di Fabio Massimo Nicosia
Defunto politicamente, anche se non statutariamente, il PR degli anni ’70, quello dei “diritti civili”, nasce tra il 1979 e il 1980 un altro PR dalla fisionomia molto meno precisa e tutta da costruire, fondata su diritto e giustizia, tendenzialmente nella direzione dei “diritti umani”, ossia qualcosa di alquanto diverso rispetto ai “diritti civili” della fase antecedente.
Pannella
dunque scopre improvvisamente un tema fin lì squisitamente parrocchiale, la “fame
nel mondo”, anzi, come dice lui, lo “sterminio per fame nel mondo”, anzi, lo “sterminio
per fame e per guerra”, e quindi si alza un bel po’ il tiro rispetto al
passato. Non estranea alla scelta è stata la vicenda dell’aborto, per
ammissione esplicita congressuale dello stesso Pannella: siccome, raccontò il
leader, gli scrivevano le vecchiette per dargli dell’assassino, lui cercò anche
questa sorta di riscatto morale, mostrandosi attivatore della vita e non della
morte, anche perché certe foto di Emma Bonino che ridacchia con la pompa della
bicicletta in mano davanti a due gambe di donna spalancate non rappresentavano
esattamente un bel vedere, e anzi evocava scenari di tipo “satanista”.
La “battaglia
contro lo sterminio per fame e per guerra nel mondo” non produsse un granché,
anzi, a mio avviso fu deleteria sul piano pratico, dato che tutto ciò che ne
scaturì fu un sottosegretariato per l’economista socialista Francesco Forte,
acciocché realizzasse strade e infrastrutture in Africa a benefizio dei soliti
noti costruttori e cementificatori, questa volta su scala internazionale, comunque
relativamente quattro soldi; Pannella insisteva sulla necessità di “interventi
straordinari”, in aggiunta a quelli ordinari della cooperazione allo sviluppo,
ma gli esiti furono quelli, ossia del tutto deludenti.
In ogni caso, il tema non fu mai seriamente
approfondito in ambito pannelliano, veicolandosi questa concezione
sostanzialmente assistenzialista, pur se Pannella lo negava, non esistendo da
parte radicale alcun piano di sviluppo economico complessivo dell’affascinante
continente africano, e in effetti sarebbe stato troppo pretendere; in effetti,
da quelle parti, la situazione tuttora è ben lungi dall’essere rosea, di fronte
allo sfruttamento multinazionale delle preziosissime risorse naturali del
popolo africano, il quale nulla ne ricava, venendone indotto alla migrazione.
Del resto, come notò ancora il politologo Giorgio Galli, all’epoca indicato
come appartenente all’area radical-socialista, il tema fame nel mondo era
tipico dell’Internazionale Socialista di Willy Brandt, e quindi non si poteva
dubitare della razionalità e della laicità dell’iniziativa di Pannella, la
quale si espresse in buona sostanza nella raccolta di numerosissime
sottoscrizioni di premi Nobel a un manifesto-appello alquanto retorico vergato
da Pannella medesimo.
Se
quindi gli effetti politici della “battaglia” furono scarsi, più rilevanti mi
appaiono quelli culturali, soprattutto nell’ambito dell’evoluzione del pensiero
pannelliano in funzione della determinazione della fisionomia del mondo
radicale italiano; intendo dire che, per l’occasione, Pannella scrisse un
ambiziosissimo “Preambolo allo statuto” del Partito Radicale, che, per alcuni
suoi accenti ritenuti eccessivamente mistici, lasciò perplessi numerosi
esponenti radicali storici, i quali pure rimanevano devoti a Pannella (penso ad
esempio a Lorenzo Strik Lievers).
Si
leggevano (e si legge) infatti in tale “preambolo”, approvato al congresso radicale
del 9 marzo 1980 (io c’ero), proposizioni di questo tipo, non sempre
immediatamente intellegibili, se non si conoscono molto bene, tanto il dibattito
interno radicale, quanto alcune idiosincrasie di Pannella, nonché i suoi tic linguistici
e le sue ossessioni, non sempre sviluppate con linearità nel tempo: “Il Partito Radicale proclama il
diritto e la legge, diritto e legge anche politici del Partito Radicale,
proclama nel loro rispetto la fonte insuperabile
di legittimità delle istituzioni,
proclama il dovere alla disobbedienza, alla
non-collaborazione, alla obiezione di coscienza, alle supreme forme di lotta
nonviolenta per la difesa, con la vita, della vita, del diritto, della legge.
