di Fabio Massimo Nicosia
Per Sorel in Marx emerge una figura di capitalista guerriero, conquistatore insaziabile -modello, gli Stati Uniti più che la vecchia Inghilterra-, ma è esattamente questa indomabilità del “capitano di industria” a consentire di essere fronteggiata da un proletariato virile, e non ammosciato dai riformisti e dai democratici, oltre che dai preti di ogni colore, in quello che Sorel definisce un “ideale di mediocrità conservatrice”, il quale conduce uno acto alla “rovina simultanea dello spirito capitalistico e dello spirito rivoluzionario”, e qui sembra di vedere echeggiato il migliore Gobetti, giacché qui non vediamo all’opera solo un fiacco “riformismo socialista”, ma altresì un non meno svirilizzato timore della borghesia, la quale viene quindi indotta a delle rinunce di potere fondate esclusivamente sulla paura, e sulla sollecitazione dei politici e dei sindacalisti a “cedere” alla più banali rivendicazioni operaie, di tal che il deputato riformista e il sindacalista possano pascere nella loro mediocre carriera di parassita. Marx, sottolinea Sorel, “supponeva che la borghesia non avesse bisogno di essere eccitata all’esercizio della propria forza”, ma non aveva fatto i conti con il fatto che la borghesia di fine ottocento e primo novecento, al contrario, avrebbe favorito per miopia l’approvazione di tutta una legislazione -ecco la sottovalutazione della politica da parte di Marx- che cerca di attenuare esattamente l’esercizio della forza da parte propria, sempre per timore e paura di qualcosa, in modo tale da minare la previsione marxiana che la rivoluzione sarebbe giunta a colpire al cuore il capitalismo mentre questo fosse ancora pienamente vitale.