di Fabio Massimo Nicosia
Sono sempre stato restio, nei miei lavori, a utilizzare il termine “socialismo” per definire le mie proposte; anzi, credo di non averlo fatto mai, pur quando le proposte fossero particolarmente spinte, o pur quando citavo autori del mondo socialista, in particolare pre-marxiano o anarchico; e non l’ho fatto, sia perché considero il termine poco tecnico, sia perché per molti esso è evocativo di scenari illiberali, e non era mia intenzione aprire un fronte di polemica lessicale con questo tipo di lettori.
Nondimeno,
ho spesso però anche criticato l’abitudine invalsa di considerare il termine “socialismo”
un sinonimo di “statalismo”, abito conseguente al fatto che il libro “Socialismo”
di Mises tratta del sistema economico sovietico pianificatorio del “socialismo
reale”, identificando di fatto i due concetti (ossia ravvisando nel
“socialismo” un modello che non conosce il sistema dei prezzi), tal per cui grande
parte dei liberali, liberisti, libertarian anarco-capitalisti, con i
quali entriamo in contatto, poi distribuiscono la patente di “socialista” a
destra e a manca, a chiunque sia ritenuto colpevole di “statalismo”, tal per
cui poi finiscono con l’essere considerati “socialisti” Meloni, Berlusconi,
Letta, Macron, Von der Leyen, in un discorso del tutto privo di senso, in cui
il significato profondo del termine “socialista” viene totalmente smarrito;
quindi, non solo viene definita statalista qualsiasi forma di socialismo, ma
viene definito, il che è ancor peggio, “socialismo” qualsiasi forma di
statalismo, sfuggendo così le peculiarità, ossia ad esempio che oggi in Europa
il neo-capitalismo vede fare la pace tra neo-liberisti e post-keynesiani, in un
nome di una ristrutturazione capitalistica, digitale e green, fondata
sulla spesa pubblica, il che non ha nulla a anche fare con alcun tipo di
socialismo, a meno di non precisare che anche sostenere il capitalismo a spese
del contribuente viene a inserirsi nella storia del pensiero socialista.
E
infatti, in questi miei ragionamenti, io sono influenzato dal fatto di avere
letto fin dagli anni dell’adolescenza proprio la “Storia del pensiero
socialista” del Cole, in cui almeno i primi due volumi sono dedicati a
socialisti del tutto antistatalisti, gli Owen, i Fourier, i Proudhon, ma anche i
Warren e i Tucker, per cui sono propenso a considerare lo statalismo del
socialismo un accidente, e non una necessità, della storia, legata soprattutto
al prevalere del marxismo all’interno del movimento operaio, nonché del
prevalere, in particolare, di un certo modo di intendere il marxismo.
V’è
poi un’altra considerazione da fare; ossia che, essendomi sempre ritenuto
soprattutto un libertario, anche i miei contenuti di maggiore carattere,
diciamo così, sociale, sono sempre stati da me fondati su ragionamenti condotti
in nome del principio del primato della libertà, tal per cui potevo proporre la
riforma più avanzata in senso “egualitario”, senza mai necessità di scomodare
il termine “socialismo”, apparendomi sempre sufficiente il richiamo al
principio di libertà, ossia di “eguale libertà”; ad esempio, quando io sostengo
che la Terra va considerata originariamente res communis omnium, affermo
ciò non rimarcando l’aspetto egualitario di tale affermazione, ma quello
libertario, vale a dire la negazione della legittimazione in capo a chicchessia
a impormi coercizione, e quindi a limitare unilateralmente la mia disponibilità
di suolo, proponendo come alternativa la soluzione negoziata e consensuale: il
che è tanto libertario, quanto egualitario, nel senso del riconoscere a ognuno
pari capacità giuridica e normativa, ma, soprattutto, mette in luce la capacità
della libertà di fornire anche i prodotti relativi alla sicurezza e alla
protezione sociale, per quanto in un senso diverso rispetto agli
anarco-capitalisti; in effetti, una volta che l’appropriazione comporti
risarcimento o indennizzo in capo a chi subisce danno da questa limitazione ai
suoi diritti sulla terra, è evidente che tale necessità di tenere indenne il
danneggiato si estende a tutti i vantaggi ulteriormente conseguiti dall’appropriatore
attraverso gli incrementi di valore di quanto appropriato, ma questo è un altro
modo per dire che il terzo è una sorta di compartecipe ai beni e alle attività
dell’appropriatore: in altri termini, da un’esigenza di libertà (risarcirne le
lesioni) deriva ancora una volta un elemento che potrebbe essere definito
socialista, se non addirittura comunista.
