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lunedì 23 maggio 2022

Il modello idealtipico puro dello Stato fascista e l’ipotesi della sua estinzione su base economica

 

di Fabio Massimo Nicosia

Il Fascismo ha dovuto affrontare il problema di Otto Neurath, ossia ristrutturare la nave nel corso della navigazione in mare aperto, vale a dire darsi una teoria compiuta in corso d’opera, non sussistendo una dottrina fascista perfettamente definita vera e propria, che fosse davvero tale alle origini del movimento, anche per le esplicite proclamazioni di pragmatismo non ideologico di Mussolini (il che mi fa pensare all’analogo atteggiamento sempre mantenuto da Marco Pannella); questa è probabilmente la distinzione più netta tra marxismo e fascismo, dato che il marxismo, con Marx, Engels e tutti i seguaci di ogni sfumatura, pretesero di dare una sistematizzazione al pensiero “socialista”, che fino ad allora era stato pluralista, mentre per altri versi avvicina ciò il fascismo all’anarchismo, in quanto neanche questo possiede un “sistematizzatore” riconosciuto, ma una pluralità di voci anche dissonanti tra loro, per quanto attorno a un nucleo fondamentale, consistente nella contestazione dei fondamenti di legittimità dello Stato.

Il fascismo rappresentò quindi, dal punto di vista del pensiero, un punto d’approdo piuttosto confuso di una pluralità di fonti, accomunate più pragmaticamente che non teoreticamente -e l’anarchismo, non meno del nazionalismo, anche se in modo più “subdolo”, è certamente una di queste fonti-, sicché l’elaborazione e la sistematizzazione di un autentico “pensiero fascista” deve ritenersi come fosse allora sempre in corso, stante la difficoltà di omogeneizzare le differenti provenienze; il che mi suggerisce una sorta di “gioco”, ossia di procedere ora io a un abbozzo di tale sistematizzazione, e di farlo quindi “a tavolino”, gioco puramente intellettuale, condotto ovviamente secondo i miei gusti personali, che sono libertari, ma che non intendono ignorare affatto i dati dell’allora realtà, nei limiti in cui questi, enfatizzandoli, consentano di lavorare nella direzione da me indicata: verso cioè una sorta di “fascismo libertario”, in quanto desumibile da un idealtipo di “Stato fascista” di fonte, da un lato hegeliana, dall’altro organicistica, secondo una concezione dello Stato, che, per certi versi, mi appare alla fine come una concezione suicida dello Stato, non dico presente in tutte le teorizzazioni fasciste, ma in alcune sì, le quali portino alle estreme conseguenze determinati presupposti di carattere soprattutto economico, che consentano di innestare un dialettica nel senso del superamento dello Stato, ovvero nella sovrapposizione tra ciò che è Stato e ciò che non lo è -il che significa negare lo Stato in quanto soggetto autonomo-, ovvero ancora in qualcosa di simile alla formula marxiana del “riassorbimento dello Stato nella società civile”, che, a ben vedere, finisce con il risultare qualcosa di molto simile al proprio esatto opposto, ossia nel “riassorbimento di tutta la società civile nello Stato”; e ciò, in nome di una qualche sorta di diritto comune, per il quale la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico perda la propria ragion d’essere, com’era ad esempio nei voti di un Ugo Spirito.

La lettura più credibile del fenomeno fascista, dal punto di vista della ricostruzione della conformazione del suo pensiero, è che si tratti di una qualche sorta di combinazione tra socialismo e nazionalismo, e quindi si parla di socialismo nazionale, con riferimento alla quale terrò da parte l’elemento “nazionalistico”, se non per evidenziare come la sua dimensione di scala tipica sia quella di uno Stato-nazione, proiezioni imperialistiche a parte -come ad esempio nel pensiero neo-medievale di un Julius Evola, il quale pure non aveva tutto questo entusiasmo per la cosa “Stato nazionale”, dato che, in omaggio alla sua ispirazione imperiale. Evola riconosceva la necessità di un’articolazione organica anche ai vari livelli decentrati-, sicché la dimensione fascista dello Stato-impresa ha la dimensione di scala di un territorio del genere, salvo poi verificare le connotazioni funzionalmente confederali di una tale configurazione.

