di Fabio Massimo Nicosia
Per Sorel in Marx emerge una figura di capitalista guerriero, conquistatore insaziabile -modello, gli Stati Uniti più che la vecchia Inghilterra-, ma è esattamente questa indomabilità del “capitano di industria” a consentire di essere fronteggiata da un proletariato virile, e non ammosciato dai riformisti e dai democratici, oltre che dai preti di ogni colore, in quello che Sorel definisce un “ideale di mediocrità conservatrice”, il quale conduce uno acto alla “rovina simultanea dello spirito capitalistico e dello spirito rivoluzionario”, e qui sembra di vedere echeggiato il migliore Gobetti, giacché qui non vediamo all’opera solo un fiacco “riformismo socialista”, ma altresì un non meno svirilizzato timore della borghesia, la quale viene quindi indotta a delle rinunce di potere fondate esclusivamente sulla paura, e sulla sollecitazione dei politici e dei sindacalisti a “cedere” alla più banali rivendicazioni operaie, di tal che il deputato riformista e il sindacalista possano pascere nella loro mediocre carriera di parassita. Marx, sottolinea Sorel, “supponeva che la borghesia non avesse bisogno di essere eccitata all’esercizio della propria forza”, ma non aveva fatto i conti con il fatto che la borghesia di fine ottocento e primo novecento, al contrario, avrebbe favorito per miopia l’approvazione di tutta una legislazione -ecco la sottovalutazione della politica da parte di Marx- che cerca di attenuare esattamente l’esercizio della forza da parte propria, sempre per timore e paura di qualcosa, in modo tale da minare la previsione marxiana che la rivoluzione sarebbe giunta a colpire al cuore il capitalismo mentre questo fosse ancora pienamente vitale.
Emerge allora l’esigenza di un rapporto con
l’oggi, nel quale il capitalismo idiocratico cerca nuova vitalità, con
protervia e ferocia, ma immancabilmente in collusione con lo Stato, del quale
ha scoperto l’immane capacità e volontà di potenza, da piegarsi pro domo sua,
non più solo come mero gendarme notturno, ma come attivatore del
capitale e, in particolare, del prezioso capitale comune da porgli a
disposizione al fine di depredarlo, e stiamo parlando di demanio, in
particolare di quello immateriale, posto che lo stato patrimoniale
capitalistico oggi si regge sui beni immateriali ben più che sugli “impianti”,
sui quali aveva richiamato l’attenzione Heidegger, sconvolto dall’evoluzione
tecnica, non potendo pienamente allora prevedere che la tecnica sarebbe
divenuta soprattutto tecnica dell’immateriale e del virtuale, emissione
monetaria compresa, oltre a chip, software, marchi, brevetti e copyrights,
oltre che etere, e quindi frequenze radio-televisive e web.
E allora noi oggi siamo costretti a constatare che
siffatto capitalismo idiocratico si fonda non più tanto, come un tempo, sullo
sfruttamento del lavoratore, ma soprattutto sullo sfruttamento di quella figura
apparentemente così astratta che è il “cittadino”, che qui emerge a un tempo
come comunista del capitale comune e del demanio e come consumatore, o, più
esattamente, come prosumatore, vale a dire come produttore attivo di ciò che
conferisce nel suo proprio consumo, giacché conferisce anzitutto capitale
materiale e immateriale, ad esempio i suoi dati digitali, di tal che le classi
si disegnano non più attorno al rapporto con i “mezzi di produzione”, ma
preliminarmente rispetto a questi, vale a dire attorno al “capitale comune”,
che si pone come logicamente preliminare rispetto al mezzo di produzione, anche
per la banale ragione che il mezzo di produzione è fisicamente insediato sul
capitale comune e a questo accede, come tutto accede alla Terra. L’essere
lavoratore sfruttato diviene così meramente eventuale, e comunque sempre
conseguenziale rispetto all’essere capitalista comune depredato, e quindi
persistentemente sfruttato sotto tale profilo, nonché privato del diritto di
libero conio -giacché il maggiore sfruttamento è insito nel monopolio
bancario-, tal per cui lo stesso istituto della cambiale, così basilare nel
miracolo economico italiano, è caduto in ampia desuetudine e così
neutralizzato, desuetudine non certo casuale, ma favorita nell’interesse del
banchiere e dell’idiocrate, che non vogliono concorrenza nell’emissione
monetaria.
