di Fabio Massimo Nicosia
L’ideale di concorrenza perfetta, secondo Walras, consiste nella figura dell’imprenditore senza profitti e senza perdite, e quindi siamo di fronte a un ideale egualitario e “socialista”, salvo che qui l’errore non è di “scienza economica”, ma antropologico e sociologico, per la banale ragione che gli uomini sono diversi, e si differenzierebbero pure a perfetta parità di reddito, e quindi nemmeno la concorrenza perfetta invererebbe un ideale davvero “egualitario”, dato che le gerarchie sociali si riformerebbero per altre vie che non quella del reddito, ad esempio nella reputazione quanto a attitudine alla leadership naturale, intelligenza, cultura, coraggio, senso dell’onore e capacità di farsi rispettare, forza fisica, bellezza, seduzione erotica o fascinazione personale, e ogni altro profilo antropologico e sociologico si possa immaginare nella varietà delle conformazioni umane, che solo a volte ha a che fare con la dimensione del portafoglio;
per quanto è pur vero che nemmeno è detto che il colto filosofo abbia anche più forza contrattuale del pulitore del cesso, quindi non è detto che anche il rapporto di forza alla fine non si riveli “democratico” e “redistributivo”, anzi, altrimenti i bulli non comanderebbero sui secchioni, e i secchioni non avrebbero come unica arma quella di rivolgersi alla mamma o al preside; e in effetti, si direbbe che già oggi il valore di mercato di un idraulico sia superiore a quello di un docente di lettere, ma nemmeno questo conduce alla perfetta eguaglianza, ma semmai a nuove e varie diseguaglianze, ad esempio se alle donne piace il rude e non il colto, almeno secondo certo cinema americano di serie B.Tutto ciò ridimensiona di gran lunga la validità di quelle posizioni egualitarie estreme -e Warren, in questo caso, fa parte di questo gruppo-, le quali ritengono che le doti personali naturali non meritino un premio, in quanto non meritate a loro volta, il che però, a rigore, comporta addirittura la loro penalizzazione, dato che un premio, una volta usciti dalla mera logica reddituale, lo conseguono in ogni caso, ossia sul piano delle relazioni sociali e reputazionali, tanto più nella prospettiva che la reputazione sia intesa immediatamente quale moneta, di tal che limitare tale genere di “reddito” d’autorità è impossibile, se non appunto punendo il dotato in un modo o nell’altro, sicché, negando il merito nel possedere la dote, si afferma però per assurdo la colpa di possedere la dote, dato che nessuno può impedirmi di intrattenere comunque relazioni con dotati e non con disagiati; per quanto poi io invece al contrario possa deliberare di aiutare il disagiato proprio in quanto tale, sicché a questo punto è il disagio a divenire dote. In generale, infatti, differenziandosi le reputazioni, un fruitore potrebbe deliberatamente voler premiare il “lavoratore” al di là del costo da lui sopportato con un like in più, chiamiamolo il like-palmario, senza che Warren possa avere nulla da ridire, né probabilmente intende avere qualcosa da ridire, dal che si ricava però che non si riesce a espungere il mercato dai “compensi” in un senso qualsiasi, con riferimento ai quali non sempre i rapporti di forza danno vita a riscossioni estorsive, ma anche a donazioni, che sono liberali e ampliative rispetto al tenere indenni dal mero costo, pur se tali atti donativi e generosi possono ritenersi socialmente indotti dal gioco interattivo tra le reciproche reputazioni, simpatie e stime.
Tali considerazioni consentono di reintrodurre la questione del “tempo-lavoro”, ma in termini invertiti, vale a dire non con riferimento al tempo impiegato in un dato lavoro -dato che un tale approccio favorirebbe, e di fatto favorisce, comportamenti strategici, come il “tirarla in lungo” al di là del necessario-, ma in termini di tempo risparmiato, lasciando che a effettuare un dato lavoro sia un terzo in una logica di scambio e di divisione del lavoro: poniamo che, in una situazione primitiva originaria, in un’isola vi siano due persone, Mario e Giuseppe. Mario, per potersi sostentare, ha bisogno di una lepre al giorno, e quindi il suo “lavoro” consiste nel dare la caccia alle lepri dell’isola, per potersene cibare. Giuseppe, invece, è in grado di produrre ottime lance, ma è incapace di dare la caccia alle lepri. Senonché capita, benauguratamente, che Mario sia in grado in un giorno di cacciare due lepri, e non una sola, e tuttavia, non potendo mangiarle entrambe, né conservarne una per il giorno dopo in assenza di frigorifero, addiviene con Giuseppe a un protocollo di scambio, tale per cui gli trasferirà ogni giorno una delle due lepri cacciate in cambio di una lancia, ogni giorno sempre nuova, di quelle che Giuseppe è in grado di produrre. Senonché un certo giorno Mario comincia a nutrire dei dubbi sulla convenienza dello scambio stipulato, dato che scopre che, per cacciare le due lepri, egli impiega cinque ore della sua giornata, mentre per fabbricare la lancia Giuseppe impiega solo due ore. Comincia quindi a sostenere che la lepre che lui concede a Giuseppe “vale” di più della lancia che Giuseppe produce e che Giuseppe cede quotidianamente a lui.