Io colgo nel pensiero fascista migliore, sempre in termini economici -tralasciando tutto quanto è aspetto di “spirto guerrier”, il che pure non è irrilevante quanto a distinzione dal descritto “materialismo” marxista-, una chiara derivazione dal filone classico del socialismo utopistico, pre-marxiano o non-marxiano, la cui preoccupazione principale è sempre stata quella di riunire nelle stesse mani capitale e lavoro, argomento che abbiamo già introdotto parlando del libero conio in Proudhon e Josiah Warren, e che si ravvisa in autori, dapprima come Thomas Hodgkins, ma poi come Robert Owen, Saint-Simon -il quale per certi versi si attaglia al fascismo per il suo interclassismo-, e financo nella stessa utopia di Fourier; ma “riunire nelle stesse mani capitale e lavoro”, guarda caso, è stato anche lo slogan, che ha accompagnato grande parte del movimento intellettuale corporativista, e in questo sta il tanto detestato carattere “piccolo-borghese”, che normalmente il marxista imputa contemporaneamente a socialismo utopistico, anarchismo (in particolare a Proudhon) e fascismo, per quanto poi l’area comunista fu molto intrigata da certe teorizzazioni radicali di Ugo Spirito, che in effetti determinarono in materia un certo soqquadro.

Qualcuno, ad esempio lo fece Bordiga, potrebbe assimilare il fascismo a qualche forma di socialdemocrazia, tant’è che De Felice descrive il programma di Piazza San Sepolcro del 1919 come una sorta di programma radical-socialista, evidenziando come, in quella fase, i “fasci” si collocassero nel centro-sinistra, persino propugnando alleanze coi riformisti di Turati. Tuttavia, ragionando in termini più significativamente teorici, a ma pare che, dal punto di vista della dottrina economica, la differenza fondamentale tra fascismo e socialdemocrazia della II Internazionale, o rispetto allo stesso Lenin -secondo Danilo Zolo, da questo punto di vista, influenzato dalla stessa II Internazionale, è che questi ultimi vedono nello Stato un mero strumento di coercizione in vista di determinati fini, sicché l’impossessamento delle attività economiche è meramente strumentale a quei fini; laddove nel fascismo, almeno nei risvolti più interessanti della dottrina, fa ben più che capolino l’idea che lo Stato debba essere soggetto produttivo direttamente, e non solo strumentalmente; da qui una sua più precisa articolazione confederativa in soggetti –“enti”- produttivi o di amministrazione di servizi, senza negare al contempo l’iniziativa privata, la quale non viene soppressa, ma “funzionalizzata” al progetto produttivo più generale e complessivo.

Mentre la socialdemocrazia, nella sua evoluzione, ha poi ritenuto di poter utilizzare lo Stato come attenuatore dall’esterno del conflitto, la dottrina fascista va oltre, e cerca di conciliare il conflitto all'interno dello Stato, inteso come idea hegeliana suprema, fino però, questo è il punto che mi pare da valorizzare, a lambire la sua estinzione come organizzazione vera e propria, nel momento in cui il pensiero fascista propone l’organamento dello Stato totalitario per categorie economiche in confederazione funzionale, e quindi, non solo come ammortizzatore del conflitto, ma come suo permanente istituto del superamento; fino a constatare Mussolini a Salò il fallimento del tentativo, attribuendone astutamente la colpa alla renitenza dell’alta borghesia, e quindi fino a riproporre quasi l’autogestione operaia, sia pure sotto la guida di una figura imprenditoriale o di capo-impresa, rappresentativa dell’”interesse pubblico” o generale dello Stato in ciascuna delle imprese autogestite o co-gestite, tentando un passo innanzi oltre il corporativismo, ideale astratto e non praticabile, data l'irriducibilità del conflitto che si sarebbe voluto, non solo armonizzare, ma addirittura superare in una sintesi superiore, il che si ravvisa soprattutto in Spirito, ma anche in Filippo Carli (padre di Guido) e altri.

 

Il fascismo ha quindi l’intuizione che il capitalismo non è un sistema economico, ma un sistema anzitutto politico, e allora si ripropone di riformare l’”economia”, proponendo un diverso modello di Stato; col fascismo, lo Stato diviene “produttore”, quindi il fornitore di beni, non solo di quelli che storicamente si ritiene che il mercato non sia ancora in grado di produrre, e si riallaccia all’evidenza alla scuola della scienza delle finanze italiana: noto, a tale proposito, che de Viti de Marco era un radicale-liberista –quindi l’idea dello Stato “imprenditore” dei beni  pubblici palesa paradossalmente questa matrice, anzitutto con Maffeo Pantaleoni, a sua volta radicale-liberista, poi però nazionalista e successivamente fascista-, che fu antifascista, e rifiutò di giurare fedeltà al regime, rigettando anche la nomina a senatore; ma il suo libro fondamentale uscì nel 1927, con Mussolini già saldamente al potere. Tuttavia la cosa non sorprende troppo, se si considera che le teorizzazioni degli economisti corporativisti, si pensi a un Filippo Carli, andavano a ben vedere nella stessa direzione, ossia in quella di andare al di là di Keynes, e includere lo Stato come elemento interno della dottrina economica e, quindi, di intenderlo quale attore economico autonomo attivo in proprio, sul presupposto che economia e politica non rappresentassero vicende disgiunte, ma marciassero di pari passo, che è poi il proprium della public choice (anche l’unanimismo di James Buchanan, infatti, va nella stessa direzione), scuola secondo la quale persino la rilevanza politica di una condotta  è autonomamente qualificata anche dal punto di vista economico. Oggi lo Stato è immediatamente imparentato con la nozione di impresa, alla luce del Trattato europeo, ma a mio avviso tale visione non ha radice, questa volta, ordoliberale tedesca, ma “italiana” nel senso che si è detto, sia pure nella salsa neo-liberista, che vede “imprese” dappertutto (non che questo sia sbagliato).