D’altra
parte, avendo io riconnesso l’operatività dei principi libertari alla presenza,
in capo alla persona, di quella che ho chiamato “inclinazione libertaria” -vale
a dire il non voler né coartare, né essere coartato-, ho sottolineato altresì
come di questa siano elementi i caratteri dell’empatia e della reciprocità, per
quanto non è escluso che si possa fondare quell’inclinazione anche sulla mera
indifferenza non aggressiva; e tuttavia, anche in tal caso, il principio di
reciprocità opera de plano, dato che, in sua assenza, ammetteremmo le
imposizioni unilaterali, e quindi staremmo fuoriuscendo dalla nostra
definizione di “libertario”.
Vale
a dire che la reciprocità può fondarsi sul sentimento, oppure sulla mera
ragione, e però in entrambi i casi opera come una guida, sia pure ideale, alle
condotte poste in essere nel mercato, giacché ne verrebbero escluse quelle
meramente o tendenzialmente predatorie, unilaterali, o puramente strategiche e
sfornite di buona fede; certo, in un caso come questo, siamo ben lontani dal
mercato così com’è nella realtà, e allora ci troviamo poi nei fatti a farci
avvocati di un sistema fortemente alternativo al capitalismo reale, con la
conseguenza che saranno i difensori di questo, a questo punto, a imputarci di
essere “socialisti”.
Una
cosa è però pacifica tra i contendenti: che la mano invisibile smithiana non è
sufficiente a creare un ambiente morale, dato che la propensione a fare il
proprio interesse facendo al contempo quello dell’altro produce esiti molto
limitati, tant’è che poi Adam Smith deve scrivere un libro a parte, per
spiegare che nelle relazioni umane non basta il reciproco interesse, ma occorre
anche la benevolenza: non è chiaro se come elemento costitutivo del mercato, o
a parte di esso e in aggiunta a esso, ma comunque questa benedetta benevolenza
pare proprio necessaria a una buona società, non bastando all’uopo il mero
scambio interessato, sia pure in un’ottica win-win.
E
allora mi sovviene il fatto che il padre del liberalismo, John Locke, andava
addirittura oltre, non accontentandosi della sola benevolenza, ma invocando la
carità: non solo, invocava la carità come diritto da parte del povero,
vale a dire dotava il principio cristiano di cogenza giuridica, facendone così
nei fatti un elemento del suo sistema politico, quanto ai fondamenti di
legittimazione della proprietà privata, assieme al famoso lockean proviso,
in forza del quale ogni appropriazione unilaterale deve residuare agli altri
altrettanta terra e altrettanto buona, pena risarcimento del danno, aggiungiamo
noi moderni.
Ora,
nel momento in cui la carità, da mero atto facoltativo, muta in diritto del
destinatario, si trasforma anche l’intero sistema sociale di riferimento, che
non può più essere ridotto a liberalismo e a proprietarismo, per divenire
qualcosa di altro e di più.
Noi,
nella nostra vita, intratteniamo sostanzialmente tre tipi di rapporto umano, necessario,
casuale e volontario; necessario come nel caso dei rapporti con i
nostri genitori e familiari, casuale nella più parte dei casi, dato che non
scegliamo i nostri coevi accompagnatori nel mondo, volontari ogni qualvolta si
tratti invece di scelte effettive di amore, di amicizia, di affinità o di
altro. Ebbene, per quanto resti valido il principio di Hume, per il quale
l’affetto diminuisce mano mano che ci si allontani dal proprio nucleo stretto
di rapporti, è proprio l’esperienza della vita a dirci che, in ogni caso, al di
là di troppo fredde e astratte teorizzazioni liberali, per le quali basterebbe
la “non benevolenza” del birraio smithiano a regolare validamente e con
efficienza collettiva ogni rapporto, una certa dose di carità è necessaria nei
rapporti umani; ma non in quanto essa sia dovuta sulla carta da parte nostra,
ma in quanto essa si riveli effettivamente necessaria a noi per i nostri
momenti di difficoltà e di sofferenza, e, quindi, specularmente, per
reciprocità, si renda necessario esprimerla da parte nostra agli altri: ossia,
anche in tal caso, in fondo, si parte da un elemento individualista e in parte
egoista -la pretesa e l’aspirazione a essere destinatario della carità altrui-,
per poi volgere nel proprio reciproco, esprimendo cioè noi la nostra carità
all’altro, dato che, se io ne ho diritto da parte tua, anche tu ne hai diritto
da parte mia, altrimenti si tratterebbe di sfruttamento e parassitismo.