Diviene quindi necessario confrontarsi con la tesi
anarco-capitalista, che coincide con i comportamenti de facto del
neo-liberista, che intende il demanio come res nullius, in quanto,
secondo tale prospettazione, il capitalista predatore merita di essere
socialmente premiato in quanto egli valorizza il demanio, e non altri che lui,
fatto salvo però che lo valorizza a suo esclusivo e abusivo vantaggio
-attraverso le marxiane “enclosures su demanio”-, come nel noto caso
Della Valle-Colosseo, in cui si plaude Della Valle per il fatto che “valorizza”
il marchio del Colosseo, salvo che se ne è impadronito illegalmente, e lo fa
fruttare ben sì, ma per le sue personalissime tasche, e allora non si comprende
perché noi cittadini, proprietari comunisti del demanio, dovremmo in un
qualsiasi modo dire “bravo” a Della Valle, il quale non fa che locupletarsi in
proprio attraverso il bene a noi comune: che razza di logica seguono qui l’anarco-capitalista
e il neo-liberista di staceppa? Il fatto è che qui il rothbardismo, più che non
giusnaturalista -o giusnaturalista secondo un’accezione abbastanza di comodo-
risulta “utilitarista”, ma in un’accezione alquanto volgare, dato che procede ex
abrupto a un’assegnazione di risorse fondata su di un criterio “non
morale”, ma in nome di “chi valorizza meglio un certo capitale”,
affermazione che ha scarso fondamento morale, e brutalmente produttivistico,
salvo soggiungere ancora che la valorizzazione è in realtà un’auto-valorizzazione
che non guarda in faccia a nessuno, dato che l’impiego del capitale comune qui
non è gravata da alcuna compensazione o indennizzo a vantaggio della comunità,
giacché quota parte di esso viene puramente e semplicemente appropriata e
incamerata dal capitalista, il quale poi rivendica tutto intero per sé il
premio di una valorizzazione presunta di un bene che però ab origine è
altrui, il che significa premiare il rapinatore per essere molto capace nel far
fruttare il suo bottino, il che però non fa del rapinatore un “antistatalista”;
con l’ulteriore implicazione che, essendo il marchio del Colosseo risorsa rara,
anzi, unica, si viene a determinare una dura competizione tra idiocrati, in
vista del suo impossessamento, sicché il marchio stesso viene trattato dallo
Stato stesso come res nullius e non quale res communis qual è e
dovrebbe essere, dato che il demanio non è altro che capitale comune di diritto
positivo, e quindi dovrebbe fruttare ai cittadini tutti, in quanto
capital-comunisti, e non a Mister Della Valle, del quale a noi cittadini non
fotte un cazzo, e quindi non comprendiamo perché debba essere lui a
locupletarsi, e non viceversa noi: del resto, fu nel mio libro “Il dittatore
libertario”, uscito nel 2011, che individuai i due temi dell’idiocrazia e della
rilevanza del demanio, salvo successivamente meglio comprendere il profondo
nesso tra le due nozioni, ma Della Valle non ha nulla del dittatore libertario,
anche se forse qualcosa dello sciuscià.
Per meglio comprendere
la competizione tra idiocrati nel porsi in prima fila nel compiacere lo Stato
e, quindi, poi, farsi Stato direttamente e immediatamente, basti pensare alle
competizioni tra bande criminali: nella bruta realtà, le mafie, o congreghe criminali come
la Banda della Magliana, quella del Brenta, e simili, finiscono con
l’atteggiarsi alla stregua di vie di mezzo tra l’impresa di mercato e la
configurazione tipica di uno Stato, in quanto fanno ricorso come metodo alla
coercizione, ma possono anche essere considerate manifestazioni alquanto
genuine del sistema capitalistico, una volta che si abbandoni l’idea angelicata
e ingenua, per la quale il mercato concorrenziale sarebbe pacifico e volto alla
coesistenza pacifica tra le imprese concorrenti, e non produca invece anche numerose
competizioni escludenti, le quali pressoché per definizione abbisognano
di un grado di forza; il che si verifica, una volta posto che le mafie e le
bande criminali sono aspiranti monopolisti, che quindi tendono a “farsi
Stato”, mantenendo però al contempo l’efficienza produttiva dell’impresa, salvo
che, con riferimento a tali bande criminali, ci troviamo di fronte a imprese
che operano come se vivessero nello stato di natura (hobbeseano, anche se l’anarco-capitalista
propone il proprio stato di natura come lockeano), e quindi hanno bisogno di
curare da sé la propria difesa e l’implementazione dei propri interessi, e
quindi agiscono totalmente in regime di autotutela, atteso che agiscono
in uno stato pre-legale o a-legale; il che peraltro è sovente proprio anche
dell’impresa capitalistica pura e semplice, quante volte essa agisce borderline
nei confronti della legalità, o addirittura al di là di essa in modo franco,
anche se più spesso dissimulato, potendo colludere altresì con lo Stato, l’una
e l’altro operando illegalmente e, quindi, a loro modo, anche in tal caso, come
se i due soggetti fossero agenti di uno stato di natura, ossia applicando a sé il
rivendicato “diritto a tutto”, senza alcun freno morale o di diritto; mentre
nell’irrealistico modello etico libertarian rothbardiano, l’imprenditore
e capitalista agisce “senza mai ledere i diritti degli altri”, giacché,
da un lato, si darebbe il funzionario governativo abilitato all’esercizio della
forza fisica, mentre dall’altro avremmo l’uomo d’affari ivi totalmente intento
a soddisfare il consumatore, mai tentato dal ricorso a forme di coercizione; ma
posto che tale configurazione edulcorata esiste solo nel mondo onirico dei
seguaci di Rothbard, dato che l’”uomo d’affari” rapidamente subisce il fascino
dei pregi della coercizione, va a finire che avere a che fare con detti seguaci
equivale all’avere a che fare con quei paleo-comunisti, per i quali esiste
sempre un comunismo idealtipico puro, che non corrisponde mai a quello “realizzato”,
e che loro però continuano a ritenere realistico, nonostante le “dure repliche
della storia”: allo stesso modo, per l’anarco-capitalista medio esiste sempre
un “capitalismo ideale” delle “armonie economiche”; salvo che questo esiste
solo nell’iperuranio, e nondimeno costoro continuano a parlarne come se fosse
un concetto attendibile, da realizzarsi forse “un giorno” anche nella nostra
caverna del mito; come ben si vede, l’anarco-capitalismo moderno è solo una
variante particolare, tutta americana, della mentalità sessantottina.
