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sabato 12 novembre 2022

“Socialismo sentimentale” tra libertarismo e marxismo

 di Fabio Massimo Nicosia

 

Sono sempre stato restio, nei miei lavori, a utilizzare il termine “socialismo” per definire le mie proposte; anzi, credo di non averlo fatto mai, pur quando le proposte fossero particolarmente spinte, o pur quando citavo autori del mondo socialista, in particolare pre-marxiano o anarchico; e non l’ho fatto, sia perché considero il termine poco tecnico, sia perché per molti esso è evocativo di scenari illiberali, e non era mia intenzione aprire un fronte di polemica lessicale con questo tipo di lettori.

Nondimeno, ho spesso però anche criticato l’abitudine invalsa di considerare il termine “socialismo” un sinonimo di “statalismo”, abito conseguente al fatto che il libro “Socialismo” di Mises tratta del sistema economico sovietico pianificatorio del “socialismo reale”, identificando di fatto i due concetti (ossia ravvisando nel “socialismo” un modello che non conosce il sistema dei prezzi), tal per cui grande parte dei liberali, liberisti, libertarian anarco-capitalisti, con i quali entriamo in contatto, poi distribuiscono la patente di “socialista” a destra e a manca, a chiunque sia ritenuto colpevole di “statalismo”, tal per cui poi finiscono con l’essere considerati “socialisti” Meloni, Berlusconi, Letta, Macron, Von der Leyen, in un discorso del tutto privo di senso, in cui il significato profondo del termine “socialista” viene totalmente smarrito; quindi, non solo viene definita statalista qualsiasi forma di socialismo, ma viene definito, il che è ancor peggio, “socialismo” qualsiasi forma di statalismo, sfuggendo così le peculiarità, ossia ad esempio che oggi in Europa il neo-capitalismo vede fare la pace tra neo-liberisti e post-keynesiani, in un nome di una ristrutturazione capitalistica, digitale e green, fondata sulla spesa pubblica, il che non ha nulla a anche fare con alcun tipo di socialismo, a meno di non precisare che anche sostenere il capitalismo a spese del contribuente viene a inserirsi nella storia del pensiero socialista.

E infatti, in questi miei ragionamenti, io sono influenzato dal fatto di avere letto fin dagli anni dell’adolescenza proprio la “Storia del pensiero socialista” del Cole, in cui almeno i primi due volumi sono dedicati a socialisti del tutto antistatalisti, gli Owen, i Fourier, i Proudhon, ma anche i Warren e i Tucker, per cui sono propenso a considerare lo statalismo del socialismo un accidente, e non una necessità, della storia, legata soprattutto al prevalere del marxismo all’interno del movimento operaio, nonché del prevalere, in particolare, di un certo modo di intendere il marxismo.

V’è poi un’altra considerazione da fare; ossia che, essendomi sempre ritenuto soprattutto un libertario, anche i miei contenuti di maggiore carattere, diciamo così, sociale, sono sempre stati da me fondati su ragionamenti condotti in nome del principio del primato della libertà, tal per cui potevo proporre la riforma più avanzata in senso “egualitario”, senza mai necessità di scomodare il termine “socialismo”, apparendomi sempre sufficiente il richiamo al principio di libertà, ossia di “eguale libertà”; ad esempio, quando io sostengo che la Terra va considerata originariamente res communis omnium, affermo ciò non rimarcando l’aspetto egualitario di tale affermazione, ma quello libertario, vale a dire la negazione della legittimazione in capo a chicchessia a impormi coercizione, e quindi a limitare unilateralmente la mia disponibilità di suolo, proponendo come alternativa la soluzione negoziata e consensuale: il che è tanto libertario, quanto egualitario, nel senso del riconoscere a ognuno pari capacità giuridica e normativa, ma, soprattutto, mette in luce la capacità della libertà di fornire anche i prodotti relativi alla sicurezza e alla protezione sociale, per quanto in un senso diverso rispetto agli anarco-capitalisti; in effetti, una volta che l’appropriazione comporti risarcimento o indennizzo in capo a chi subisce danno da questa limitazione ai suoi diritti sulla terra, è evidente che tale necessità di tenere indenne il danneggiato si estende a tutti i vantaggi ulteriormente conseguiti dall’appropriatore attraverso gli incrementi di valore di quanto appropriato, ma questo è un altro modo per dire che il terzo è una sorta di compartecipe ai beni e alle attività dell’appropriatore: in altri termini, da un’esigenza di libertà (risarcirne le lesioni) deriva ancora una volta un elemento che potrebbe essere definito socialista, se non addirittura comunista.