Ecco
allora che tutte le mie proposte, a partire dalla ricostruzione della Terra
come res communis con tutte le sue implicazioni, arricchiscono il
proprio contenuto tecnico di un elemento profondamente umano, che potrei anche
definire di socialismo sentimentale e, in quanto, libertariamente
fondato, di socialismo libertario, al di là delle soluzioni tecniche
applicate; al di là del fatto, ad esempio, che l’essere contitolare della Terra
resta un elemento individualistico -dato che ciascuno lo è-, o che l’essere
tributario di un utile universale o titolare di una libertà di conio continua a
operare uti singulus, per quanto poi ognuno abbia il diritto di
associare chi meglio crede a tale propria attività, come a ogni altra libera
attività economico, dimodoché, se di socialismo vogliamo parlare, si tratterà
pur sempre di socialismo volontario e di mercato, pur se tenuto insieme da un
collante che cessa di essere solo l’interesse, per arricchirsi del detto
elemento emotivo e sentimentale; fermo restando che, anche volendo considerare
tale proposta nei termini del socialismo libertario, esso prevede comunque di
conservare, in quanto questa è forma della libertà, anche la libertà di
iniziativa economica: salvo che, in un tale sistema, l’assunzione di lavoratori
subordinati è disincentivata, dato che ognuno è compartecipe di utili demaniali
ed è libero di coniare (ad esempio nell’”individualista” nel conio Josiah
Warren non esiste lavoratore subordinato, dato che ognuno è pagato per quel che
fa sulla base di liberi negozi, sia pure legati al tempo del lavoro), e allora
accetterà di collaborare con l’imprenditore-iniziatore prevalentemente in
quanto socio, sempre che non si tratti di soggetto totalmente avverso al
rischio.
Ora,
questo elemento morale e sentimentale, fondato su empatia, benevolenza, pietà e
carità, interviene potenzialmente a due livelli, quello della sensibilità
dell’autore che propone tale modo di vedere le cose, quindi in questo caso io
che scrivo, in quanto sia mia intenzione esprimere una emotività mia personale,
proiettandola sui fatti della politica e della teoria politica; e quello della
sensibilità umana che si auspica come effettivamente operativa nelle relazioni
tra gli esseri umani; il che non comporta ancora che si stiano proponendo
soluzioni “tecnicamente socialiste” alle relazioni stesse e alle vicende
economiche, per quanto ciò che propongo è comunque evocativo di elementi
associativi, liberamente associativi, tanto ai livelli formali e istituzionali,
quanto a quelli economici, proponendo anzi forme di incontro tra le due
categorie, giacché quanto vado ricercando è sempre costituito da un mix,
che in passato ho definito “anarchismo con ethos liberal-socialista”, il
che già preannunciava questo mio attuale approdo.
Ritenendo periodicamente di collocarsi all’interno della tradizione
liberal-socialista (Calogero) o socialista liberale (Rosselli), il leader
radicale Marco Pannella una volta pronunciò una di quelle sue frasi che non sai
mai se rappresentino espressione di pura retorica o se hanno un senso vero: “Liberalismo
e socialismo per me sono sinonimi”, frase fatta apposta per fare
imbestialire liberali classici e libertarians, e che però può trovare un
senso con un po' di sforzo, almeno dal mio particolare punto di vista. In
effetti, nel mio libro “L'eguaglianza libertaria” ho sostenuto che il massimo
di eguaglianza che si può ottenere realisticamente tra le persone, ossia senza
annullare l’irripetibile personalità di ciascuno, è di ampliare al massimo la
libertà individuale per tutti, il che rende tutti uguali nella libertà e nell’opposizione
all’autorità, dato che, se nessuna esercita coercizione sull’altro, ciò rende
tutti non solo liberi, ma anche eguali nell’essere appunto privi della
coercizione, oltre che nel non esercitare la coercizione, il che però riduce al
contempo le differenziazioni di carattere economico-sociale: ma non per atto di
autorità, ma quale conseguenza logica e “naturale” del fatto che nessuno è in
condizione di sfruttare abusivamente l’altro.