 

In questa direzione ha giocato anche, e per certi versi soprattutto, l’influsso sindacalista-rivoluzionario, se non addirittura anarco-sindacalista, sul fascismo, giacché tale filone di pensiero non disdegnava il liberismo economico, di tal che, nel momento in cui si mettono le mani sullo Stato, si ragiona nei suoi confronti con l’idea di renderlo soggetto produttivo. E allora vien da chiedersi in che senso il Sorel cantore del conflitto possa essere stato invocato dal fascismo altresì a sostegno della sua concezione corporativa, quando il corporativismo operaio, e soprattutto la collaborazione capitale-lavoro dei riformisti, aveva costituito oggetto esattamente degli strali soreliani, che l’additavano come fondata su di una formula di legittimazione sentimentalistica e pietistica -peraltro una formula di legittimazione può fondarsi sugli opposti sentimenti dell’odio e della vendetta-, il contrario della conflittualità aperta tra interessi francamente contrapposti da lui propugnata. Il fatto è però che il corporativismo fascista propone una formula di legittimazione di tipo diverso, al di là della retorica patriottica, vale a dire una non molto dissimulata ottimalità paretiana, che sarebbe insita nel gioco a somma positiva connesso con la cooperazione tra le classi, da intendersi però, soprattutto nella prospettiva della Repubblica Sociale, come atto di riverifica della necessità non parassitaria del capo d’industria, una volta constatato come questi nel corso delle vicende del regime si sia reso profittatore di un sistema che gli accomodava, al punto di vanificare gli elementi ideologici più spinti del corporativismo stesso, ossia la trasformazione vera e propria dello Stato totalitario in soggetto pienamente economico, nel momento stesso in cui esso si proponeva come soggetto inverante hegelianamente l’idea dell’etica; dato che il suo carattere etico finisce qui con il coincidere con la sua aspirazione a rivelarsi soggetto produttivo e non parassitario, sicché il conflitto non viene radicalmente negato, ma riassorbito nella necessità della cooperazione e dell’armonia, in quanto vicenda più efficiente rispetto a quella del conflitto, una volta che questo abbia fallito nella sua pretesa rivoluzionaria e, quindi, di superamento dell’asfittica prospettiva riformista, della quale però recupera il dato cooperativo e affermativo del lavoratore, in quanto protagonista di una capacità produttiva a vantaggio però questa volta proprio e non altrui; e del resto Sorel stesso non criticava le cooperative operaie in quanto tali, ma solo in quanto politicanti riformisti e sindacalisti strizzassero l’occhio in quella direzione per trarne finanziamento al partito o stipendio per se medesimi. Sicché, esattamente come nel modello autogestionario, anche se in termini attenuati e non radicali, nella cogestione il lavoratore si fa immediatamente imprenditore, e in tale modello di ricostruzione economica dello Stato, il lavoratore si fa imprenditore direttamente anche in quanto cittadino, imprenditore in quanto socio in unione con ciascun altro cittadino dello Stato, ciascuno socio della grande impresa o meta-impresa Stato; uno Stato in cui l’elemento agonale viene contenuto, e ciò invera una dialettica libertaria solo se si coglie che lo Stato ampliativo-produttivo implica quel cambio di paradigma nell’intendere la statualità, e quindi il superamento dello Stato stesso, passando per la fase in cui lo Stato è soggetto economico, quindi produttivo, quindi non “politico” nel senso dell’agonalità schmittiana, quindi soggetto di mercato e non coercitivo: il fascismo segna la dialettica irrisolta per ragioni storiche tra l’elemento coercitivo e quello ampliativo, che si propone, culmine del paradosso, di tutelare il forte in quanto forte, e il debole in quanto debole, sostituendo il conflitto di classe con una cooperazione win win, dato che il forte non viene negato nella sua essenza “superiore”, ma il debole è parte attiva e compensata del progetto produttivo nazionale, in cui lo Stato nazionale viene inteso addirittura come un’impresa unitaria, con un proprio utile, che deve andare a vantaggio di tutti i cittadini-soci, come sostenne l’esponente della “sinistra fascista” Tullio Cianetti, sottosegretario al Ministero delle Corporazioni, per il quale ogni cittadino avrebbe dovuto ricevere un dividendo del prodotto nazionale, il che presenta buone somiglianze con il mio progetto di utile universale, e va addirittura oltre, concettualmente, le moderne proposte di basic income, stante il suo carattere produttivo e non assistenziale; per altro verso, se si assume che il cittadino dallo Stato “riceva”, ne deriva che allo Stato non devi alcuna imposta, il che si è sempre posto alla base della mia proposta di common trust, quale istituzione alternativa allo Stato come lo conosciamo, in quanto di tipo ampliativo e non restrittivo.