D’altra parte, avendo io riconnesso l’operatività dei principi libertari alla presenza, in capo alla persona, di quella che ho chiamato “inclinazione libertaria” -vale a dire il non voler né coartare, né essere coartato-, ho sottolineato altresì come di questa siano elementi i caratteri dell’empatia e della reciprocità, per quanto non è escluso che si possa fondare quell’inclinazione anche sulla mera indifferenza non aggressiva; e tuttavia, anche in tal caso, il principio di reciprocità opera de plano, dato che, in sua assenza, ammetteremmo le imposizioni unilaterali, e quindi staremmo fuoriuscendo dalla nostra definizione di “libertario”.

Vale a dire che la reciprocità può fondarsi sul sentimento, oppure sulla mera ragione, e però in entrambi i casi opera come una guida, sia pure ideale, alle condotte poste in essere nel mercato, giacché ne verrebbero escluse quelle meramente o tendenzialmente predatorie, unilaterali, o puramente strategiche e sfornite di buona fede; certo, in un caso come questo, siamo ben lontani dal mercato così com’è nella realtà, e allora ci troviamo poi nei fatti a farci avvocati di un sistema fortemente alternativo al capitalismo reale, con la conseguenza che saranno i difensori di questo, a questo punto, a imputarci di essere “socialisti”.

Una cosa è però pacifica tra i contendenti: che la mano invisibile smithiana non è sufficiente a creare un ambiente morale, dato che la propensione a fare il proprio interesse facendo al contempo quello dell’altro produce esiti molto limitati, tant’è che poi Adam Smith deve scrivere un libro a parte, per spiegare che nelle relazioni umane non basta il reciproco interesse, ma occorre anche la benevolenza: non è chiaro se come elemento costitutivo del mercato, o a parte di esso e in aggiunta a esso, ma comunque questa benedetta benevolenza pare proprio necessaria a una buona società, non bastando all’uopo il mero scambio interessato, sia pure in un’ottica win-win.

E allora mi sovviene il fatto che il padre del liberalismo, John Locke, andava addirittura oltre, non accontentandosi della sola benevolenza, ma invocando la carità: non solo, invocava la carità come diritto da parte del povero, vale a dire dotava il principio cristiano di cogenza giuridica, facendone così nei fatti un elemento del suo sistema politico, quanto ai fondamenti di legittimazione della proprietà privata, assieme al famoso lockean proviso, in forza del quale ogni appropriazione unilaterale deve residuare agli altri altrettanta terra e altrettanto buona, pena risarcimento del danno, aggiungiamo noi moderni.

Ora, nel momento in cui la carità, da mero atto facoltativo, muta in diritto del destinatario, si trasforma anche l’intero sistema sociale di riferimento, che non può più essere ridotto a liberalismo e a proprietarismo, per divenire qualcosa di altro e di più.

Noi, nella nostra vita, intratteniamo sostanzialmente tre tipi di rapporto umano, necessario, casuale e volontario; necessario come nel caso dei rapporti con i nostri genitori e familiari, casuale nella più parte dei casi, dato che non scegliamo i nostri coevi accompagnatori nel mondo, volontari ogni qualvolta si tratti invece di scelte effettive di amore, di amicizia, di affinità o di altro. Ebbene, per quanto resti valido il principio di Hume, per il quale l’affetto diminuisce mano mano che ci si allontani dal proprio nucleo stretto di rapporti, è proprio l’esperienza della vita a dirci che, in ogni caso, al di là di troppo fredde e astratte teorizzazioni liberali, per le quali basterebbe la “non benevolenza” del birraio smithiano a regolare validamente e con efficienza collettiva ogni rapporto, una certa dose di carità è necessaria nei rapporti umani; ma non in quanto essa sia dovuta sulla carta da parte nostra, ma in quanto essa si riveli effettivamente necessaria a noi per i nostri momenti di difficoltà e di sofferenza, e, quindi, specularmente, per reciprocità, si renda necessario esprimerla da parte nostra agli altri: ossia, anche in tal caso, in fondo, si parte da un elemento individualista e in parte egoista -la pretesa e l’aspirazione a essere destinatario della carità altrui-, per poi volgere nel proprio reciproco, esprimendo cioè noi la nostra carità all’altro, dato che, se io ne ho diritto da parte tua, anche tu ne hai diritto da parte mia, altrimenti si tratterebbe di sfruttamento e parassitismo.