Vale a dire che, per ottenersi un certo grado di eguaglianza, il massimo
concepibile ragionevolmente, non si deve introdurre qualcosa di altro e di
opposto nei confronti della libertà, ma ampliare la libertà stessa per tutti e
ciascuno, eliminando una dopo l’altra le fonti della coercizione e, quindi,
dello sfruttamento: al contrario, le idee della sinistra volgare pretendono di
perseguire una presunta eguaglianza con il ricorso all’autorità, salvo che l’autorità
rappresenta già in sé una deroga al principio di eguaglianza, dato che colloca
qualcuno in posizione di sovraordinazione rispetto agli altri, sicché si tratta
di contraddizione insanabile e di pessima strada. In quel mio libro non affermo
che tale “liberalismo di estrema sinistra” sfoci nel socialismo libertario vero
e proprio, non aggettivo la mia proposta, però può intendersi implicito che di
questo si tratti, in quanto si ravvisi nella massima libertà di tutti l’eguaglianza
maggiore possibile, con ogni ricaduta in senso tendenzialmente paritario sulle
relazioni di tipo economico, giacché relazioni tra pienamente liberi tendono
anche a divenire, come nell’individualista-egualitario Josiah Warren, relazioni
tra sostanzialmente eguali, contrattuali, associative e societarie, anche e
forse soprattutto attraverso l’attribuzione a ognuno della facoltà di emettere
moneta, in particolare sulla base della propria capacità lavorativa.
A questo punto,
dovrei fornire una migliore precisazione sul perché allora preferisco comunque
letture libertarie e di socialismo utopistico pre-marxiano, o anarchico “individualista”
americano del XIX secolo, all’approccio di tipo marxiano, benché in passato
abbia già fornito numerosi ragguagli al riguardo.
Marx ha il
merito di avere introdotto, a partire dalla dialettica tra possesso dei mezzi
di produzione e lavoro, l’elemento del conflitto nell’ambito dell’economia
politica classica, e tuttavia tale conflitto continua a rimanere conflitto
“economico”; sicché Marx riesce a rompere il modello dell’homo oeconomicus
solo ragionando nella prospettiva dell’avvenire, ma lo mantiene nel suo schema ricostruttivo,
il che finisce con l’indebolire la sua interpretazione, che pretende di essere materialista
in quanto economica, ed economica in quanto materialista; ma porre
al centro della lettura materialistica il mero dato economico produce non di
rado come effetto quello di mettere il mondo al contrario e di scambiare per
sistema le cause con gli effetti, o a produrre solo una grande quantità di
tautologie.
In effetti, Marx viene
a proporre una non persuasiva corrispondenza biunivoca, quella per la quale il
materialismo viene ricondotto a categoria dell’economico, ma anche, per
converso, che l’economico viene riduzionisticamente considerato categoria del
materiale, dal cui circolo vizioso si esce, o ampliando il concetto di
economico, o ampliando il concetto di materiale, o procedendo in entrambe le
direzioni simultaneamente; vale a dire però, in ultima analisi, rattrappendo di
gran lunga tanto la nozione di materiale, quanto quella di economico, in nome
di qualcosa di più elevato, di tal che l’homo oeconomicus non sia il
dimidiato homo materialis, anzi sia uomo a tutto tondo, quindi
insuscettibile di etichettature riduttive e riduzioniste, una volta chiarito
che l’homo oeconomicus non può essere meramente “materialis”,
posto che nell’attività economica ciascuno porta, se non davvero “tutto se
stesso”, buona parte della propria personalità, e quindi, come si diceva una
volta, anche il proprio “spirito”, giacché conferisce la propria mente, la
propria intelligenza, la propria creatività, il proprio rompersi le scatole per
un lavoro che non piace; il che ben difficilmente si fa ridurre in toto
a “materia”, qualsiasi cosa ciò intenda significare.
D’altro canto, anche a volere proporsi come
severi materialisti nel senso meno comprensivo e più esclusivista, ancora non
mi è chiaro perché tale attenzione che, come dice Labriola, dovrebbe essere
rivolta al “reale”, al “sociale”, ai “rapporti materiali” appunto, dovrebbe
appuntarsi anzitutto sul momento “produttivo”, e non invece sul concetto, che è
più ampio e comprensivo, di “rapporto di potere” in quanto tale. Sarebbe quindi
meno “materialista”, empirista, realista, occuparsi di potere rispetto a occuparsi
di mezzo di produzione? Salvo che il rapporto di potere, ove pretenda di
stabilizzarsi, richiede sempre l’invocazione di una formula di
legittimazione in grado di imporre un’autorità, e ciò attraverso un’immancabile
articolazione linguistica; ne deriva che il potere si carica di elementi
simbolici e psicologici, tanto di tipo tradizionale, quanto di tipo laico,
razionale e moderno (in apparenza); ne consegue che nello stesso rapporto
economico, in quanto si atteggi a relazione di supremazia/soggezione, la distinzione tra supremazia politica e supremazia economica, tende a perdere di significato, dato che alla supremazia politica
corrisponde la supremazia economica, posto che gli ordini in materia di
produzione sono al contempo ordini di segno politico e ordini di segno
economico: qui l’elemento -legittimante o delegittimante la subordinazione-
“lavoro” si carica ben sì dell’elemento “economico”, in quanto relativo a una
data collocazione attorno all’impiego di qualsivoglia “mezzo di produzione”, ma
anche totalmente dell’elemento politico, in quanto la subordinazione è mera,
e quindi viene a connotare come politica e non solo economica la relazione
hegeliana signore/servo.
