di Fabio Massimo Nicosia
La filosofia morale consiste in un’attività di ricerca intellettuale su ciò che è meglio per l’uomo. In una prospettiva religiosa, tale ricerca rappresenta un omaggio a Dio, al patto stipulato con lui in ordine al fatto che avremmo fatto del nostro meglio per onorarlo, in quanto egli stesso interessato a che noi si svolgesse tale attività, per le ragioni che vedremo più avanti, vale a dire che tale nostra attività va a vantaggio di lui stesso in quanto divinità davvero sinceramente interessata alle sorti dell’Uomo; a questo punto, ci si potrebbe chiedere se la ricerca delle soluzioni più vantaggiose per l’essere umano debbano avere di mira l’essere umano in quanto singolo, ovvero in quanto appartenente a un gruppo sociale, magari il gruppo sociale dell’umanità intera, facendo propria una logica, per la quale tra interessi e diritti del singolo e interessi e diritti del gruppo si possano venire a determinare delle antinomie e delle contrapposizioni, con la conseguenza che parlare di bene del singolo essere umano e di bene dell’umanità significherebbe parlare di due cose diverse, se non addirittura opposte.
Invece,
con riferimento all’universo politico-giuridico, è pur vero che vi sono
conflitti, ma tra individui e tra gruppi, non mai tra un interesse individuale
e un presunto interesse collettivo ipostatizzato, che sia qualcosa di diverso
dalla sommatoria degli interessi e dei diritti individuali, salvo quanto
preciserò più avanti; dimodoché l’interesse pubblico dovrebbe semmai consistere
nel rispetto e nell’esaltazione di tutti i diritti individuali e non nel loro
sacrificio, come se l’interesse pubblico non fosse una pura astrazione, ma
qualcosa che si inverasse nel materiale, in quanto autonomo dagli invece
davvero concreti interessi individuali.
Ovvero
ancora, se pure una nozione autonoma di interesse pubblico potesse essere
individuata, questa non potrebbe mai ignorare e contrapporsi agli interessi e
ai diritti individuali, dato che questi prevalgono nell’ordinamento
lessicografico e nella gerarchia delle fonti -in quanto diritti umani, diritti
fondamentali della persona-, e quindi non è mai possibile che l’inferior
possa prevalere sul superior, travestendosi esso, in quanto fictio,
in superior, in ribaltamento di ogni logica dotata di senso.
In
realtà, a ben vedere, in un’ottica utilitarista coerente, ossia libertaria e
non autoritativa, il bene collettivo, pubblico o comune, escluso dunque che
possa sacrificare interessi individuali, i quali meritano invece quantomeno la
presa in considerazione nel calcolo di utilità, può essere inteso
esclusivamente come momento “paretiano” di massimizzazione di tutti gli
interessi individuali, sul presupposto che la cooperazione non sacrifica
l’individuo, ma massimizza appunto la sua utilità, giacché ognuno si giova del
supporto dell’altro: e allora, in tale chiave, l’interesse collettivo o comune
non può che essere inteso che come un momento, nel quale ciascun interesse
individuale, conciliandosi con l’interesse di ciascun altro individuo, guadagna
dalla cooperazione, non perde dal fatto della coesistenza e della convivenza
con gli altri: in altri termini, può dirsi perseguito un interesse comune solo
quando ciascun membro della collettività o della comunità abbia guadagnato
qualcosa dal fatto che si sia perseguito il bene comune: non che si spacci
per “comune” l’interesse di alcuni, a discapito di quello di altri, i quali
vengono sacrificati come individui, con il pretesto che si è perseguito il
fasullo bene comune, che invece è solo l’interesse della parte più forte e
menzognera; semmai, nell’estrema ipotesi che il perseguimento di un bene
supposto “comune” finisca invece con il pregiudicare interessi rilevanti di una
parte del gruppo, vorrà dire che la parte danneggiata o pregiudicata meriterà
di essere compensata con un indennizzo, come meglio vedremo.
In realtà, il vero problema che si viene a determinare non è tanto quello
dell’ipotetico conflitto tra “individuo” e “gruppo”, posto che il gruppo, dal
punto di vista sensoriale, non ci appare se non come una sommatoria di
individui, con la conseguenza che, a rigore, dovremmo perseguire il bene di
ciascuno dei membri del gruppo; il problema vero che si pone è quindi semmai
quello dei conflitti di interesse tra singoli esponenti del gruppo.