Ecco allora che tutte le mie proposte, a partire dalla ricostruzione della Terra come res communis con tutte le sue implicazioni, arricchiscono il proprio contenuto tecnico di un elemento profondamente umano, che potrei anche definire di socialismo sentimentale e, in quanto, libertariamente fondato, di socialismo libertario, al di là delle soluzioni tecniche applicate; al di là del fatto, ad esempio, che l’essere contitolare della Terra resta un elemento individualistico -dato che ciascuno lo è-, o che l’essere tributario di un utile universale o titolare di una libertà di conio continua a operare uti singulus, per quanto poi ognuno abbia il diritto di associare chi meglio crede a tale propria attività, come a ogni altra libera attività economico, dimodoché, se di socialismo vogliamo parlare, si tratterà pur sempre di socialismo volontario e di mercato, pur se tenuto insieme da un collante che cessa di essere solo l’interesse, per arricchirsi del detto elemento emotivo e sentimentale; fermo restando che, anche volendo considerare tale proposta nei termini del socialismo libertario, esso prevede comunque di conservare, in quanto questa è forma della libertà, anche la libertà di iniziativa economica: salvo che, in un tale sistema, l’assunzione di lavoratori subordinati è disincentivata, dato che ognuno è compartecipe di utili demaniali ed è libero di coniare (ad esempio nell’”individualista” nel conio Josiah Warren non esiste lavoratore subordinato, dato che ognuno è pagato per quel che fa sulla base di liberi negozi, sia pure legati al tempo del lavoro), e allora accetterà di collaborare con l’imprenditore-iniziatore prevalentemente in quanto socio, sempre che non si tratti di soggetto totalmente avverso al rischio.

Ora, questo elemento morale e sentimentale, fondato su empatia, benevolenza, pietà e carità, interviene potenzialmente a due livelli, quello della sensibilità dell’autore che propone tale modo di vedere le cose, quindi in questo caso io che scrivo, in quanto sia mia intenzione esprimere una emotività mia personale, proiettandola sui fatti della politica e della teoria politica; e quello della sensibilità umana che si auspica come effettivamente operativa nelle relazioni tra gli esseri umani; il che non comporta ancora che si stiano proponendo soluzioni “tecnicamente socialiste” alle relazioni stesse e alle vicende economiche, per quanto ciò che propongo è comunque evocativo di elementi associativi, liberamente associativi, tanto ai livelli formali e istituzionali, quanto a quelli economici, proponendo anzi forme di incontro tra le due categorie, giacché quanto vado ricercando è sempre costituito da un mix, che in passato ho definito “anarchismo con ethos liberal-socialista”, il che già preannunciava questo mio attuale approdo.

Ritenendo periodicamente di collocarsi all’interno della tradizione liberal-socialista (Calogero) o socialista liberale (Rosselli), il leader radicale Marco Pannella una volta pronunciò una di quelle sue frasi che non sai mai se rappresentino espressione di pura retorica o se hanno un senso vero: “Liberalismo e socialismo per me sono sinonimi”, frase fatta apposta per fare imbestialire liberali classici e libertarians, e che però può trovare un senso con un po' di sforzo, almeno dal mio particolare punto di vista. In effetti, nel mio libro “L'eguaglianza libertaria” ho sostenuto che il massimo di eguaglianza che si può ottenere realisticamente tra le persone, ossia senza annullare l’irripetibile personalità di ciascuno, è di ampliare al massimo la libertà individuale per tutti, il che rende tutti uguali nella libertà e nell’opposizione all’autorità, dato che, se nessuna esercita coercizione sull’altro, ciò rende tutti non solo liberi, ma anche eguali nell’essere appunto privi della coercizione, oltre che nel non esercitare la coercizione, il che però riduce al contempo le differenziazioni di carattere economico-sociale: ma non per atto di autorità, ma quale conseguenza logica e “naturale” del fatto che nessuno è in condizione di sfruttare abusivamente l’altro.