Richiama se stesso, ed ogni persona che voglia
sperare nella vita e nella pace, nella giustizia e nella libertà, allo stretto
rispetto, all’attiva difesa di due leggi fondamentali quali: La Dichiarazione
dei Diritti dell’Uomo (auspicando che l’intitolazione venga mutata in “Diritti
della Persona”) e la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo nonché delle
Costituzioni degli Stati che rispettino i principi contenuti nelle due carte;
al rifiuto dell’obbedienza e del riconoscimento di legittimità, invece, per
chiunque le violi, chiunque non le applichi, chiunque le riduca a verbose
dichiarazioni meramente ordinatorie, cioè a non-leggi. Dichiara di
conferire all’imperativo del “non uccidere” valore di legge storicamente
assoluta, senza eccezioni, nemmeno quella della legittima difesa”.
La cosa divertente è, a parte
Pannella, nessun radicale di mia conoscenza si è mai mostrato, in un dibattito
pubblico, in grado di discutere con serietà e profondità tali concetti, che
sono stati recepiti in buona parte acriticamente e passivamente, senza nemmeno
venire pienamente compresi, in quanto un po’ troppo dati per scontati, così
come molte volte si recepivano “le cose” di Pannella con sufficienza e non
prendendole troppo sul serio, ossia così come si accetta che un nonno scemo
possa dire le cose tipiche del nonno scemo, senza però darvi troppo peso.
Perché, in effetti, che cosa
significa fare propri politicamente “il diritto e la legge”, senza precisare
subito che “diritto e legge” potrebbero anche essere “diritto e legge” di
merda? E infatti poi si precisa che si deve rimanere però sempre nell’ambito
del rispetto delle carte di tutela dei diritti fondamentali. E tuttavia si
intravede qui il problema che ha sempre accompagnato le iniziative nonviolente
di disobbedienza civile, che, indipendentemente dalla loro desiderabilità
specifica, non sempre è stato chiaro come venissero fondate concettualmente,
ossia su quali basi di filosofia del diritto e della giustizia; potrà sembrare
una questione di lana caprina o per specialisti, quindi irrilevante
politicamente, e invece vedremo come essa abbia inciso profondamente sulla forma
mentis dei radicali, concorrendo, per responsabilità primaria dello stesso
Pannella, di quella che considero la degenerazione della politica radicale nei
decenni successivi.
Il punto che, nella prassi radicale,
la disobbedienza civile veniva praticata non in nome di astratti principi
superiori, ma, veniva detto, in nome del rispetto della legge, ma, questa è la
questione, non sempre del rispetto di una legge superiore -quella
appunto riconducibile alle carte fondamentali dei diritti-, ma anche del
rispetto di una legge qualsiasi, quando non di un regolamento o di una
circolare, come pure è accaduto.
Pannella aveva l’esigenza politica, che
si suppone astuta, di mostrarsi moderato, legalitario, rispettoso delle
istituzioni, anche più realista del re, il che può anche rappresentare una
tattica brillante, ossia prospettare come classica una proposta dirompente; tuttavia
emergono gravi problemi, perché se l’intento di Pannella era di ricollegare
ogni sua iniziativa a una qualche “legge”, che si potesse invocare, a sostegno
dell’iniziativa, in quanto la legge sia supposta come “violata dal potere”, vi
sono stati infiniti casi in cui ciò non era possibile, e tuttavia si
continuava, con una certa fissazione spesso fastidiosa, a invocare la legge
inesistente a supporto della propria iniziativa.