In tal caso, quindi occorrerà una combinazione di strategie; anzitutto, dovremo
disporre di un criterio, o di una serie o pacchetto di criteri, di soluzione
delle antinomie tra interessi, e quindi potrebbe trattarsi di criteri aprioristici
sulla nostra capacità di individuare, ad esempio, dei diritti individuali,
tal per cui il conflitto sia risolvibile premiando chi sia titolare di quei
diritti individuali, vale a dire categorie di interessi, che noi già a priori
abbiamo stabilito di volere privilegiare, in quanto abbiamo già preventivamente
stabilito trattarsi di interessi i più importanti e intangibili, se non
infrangibili, almeno sul piano morale.
Ciò deriva quindi dalla cultura politica dell’operatore morale, vale
a dire dalla sua inclinazione personale, tal per cui il libertario tenderà a
favorire come preliminari nell’ordinamento lessicografico determinati tipi di
pretesa, facendoli assurgere a diritti, e non altri, come ad esempio la pretesa
di stabilire l’agenda di comportamento altrui, oltre che la personale propria,
il che sarebbe proprio dell’inclinazione che abbiamo stabilito essere quella
autoritaria; a meno che, operare intrusioni nell’agenda altrui non sia
esattamente un modo per difenderci e tutelarci da autoritari, nel senso che
l’agenda, nella quale abbiamo intenzione di interferire, sia quella autoritaria,
di tal che il nostro comportamento deve intendersi come puramente difensivo, e
quindi legittimo dal punto di vista della stessa inclinazione libertaria.
Un primo modo per risolvere conflitti tra individui nell’ambito di un
gruppo è quindi rappresentato dalla pre-assegnazione di determinati diritti,
tal per cui il bene conteso viene assegnato a chi abbiamo riconosciuto titolare
del relativo diritto, e non all’altro.
Vi sono però due casi difficili da considerare, che, grosso modo, sono
riconducibili ai seguenti:
a) Nessuno dei soggetti
in conflitto è chiaramente titolare di un diritto sopra un determinato bene
della vita;
b) Entrambi i soggetti in
conflitto appaiono prima facie titolari di un diritto, tal per cui non è
agevole stabilire a priori a chi il bene conteso debba essere assegnato.
Non risponde al vero, infatti, che, come risulterebbe dallo schema
hohfeldiano, a fronte di un titolare di un diritto si debba necessariamente
collocare il titolare di un obbligo, dato che può invece capitare che, a fronte
del titolare di un diritto, si situi a propria volta un altro titolare di un
diritto o, in genere, di diritti; ovvero ancora le situazioni morali possono
risultare confuse e intrecciate, per cui in una relazione tra A e B si possono
venire a intessere reti di diritti e di obblighi, per cui non v’è un chiaro
assoggettato all’altro, di tal che il fascio di diritti vada interamente
assegnato all’uno o all’altro; il che si direbbe la situazione normale tra
esseri umani, a ognuno dei quali abbiamo prestabilito spettare dei diritti
umani e fondamentali, essendo ciascun individuo di pari dignità
di fronte all’altro.
A tale elemento di pari dignità tra gli esseri umani, corrisponde anche la
pari assegnazione di quote sul mondo esterno, il che vale, sia seguendo la
tradizione vetero-testamentaria, così come esplicitata da John Locke, per la
quale “Dio ha assegnato la Terra in comune agli uomini”, sia seguendo altre
tradizioni, magari di origine “pagana” in senso lato, vale a dire che la Terra
sia un soggetto autonomo, che diviene possibile individuare come “Gaia”, di tal
che si viene a instaurare una sorta di rapporto, morale e giuridico, o
simil-morale e simil-giuridico, tra Gaia e gli uomini, sicché agli uomini
compete l’assegnazione di una sorta di diritto di uso o di stazionamento sul
Pianeta, ma, anche in tal caso, tale diritto di uso e di stazionamento non può
che proporsi originariamente come identico uomo per uomo, così come identico
convenzionalmente appare il diritto di ciascuno di procacciarsi le risorse
naturali necessarie al proprio sostentamento, in quanto ciascuno titolare di un
effettivo diritto immediato sulla propria quota di risorse naturali, diritto
inalienabile, in quanto relativo a beni indispensabili per la sopravvivenza.