 

Vale a dire che, per ottenersi un certo grado di eguaglianza, il massimo concepibile ragionevolmente, non si deve introdurre qualcosa di altro e di opposto nei confronti della libertà, ma ampliare la libertà stessa per tutti e ciascuno, eliminando una dopo l’altra le fonti della coercizione e, quindi, dello sfruttamento: al contrario, le idee della sinistra volgare pretendono di perseguire una presunta eguaglianza con il ricorso all’autorità, salvo che l’autorità rappresenta già in sé una deroga al principio di eguaglianza, dato che colloca qualcuno in posizione di sovraordinazione rispetto agli altri, sicché si tratta di contraddizione insanabile e di pessima strada. In quel mio libro non affermo che tale “liberalismo di estrema sinistra” sfoci nel socialismo libertario vero e proprio, non aggettivo la mia proposta, però può intendersi implicito che di questo si tratti, in quanto si ravvisi nella massima libertà di tutti l’eguaglianza maggiore possibile, con ogni ricaduta in senso tendenzialmente paritario sulle relazioni di tipo economico, giacché relazioni tra pienamente liberi tendono anche a divenire, come nell’individualista-egualitario Josiah Warren, relazioni tra sostanzialmente eguali, contrattuali, associative e societarie, anche e forse soprattutto attraverso l’attribuzione a ognuno della facoltà di emettere moneta, in particolare sulla base della propria capacità lavorativa.

 

A questo punto, dovrei fornire una migliore precisazione sul perché allora preferisco comunque letture libertarie e di socialismo utopistico pre-marxiano, o anarchico “individualista” americano del XIX secolo, all’approccio di tipo marxiano, benché in passato abbia già fornito numerosi ragguagli al riguardo.

 

Marx ha il merito di avere introdotto, a partire dalla dialettica tra possesso dei mezzi di produzione e lavoro, l’elemento del conflitto nell’ambito dell’economia politica classica, e tuttavia tale conflitto continua a rimanere conflitto “economico”; sicché Marx riesce a rompere il modello dell’homo oeconomicus solo ragionando nella prospettiva dell’avvenire, ma lo mantiene nel suo schema ricostruttivo, il che finisce con l’indebolire la sua interpretazione, che pretende di essere materialista in quanto economica, ed economica in quanto materialista; ma porre al centro della lettura materialistica il mero dato economico produce non di rado come effetto quello di mettere il mondo al contrario e di scambiare per sistema le cause con gli effetti, o a produrre solo una grande quantità di tautologie.

 

In effetti, Marx viene a proporre una non persuasiva corrispondenza biunivoca, quella per la quale il materialismo viene ricondotto a categoria dell’economico, ma anche, per converso, che l’economico viene riduzionisticamente considerato categoria del materiale, dal cui circolo vizioso si esce, o ampliando il concetto di economico, o ampliando il concetto di materiale, o procedendo in entrambe le direzioni simultaneamente; vale a dire però, in ultima analisi, rattrappendo di gran lunga tanto la nozione di materiale, quanto quella di economico, in nome di qualcosa di più elevato, di tal che l’homo oeconomicus non sia il dimidiato homo materialis, anzi sia uomo a tutto tondo, quindi insuscettibile di etichettature riduttive e riduzioniste, una volta chiarito che l’homo oeconomicus non può essere meramente “materialis”, posto che nell’attività economica ciascuno porta, se non davvero “tutto se stesso”, buona parte della propria personalità, e quindi, come si diceva una volta, anche il proprio “spirito”, giacché conferisce la propria mente, la propria intelligenza, la propria creatività, il proprio rompersi le scatole per un lavoro che non piace; il che ben difficilmente si fa ridurre in toto a “materia”, qualsiasi cosa ciò intenda significare.

D’altro canto, anche a volere proporsi come severi materialisti nel senso meno comprensivo e più esclusivista, ancora non mi è chiaro perché tale attenzione che, come dice Labriola, dovrebbe essere rivolta al “reale”, al “sociale”, ai “rapporti materiali” appunto, dovrebbe appuntarsi anzitutto sul momento “produttivo”, e non invece sul concetto, che è più ampio e comprensivo, di “rapporto di potere” in quanto tale. Sarebbe quindi meno “materialista”, empirista, realista, occuparsi di potere rispetto a occuparsi di mezzo di produzione? Salvo che il rapporto di potere, ove pretenda di stabilizzarsi, richiede sempre l’invocazione di una formula di legittimazione in grado di imporre un’autorità, e ciò attraverso un’immancabile articolazione linguistica; ne deriva che il potere si carica di elementi simbolici e psicologici, tanto di tipo tradizionale, quanto di tipo laico, razionale e moderno (in apparenza); ne consegue che nello stesso rapporto economico, in quanto si atteggi a relazione di supremazia/soggezione, la distinzione tra supremazia politica e supremazia economica, tende a perdere di significato, dato che alla supremazia politica corrisponde la supremazia economica, posto che gli ordini in materia di produzione sono al contempo ordini di segno politico e ordini di segno economico: qui l’elemento -legittimante o delegittimante la subordinazione- “lavoro” si carica ben sì dell’elemento “economico”, in quanto relativo a una data collocazione attorno all’impiego di qualsivoglia “mezzo di produzione”, ma anche totalmente dell’elemento politico, in quanto la subordinazione è mera, e quindi viene a connotare come politica e non solo economica la relazione hegeliana signore/servo.