Al che Giuseppe risponde in due modi: a) anzitutto, tu, senza la mia lancia, non potresti cacciare assolutamente nulla, quindi la lepre che ottieni incorpora il valore della mia lancia, indipendentemente da quanto tempo io ci metta a fabbricare la lancia, che è un problema esclusivamente mio: se io sono rapido a realizzare la lancia, non si vede perché tu debba stare a sindacare sul suo valore, quando l’utilità della lancia per te è del tutto evidente; b) a me non interessa assolutamente nulla di quanto cavolo ci metti tu a cacciare una lepre; qui il punto rilevante è un altro, ossia che tu a fabbricare una lancia di ore ce ne metteresti quaranta, mentre io ne impiego due: il valore della lancia, quindi, tu non lo devi ragguagliare alle due ore che impiego io nel realizzarlo, ma nelle quaranta che impiegheresti per realizzarla tu, quaranta ore che tu risparmi, in modo tale da poterne dedicare solo cinque per cacciare due lepri, e il resto a riposare. Ergo è totalmente inutile discutere di ore di lavoro, stante che, diversamente, tu penalizzeresti la mia efficienza nel realizzare lance; ciò a cui solo occorre guardare è il risparmio di tempo notevole che tu consegui nel lasciare che a realizzare la lancia sia io e, di conseguenza, il fatto che, con il mio lavoro -indipendentemente da quante ore duri-, tu consegui la decisiva utilità di potere cacciare lepri e riposare nel corso della giornata; qui l’elemento soggettivo (l’utilità della lancia) e l’elemento oggettivo (il tempo risparmiato facendola realizzare a un terzo) perfettamente combaciano, o comunque convergono negli esiti.
Tale chiave di lettura che propongo, che mi pare in grado di recuperare l’elemento “tempo” nel valore del lavoro, non però nel senso del tempo del lavoro impiegato, ma nella convenienza che mi procura l’altro nel fare risparmiare tempo a me, fornisce una risposta anche a questioni come quella dell’avvocato che risolve una questione con un parere di cinque minuti -e però il suo pregio deriva dal fatto che quel sapere è raro, sicché un concorrente monopolistico fatica a farsi ridurre a concorrente perfetto, come Warren vorrebbe- o del fornitore di know how accumulato, o dell’idraulico che ci mette un attimo a girare un bullone, ma procurando grande beneficio, dato che, in tutti questi casi, non si può dire che chi fornisce il servizio stia “sfruttando” il consumatore, dato che al consumatore fa risparmiare molto tempo nella soluzione di un suo problema, o addirittura risolve al consumatore un problema che egli non sarebbe mai in grado di risolvere da solo, e anche “mai” è una dimensione del tempo, dilatata all’infinito, ma in negativo, stante che si sta parlando di un “non essere” perpetuo. In questa chiave, anche la questione del plusvalore-pluslavoro marxiano si viene a riposizionare, dato che il “padrone” ne emerge come un grande risparmiatore di fatica propria -e quindi un grande accumulatore di fatica altrui-, posto che riesce a fare lavorare altri per sé e, paradossalmente, si arricchisce riposando, pur quando la sua giornata sia impegnata 24 ore su 24, dato che si pone comunque in condizione, se tutto va bene, di riposare a lungo in futuro: il lavoro altrui di oggi diviene il fondamento del suo riposo di domani, più ancora che di oggi; e allora il punto diventa davvero soprattutto quello di indagare i fondamenti fattuali e logici di quel rapporto di forza, per il quale qualcuno riesca a fare lavorare altri al proprio posto, senza nemmeno dividere con lui gli utili, se non in minima parte “comprando” il suo tempo-fatica, che pure produce a lui l’elevata utilità di risparmiare moltissima fatica, fino appunto al “mai” che si diceva, dato che il proprietario di una fabbrica di automobili “mai” potrebbe realizzarle tutte da solo, se non ad opera di un’azienda totalmente automatizzata; in altre parole, il sinallagma è squilibrato, dato che consiste in uno “scambio” che appare tutto a vantaggio di una parte sola, dato che io ti pago per lavorare in cambio dell’utilità che mi deriva dal mio riposo, e però dal tuo lavoro io non ricavo solo il mio riposo, ma un ulteriore profitto, essendo il tuo lavoro fonte di utile, che però incamero io; e inoltre, io, durante il mio riposo, posso ulteriormente investire il profitto che tu mi hai reso con il tuo lavoro, che quindi mi rende di più di quanto non te lo abbia pagato anche sotto tale profilo; considerato altresì che, stante che i giudizi di utilità sono soggettivi, ma incardinati su basi oggettive, tu dal tuo lavoro ricavi la mera sopravvivenza, mentre io dal mio riposo posso ricavare un’utilità incommensurabile, alla quale per sovrammercato si assomma la possibilità, per me, di fare ulteriormente fruttare, sempre senza lavorare, dato che posso anche solo speculare in finanza, il profitto che ho ricavato da un tuo lavoro, dal quale tu hai ricavato solo la mera sussistenza: tutto questo, però, rischia di dimostrare ancora che il lavoro è un disvalore e non un valore, dato che viene compensato esattamente chi ti consente di sottrarti a tale maledizione, con una traslazione in suo capo della maledizione stessa quale mero presupposto di sussistenza -quindi non c’è effettivo miglioramento di condizione, ma stasi e, per certi versi, addirittura peggioramento-, e allora gli si risarcisce con un indennizzo appena sufficiente il danno procurato, dato che ha lavorato lui al tuo posto, ma in cambio gli hai concesso solo di poter sopravvivere e null’altro: a quel punto, si cerca di lucrare sui rapporti di forza, semplicemente sminuendo tu la fatica risparmiata da te, ed enfatizzando il lavoratore la fatica sopportata da lui, fermo restando che la tua fatica risparmiata, in una comparazione interpersonale, finisce con il valere di più di quanto ti sia costato indennizzare la fatica compiuta dall’altro, il quale ne ricava il minimo possibile, il “minimo sindacale”.
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