Su tale base perfettamente egualitaria, si vengono quindi a instaurare le
ulteriori negoziazioni, là dove non si tratti di area riservata, in una fascia
privilegiata nell’ordinamento lessicografico, per la rispettiva assegnazione di
diritti; e in tale fase emerge la rilevanza dell’istituto monetario, giacché le
negoziazioni, comportando il trasferimento di maggior diritto in capo a uno dei
contraenti, richiede di necessità che l’altro sia indennizzato a fronte di
quanto concede di maggior diritto in capo all’altro.
Il principio di indennizzo (di Kaldor-Hicks o altrimenti denominato), o di
compensazione, ha un preciso fondamento morale, che si esprime nell’idea che
qualsiasi scelta allocativa, sia essa effettuata dalle parti direttamente
interessate, o, in ipotesi deteriore, da un terzo in quanto percepito o
auto-percepito come “autorità”, non deve andare a discapito di nessuna delle parti
interessate, pur quando il gioco si appalesi inizialmente come a somma zero e
non a somma positiva, dato che, in tale ultimo caso, le parti convergerebbero
senza difficoltà sul punto in grado di offrire la reciproca soddisfazione,
laddove la situazione a somma zero è fonte di conflitto per il possesso di
risorse virtualmente scarse, di tal che il principio di indennizzo funziona
esattamente nel senso di ripagare, non con un premio di mera consolazione, lo
sconfitto per la contesa per il conseguimento della risorsa scarsa: il
principio di compensazione, in altri termini, serve ad assicurare che, nelle
contese umane, individuali e sociali, non vi siano mai perdenti; pur
consapevoli che in casi estremi come la morte o le lesioni gravi e permanenti
nessun indennizzo potrà mai davvero compensare la perdita.
In ogni caso, il principio di compensazione o indennizzo è a sua volta
riconducibile al principio fondamentale della pari dignità e, quindi, della
titolarità da parte di ognuno di una quota di mondo, il che non può essere leso
nemmeno in sede di negoziazione; tal per cui io posso rinunciare ad aspirare a
un determinato bene, in quanto tu mi abbia persuaso che sta meglio in mani tue
che in mani mie, anche perché tu lo apprezzi di più o lo puoi valorizzare meglio
a vantaggio dell’intera comunità, solo a condizione che la mia rinuncia alla
contesa sia compensata da quello che considero un pari valore rispetto a quanto
sto rinunciando, pari valore da esprimersi in forma monetaria, di tal che anche
il mio giudizio soggettivo possa trovare soddisfazione, ovviamente sempre
nell’ambito dei rapporti di forza, per quanto io possa sempre fare appello in
modo persuasivo all’equità nella compensazione; ovviamente, ragionando in
termini squisitamente morali e non di autointeresse, la controparte sarebbe
tenuta ad accettare di riconoscere all’altro il compenso, che essa stessa
reputa “giusto”, ma non v’è modo evidentemente di coartare tale foro interno,
se non disponendo noi a nostra volta di adeguata capacità negoziatrice, il
conseguimento della quale viene quindi in definitiva ad assumere a propria
volta un’autonoma valenza morale.
Detto in termini meno moralizzati e più tecnico-economici, il principio di
indennizzo consente di simulare lo scambio, o di introdurlo dove inizialmente
non c’è, trasformando il gioco a somma zero in un gioco win-win, in cui
tutti vincono, o, quantomeno, limitano le perdite, ove l’indennizzo non sia
pienamente satisfattivo, vale a dire inferiore rispetto al compenso, che fosse
conseguito in una libera negoziazione.
Venendo al punto a) sopra ipotizzato, vale a dire quello di due contendenti
a un bene, che quindi si propone qui come scarso o esclusivo, tale da non
consentire la soddisfazione piena, attraverso esso bene, di entrambi i
contendenti -e fermo restando che non si deve trattare di scarsità
artificiosamente determinata: ad esempio, attraverso l’assegnazione
monopolistica d’autorità di un bene immateriale, in ipotesi un marchio o un
brevetto-, il punto di rilevanza morale dal quale prendere le mosse è che, in
realtà, quel bene, se non è puro frutto dell’ingegno umano, ma ha a che fare
con l’universo delle risorse naturali, esso bene appartiene ab origine,
almeno virtualmente, a entrambi i contendenti; anzi, a rigore, appartiene
all’intera umanità, la quale interamente andrebbe compensata, fatte salve le
difficoltà pratiche, sicché in questo caso prendiamo in esame la sola ipotesi
che un soggetto sconfitto meriti egli solo compensazione indennitaria, quale
premio per essersi auto-selezionato nella contesa per il conseguimento del
bene.