 

Del resto, Sorel concluse la sua parabola appoggiando l’Action Français di Maurras, convinto, in quell’epoca in cui tutto andava bene, purché fosse anti-liberale e anti-parlamentare, di scoprire quelle che riteneva le virtù anti-borghesi del nazionalismo. In effetti, il “socialismo nazionale”, o “patriottico”, ha ovviamente a che fare con la prima guerra mondiale, ma riconosce proprie ascendenze, in Italia, in vari motti di Giovanni Pascoli ed Edmondo de Amicis, e trova consacrazione nell’ambiente di cui parliamo nel momento in cui l’anarco-sindacalista Arturo Labriola viene a riconoscere nel patriottismo nulla di anti-marxista, ma un sentimento morale piuttosto normale nel lavoratore, il quale non è naturaliter cosmopolita, ma ha radici in una patria e in un territorio, per quanto la sua vocazione sia internazionale; e però ogni lavoratore ha un proprio territorio al quale è, sia pure “irrazionalmente”, legato, e il socialismo deve sapere riconoscere uno statuto a una siffatta “irrazionalità”. E allora Sorel si espone in tal senso scrivendo un articolo sul “Divenire Sociale” di Enrico Leone, noto alle cronache come maestro di anarco-sindacalismo liberista, che poi aderì, peraltro in modo controverso, a sua volta al fascismo. Enrico Leone viene esplicitamente nominato da Mussolini ne “La dottrina del fascismo”, richiamandolo come proprio ispiratore giovanile, ma non solo, dato che ancora a Piazza San Sepolcro questi erano in buona parte i riferimenti culturali di Mussolini. Ebbene, nel 1931, quindi da pur controverso fascista (salvo capire bene che cosa ciò esattamente significasse per lui, una volta acquisito con difficoltà che il fascismo fu a lungo pluralista, dato che esistevano fascisti liberal-liberisti, fascisti socialisti o socialisteggianti, corporativisti di destra e corporativisti di sinistra, e così via), Enrico Leone pubblica in due corposi volumi l’opera “Teoria della politica”, nella quale spiega che politica e stato sono due concetti ben distinti: la politica rappresenta una fase originaria dell'azione umana e, in particolare, una fase conflittuale dell'azione umana (quindi qui siamo a Schmitt, salvo che Leone aveva maturato la sua concezione sociale conflittuale da sindacalista rivoluzionario. Lo Stato, invece, non è originario, il che per esempio lo distingue da Gentile, ma rappresenta una fase suprema del contemperamento del conflitto, o di sua sublimazione: diciamo che da quel conflitto amico/nemico scaturisce un vincitore, che, dice Leone, di solito sopprime lo sconfitto come in guerra. Ecco quindi che l’anarco-sindacalista Leone residua nel “fascista” Leone, dato che ci rende noto che esiste politica anche in assenza di Stato e a prescindere dallo Stato, dato che la politica è conflitto, mentre lo Stato è conato di superamento del conflitto, almeno quale soggetto transitorio, in attesa di una pedagogia, che insegni a governare il conflitto anche in assenza di Stato, la cui funzione pertiene a una fase immatura dell’umanità, quella nella quale si ha ancora bisogno di un’autorità irresistibile, se non si vuole soccombere alle proprie passioni.