E infatti, la storia dell’evoluzione dei rapporti di produzione può
tranquillamente essere resa come storia di rapporti tra potere e libertà, se
dalla schiavitù si passa al “libero” lavoro salariato, se l’economia politica
classica muove dalla conquistata libertà della produzione, del commercio e del
lavoro, e quindi tale storia materialista è sempre e comunque storia simbolica
e psicologica, proponendosi il rapporto economico come una species del più
ampio e comprensivo genus “rapporto autorità-libertà”; se poi
intendiamo la definizione dell’economico in Marx come analisi dei rapporti di
produzione in relazione a un determinato assetto dei titoli di proprietà
relativi ai mezzi di produzione, già vediamo come il momento dell’economico
dismette la propria pretesa imperialistica, per auto-assoggettarsi
consapevolmente a un primato del momento del giuridico -il titolo di
proprietà-, in quanto combinazione di forza e di concetto sulla forza, e quindi
il concetto sulla forza, nel momento in cui trova inveramento, si fa istituzione,
e detto carattere istituzionale si nutre dell’interpenetrazione tra un’idea,
che trova fondamento in un atto di esercizio dell’ingegno, e l’uso della forza
che rende tale idea dato di “materia”, solo in quanto sia socialmente riconosciuto;
ma questo rimanda a sua volta a fattori culturali e psicologici, sempre intrisi
dalla cogenza dei rapporti di forza in atto. E infatti, l’essere titolare di un
“mezzo di produzione” non rappresenta mai un fatto possessorio bruto, la cui
effettività sarebbe oltremodo precaria, per cui chiunque potrebbe sopravvenire
e sottrarti il tuo “mezzo di produzione”, di qualsiasi cosa si tratti; detto
“mezzo”, al contrario, ivi compresa la tua mente riposta dentro il tuo cranio
intangibile e infrangibile secondo diritto, risulta oggetto di una protezione
istituzionale, in quanto diritto formale riconosciuto da un ordinamento, il
quale mette a tua disposizione la sua forza, sicché tu non eserciti mai un
“mezzo di produzione”, ma sempre un diritto riconosciuto e convalidato
dall’ordinamento sul “mezzo di produzione” stesso, e allora anche a tale
proposito si inseguono le ragioni ultime di un simile assetto istituzionale,
che poi nella più parte dei casi è rappresentato da un assetto statuale; se un
tale ordinamento non esistesse, il precario possesso del mezzo di produzione,
che si presume insediato sul territorio, poggerebbe esclusivamente sul “diritto
del più forte”, ma il diritto del più forte non ha alcuna efficacia vincolante
od obbligatoria sul piano morale, come ricorda Rousseau, ed è superabile da un
“più forte” ancora più forte, dato che sul lavoratore non ricade alcun obbligo
morale di obbedire a un proprietario, o a un sistema, che lo escludano
dall’accesso alle risorse naturali, e quindi avrebbe il pieno diritto “del più
forte” di coalizzarsi con altri e abbattere quella proprietà del mezzo di
produzione; del resto, chi si incaricherebbe di certi lavori, se non fosse
ridotto sul lastrico?
E allora il punto è esattamente questo, ossia che la struttura sociale
viene individuata da Marx nell’economia politica, in quanto ricomprendente i
rapporti di produzione, che si vengono a determinare attorno a titoli
proprietari aventi per oggetto mezzi di produzione; ma tali titoli proprietari
vigono in quanto un ordinamento coercitivo “legittimo e legittimante” li
supporti, peraltro in base a un certo insieme di dottrine e filosofie
giuridiche e politiche, oltre che sulla base naturalmente di determinati
interessi di ceto, che quei diritti proprietari rivendichino per sé; e quindi,
per la proprietà transitiva, occorrerebbe concludere che anche
quell’ordinamento coercitivo e quelle “ideologie” sono parte dell’economia
politica, ma non, si badi, in via derivativa, ma a titolo co-costitutivo, e
semmai fondativo; il che porta, in ultima analisi, che -ideologie a parte- la
forza è una categoria dell’economia politica, anzi, ne sarebbe la
fondamentale e presupposta, ma Marx non è mai giunto a tale inquietante
conclusione in termini tanto espliciti.