Per esempio, quando si è proposta la
“disobbedienza civile” sull’aborto, o quando Pannella ha fumalo lo spinello in
pubblico nel 1975 per ottenere la depenalizzazione del consumo, quale “legge”
potevano mai invocare a proprio sostegno? Il fatto è che Pannella intendeva
prendere le distanze da ogni giusnaturalismo -salvo poi in una fase rivendicare
un “diritto naturale storicamente acquisito”, che è davvero un bel concetto-, e
quindi trovava seccante affermare che disobbediva in nome di non si sa bene
quale bene astratto superiore: riteneva più efficace farlo in nome dell’invocazione
della legge, salvo che spesso tale legge non esisteva affatto. Quindi, se io mi
batto per depenalizzare aborto e fumo di spinello lo farò evidentemente in nome
di qualcosa d’altro che non è la “legge”, non esistendo alcuna legge superiore
vigente che imponesse di legalizzare aborto e spinello. Se simili leggi formali
superiori non esistono, in nome di che cosa il radicale dovrebbe proporre le
proprie iniziative e battaglie? Evidentemente in nome di un principio non
scritto, che sarà molto probabilmente il principio di libertà della persona, o
magari altre volte più esattamente il principio di dignità, ed entrambi in
effetti sono riconducibili a carte internazionali sui diritti fondamentali, le
quali pure non si esprimano specificamente su aborto e spinelli, ma si resta
nell’ambito dell’opinabile interpretativo.
Ancorare una battaglia
necessariamente al rispetto di una legge diventa così una distorsione culturale,
una fissazione formalistica, perché parrebbe che, in assenza di una legge da
invocare, io la mia battaglia di principio in nome della libertà o della
dignità non la possa compiutamente condurre; e allora abbiamo avuto casi di
radicali (un nome per tutti, lo scomparso Lucio Bertè) che digiunavano per il
rispetto di non si sa quale stolida circolare o legge regionale, rinforzando
burocratismo, formalismo e sadduceismo mentale invece di combatterli,
sacralizzando ed elevando al rango di feticcio norme che non lo meritano
affatto, per il solo fatto di essere “scritte”: sicché, per evitare di
incorrere in giusnaturalismo, si finisce con l’incorrere in legalismo etico,
ossia in qualcosa di molto peggiore. Tale atteggiamento ha portato via via alla
perdita, in ambito radicale, di un autentico spirito libertario, per passare a
una nuova strana forma di “statalismo”, e ciò anzitutto proprio in Pannella,
pur se all’ultimo colsi qualche segno di resipiscenza.
Si badi peraltro che il “preambolo
allo statuto” il termine “Stato” lo ignora totalmente, il che lasciava ben
sperare: si parla, infatti, null’affatto di “Stato”, ma di diritto e legge
(molto meglio) e, ancora, di carte internazionali di tutela dei diritti umani,
carte che vanno contro lo Stato molto più che a favore, dato che gli Stati,
come si sa, sono i primi a violare i diritti umani. E tuttavia, successivamente,
nella prassi radicale, forse ancor più che pannelliana, a onor del vero, è
invalsa ossessiva la locuzione “Stato di diritto”, o “stato di diritto” con la
minuscola, senza alcuna cognizione precisa di che cosa la locuzione stessa
significasse, salvo che ciò ha favorito l’affermarsi di tesi sempre più statalistiche
in ambito radicale.
Perché l’espressione “stato di
diritto” può essere anche intesa in due modi diversi, per certi versi opposti,
ma i radicali, in genere carenti sul piano culturale, ostentando indifferenza
per tutto ciò che riguarda le questioni teoriche -salvo che poi, trascurandole,
si è finito con il procurare gravi danni pratici-, non hanno mai sciolto con
chiarezza il dilemma. E infatti può intendersi con quella espressione il
corrispondente del tedesco Staatsrecht, ovvero il corrispondente dell’anglo-americano
Rule of Law, e non si tratta certo dello stesso concetto: mentre
il primo evoca l’idea di uno Stato legislatore, che fa tutte le leggi che
vuole, anche le più stupide, in quanto suprema fonte del diritto, il secondo ci
racconta di un governo intrinsecamente limitato da una legge superiore, che è
in buona parte consuetudinaria e giurisprudenziale, ispirata a principi
superiori non modificabili dal legislatore: il primo esprime l’idea di legge
uguale per tutti, che è abominio, l’altro l’idea di eguaglianza di fronte alla
legge, che è libertà; dato che la semplice “legge uguale per tutti” può
significare anche autorizzare lo Stato a imporre a tutti la stessa cravatta –o
lo stesso green pass-, mentre l’”uguaglianza di fronte alla legge”
esprime l’idea di un limite posto alla legge stessa.