In tal caso si determina un’aspettativa, la cui coltivazione
comporta comunque dei costi di investimento, ragione di più per legittimare una
pretesa indennitaria in caso di soccombenza; immaginiamo, ad esempio, che due
individui stiano competendo duramente per l’appropriazione di un tesoro, e che
uno, diciamo in modo corretto, vale a dire non disseminando il percorso
dell’altro di insidie in malafede, o “sgomitando” fattivamente, riesca a
giungere primo sul luogo del tesoro e se ne appropri: ebbene, mia impressione è
che l’altro non meriti di rimanere esclusivamente con un palmo di naso, ma, in
un’ottica pienamente morale e, diciamo pure, di sensibilità religiosa, visto il
contesto nel quale in questo momento sto operando, quindi una sensibilità
improntata al principio di solidarietà, meriti a propria volta un compenso a
carattere, come ho già sottolineato, non meramente consolatorio o di mera
riparazione dei costi sopportati, anche perché il vincitore, anche non
appropriandosi interamente di quanto scoperto, mantiene comunque l’aura morale
del “vincitore”, il che è comunque spendibile come moneta sociale, quindi il
beneficio dell’essere arrivato primo non viene a cadere, pur in presenza di una
almeno parziale divisione del beneficio materiale.
Facciamo inoltre l’ipotesi classica della negoziazione coaseana, da Ronald
Coase, attraverso la quale assegnare determinati diritti, ad esempio il diritto
del vicino di casa di ascoltare musica ad alto volume, rispetto alla
contrapposta pretesa dell’altro vicino di non essere disturbato dalla musica ad
alto volume dell’altro: in un caso del genere, quale che sia la soluzione
accolta, qualcuno resterà sacrificato in qualcuna delle proprie aspettative, e
quindi subentrerà l’aspettativa subordinata ad essere indennizzato per
l’avvenuto sacrificio dell’aspettativa principale. Va però notato come, in un
caso del genere, il tipo di diritto in ballo non rappresenti un apriori, ma
emerga costitutivamente all’atto in cui una delle parti lo metta sul tavolo
come rilevante, laddove tra altre controparti esso potrebbe rappresentare una
facoltà del tutto irrilevante, nemmeno emergente in una negoziazione, in quanto
non sia di interesse per alcuna delle parti: quasi a dire che il novero dei
diritti non costituisce un numerus clausus, ma sia la negoziazione degli
interessi rilevanti a farli emergere sul campo.
In altri termini, ponendo il caso che si decida di assegnare al soggetto
che intende ascoltare la musica il diritto di farlo, si tratterà di ripartire i
costi della coibentazione del muro divisorio, in modo tale da attutire
l’impatto della musica e renderlo non pregiudizievole per l’altro; oppure si
potrà imporre a chi intende ascoltare la musica di farlo esclusivamente
attraverso cuffie, per quanto tale soluzione non sia ottimale, se tale
individuo trae soddisfazione esattamente dalla diffusione della musica
attraverso le stanze. Per equità, dovrebbe ritenersi che, o chi ottiene il
diritto ad ascoltare la musica ad alto volume indennizzi l’altro per il
disturbo, oppure che si assuma per intero i costi di una coibentazione
efficace.