Il nesso economia-forza è invece abbastanza evidente, anche considerando
che la “sicurezza” ben può essere intesa come un bene economico da acquistare
in qualche sede, e quindi un bene oneroso, che innesca una circolarità, dato
che, per produrre, devo essere certo del mio titolo proprietario, ma può
capitare che, per ottenere tale certezza, io debba anche investire in sicurezza
e protezione, sicché la forza, che sta alla base dell’apprensione della sede,
continua a servirmi anche successivamente, ossia per difendere la sede stessa
dai possibili attacchi, al fine di continuare a consentirmi di renderla
produttiva.
Del resto, in termini analitici, rendere produttivo un suolo presuppone
la sua previa appropriazione, che è atto di energia fisica, e anche di forza
sociale, nel momento in cui tale appropriazione legittima l’appropriatore a
esercitare lo ius excludendi alios, e quindi a fondare il mercato tra i
proprietari, che sono tali in quanto tributari di un atto di forza; di
più: senza il “fattore di produzione Stato”, tutti gli altri incontrerebbero la
propria delegittimazione -anche nel senso che non sopraggiungerebbero i
carabinieri a cavallo in caso di sciopero-, e verrebbero a venire caducati
socialmente: ebbene, lo Stato è dunque certamente “materia”, dato che si fonda
sulla forza ed esercita la forza, domina sul demanio, che è capitale comune, ed
è costituito da un apparato organizzato in guisa militare o para-militare; e
tuttavia al contempo incarna valori ideali, autentici o truffaldini qui non
importa, sicché una rappresentazione in termini meramente materialistici si
rivela del tutto inadeguata.
D’altra parte, se si assegna un carattere materialistico in senso
stretto al rapporto di produzione, non tanto in quanto rapporto di oppressione,
per cui l’elemento materiale consisterebbe nella fotografia dello squilibrio
nella relazione, ma in quanto detto rapporto afferisca a un elemento di
creazione di beni e di servizi, ciò significa che tale elemento produttivo di
beni e di servizi sia ricondotto nella buona sostanza a una “trasformazione
della materia”, e ciò, nonostante il fatto che una trasformazione della
materia richieda comunque un progetto, ossia un derivato della mente, e
che un servizio sia un a sua volta bene immateriale; la stessa
produzione dei beni è oggi in grande parte produzione di beni nell’ambito dell’economia
dell’immateriale e del virtuale, sicché contrassegnare l’economia come
materiale non può che essere inteso in senso fortemente metaforico, dato che un
prodotto immateriale e virtuale esprime quasi esclusivamente intelligenza
e in minima percentuale “materia”; ma anche a prescindere da tale elemento, che
particolarmente attiene alla modernità, designare in termini materiali il
momento produttivo denuncia un empirismo e un induttivismo alquanto ingenui,
dato che, posto che si sta parlando di prodotti della tecnica, in una tecnica
l’elemento prevalente e decisivo è esattamente quello progettuale, conseguente
a un’attività creativa dell’intelletto, vale a dire con il combinarsi
dell’elemento ideale con quello sensoriale, sicché in nessun caso il dato
economico può essere adeguatamente espresso utilizzando un linguaggio puramente
materialista, a meno che nella nozione di “materia” non siano inclusi tutti gli
elementi mentali, come alcune dottrine richiedono.
A questo punto, si rende necessario inquadrare in
tale impostazione teorica non solo l’attività produttiva in quanto attività
creativa e intelligente, ma la questione dei “mezzi di produzione” in quanto
tali, i quali, si badi bene, ricomprendono al primo posto esattamente la mente
umana, mezzo di produzione, semmai, l’intelligenza, e subito dopo tutti i suoi
primi immediati prolungamenti, che nel nostro tempo sono rappresentati
simbolicamente da un telefono e da un computer; e quindi deve essere
inquadrata in tale cornice la questione stessa del lavoro e del suo “valore”,
giacché questo oscilla tra i due poli della materialità e dell’immaterialità,
in quanto sia collegato a uno “sforzo” psico-fisico
della persona, giacché emerge il tema se lo sforzo psico-fisico meriti un
premio particolare in quanto tale, ossia fuori da una logica
squisitamente di produzione effettiva di un valore socialmente
riconoscibile, che non sia altro dal riconoscimento etico della fatica
compiuta dalla persona, fatica da premiarsi in quanto produttiva di una
reputazione in capo al “lavoratore”.