E in effetti, leggendo tra le righe la conclusione della “Teoria della Politica”, si comprende come, per Leone, non solo lo Stato non è originario, ma nemmanco è definitivo, dato che un giorno se ne potrà anche fare a meno; ebbene, io ritengo che al fascismo possa, su tale basi, accostarsi l’ipotesi, che vi ritengo già implicita, di una dottrina dell'estinzione dello stato, per usare la terminologia di Marx, e del resto i teorici fascisti più avveduti non hanno mai davvero accantonato del tutto Marx, che traspare sempre di soppiatto nei loro scritti, e del resto al Convegno degli Studi Hegeliani di Roma del 1930 Spirito disse esattamente questo, ossia che l’autentica lettura di Hegel e del fascismo dovesse essere proprio del tipo comunistico, ma io direi di più, ossia direttamente del tipo anarchico; anzi, combinando i vari orientamenti fascisti, riusciremmo a consentire la compresenza, in una tale ipotetica utopia fascista di nostro conio, di anarco-individualismo di segno aristocratico e di anarco-comunismo popolare, stante il già ricordato concetto dell’auspicata co-valorizzazione del forte in quanto forte e del debole in quanto debole, senza che il primo opprima il secondo e senza che il secondo tarpi le ali al primo.

Perché, se per Hegel, ciascun comune cittadino è “membro dello Stato” (Lineamenti di Filosofia del Diritto, § 358), e forse addirittura “organo dello Stato”, ciò finisce con il determinare il superamento della distinzione stessa tra Stato e società civile, dato che per Hegel la società civile è la sfera dei bisogni materiali, che poi sarebbe il “mercato borghese” -e infatti in tedesco le espressioni “società civile” e “società borghese” fanno uso della stessa parola, bürgerliche-, mentre solo lo Stato rappresenta la sfera dell'eticità, laddove viceversa il liberale, o un certo tipo di liberale, vede l'eticità nel mercato e l’immoralità nello Stato, ribaltando il paradigma hegeliano, proponendo però una dicotomia irreale nel mondo dei fatti, dato che nel mondo reale degli uomini la distinzione Stato/mercato è analitica e non empirica. E in ogni caso, l’idea che l'individuo sia (anche) un puro organo pubblico presenta dei vantaggi, dato che gli attribuisce un potere, ossia una legittimazione ad agire di diritto pubblico e non solo di diritto privato, nella prospettiva del superamento della distinzione in nome del diritto comune; e tuttavia noi sappiamo che prevale una lettura riduttiva, ossia che l'individuo-membro-dello-Stato debba anteporre l'interesse e il bene pubblico al bene privato, che è un concetto totalmente idiota perché contronatura, dato che l'individuo può perseguire il bene pubblico solo nella misura in cui egli sia in grado di individuare un'effettiva coincidenza tra l'interesse individuale e lo stato sociale, ma ciò però contribuisce ad elevare a dignità pubblica anche l’interesse individuale puro e semplice, per il semplice fatto che è mai davvero “puro e semplice”. Il motto mussoliniano “tutto nello Stato, niente fuori dello Stato”, superando a propria volta la dicotomia Stato/società civile, per cui Stato e società civile si riassorbono reciprocamente, colloca a ben vedere lo Stato a un meta-livello rispetto a se stesso, dato che in quel “tutto” che è nello Stato si situa lo Stato stesso come parte di se stesso, come insieme che contiene tutti gli insiemi, quindi anche l’insieme rappresentato da se stesso; il che lo colloca a un livello logico superiore, in quanto battezzato “istituzione”, che riesce a sottrarsi all’insieme di tutti gli insiemi esclusivamente dal punto di vista formale, vale a dire in quanto mera cartilagine linguistica meta-normativa e autoreferenziale, di fatto estinguendone la supremazia in quanto “sovranità”, di modo che l’”istituzione” meta-normativa diviene liberamente attingibile da parte di tutti gli elementi che compongono l’insieme, nel quale lo Stato materiale finisce con il confondersi, indistinguibile per grado da ciascuno degli altri elementi, secondo un modello concorrenziale riconducibile alla proposta del Laski, di tal che lo Stato non perisce, ma puramente e semplicemente perde il suo carattere monopolistico, che poi come vedremo fu esattamente la pratica nazionalsocialista! In altri termini, si sta procedendo, secondo quanto ravviso e propongo, nella direzione del superamento dello Stato monopolista e, quindi, nella direzione della sua estinzione, marxianamente parlando; vale a dire che, in tale modello, intendendosi coniugare monopolio, concorrenza e associazione, il momento del monopolio viene detronizzato dal vertice gerarchico, per divenire elemento equiordinato agli altri, salvo che, nell’insieme, si viene a dare vita a un “monopolio” sotto altro profilo, di tal che si può affermare con sufficiente nettezza che il monopolio è solo un elemento del monopolio, e quindi di se stesso, senza esaurirlo, e quindi senza esaurire se stesso, ma elevandosi a un meta-livello astratto autoricomprendente, e quindi autoponendosi in concorrenza con gli altri elementi della propria autocostituzione al livello superiore; il che però rappresenta un salto di qualità, ossia, con Hegel, non meramente quantitativo, con la conseguenza che quello che ci troviamo di fronte rappresenta un paradigma tutt’affatto diverso, riconducibile in qualche modo alla concorrenza monopolistica, o, forse, più precisamente, al modello del monopolio concorrenziale; sicché il monopolio viene ricondotto a incumbent in quanto fase di mera transizione in un contesto puramente di mercato, nel quale il “tutto è nello Stato” diventa un “tutto è nel mercato, Stato ivi compreso”.