Quello che i radicali
non hanno mai compreso è che l’idea di “Stato
di diritto” come da loro intesa e praticata, ossia invocando sempre la
benevolenza del governante e del legislatore, è fallace, dato che pretende che
il diritto posto da chi governa limiti chi governa, il che è un assurdo logico:
se io sono fonte della legge che posso modificare, non sono vincolato dalla
legge che posso modificare, dato che posso modificarla a piacere mio, sia pure
nei limiti costituzionali; e tuttavia posso sempre modificare anche la
costituzione, sicché è “Stato di diritto” anche quello che fa fuori la propria
costituzione, sia pure nell’apparente rispetto di determinate procedure: il che
quindi comporta, come dicevo sopra, che la legge non può essere giustificazione
ultima di una battaglia politica, rendendosi sempre invece necessario invocare
un principio superiore alla legge, si tratti della libertà, della dignità della
persona, o di altra ideologia piaccia e si preferisca: vale a dire che la
battaglia politica radicale avrebbe dovuto ancorarsi a una precisa filosofia
politica, salva l’assenza completa, in quell’ambito, di una elaborazione
simile.
Inoltre,
il governante, oltre a potere modificare la legge, la può impunemente violare
in sede di arcana imperii, e quindi anche sotto tale profilo il diritto
dello Stato di diritto non limita affatto il potere dello Stato di darsi il
diritto che vuole e ritiene più opportuno in nome della ragion di Stato. Non
può esserci poi stato di diritto, se non ci sono contrappesi; si dirà che i
contrappesi sono rappresentati dai poteri divisi della divisione dei poteri, e
tuttavia tale impostazione denota la cattiva lettura di Montesquieu, o
incompleta, del sistema inglese, che non prevedeva poteri divisi a tavolino -che
in realtà poi si costituiscono in cartello, in un’intesa orizzontale
moltiplicatrice dei reciproci poteri-, ma un equilibrio spontaneo tra
giurisdizione e corona, che non era stabilita a tavolino attraverso una
preventiva spartizione/moltiplicazione dei poteri, ma era frutto della storia. Se,
quindi, per aversi “diritto” e non abuso di dominio, occorre contrappeso,
occorre che il contrappeso sia fuori dallo Stato di diritto, ossia occorre
calare lo Stato (di diritto o meno) all’interno della teoria della concorrenza,
sicché lo Stato viene controbilanciato perché ammette competitors nelle
proprie funzioni, e, in base alle funzioni, si determinerà la dimensione di
scala ottimale dell’istituzione di riferimento.
Finché
lo Stato sarà monopolista della forza e delle qualificazioni di legittimità sul
territorio, esso sarà poco distinguibile, proprio dal punto di vista tecnico,
da una mafia vera e propria, solo molto più intrusiva e grande sul territorio,
sul quale costruisce l’”omertà” dei cittadini che lo sostengono passivamente. Se
invece si entra nell’ordine di idee, conforme del resto al diritto comunitario
europeo, che lo Stato deve essere impresa di servizi tra imprese di servizi,
allora lo Stato cessa di essere tale, e allora avremo davvero concorrenza tra
istituzioni (Laski), e lo Stato dovrà meritarsi il consenso proponendosi come
soggetto compresente con gli altri, solo in grado di svolgere alcune funzioni
che altri non hanno la dimensione di scala per potere svolgere. A questo punto,
non si tratterebbe più di uno “Stato”, ma di qualcosa di molto diverso,
destinato ad essere riassorbito dal mercato e dalla comunità: solo in tal caso,
allora, potremmo parlare di bilanciamento dei poteri, dato che i poteri, per
bilanciarsi reciprocamente, devono appartenere a soggetti diversi –principio antitrust
applicato allo Stato- e non concentrarsi fittiziamente nello stesso soggetto,
come avviene nella grande mistificazione della divisione dei poteri (che, come
diceva Benjamin Constant, è moltiplicazione dei poteri), che in realtà è
cartello stabilizzato dalla legge dei diversi poteri autoritari.