Resta sempre l’interrogativo di come mai Marx abbia
rivolto il proprio impegno critico nella direzione dell’ambito dell’economia,
intesa come tutto ciò che afferisce alla produzione e all’evoluzione delle
tecniche della produzione stessa, e non invece al più ampio e comprensivo
concetto di potere e di autorità, nel quale semmai poi sussumere determinate
relazioni economicamente improntate. D’altra parte, se uno si chiede perché
Tizio e non Caio controlli un dato mezzo di produzione, il discorso impersonale
deve trovare anche una spiegazione personale specifica su quell’individuo
particolare, sulle sue doti, o caratteristiche particolari, che l’hanno
collocato dalla parte del controllo unilaterale dei mezzi di produzione e non
sul versante dei controllati, sicché ancora una volta dietro la supposta
materia si cela l’uomo, gli uomini in tutti i loro elementi particolari di
differenziazione; ebbene, una
volta che si prenda atto che il concetto di “economico” ricomprenda la forza, la
forza argomentata del diritto e quella bruta, e comunque di impatto sulla
destinazione d’uso del mondo, nonché però anche tutto quanto attiene alla
creatività, all’ingegno, alle idee e alla cultura, il presunto “primato
dell’economia”, che è dei moderni, ma anche dei classici e di Marx in
particolare, finisce in realtà con l’assegnare il primato a un asso
pigliatutto, a una formula passpartout, che in realtà contempla
“tutto” quanto rappresenta fenomeno sociale nell’ambito del mix forza/idee
sull’uso della forza, e ciò va a beneficio di Marx, il quale, rispetto alla
visione tradizionale dell’homo oeconomicus, aggiunge che i rapporti
economici non sono paritari, ma sono relazioni di potere, nei quali è agevole
ravvisare un sopra e un sotto, se non sempre, molto spesso; ma ciò allora
conferma che Marx avrebbe dovuto individuare la struttura dei rapporti sociali
nella dinamica dei mutevoli rapporti di autorità, per poi appunto
individuare quali tra le relazioni economiche meritassero di essere ricostruite
nei termini dei rapporti di autorità, e allora si sarebbe reso conto che tra
questi non rientrano solo i rapporti di lavoro.
È vero che il progetto di Marx è di andare oltre l’homo oeconomicus,
in una società ipotizzata come di piena libertà dell’uomo, e nemmeno totalmente
egualitaria, ma fondata sulle differenze a tutto tondo tra le persone, salvo la
preclusione dello “sfruttamento”. E tuttavia, ponendo “l’economia” a struttura
della filosofia della storia, egli ha singolarmente collocato a struttura
quell’homo oeconomicus, così come attribuito ai classici dell’economia
politica liberale, e non invece l’uomo a tutto tondo che pure è nei suoi voti:
perché non l’uomo a tutto tondo sarebbe stato struttura, ma solo l’homo
oeconomicus, tuttavia non risulta spiegato in termini persuasivi, sempre a
meno che, cogliendo dell’”economico” l’etimologia, non si stia parlando dell’uomo
che amministra, quindi dell’uomo che agisce, quindi ancora dell’uomo che
si sforza di esprimere il proprio potere conformativo nei confronti
dell’ambiente, e allora, in questa rinnovata accezione, “economia” significa
esattamente questo; salvo che anche “diritto”, anche la dimensione del
“giuridico”, esprime esattamente questo (imprimere destinazioni d’uso al mondo
circostante), e però anche, “con altri mezzi”, il “politico”, l’”etico” e tutto
il resto riguardi l’agire umano, dando vita in tal modo, per vie indirette,
all’agognata disciplina di teoria sociale unificata.
Eppure, con tutti questi caveat, in particolare il non avere a
disposizione Marx un persuasivo concetto di “materia”, e avere individuato
questo nel momento economico-produttivo, pur essendo invece tale elemento
massimamente impregnato di mentale e di culturale in ogni accezione, vale a
dire di umano, la centralità da lui assegnata al rapporto tra
“economico” e “dominio” deve essere salvata in quanto contributo centrale; e
questo, non perché il dominio vada ravvisato di necessità in un rapporto economico
e non in altro, altrimenti qualificato, ma per l’inverso: ossia per il fatto
che un rapporto di dominio ha sempre almeno anche un risvolto economico,
un elemento caratterizzante anche in senso economico, in quanto è chiaro che,
se vi è rapporto di dominio, in esso si insinuerà di necessità una qualche
forma di sfruttamento a vantaggio della parte forte; e questo consente di
considerare Marx tra gli anticipatori di materie come la scienza delle finanze
di scuola italiana e suoi derivati illustri come la public choice di
James Buchanan, ovvero anche dell’approccio economico alla condotta umana di
Gary Becker, il che poi ci porta alla nozione di “imperialismo dell’economia”,
che è nozione a sua volta ascrivibile ad autori di scuola liberale come Robbins
e von Mises; il che poi rappresenta conferma a posteriori di quanto il
pensiero marxiano, al netto dei suoi elementi storicisti ed escatologici, sia
tutto interno alla tradizione dell’economia politica liberale, o tale in senso
lato, che ha accompagnato il sorgere e l’affermarsi del sistema capitalistico,
sistema in cui i valori dell’economia politica impregnano, volenti o nolenti,
un sistema istituzionale.