La matrice sindacalista del fascismo costringe i teorici a considerare tale aspetto del rapporto tra pluralismo e monismo, rapporto che Evola risolve da altro approccio, quello aristocratico del rapporto tra pluralismo medievale e imperiale in chiave, è stato detto, “confederativa”; ma ai nostri fini emergono semmai le tesi di un Panunzio, il quale, di provenienza sindacalista e socialista, sempre si arrovellò sulla questione del pluralismo giuridico in relazione all’unitarietà dell’ordinamento statuale, modificando via via la propria posizione, alla ricerca  un po’ tortuosa di un principio unitario società-sindacato-Stato, che non rappresentasse però inizialmente un rapporto di piena immedesimazione, e tuttavia lambendo al fine siffatta prospettiva. Illuminante il passo che segue, desunto dalla sua “Teoria generale dello Stato fascista”: “Come il Sindacato, nella concezione fascista, è il termine di mediazione fra l'individuo e lo Stato, così la Corporazione è, a sua volta, il termine di mediazione di secondo grado fra il Sindacato e lo Stato. La Corporazione, considerata come istituzione, è perciò l’ambiente morale in cui si attua progressivamente la più piena compenetrazione e sintesi operosa e vivente fra la Società e lo Stato. Vale a dire, essa è l’ente sociale e morale, prima che giuridico, in cui i produttori, già educati socialmente nei loro rispettivi Sindacati, diventano organi e modi di essere dello Stato; e lo Stato, fondendosi e confondendosi con le forze economiche e vive della Società e della produzione, si fa, anch’esso, una coscienza economico-produttiva. Ciò posto, lo Stato, non meccanicamente ed ab extra, ma organicamente e ab intus, dirige, armonizza e porta all'unità tutte le forze della produzione e tutta l’economia nazionale”. Come si vede siamo di fronte alle difficoltà, dato che un conto è dire che lo Stato “dirige” la produzione, altro conto è dire che “si compenetra” con l’atto produttivo, soluzione ben più avvincente sul piano teorico, dato le premesse inizialmente esposte.

E allora merita qui di essere considerata la proposta corporativista di Ugo Spirito e di Filippo Carli, muovendo da quest’ultimo, in quanto egli individui la figura dell’homo corporativus, ossia l’uomo a tutto tondo, individualista e cooperativo al tempo stesso, il che peraltro si attaglierebbe a una morale utilitarista benintesa, il che non capita quasi mai, dato che prevale purtroppo una vulgata un po’ ineducata, tanto di sinistra, quanto cattolica, che confonde utilitarismo con edonismo egoistico. Secondo Filippo Carli, gli economisti classici, nel costruire la figura dell’homo oeconomicus, hanno isolato dall’uomo così com’è, dall’uomo in carne ed ossa, una determinata forma dell’essere e del sentire, denominata egoismo, in quanto tale individuo tipico non agirebbe se non in base a motivi egoistici. Senonché, prosegue Carli, si sarebbe potuta scegliere anche un’altra strada altrettanto realistica, ossia considerando esplicitamente che l’uomo agisce tanto per motivi egoistici, quanto per motivi altruistici, laddove questi ultimi vengono estromessi nella ricostruzione dell’economista classico. Al contrario, prosegue l’autore, l’uomo effettua in ogni momento tanto il calcolo egoistico, quanto quello solidaristico, e solo in tale combinazione si ravvisa l’”edonista veramente perfetto”, ossia quello in grado di compiere un calcolo di utilità con tutta la gamma dei suoi termini, ed ecco allora che tale edonista perfetto è l’utilitarista in senso tecnico, anche se, come ripeto, tale accezione è poco nota fuori dagli specialisti.