E infatti, la storia dell’evoluzione dei rapporti di produzione può tranquillamente essere resa come storia di rapporti tra potere e libertà, se dalla schiavitù si passa al “libero” lavoro salariato, se l’economia politica classica muove dalla conquistata libertà della produzione, del commercio e del lavoro, e quindi tale storia materialista è sempre e comunque storia simbolica e psicologica, proponendosi il rapporto economico come una species del più ampio e comprensivo genusrapporto autorità-libertà”; se poi intendiamo la definizione dell’economico in Marx come analisi dei rapporti di produzione in relazione a un determinato assetto dei titoli di proprietà relativi ai mezzi di produzione, già vediamo come il momento dell’economico dismette la propria pretesa imperialistica, per auto-assoggettarsi consapevolmente a un primato del momento del giuridico -il titolo di proprietà-, in quanto combinazione di forza e di concetto sulla forza, e quindi il concetto sulla forza, nel momento in cui trova inveramento, si fa istituzione, e detto carattere istituzionale si nutre dell’interpenetrazione tra un’idea, che trova fondamento in un atto di esercizio dell’ingegno, e l’uso della forza che rende tale idea dato di “materia”, solo in quanto sia socialmente riconosciuto; ma questo rimanda a sua volta a fattori culturali e psicologici, sempre intrisi dalla cogenza dei rapporti di forza in atto. E infatti, l’essere titolare di un “mezzo di produzione” non rappresenta mai un fatto possessorio bruto, la cui effettività sarebbe oltremodo precaria, per cui chiunque potrebbe sopravvenire e sottrarti il tuo “mezzo di produzione”, di qualsiasi cosa si tratti; detto “mezzo”, al contrario, ivi compresa la tua mente riposta dentro il tuo cranio intangibile e infrangibile secondo diritto, risulta oggetto di una protezione istituzionale, in quanto diritto formale riconosciuto da un ordinamento, il quale mette a tua disposizione la sua forza, sicché tu non eserciti mai un “mezzo di produzione”, ma sempre un diritto riconosciuto e convalidato dall’ordinamento sul “mezzo di produzione” stesso, e allora anche a tale proposito si inseguono le ragioni ultime di un simile assetto istituzionale, che poi nella più parte dei casi è rappresentato da un assetto statuale; se un tale ordinamento non esistesse, il precario possesso del mezzo di produzione, che si presume insediato sul territorio, poggerebbe esclusivamente sul “diritto del più forte”, ma il diritto del più forte non ha alcuna efficacia vincolante od obbligatoria sul piano morale, come ricorda Rousseau, ed è superabile da un “più forte” ancora più forte, dato che sul lavoratore non ricade alcun obbligo morale di obbedire a un proprietario, o a un sistema, che lo escludano dall’accesso alle risorse naturali, e quindi avrebbe il pieno diritto “del più forte” di coalizzarsi con altri e abbattere quella proprietà del mezzo di produzione; del resto, chi si incaricherebbe di certi lavori, se non fosse ridotto sul lastrico?

E allora il punto è esattamente questo, ossia che la struttura sociale viene individuata da Marx nell’economia politica, in quanto ricomprendente i rapporti di produzione, che si vengono a determinare attorno a titoli proprietari aventi per oggetto mezzi di produzione; ma tali titoli proprietari vigono in quanto un ordinamento coercitivo “legittimo e legittimante” li supporti, peraltro in base a un certo insieme di dottrine e filosofie giuridiche e politiche, oltre che sulla base naturalmente di determinati interessi di ceto, che quei diritti proprietari rivendichino per sé; e quindi, per la proprietà transitiva, occorrerebbe concludere che anche quell’ordinamento coercitivo e quelle “ideologie” sono parte dell’economia politica, ma non, si badi, in via derivativa, ma a titolo co-costitutivo, e semmai fondativo; il che porta, in ultima analisi, che -ideologie a parte- la forza è una categoria dell’economia politica, anzi, ne sarebbe la fondamentale e presupposta, ma Marx non è mai giunto a tale inquietante conclusione in termini tanto espliciti.

