tanto più alla luce del principio per il quale all’incremento quantitativo di un fenomeno corrisponde un suo salto qualitativo, con la conseguenza di mutare di denominazione, per cui si passa dallo spostamento individuale o turistico all’immigrazione massiva vera e propria.

Ecco allora che, in un caso come questo, a fronte di un diritto si situa, non certo l’obbligo di soddisfare quel diritto, ma un altro diritto, di segno opposto, volto a negare effettività al primo diritto preteso; e ciò per una ragione molto importante, vale a dire che il diritto di migrare è individuale, salvo che la migrazione poi nei fatti rappresenta un fenomeno collettivo, dato che il diritto individuale viene esercitato collettivamente; per “collettivamente”, intendo qui dire che molte persone esercitano lo stesso diritto nella stessa unità di tempo nello stesso luogo, il che comporta un evidente problema di congestionamento degli spazi pubblici; ecco allora le ragioni della sua gravità (nel senso che un grave pesa), e quindi della configurabilità di aperti conflitti a fronte del suo esercizio.

Anche qui il principio di indennizzo e di compensazione può giocare un suo ruolo importante, salvo la delicatezza di dovere stabilire, nelle diverse situazioni, chi debba compensare chi, alla luce dell’intrinseca flessibilità dell’istituto indennitario, nel senso di promuovere incentivi o disinicentivi: possono giocare qui, dunque, diversi principi, come il fallo pagare per farlo entrare, o il pagalo per non farlo entrare, o ancora, fallo entrare a condizione che…, vale a dire che fornisca un contributo produttivo alla comunità di approdo, naturalmente senza alcuna forma di sfruttamento nei suoi confronti -anche per evitare concorrenza al ribasso, dumping, tra proletari-, pena, in caso contrario, l’allontanamento, dato che, in questo caso, prevarrebbe il diritto dei residenti su quello del migrante dannoso o emulativo, il quale quindi perderebbe il proprio diritto a recarsi specificamente in quel luogo.

Il criterio “Fallo entrare a condizione che…” può essere considerato una variante del “Fallo pagare per farlo entrare”, e può essere concettualmente ricondotto all’idea che un diritto, come anzitutto nel caso del diritto di proprietà -e in un certo senso qualsiasi diritto rappresenta un diritto di proprietà, vale a dire che, di regola, incorpora un agere licere con riferimento a una condotta-tipo-, può essere suddiviso, o scisso, in una pluralità di facoltà, ciascuna delle quali autonomamente negoziabile; e così, nel caso dell’accesso in un paese di un migrante, il suo “diritto di spostarsi” può includere l’eventualità che almeno alcune delle facoltà connesse con quel diritto possano essere negoziate, alienate o abbandonate -res derelictae-, di tal che il diritto di approdo viene condizionato all’assunzione di determinati obblighi di condotta, sicché il diritto stesso può venire affievolito, come nel caso dell’interesse legittimo: il diritto pieno di spostarsi trasmuterebbe così nell’interesse legittimo di spostarsi, in quanto diritto condizionato all’assunzione di determinati oneri di carattere latamente indennitario, connessi e conseguenti al fatto che si giunge in un luogo non libero, ma già occupato da altri, ed è quindi con questi “altri”, i residenti, che occorre fare i conti, o con una negoziazione, o attraverso una regolamentazione in grado di conciliare gli opposti diritti; sicché questi, gli opposti diritti, non vengono affatto a cadere, né l’uno, né l’altro; semplicemente incontrano un momento di ponderazione e limitazione, che ne consenta la convivenza. Il criterio “Pagalo per non farlo entrare” potrebbe, a sua volta, significare in particolare adottare forme di intervento finanziario favorevoli per i residenti di quei paesi, come è agevole comprendere.

Dal punto di vista della teoria generale, che può rilevare non poco ai fini più ampi del presente lavoro, anche se sembra allontanarci, ma forse no, dal tema della migrazione, è se tra le facoltà, le quali concorrono a costituire il fascio che fa di un diritto soggettivo un diritto soggettivo pieno, che siano però anche negoziabili, alienabili o rinunciabili, vi sia l’esercizio della forza connesso all’esercizio di un diritto di proprietà e, più in generale, di un diritto qualsivoglia, posto che abbiamo anche visto che lo stesso diritto umano incorpora la facoltà dell’autotutela, e che anzi è proprio in questa facoltà che il diritto umano e fondamentale più si sostanzia, senza di che esso sarebbe mero flatus vocis; con la cosiddetta vicenda pandemica, abbiamo visto d’altra parte come il diritto umano e fondamentale sia stato onerato di condizioni talmente stringenti, da potersi dire sacrificato, posto che quegli oneri slittavano pericolosamente nella direzione di diventare veri e propri obblighi.

In ogni caso, torniamo al nostro punto: può il titolare di un diritto di proprietà, latamente inteso, quindi di un diritto soggettivo qualsivoglia, alienare la specifica facoltà “uso della forza in autotutela”? A tutta prima si direbbe di no, stante che tale “facoltà” si direbbe invece sostanziare il diritto soggettivo, e quindi non sarebbe da esso scindibile, neanche previo compenso o indennizzo; e tuttavia, vogliamo lanciare il cuore oltre l’ostacolo, e ipotizzare che l’esercizio della forza, connesso con l’esercizio di un diritto soggettivo, o addirittura fondante rispetto a esso, possa essere rinunciabile e abbandonabile -ancora, res derelicta-, in quanto il titolare del diritto abbia di questo una concezione del tutto nonviolenta, e quindi sia disposto a subire le perdite, conseguenti alla rinuncia all’esercizio della forza, in quanto ritiene di compensarle, dal punto di vista soggettivo, attraverso la rivendicazione del carattere nonviolento del proprio diritto e delle modalità della sua affermazione e salvaguardia: ciò si inserisce con tutta evidenza nell’ambito di una concezione del tutto spirituale del diritto stesso, salvo poi opinare in vario modo sull’efficacia di tale opzione, opinabilità che però viene di fatto a cadere, nel momento in cui tale scelta sia intesa come scelta personalissima del soggetto, e quindi in definitiva come insindacabile.

 

Nessun commento:

Posta un commento