Il fatto è che i radicali non hanno
osato giungere, negli anni tra gli ottanta e fino alla morte di Pannella, a
simili esiti libertari, perdendo una grande occasione di rinnovamento, giacché
il “preambolo” segna anche la sepoltura del Pannella “anarchico” degli anni ’70;
quello che parlava spesso di “deperimento del potere”, che scriveva di volere
ripudiare ogni occupazione del potere stesso, che andava, nel 1972, al congresso
della Federazione Anarchica Italiana dichiarando strategicamente la volontà dei
radicali di sciogliersi nel movimento anarchico, quello che con gli anarchici
conduceva le marce antimilitariste. A quel Pannella anarchico se ne sostituisce
un altro “liberale” molto meno accattivante e spesso pedante e tardivo; c’è
però un aspetto singolare, che merita di essere sottolineato: ai congressi
radicali degli anni ’70, la locuzione “Stato di diritto” (titolo attribuito, in
quel momento, dagli Editori Riuniti, quindi dal PCI, a una raccolta di saggi
politici di Immanuel Kant) non
veniva praticamente mai invocata; essa venne invece rilanciata, in quegli
anni, da ambienti di estrema sinistra: la cosa non sorprenda, si trattava
infatti sempre di una chiave “difensiva”, per cui quell’espressione iniziò
sempre più spesso a essere utilizzata con vezzo da esponenti dell’Autonomia
Operaia come risposta alla repressione da loro subita da parte dei magistrati del
PCI, per ribadire la loro analisi.
Solo dopo iniziò a essere
ripetuta come un mantra in ambito radicale, fino a giungere, da parte dello stesso
Pannella, a veri e propri
strafalcioni culturali, sui quali mi soffermo, perché sono alla base poi anche
di quanto qui ci interessa sul piano della più generale degenerazione culturale
in senso statalistico e autoritario, proprio nel momento stesso in cui essa
dichiara di voler essere “liberale”, dell’intera sinistra, che è il tema che mi
interessa ai fini di questo lavoro: ossia ancora una volta i radicali sono all’avanguardia,
questa volta nelle cose malvage, ossia nel senso di volgere il “liberalismo dei
diritti” in “liberalismo degli obblighi” e del vituperato “bene comune”.
Lo strafalcione più grave si presenta
quando i radicali, e poi altri, chiedono di “legalizzare” attività che sono già
libere! Ossia, non l’aborto e la droga quando sono vietati, ma altro che
la legge non vieta, e però, chissà perché, i radicali sentono pressante l’esigenza
di una loro disciplina normativa, il che appare loro molto “liberale”, mentre è
solo espressione di una cultura statalista, che ti saresti aspettato da socialdemocratici
o comunisti, ma non da loro. Qui emergono i limiti culturali di Pannella, come
quando si convinse, ripetendolo ossessivamente, che “tutto
deve essere legalizzato”, senza rendersi esattamente conto di che cosa ciò
poi comporti nella pratica, ossia aumentare l’oppressione da parte dello Stato
invece di ridurla.
Premesso
che il cosiddetto principio di legalità liberale comporta che
la costituzione e la legge imbriglino il potere, sia pure riuscendoci poco, e
non il cittadino, che invece è imbrigliato dalla selva normativa inestricabile,
dire che una cosa è “legale” può significare due cose molto diverse: a) o
che è un tuo diritto compiere un’azione (agere licere), per cui si può
compiere direttamente un'azione senza renderne conto a nessuno: in questo caso “legale”
è sinonimo di legittimo nel senso di “lecito”, e quindi di libero; b) o che
la legge disciplina, “regolamenta” una qualche attività, salvo che i limiti
della regolamentazione possono essere i più vari: un libertario si batte per
ampliare il novero delle attività indicate in a), non delle attività indicate
in b). Ma tanto meno si batte perché le attività indicate in a) passino in b)!
Ad
esempio, grattarsi il naso rientra nelle attività sub) a: il rischio grosso è
che i fautori impazziti del “legalizziamo tutto” vogliano trasportare il
grattarsi il naso da a) a b), il che comporta l’introduzione di tutta una serie
di vincoli da evitare, se “legalizzare” significa introdurre tutta una serie di
regole burocratiche e poliziesche assolutamente non necessarie. Esempio
eclatante è il caso della prostituzione, o se si preferisce del sex work,
attualmente tutto sommato libera, visto che non è reato né prostituirsi, né
fruirne, che vari progetti di legge di folle “legalizzazione” assoggettano a
regole assurde, compresa l’iscrizione delle prostitute all'albo delle Asl, con
conseguente marchio di infamia: con l'ulteriore conseguenza che, visto che
prostituzione significa scambiare sesso con qualche utilità, una signora o
signorina (vale ovviamente anche per i maschi), la quale accetti di fornire una
prestazione sessuale in concomitanza con l’offerta di cena, o borsetta o paio
di scarpe, verrà punita dallo Stato “legalizzatore” con sanzioni di carattere
misto morale-giuridico. Per evitare questo, alcune proposte limitano tali
adempimenti al prostituto “professionale”, con ciò introducendo questo
ulteriore marchio d’infamia, e discriminando tra persone sulla base di un’assurda
etichetta che lo Stato ti impone.