Venendo invece al punto b), a me viene in mente la delicata questione della
migrazione da paese a paese. Posto che, come ovvio, i confini sono arbitrari, e
quindi ragioniamo in una logica di divisione del mondo in Stati, dobbiamo pur
riconoscere che tale divisione corrisponde tuttora a un’esigenza che esprime
profili di giustizia: vale a dire la convinzione che un unico pervasivo Stato
mondiale sia una soluzione peggiore dell’altra. In ogni caso, se pure non
esistesse la divisione del mondo in Stati, potrebbero comunque esistere altre
divisioni territoriali, fino alla semplice proprietà, per cui si porrebbe
comunque il problema di disciplinare gli spostamenti significativi di persone,
i quali non avvengano in spazi destinati a essere “pubblici” in modo
incondizionato. Del resto, se i flussi sono estremamente abbondanti, non
saranno divieti sulla carta o la cartellonistica stradale a interromperli; si
tratta però di individuare uno statuto morale del tema, nel quale parrebbero
fronteggiarsi almeno due diritti, entrambi meritevoli di presa in
considerazione
Tornando quindi al punto della migrazione, o, visto dall’altro punto di
vista, dell’immigrazione, si tratta di vicenda piena di risvolti e
sfaccettature, e probabilmente non sarò in grado di coglierle tutte in modo
pienamente convincente; emergono comunque a tale proposito una serie di
elementi, anche contraddittori, o comunque di segno divergente, tra i quali
individuo qui:
- la configurabilità di un diritto di migrare inteso come diritto di
circolazione per il mondo, dato che, se noi assumiamo che l’essere umano è,
in linea di principio, comunista del mondo, egli dovrà pur potersi
muovere per la sua vasta comproprietà; vero è però anche che noi ammettiamo che
la Terra sia suddivisa, non per intero, stante la necessità di parti comuni in
atto, in usufrutti individuali, quindi sempre in linea generale non si
dovrebbero poter attraversare detti usufrutti a piacere; per quanto si possa
sempre immaginare la configurabilità di un diritto di passaggio: di passaggio,
però, non di occupazione di spazi già occupati da altri;
- la configurabilità di un diritto a recarsi dove si ritiene di potere
vivere meglio: se una persona vive in una zona depressa, o soggetta a
guerre e persecuzioni, del mondo, incontra uno stato di necessità, accanto a
quello di libertà comunque nella circolazione, che gli fornisce un fondamento
di legittimazione a recarsi dove valuta di potere stare meglio, ossia di
migliorare le proprie condizioni e il proprio tenore di vita;
- la configurabilità dell’ipotesi che il trasferimento del migrante
altrove possa andare a vantaggio degli stessi popoli di destinazione, ad
esempio alla luce di determinate esigenze del mercato del lavoro, o anche di
esigenze, da alcuni sentite, di arricchimento del proprio bagaglio culturale
dal punto di vista etnico, vale a dire introduzione di nuovi costumi, di nuove
tecniche culinarie, etc.
- la configurabilità però anche dell’ipotesi che l’ultimo punto, dal punto
di vista soggettivo, sia percepito come foriero di esternalità negative e non
positive.
Noi possiamo immaginare una nazione, dato che le nazioni esistono nel
nostro mondo e non possiamo fare finta di nulla, come una sorta di comunità,
non certamente perfettamente volontaria, ma comunque non priva di elementi
volontaristici, che non ne fanno una comunità ermeticamente “chiusa”, ma che
comunque esprime degli elementi di autosufficienza, e comunque di omogeneità
culturale, tale per cui un eccesso di immigrazione può essere percepito come
una minaccia.
Possiamo dire, in casi come questi, che al diritto di spostarsi
corrisponde il diritto a respingere lo spostamento, tanto più alla luce del
principio per il quale all’incremento quantitativo di un fenomeno corrisponde
un suo salto qualitativo, con la conseguenza di mutare di denominazione, per
cui si passa dallo spostamento individuale o turistico all’immigrazione massiva
vera e propria.
Ecco allora che, in un caso come questo, a fronte di un diritto si
situa, non certo l’obbligo di soddisfare quel diritto, ma un altro diritto, di
segno opposto, volto a negare effettività al primo diritto preteso; e ciò
per una ragione molto importante, vale a dire che il diritto di migrare è
individuale, salvo che la migrazione poi nei fatti rappresenta un fenomeno
collettivo, dato che il diritto individuale viene esercitato collettivamente;
per “collettivamente”, intendo qui dire che molte persone esercitano lo stesso
diritto nella stessa unità di tempo nello stesso luogo, il che comporta un
evidente problema di congestionamento degli spazi pubblici; ecco allora
le ragioni della sua gravità (nel senso che un grave pesa), e quindi della
configurabilità di aperti conflitti a fronte del suo esercizio.
Anche qui il principio di indennizzo e di compensazione può giocare un suo
ruolo importante, salvo la delicatezza di dovere stabilire, nelle diverse
situazioni, chi debba compensare chi, alla luce dell’intrinseca flessibilità
dell’istituto indennitario, nel senso di promuovere incentivi o disinicentivi: possono
giocare qui, dunque, diversi principi, come il fallo pagare per farlo
entrare, o il pagalo per non farlo entrare, o ancora, fallo
entrare a condizione che…, vale a dire che fornisca un contributo
produttivo alla comunità di approdo, naturalmente senza alcuna forma di
sfruttamento nei suoi confronti -anche per evitare concorrenza al ribasso, dumping,
tra proletari-, pena, in caso contrario, l’allontanamento, dato che, in questo
caso, prevarrebbe il diritto dei residenti su quello del migrante dannoso o
emulativo, il quale quindi perderebbe il proprio diritto a recarsi
specificamente in quel luogo.