Al
contrario, il successo della competizione escludente, così come insegna proprio
la storia degli Stati, richiede l’uso della violenza nei confronti dei competitors,
senza che si possa moralisticamente affermare che l’uso della violenza da parte
dell’impresa comporti fuoriuscita dal capitalismo, dato che ciò comporterebbe
una definizione dell’impresa capitalistica nel senso del suo carattere non
violento, il che, come si è appena visto, è ben poco realistico, esistendo solo
nei catechismi liberali; e, comunque, l’idea che un’impresa debba sempre agire
secondo non violenza non si trova ricompreso in alcuna credibile definizione
analitica, la quale ben può prevedere l’ipotesi dell’impresa armata,
esattamente come è impresa armata una cosca mafiosa o una banda criminale.
Sicché l’impresa introietta la forza che il modello standard assegna in
monopolio allo Stato e, in conformità al modello anarco-capitalistico, si arma
direttamente (non molto diversamente, come visto, dall’impresa mafiosa, salvo
che questa formalizza, ufficializza e dichiara esplicitamente il carattere
aggressivo e non solo difensivo dell’armamento), laddove il modello standard
si riespande nell’ipotesi dello “Stato privato”, la quale peraltro segna il
fallimento del modello anarco-capitalistico, o ne segna l’evoluzione o
l’involuzione in senso monopolistico a sua volta; salvo che entrambi sono
fondati su di un paradigma di scarsità hobbeseana, ossia di contesa per
l’accaparramento di risorse scarse, il che rende la concorrenza non un
territorio aperto della compossibilità e della coesistenza pacifica, ma come
una competizione escludente, un’asta a somma zero, nella quale uno si accaparra
ciò che anche l’altro rivendica, ma non riuscendoci minimamente, e ciò si nota
anche nella concezione del conio, in quanto improntato a sua volta a rarità e
non ad abbondanza; eppure l’anarco-capitalista si condanna a un ruolo di
scarsità, che potrebbe non essere il suo, se accoglie il libero conio ben
inteso, vale a dire in funzione espansiva; tal per cui l’anarco-capitalista, il
quale sappia fuoriuscire dalla fissazione per il gold standard, e
approdi al libero conio incondizionato, finisce poi con il pervenire sulle
nostre posizioni; a meno che non continui a pretendere di ricavare dalla sua
concezione della Terra come res nullius conseguenze stupide e dannose,
quale quella ad esempio che il Della Valle sarebbe legittimato a impadronirsi gratis
del marchio del Colosseo, sulla base del risibile presupposto che il Colosseo
non sarebbe “di nessuno”; del resto, non si vede perché mai dovremmo seguire
una simile linea, palesemente autolesionista per gli interessi di noi
cittadini, ma non sarebbe la prima volta che l’anarco-capitalista ragiona in
modo autolesionistico per darla vinta al capitalista -sarà una forma di martirio
richiesto da quella religione-, come quando Leonardo Facco, in nome dello
stolido motto “Facebook è un privato e fa quello che vuole”, non ha
eccepito a che Facebook cancellasse il suo profilo e quello del Movimento
Libertario, nonostante fosse palese sotto tutti i profili l’illiceità di simili
“ban”. Per meglio comprendere i livelli di
terrapiattismo ai quali questa teoria della res nullius conduce nei
fatti -al di là delle disquisizioni elevate su Israel Kirzner e sulle “scoperte
dell’imprenditore-, basti pensare che, quando, bombardato l'Iraq, ci fu il
saccheggio del Museo Babilonese, vi fu tra gli anarco-capitalisti, di solito
persona mite, ma vittima della folle ideologia, chi disse che tutto ciò era
legittimo, ossia che il Museo Babilonese andasse disperso e distrutto, dato che
il museo stesso sarebbe res nullius, e quindi liberamente appropriabile
dal primo minchione, il quale ivi fosse passato.
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