Il
fatto è che al pensiero di Marx possono venire imputate due responsabilità che
parrebbero opposte e contraddittorie: l’eccesso di economicismo nella
ricostruzione della vicenda storica e l’eccesso di statalismo quale rimedio
proposto alle derive della vicenda stessa; è quindi Marx a essere
contraddittorio, o esiste un nesso tra quell’economicismo e quello statalismo? Gli
è che, se tu vedi le relazioni del conflitto esclusivamente come “economiche”,
disattendendone gli originari elementi politici schmittiani come
co-costitutivi, finisci con il vedere quelle vicende come, a ben vedere, prive
di quel nerbo intrinseco necessario, il che poi richiede che si aggiunga l’uso
della forza della coercizione ab extrinseco quale push factor indispensabile
per fuoriuscire da quelle vicende, così come fu necessario per entrarvi all’epoca
dell’accumulazione originaria, il che consegue anche al cattivo uso della
dialettica struttura-sovrastruttura, di tal che i due termini finiscono con il
risultare invertire, giacché viene assegnata alla sovrastruttura tutto quello
che invece rappresenta impalcatura di forza del sistema, tutto quello che
rappresenta il coacervo dei sentimenti umani, che se ne collocano alla base quale
insieme delle sue legittimazioni e giustificazioni ultime.
Ma se tutto questo è vero, ciò significa anche che il marxismo può
fornire un proprio contributo storico-sociologico solo come elemento
costitutivo di una dottrina più ampia, la quale preveda: a) consapevolezza
che i rapporti economici si svolgono nell’alveo di un sistema di legittimazioni
giuridiche e politiche, riguardanti quindi i titoli proprietari in quanto
socialmente riconosciuti, per quanto poi questi subiscano in feed-back i
riflessi dello svolgimento di quei rapporti in quanto rapporti di forza; b) Il
riconoscimento dello Stato come elemento dell’economia politica, sia in quanto
strumento di legittimazione, sia in quanto ossatura del sistema, sia in quanto
agente economico e proprietario direttamente del capitale fondamentale (demanio);
c) una concezione di “materia” incorporante il mentale e lo “spirituale”,
come sottolinea il Real Materialism di Galen
Strawson; d) una concezione
dell’“economico” sottratto in ogni caso al meramente materiale, stante che
non può esservi attività economica in qualsiasi accezione che sia priva
dell’ideazione e della progettazione mentale; e) riconoscimento della centralità
dell’elemento monetario, per la quale il capitalista e il proprietario
nulla possono in assenza dell’accesso all’erogazione monetaria da parte dei
padroni della moneta, sicché discutere del loro dominio ignorando
quell’elemento -che, si badi, è ancora un elemento mentale e non materiale,
dato che la moneta è una pura costruzione mentale, e non un prodotto naturale o
altrimenti materiale- significa falsare la discussione; f) una
concezione del dominio economico come sottobranca del dominio unilaterale in
generale, per cui è il dominio a comportare sfruttamento economico e non
l’inverso, dato che, in assenza di un rapporto di dominio ravvisabile
analiticamente come tale, nemmeno è possibile ravvisare con chiarezza un elemento
di sfruttamento economico, che non sia anche reciproco e non unilaterale. In
definitiva, se vogliamo chiudere questo capitolo con uno slogan, si può dire,
con Marx e contro Marx, “non ogni rapporto economico è rapporto di dominio,
ma ogni rapporto di dominio è sempre anche un rapporto economico”. Fermo
restando che quel rapporto di dominio si nutre ai propri fondamenti di ben
altro, riconducibile in ultima analisi in una qualche forma di rapporto tra l’uso
della forza e tutti gli elementi mentali e sentimentali, razionali o irrazionali,
i quali pretendono di dotare di legittimazione quell’uso della forza.
Nessun commento:
Posta un commento