 

L’idea è che, poiché l’azione economica è sempre scambio economico (contratto), e mai atto unilaterale, solo soddisfacendo l’altro si ottiene soddisfazione propria, dato che l’altro, se soddisfatto, sarà orientato ad accettare l’interazione, consentendo così, con la fornitura di un bene o servizio da parte sua nei nostri confronti, la nostra stessa soddisfazione, sia pure al costo relativo di dovere anche noi soddisfare il nostro interlocutore. Orbene, l’ambiguità di Adam Smith al riguardo consisterebbe nel fatto che, secondo Carli, esisterebbero, non uno, ma due Smith, all’apparenza non troppo bene coordinati tra loro, vale a dire il filosofo morale della “Teoria dei sentimenti morali” e l’economista (e altro) de “La ricchezza delle nazioni”: il primo, infatti, sarebbe imperniato sulla nozione etica di benevolenza, mentre nel testo economico tale nozione non emergerebbe; con la conseguenza, a me pare, che, per riconoscere coerenza al sistema di Smith, si dovrebbe concludere che la benevolenza non attiene al commercio, il quale si rivelerebbe un ambito non-morale, in quanto esclusivamente fondato sul perseguimento dell’interesse personale, posto che perseguire il proprio interesse, senza al contempo perseguire l’altrui, non presenti rilievo etico e morale; il che peraltro non è del tutto pacifico, dato che Sidgwick ricomprende lo stesso “edonismo egoistico” tra le scuole morali, in quanto si tratta comunque di una modalità di attenzione verso se stesso che non sarebbe del tutto indifferente dal punto di vista etico. V’è certamente del vero in tale ricostruzione, ma va però anche precisato la stessa ipotesi di Bernard de Mandeville, già prima di Adam Smith, per la quale, concentrandosi ciascuno sul proprio interesse egoistico, in un contesto di libero accesso allo scambio, si produrrebbero in contatto esternalità positive per tutti reciprocamente, è concetto di dialettica unisoggettiva, che propone dubbi sulla ricostruzione in termini puramente egoistici dell’azione del “macellaio, del birraio o del fornaio”, dato che essi potrebbero anche andare a rapinare, piuttosto che svolgere le loro pacifiche attività (un animalista non concorderebbe con riferimento al macellaio), e se non lo fanno è anche perché hanno una qualche dose di amore per la loro attività, se l’hanno prescelta, e perché hanno comunque soddisfazione nel fatto di produrre qualcosa di utile per gli altri; di certo, è riduttivo attribuire all’autore della “Teoria dei sentimenti morale” un’effettiva ricusazione della benevolenza e della simpatia, al di là della retorica momentanea, utile comunque a illustrare il concetto dialettico, per quanto sarebbe poco indicativa la riduzione dell’elemento egoistico alla sola ricerca del denaro, senza tenere conto degli altri fattori dell’amor di sé, e di quanto tale ricerca dell’amor di sé abbia bisogno della cooperazione degli altri.

 

De Felice individua ne “Gli anni del consenso” quattro diverse tipologie di proposta corporativa: la prima, la più banale, ma anche quella più diffusa tra “coloro che contano”, vedeva nella corporazione solo uno strumento giuridico conservatore di risoluzione delle controversie di lavoro; la seconda vedeva nella corporazione un modo di orientare la proprietà privata e la libera iniziativa a fini sociali, senza mettere in discussione, né l’una, né l’altra, muovendosi però alla ricerca di una terza via tra liberismo e socialismo, e in fondo Bottai va ricompreso in tale corrente; la terza è quella meramente “sindacale” (Rossoni), che vede nella corporazione un modo per togliere allo Stato la rappresentanza dei lavoratori, attraverso una polemica nei confronti degli “organi burocratici”; la quarta visione (che De Felice in verità indica come terza) è la più significativa, dal punto di vista che qui si discute, e si tratta dell’ipotesi di “corporazione proprietaria”, elaborata da Ugo Spirito, che nella buona sostanza configura una proposta di autogestione operaia vera e propria, rendendo azionisti i lavoratori e manager gli imprenditori (o già-imprenditori), ma che per noi assume questo carattere saliente: vale a dire che lo Stato non controlla e non interviene dall’esterno, dato che lo Stato si identifica con il sistema delle corporazioni -poste le corporazioni come organi dello Stato, Massimo Severo Giannini parlerebbe di organi-imprese- le quali però sono a loro volta di proprietà dei lavoratori; il che però, per la proprietà transitiva, comporta a) che lo Stato è impresa o sistema di imprese; b) che i lavoratori sono proprietari dello Stato, dato che questo viene “privatizzato” (pro quota), nel momento stesso in cui viene “socializzato”: dato che qui non solo viene socializzata l’impresa, ma viene socializzato e “privatizzato” -e quindi idealmente estinto!- lo Stato stesso.