Il nesso economia-forza è invece abbastanza evidente, anche considerando che la “sicurezza” ben può essere intesa come un bene economico da acquistare in qualche sede, e quindi un bene oneroso, che innesca una circolarità, dato che, per produrre, devo essere certo del mio titolo proprietario, ma può capitare che, per ottenere tale certezza, io debba anche investire in sicurezza e protezione, sicché la forza, che sta alla base dell’apprensione della sede, continua a servirmi anche successivamente, ossia per difendere la sede stessa dai possibili attacchi, al fine di continuare a consentirmi di renderla produttiva.

Del resto, in termini analitici, rendere produttivo un suolo presuppone la sua previa appropriazione, che è atto di energia fisica, e anche di forza sociale, nel momento in cui tale appropriazione legittima l’appropriatore a esercitare lo ius excludendi alios, e quindi a fondare il mercato tra i proprietari, che sono tali in quanto tributari di un atto di forza; di più: senza il “fattore di produzione Stato”, tutti gli altri incontrerebbero la propria delegittimazione -anche nel senso che non sopraggiungerebbero i carabinieri a cavallo in caso di sciopero-, e verrebbero a venire caducati socialmente: ebbene, lo Stato è dunque certamente “materia”, dato che si fonda sulla forza ed esercita la forza, domina sul demanio, che è capitale comune, ed è costituito da un apparato organizzato in guisa militare o para-militare; e tuttavia al contempo incarna valori ideali, autentici o truffaldini qui non importa, sicché una rappresentazione in termini meramente materialistici si rivela del tutto inadeguata.

D’altra parte, se si assegna un carattere materialistico in senso stretto al rapporto di produzione, non tanto in quanto rapporto di oppressione, per cui l’elemento materiale consisterebbe nella fotografia dello squilibrio nella relazione, ma in quanto detto rapporto afferisca a un elemento di creazione di beni e di servizi, ciò significa che tale elemento produttivo di beni e di servizi sia ricondotto nella buona sostanza a una “trasformazione della materia”, e ciò, nonostante il fatto che una trasformazione della materia richieda comunque un progetto, ossia un derivato della mente, e che un servizio sia un a sua volta bene immateriale; la stessa produzione dei beni è oggi in grande parte produzione di beni nell’ambito dell’economia dell’immateriale e del virtuale, sicché contrassegnare l’economia come materiale non può che essere inteso in senso fortemente metaforico, dato che un prodotto immateriale e virtuale esprime quasi esclusivamente intelligenza e in minima percentuale “materia”; ma anche a prescindere da tale elemento, che particolarmente attiene alla modernità, designare in termini materiali il momento produttivo denuncia un empirismo e un induttivismo alquanto ingenui, dato che, posto che si sta parlando di prodotti della tecnica, in una tecnica l’elemento prevalente e decisivo è esattamente quello progettuale, conseguente a un’attività creativa dell’intelletto, vale a dire con il combinarsi dell’elemento ideale con quello sensoriale, sicché in nessun caso il dato economico può essere adeguatamente espresso utilizzando un linguaggio puramente materialista, a meno che nella nozione di “materia” non siano inclusi tutti gli elementi mentali, come alcune dottrine richiedono.

A questo punto, si rende necessario inquadrare in tale impostazione teorica non solo l’attività produttiva in quanto attività creativa e intelligente, ma la questione dei “mezzi di produzione” in quanto tali, i quali, si badi bene, ricomprendono al primo posto esattamente la mente umana, mezzo di produzione, semmai, l’intelligenza, e subito dopo tutti i suoi primi immediati prolungamenti, che nel nostro tempo sono rappresentati simbolicamente da un telefono e da un computer; e quindi deve essere inquadrata in tale cornice la questione stessa del lavoro e del suo “valore”, giacché questo oscilla tra i due poli della materialità e dell’immaterialità, in quanto sia collegato a uno “sforzo”  psico-fisico della persona, giacché emerge il tema se lo sforzo psico-fisico meriti un premio particolare in quanto tale, ossia fuori da una logica squisitamente di produzione effettiva di un valore socialmente riconoscibile, che non sia altro dal riconoscimento etico della fatica compiuta dalla persona, fatica da premiarsi in quanto produttiva di una reputazione in capo al “lavoratore”.