Il criterio “Fallo entrare a condizione che…” può essere considerato
una variante del “Fallo pagare per farlo entrare”, e può essere
concettualmente ricondotto all’idea che un diritto, come anzitutto nel caso del
diritto di proprietà -e in un certo senso qualsiasi diritto rappresenta un
diritto di proprietà, vale a dire che, di regola, incorpora un agere licere
con riferimento a una condotta-tipo-, può essere suddiviso, o scisso, in una
pluralità di facoltà, ciascuna delle quali autonomamente negoziabile; e così,
nel caso dell’accesso in un paese di un migrante, il suo “diritto di spostarsi”
può includere l’eventualità che almeno alcune delle facoltà connesse con quel
diritto possano essere negoziate, alienate o abbandonate -res derelictae-,
di tal che il diritto di approdo viene condizionato all’assunzione di
determinati obblighi di condotta, sicché il diritto stesso può venire
affievolito, come nel caso dell’interesse legittimo: il diritto pieno di
spostarsi trasmuterebbe così nell’interesse legittimo di spostarsi, in quanto
diritto condizionato all’assunzione di determinati oneri di carattere latamente
indennitario, connessi e conseguenti al fatto che si giunge in un luogo non
libero, ma già occupato da altri, ed è quindi con questi “altri”, i residenti,
che occorre fare i conti, o con una negoziazione, o attraverso una
regolamentazione in grado di conciliare gli opposti diritti; sicché questi, gli
opposti diritti, non vengono affatto a cadere, né l’uno, né l’altro;
semplicemente incontrano un momento di ponderazione e limitazione, che ne
consenta la convivenza. Il criterio “Pagalo per non farlo entrare”
potrebbe, a sua volta, significare in particolare adottare forme di intervento
finanziario favorevoli per i residenti di quei paesi, come è agevole
comprendere.
Dal punto di vista della teoria generale, che può rilevare non poco ai fini
più ampi del presente lavoro, anche se sembra allontanarci, ma forse no, dal
tema della migrazione, è se tra le facoltà, le quali concorrono a costituire il
fascio che fa di un diritto soggettivo un diritto soggettivo pieno, che siano
però anche negoziabili, alienabili o rinunciabili, vi sia l’esercizio della
forza connesso all’esercizio di un diritto di proprietà e, più in generale, di
un diritto qualsivoglia, posto che abbiamo anche visto che lo stesso diritto
umano incorpora la facoltà dell’autotutela, e che anzi è proprio in questa
facoltà che il diritto umano e fondamentale più si sostanzia, senza di che esso
sarebbe mero flatus vocis; con la cosiddetta vicenda pandemica, abbiamo
visto d’altra parte come il diritto umano e fondamentale sia stato onerato di
condizioni talmente stringenti, da potersi dire sacrificato, posto che quegli
oneri slittavano pericolosamente nella direzione di diventare veri e propri
obblighi.
In ogni caso, torniamo al nostro punto: può il titolare di un diritto di
proprietà, latamente inteso, quindi di un diritto soggettivo qualsivoglia,
alienare la specifica facoltà “uso della forza in autotutela”? A tutta prima si
direbbe di no, stante che tale “facoltà” si direbbe invece sostanziare
il diritto soggettivo, e quindi non sarebbe da esso scindibile, neanche previo
compenso o indennizzo; e tuttavia, vogliamo lanciare il cuore oltre l’ostacolo,
e ipotizzare che l’esercizio della forza, connesso con l’esercizio di un
diritto soggettivo, o addirittura fondante rispetto a esso, possa essere
rinunciabile e abbandonabile -ancora, res derelicta-, in quanto il
titolare del diritto abbia di questo una concezione del tutto nonviolenta, e
quindi sia disposto a subire le perdite, conseguenti alla rinuncia all’esercizio
della forza, in quanto ritiene di compensarle, dal punto di vista soggettivo,
attraverso la rivendicazione del carattere nonviolento del proprio diritto e
delle modalità della sua affermazione e salvaguardia: ciò si inserisce con
tutta evidenza nell’ambito di una concezione del tutto spirituale del diritto
stesso, salvo poi opinare in vario modo sull’efficacia di tale opzione,
opinabilità che però viene di fatto a cadere, nel momento in cui tale scelta
sia intesa come scelta personalissima del soggetto, e quindi in definitiva come
insindacabile.
Nessun commento:
Posta un commento