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martedì 10 maggio 2022

I vizi genetici del pensiero "liberale"

 di Fabio Massimo Nicosia

I vari filoni del pensiero politico “liberale”, così come si è via via venuto conformando negli ultimi decenni, potremmo dire nell’ultimo secolo, ormai, hanno rappresentato un passo indietro rispetto alla ratio originaria dello stesso costituzionalismo originario, giacché in quell’impostazione si riteneva di potere costringere lo Stato al rispetto di determinati diritti fondamentali, senza che ciò, a ben vedere, comportasse un’aprioristica presa di posizione sulla “necessità” o “inevitabilità” del soggetto “Stato”, semplicemente ci si poneva l’obiettivo di costringerlo, non è chiaro esattamente come, entro certi limiti, attraverso i meccanismi noti come quelli tipici del governo della legge: 

a) divisione dei poteri;

b) guarentigie di tutela giurisdizionale a fronte degli abusi del potere nei confronti dei diritti dei cittadini;

c) assoggettamento dell’attività discrezionale del governo e degli altri poteri a stringenti vincoli normativi;

d) si è poi giunti ad affermare la necessità di un forte nucleo di diritti fondamentali inviolabili da alcuno di quei poteri discrezionali; 

e) gerarchia delle fonti, per la quale i diritti fondamentali prevalgono, la costituzione prevale sulla legge, la legge prevale sugli atti amministrativi, e la giurisdizione controlla tutto questo; 

f) rispetto dei diritti o privilegi di iniziativa economica privata.

Lo sviluppo storico ha fatto sì però che, in tal modo, l’istituzione Stato, lungi dall’essere messa in discussione, si è venuta rinforzando, assumendo la veste alquanto ipocrita, non del mero soggetto costretto al rispetto dei diritti, ma del garante di quei diritti, e quindi poi, sempre di più, del soggetto promotore attivo dei diritti stessi, di quelli e di altri. In questo modo, il pensiero liberale, non solo ha accettato lo Stato facendo la pace con esso, ma lo ha addirittura promosso a soggetto fondamentale del liberalismo stesso, tanto come garante di diritti, quanto come promotore di sempre nuove elaborazioni di nuovi diritti, sicché poi la discussione tra “liberali” si è trasformata in una discussione su quali e quanti diritti dovesse garantire e promuovere lo Stato.

Tale vizio appare chiarissimo nella nota querelle degli anni ’70 del secolo scorso tra Robert Nozick e John Rawls: entrambi accettavano lo Stato -Nozick con superiore sofferenza-, ma si dividevano su quali i compiti dello Stato dovessero essere. Per certi versi, la soluzione Nozick appare pure peggiore -e tralascio il passaggio più o meno ironicamente “leninista” del suo libro-, dato che dire che lo Stato sarà “minimo”, in quanto si occuperà solo di polizia e di giustizia, non tranquillizza per nulla, posto che non sono chiari i limiti, entro i quali polizia e giustizia di Stato si devono contenere, per non parlare dell’esercito e della difesa: perché anche dire che lo Stato sarebbe “minimo” perché si occupa di mera tutela dei titoli di proprietà, non ci dice di quanti cannoni e carrarmati c’è bisogno per difendere quei titoli, il che poi va a inficiare anche la dichiarata volontà di ridurre tassazione e spesa pubblica.

Per cui lo Stato minimo nozickiano, alla fine, potrebbe anche rivelarsi una pura dittatura militare, solo “liberista”, e in tal caso abbiamo già avuto il caso di Pinochet, che però è stato più volentieri associato a Milton Friedman che a Nozick, dato che se ne sono sottolineati gli aspetti riguardanti le scelte economiche, quanto ad accostamento del Cile militare al “liberalismo”; del resto, accanto a Pinochet abbiamo avuto Deng Xiaoping a dimostrare che il “liberismo” può andare di conserva con uno Stato fortemente autoritario, salvo constatare che anche questo ribalta la vecchia vulgata marxista sul rapporto tra struttura e sovrastruttura, dato che dovremmo ritenere, se il primato del modello economico operasse davvero, che a una struttura economica liberale debba necessariamente corrispondere ampiezza di diritti civili e politici, il che non ha alcun fondamento, né nel riscontro empirico, né in logica; dato che semmai è evidente il contrario, ossia che se il liberismo è liberismo dei privilegiati, e non libertà di iniziativa economica per tutti, un tale liberismo o liberalismo richiederà uno Stato forte e autoritario a difesa dei privilegi dai possibili attacchi frontali degli esclusi.

 

Eppure, Bertrand Russell diceva che speranza nutrita in generale dall’idea liberale era di superare per sempre un giorno la sfera politica e del potere, se, con Schmitt, “politica” è antagonismo di amici contro nemici, e allora, in tal modo, l’ideale liberale sarebbe irenico, come lo era il pacifismo di Russell in generale, ma un tale “liberalismo”, in realtà, è solo una variante dell’anarchismo inteso come utopistica pacificazione degli animi. La verità storica è invece un’altra, ossia che, a differenza che nel modello anarchico di liberà, in quello liberale, il quale pragmaticamente, ma autolesionisticamente, non fa a meno dell’idea di Stato, la libertà è intesa come un gioco a somma zero escludente, i diritti non sono diritti di libertà, ma diritti hohfeldiani, e quindi tentativi di imposizione di obblighi in capo agli altri, e quindi ancora quasi sempre privilegi che richiedono protezione dallo Stato, in nome del consueto stolido motto, per il quale “la tua libertà finisce dove inizia la mia”, nel quale l’accento non è sulla parola “libertà”, ma sul termine “finisce”, sicché, in definitiva, il “liberale” è colui il quale si rivolge allo Stato, affinché questo gli garantisca un privilegio, sopprimendo o limitando all’uopo la libertà altrui.

E così questo finisce con il valere tanto per il “liberale di destra”, diciamo il “liberista”, o il “neo-liberista”, quanto per il “liberale di sinistra”, diciamo il “liberal”, salvo che diventano diversi nei due casi i privilegi che si chiede di garantire; perché il destro difenderà il diritto del capitalista di fare qualsiasi cosa in nome di una retorica di comodo della “libertà”, magari raccontare qualsiasi cazzata truffaldina in una pubblicità, o imporre ai prodotti un’obsolescenza programmata con tecniche da criminalità organizzata; mentre il “sinistro” invocherà interventi dello Stato a vantaggio di questa o quella categoria, come insegna tutta la vicenda del “politicamente corretto”, tal per cui il destro difende gli abusi del capitalista, il sinistro difende gli abusi dello Stato a tutela di una malintesa a sua volta libertà come privilegio da intoccabile, il che ci consente di tirare la conclusione che, quella concezione escludente e a somma zero della libertà, comune a entrambi, finisce con il diminuire la quota complessiva di libertà nella società, invece che incrementarla.

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