Resta sempre l’interrogativo di come mai Marx abbia rivolto il proprio impegno critico nella direzione dell’ambito dell’economia, intesa come tutto ciò che afferisce alla produzione e all’evoluzione delle tecniche della produzione stessa, e non invece al più ampio e comprensivo concetto di potere e di autorità, nel quale semmai poi sussumere determinate relazioni economicamente improntate. D’altra parte, se uno si chiede perché Tizio e non Caio controlli un dato mezzo di produzione, il discorso impersonale deve trovare anche una spiegazione personale specifica su quell’individuo particolare, sulle sue doti, o caratteristiche particolari, che l’hanno collocato dalla parte del controllo unilaterale dei mezzi di produzione e non sul versante dei controllati, sicché ancora una volta dietro la supposta materia si cela l’uomo, gli uomini in tutti i loro elementi particolari di differenziazione; ebbene, una volta che si prenda atto che il concetto di “economico” ricomprenda la forza, la forza argomentata del diritto e quella bruta, e comunque di impatto sulla destinazione d’uso del mondo, nonché però anche tutto quanto attiene alla creatività, all’ingegno, alle idee e alla cultura, il presunto “primato dell’economia”, che è dei moderni, ma anche dei classici e di Marx in particolare, finisce in realtà con l’assegnare il primato a un asso pigliatutto, a una formula passpartout, che in realtà contempla “tutto” quanto rappresenta fenomeno sociale nell’ambito del mix forza/idee sull’uso della forza, e ciò va a beneficio di Marx, il quale, rispetto alla visione tradizionale dell’homo oeconomicus, aggiunge che i rapporti economici non sono paritari, ma sono relazioni di potere, nei quali è agevole ravvisare un sopra e un sotto, se non sempre, molto spesso; ma ciò allora conferma che Marx avrebbe dovuto individuare la struttura dei rapporti sociali nella dinamica dei mutevoli rapporti di autorità, per poi appunto individuare quali tra le relazioni economiche meritassero di essere ricostruite nei termini dei rapporti di autorità, e allora si sarebbe reso conto che tra questi non rientrano solo i rapporti di lavoro.

È vero che il progetto di Marx è di andare oltre l’homo oeconomicus, in una società ipotizzata come di piena libertà dell’uomo, e nemmeno totalmente egualitaria, ma fondata sulle differenze a tutto tondo tra le persone, salvo la preclusione dello “sfruttamento”. E tuttavia, ponendo “l’economia” a struttura della filosofia della storia, egli ha singolarmente collocato a struttura quell’homo oeconomicus, così come attribuito ai classici dell’economia politica liberale, e non invece l’uomo a tutto tondo che pure è nei suoi voti: perché non l’uomo a tutto tondo sarebbe stato struttura, ma solo l’homo oeconomicus, tuttavia non risulta spiegato in termini persuasivi, sempre a meno che, cogliendo dell’”economico” l’etimologia, non si stia parlando dell’uomo che amministra, quindi dell’uomo che agisce, quindi ancora dell’uomo che si sforza di esprimere il proprio potere conformativo nei confronti dell’ambiente, e allora, in questa rinnovata accezione, “economia” significa esattamente questo; salvo che anche “diritto”, anche la dimensione del “giuridico”, esprime esattamente questo (imprimere destinazioni d’uso al mondo circostante), e però anche, “con altri mezzi”, il “politico”, l’”etico” e tutto il resto riguardi l’agire umano, dando vita in tal modo, per vie indirette, all’agognata disciplina di teoria sociale unificata.

Eppure, con tutti questi caveat, in particolare il non avere a disposizione Marx un persuasivo concetto di “materia”, e avere individuato questo nel momento economico-produttivo, pur essendo invece tale elemento massimamente impregnato di mentale e di culturale in ogni accezione, vale a dire di umano, la centralità da lui assegnata al rapporto tra “economico” e “dominio” deve essere salvata in quanto contributo centrale; e questo, non perché il dominio vada ravvisato di necessità in un rapporto economico e non in altro, altrimenti qualificato, ma per l’inverso: ossia per il fatto che un rapporto di dominio ha sempre almeno anche un risvolto economico, un elemento caratterizzante anche in senso economico, in quanto è chiaro che, se vi è rapporto di dominio, in esso si insinuerà di necessità una qualche forma di sfruttamento a vantaggio della parte forte; e questo consente di considerare Marx tra gli anticipatori di materie come la scienza delle finanze di scuola italiana e suoi derivati illustri come la public choice di James Buchanan, ovvero anche dell’approccio economico alla condotta umana di Gary Becker, il che poi ci porta alla nozione di “imperialismo dell’economia”, che è nozione a sua volta ascrivibile ad autori di scuola liberale come Robbins e von Mises; il che poi rappresenta conferma a posteriori di quanto il pensiero marxiano, al netto dei suoi elementi storicisti ed escatologici, sia tutto interno alla tradizione dell’economia politica liberale, o tale in senso lato, che ha accompagnato il sorgere e l’affermarsi del sistema capitalistico, sistema in cui i valori dell’economia politica impregnano, volenti o nolenti, un sistema istituzionale.