Ma non è finita. Francesco Rutelli, notoriamente già
radicale e a suo tempo favorito di Pannella, propose di rendere obbligatorio
nel rapporto sessuale a pagamento l’uso del preservativo! Ora, si sa che i
politici parlano spesso per fare prendere aria alla bocca, ma prevedere un
obbligo significa introdurre controlli e sanzioni; con la conseguenza che
dovremmo immaginare l’ingresso forzoso di forze dell’ordine nei luoghi dove
avvengono rapporti sessuali a pagamento -che poi che cosa ne sai che è a
pagamento, finché non cogli l’atto del pagare-, per verificare sotto le coperte
se il preservativo sia ivi situato o no!
Per comprendere gli assurdi logici, ai quali questo
genere di forma mentis ha condotto, basti pensare a come un militante
radicale propose qualche anno fa a un congresso di pronunciarsi a favore dell’abolizione
dell’uso del contante (proposta per inciso assurda, posto che il contante è la
moneta legale per definizione, e quindi non si comprende come possa essere
vietato l’uso della moneta legale per definizione, a favore dell’emissione di
crediti-debiti bancari privati, quali sono quelli espressi da una carta di
credito); ebbene, il simpatico esponente radicale propose il seguente
ragionamento totalmente contorto: siccome il contante consente l’esercizio di
attività oggi illegali (per fortuna), noi aboliamo il contante, in modo tale
che lo Stato “si senta costretto” a legalizzare attività illegali o ai limiti
della legalità come commercio di stupefacenti e prostituzione!
Vale a dire che costui pensava, limitando delle
libertà, di costringere poi lo Stato a ripristinare quelle libertà, però
diminuite, sotto forma di loro regolamentazione da parte dello Stato stesso, in
modo che il loro esercizio sia poi reso trasparente alla tua banca e agli
organi pubblici, in quanto chiaramente risultanti dall’estratto conto bancario:
come si vede, la mentalità distorta e contorta del “legalizziamo tutto” ha
condotto i radicali a lavorare per il Re di Prussia, finendo con il proporre di
rinforzare poteri pubblici e privati, invece di combatterli come dovrebbe
essere nella loro vocazione. Ma questo poi lo si è visto molto bene nella
vicenda della cosiddetta pandemia, che ha visto i radicali totalmente proni
alle proposte di Draghi e Speranza ed entusiasti di fronte al controllo
digitale del green pass: si vede che questa dei controlli digitali è diventata
la loro nuova vocazione, in senso diametralmente opposto a quella che è sempre
stata la cultura radicale dei decenni lontani.
Concludendo
sulla questione del “Preambolo allo statuto”, non si può infine lasciare sotto
silenzio la fuga in avanti pannelliana sul fatto che il precetto nobile del “non
uccidere” debba nientedimeno diventare “legge storicamente assoluta, senza
eccezioni”, nemmeno quella della legittima difesa, affermazione che già allora
lasciò perplessi diversi radicali. In effetti, accanto alla legittima difesa
esiste lo stato di necessità; ma a parte tale puntualizzazione, io non mi sento
di avallare la messa fuorilegge del tirannicidio, ad esempio; ma occorre anche
considerare come i radicali, Pannella per primo, abbiano fatto carne di porco
di tale grave presa di posizione in occasione di tutte le “esportazioni della
democrazia” amerikane, fino all’attuale questione Ucraina, che vede i radicali
stessi schierati tra gli entusiasti esportatori di armi. Il che contrassegna
ormai puramente e semplicemente la fine dell’esperienza radicale come la
conoscemmo: sipario.
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