 

Naturalmente, al convegno di Ferrara del 1932, ove Spirito espose il suo progetto esplicitamente “comunistico” (ma più anarco-comunistico che marxista), si sollevò un polverone, e lo stesso Bottai prese le distanze, ma tutto questo a noi non importa assolutamente nulla, dato che qui stiamo ragionando in termini di pura teoria e di idealtipi. E così, in apparente paradosso, nell’idealtipo fascista, un pensiero che afferma di volere ripudiare l’”economicismo” liberale e marxista in nome di un homo spiritualis, oltre che guerriero, finisce con l’organare lo Stato per categorie economiche e produttive, evidentemente introiettando quell’elemento spirituale nell’agire economico, il che consente poi affermazioni, intente a superare di slancio ogni rallentamento burocratico, in nome di una “produzione spirituale” immediata da parte del popolo italiano; che in tutto questo si annidi mistificazione è fin troppo ovvio, ma trovo affascinante tutto questo dal punto di vista strettamente teorico. Ciò che conta, infatti, è che, come ho ripetuto varie volte, si confuta in pieno Marx sotto il profilo della non appartenenza dello Stato all’economia politica, di tal che, assegnata tale appartenenza, lo Stato è ben più agevolmente superabile rispetto a quando viene proposto come agente meramente restrittivo e ridotto all’armatura in ferro del cemento armato, struttura che si ossifica, e che poi finisce con il richiedere di essere rimpiazzato da soluzioni efficientistico-aziendalistiche, quali quelle attuali, che rappresentano un rimedio peggiore del male.

 

Ebbene, al fine di configurare l’idealtipo di Stato fascista in termini dell’agente economico, a proprietà indivisa da parte dei cittadini, che finisce che ne assumono le vesti di soci, e lo Stato diviene, non un cazzo di “azienda” sovrapposta ai cittadini, ma una vera e propria public company, va altresì considerata tutta la tematica dell’impresa pubblica e di Stato, sulla quale ci soffermeremo di più nel prossimo capitolo; e del resto non sfuggirà che stiamo sempre parlando di risposte alla grande crisi del 1929, di tal che il dibattito sulle corporazioni trova il suo culmine a Ferrara nel 1932, ma l’IRI di Beneduce viene a sua volta costituita nel 1933, lungo un percorso di dibattito in realtà parallelo e non convergente, ma che appare nettamente convergente a noi, che stiamo ragionando in termini di Stato-impresa comune ai cittadini -basti considerare che l’IRI diventa proprietario da subito dei due terzi dell’impresa italiana-, e che quindi incontra corporazioni e impresa di Stato come elementi di un unico discorso sul deperirsi lo Stato antico in un sistema di produzione economica, con tutto quel che ne consegue in termini di rapporto con il mercato, con la borsa e così via, essendo concepibile tutto questo, senza alcuna necessità teorica di privatizzare l’impresa pubblica a vantaggio di privilegiati.

 

In definitiva, il famoso ”tutto nello Stato, niente fuori dello Stato” consente di configurare lo Stato preteso totalitario fascista, oltre a organato economicamente in quanto stato-impresa, vale a dire lungo il percorso corporazioni + impresa pubblica, come organantesi, però, come è noto, anche per enti autarchici, più che non per organi, ossia -così come in Gran Bretagna l'autonomia locale non si “aggiunge” allo Stato, ma coincide con essa, come ricordava Massimo Severo Giannini- nel fascismo l’ente autarchico è costitutivo dello stato, ma ciò comporta anche, per converso, che lo Stato finisca con il dissolversi in una grande quantità di enti autonomi, seppur coordinati; ecco perché sostengo che, in definitiva, l’anarco-sindacalismo rappresenti la maggiore influenza subita dal fascismo, insieme al nazionalismo (infatti si parla di socialismo nazionale) -e comunque la più fertile- e ciò si manifesta in questi tre elementi che concludendo riassumo: a) corporativismo, ossia organarsi dello Stato su base economica; b) impresa di Stato e pubblica, per la quale vale identico ragionamento; c) importanza degli enti autarchici e non territoriali; per cui alla fine lo Stato si propone come una confederazione funzionale di soggetti autonomi; e nel carattere totalitario della confederazione, dato che “tutto” ne fa parte, consiste paradossalmente l’antistatalismo sotteso a tale concezione -dato che, dal punto di vista logico, dire che tutto è nello Stato significa privare lo Stato di autonoma pregnanza, una volta che lo Stato stesso si sia costituito per imprese-, da qui la matrice libertaria, anarchica e soprattutto anarco-sindacalista della dottrina del fascismo, perché se il suo primo ispiratore è Sorel, dietro Sorel non si dimentichi che c’è sempre Proudhon, con il suo mutualismo produttivo di stampo federalista.

 


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