Il fatto è che al pensiero di Marx possono venire imputate due responsabilità che parrebbero opposte e contraddittorie: l’eccesso di economicismo nella ricostruzione della vicenda storica e l’eccesso di statalismo quale rimedio proposto alle derive della vicenda stessa; è quindi Marx a essere contraddittorio, o esiste un nesso tra quell’economicismo e quello statalismo? Gli è che, se tu vedi le relazioni del conflitto esclusivamente come “economiche”, disattendendone gli originari elementi politici schmittiani come co-costitutivi, finisci con il vedere quelle vicende come, a ben vedere, prive di quel nerbo intrinseco necessario, il che poi richiede che si aggiunga l’uso della forza della coercizione ab extrinseco quale push factor indispensabile per fuoriuscire da quelle vicende, così come fu necessario per entrarvi all’epoca dell’accumulazione originaria, il che consegue anche al cattivo uso della dialettica struttura-sovrastruttura, di tal che i due termini finiscono con il risultare invertire, giacché viene assegnata alla sovrastruttura tutto quello che invece rappresenta impalcatura di forza del sistema, tutto quello che rappresenta il coacervo dei sentimenti umani, che se ne collocano alla base quale insieme delle sue legittimazioni e giustificazioni ultime.

Ma se tutto questo è vero, ciò significa anche che il marxismo può fornire un proprio contributo storico-sociologico solo come elemento costitutivo di una dottrina più ampia, la quale preveda: a) consapevolezza che i rapporti economici si svolgono nell’alveo di un sistema di legittimazioni giuridiche e politiche, riguardanti quindi i titoli proprietari in quanto socialmente riconosciuti, per quanto poi questi subiscano in feed-back i riflessi dello svolgimento di quei rapporti in quanto rapporti di forza; b) Il riconoscimento dello Stato come elemento dell’economia politica, sia in quanto strumento di legittimazione, sia in quanto ossatura del sistema, sia in quanto agente economico e proprietario direttamente del capitale fondamentale (demanio); c) una concezione di “materia” incorporante il mentale e lo “spirituale”, come sottolinea il Real Materialism di Galen Strawson; d) una concezione dell’“economico” sottratto in ogni caso al meramente materiale, stante che non può esservi attività economica in qualsiasi accezione che sia priva dell’ideazione e della progettazione mentale; e) riconoscimento della centralità dell’elemento monetario, per la quale il capitalista e il proprietario nulla possono in assenza dell’accesso all’erogazione monetaria da parte dei padroni della moneta, sicché discutere del loro dominio ignorando quell’elemento -che, si badi, è ancora un elemento mentale e non materiale, dato che la moneta è una pura costruzione mentale, e non un prodotto naturale o altrimenti materiale- significa falsare la discussione; f) una concezione del dominio economico come sottobranca del dominio unilaterale in generale, per cui è il dominio a comportare sfruttamento economico e non l’inverso, dato che, in assenza di un rapporto di dominio ravvisabile analiticamente come tale, nemmeno è possibile ravvisare con chiarezza un elemento di sfruttamento economico, che non sia anche reciproco e non unilaterale. In definitiva, se vogliamo chiudere questo capitolo con uno slogan, si può dire, con Marx e contro Marx, “non ogni rapporto economico è rapporto di dominio, ma ogni rapporto di dominio è sempre anche un rapporto economico”. Fermo restando che quel rapporto di dominio si nutre ai propri fondamenti di ben altro, riconducibile in ultima analisi in una qualche forma di rapporto tra l’uso della forza e tutti gli elementi mentali e sentimentali, razionali o irrazionali, i quali pretendono di dotare di legittimazione quell’uso della forza.

 

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