di Fabio Massimo Nicosia
Immaginando l’euro come
un cambio fisso, la moneta di partenza più debole viene irrigidita nel suo
cambio con quella più forte. Ipotizzando che l’economia italiana sia più debole
di quella tedesca, l’Italia avrebbe interesse, o ad abbassare i prezzi dei
propri prodotti, o a svalutare la lira, al fine di incrementare il potere di
acquisto delle monete più forti, e quindi favorire l’acquisto dei nostri
prodotti da parte degli altri paesi, delle altre economie, rilanciando le
esportazioni. Invece l’euro “cambio fisso” impedisce questo all’Italia, con la
conseguenza che, per favorire le nostre esportazioni, è consentita solo la
soluzione di abbassare i nostri prezzi. In questo modo, però, vengono a
comprimersi le retribuzioni, e quindi il divieto di svalutazione della moneta
rispetto all’esterno si trasforma in compressione interna dei salari,
diminuendo il potere di acquisto non solo verso l’esterno, ma anche
nell’economia interna.
L’euro, in effetti, ha rappresentato una scelta politica e non “tecnica”, per la semplice ragione
che grande parte degli economisti riconosce come l’eurozona non sia una Optimum Currency Area (OCA), con la
conseguenza che l’euro cessa di essere una semplice “moneta”, per divenire un
dispositivo di disciplinamento, sicché la moneta unica si rivela un gioco a
somma zero, se tra i suoi partecipanti c’è chi vince e c’è chi perde, in
conseguenza del fatto di avere adottato la medesima moneta; sicché ci troviamo
di fronte a una tragedy of commons, ma di tipo verticale, il che
consegue all’avere inteso una moneta come istituto di autorità e non di
libertà, sempre nella logica del famoso “vincolo esterno”, il che sarebbe
come imporre costumi patriarcali a una società matriarcale o viceversa, dato
che non si intende che la moneta debba esprimere le specificità di un popolo, e
quindi sia espressione della cultura di una società, ma debba imporre la
cultura di un popolo a un altro, in nome di determinati obiettivi politici, che
poi sono obiettivi di ceto e di classe, i quali prevalgono, paradossalmente,
giovandosi di una struttura monetaria collettivista e non liberista, in
quanto coercitivamente inclusiva di soggetti in condizioni diverse all’interno
di un’unica struttura rigida e non flessibile (gioco a somma zero, tragedy
of commons verticale).Il
concetto di OCA è stato introdotto dall’economista Robert Mundell con un saggio
del 1961, con il quale si fissavano paletti precisi, nel determinare quando ci
troviamo di fronte a un’area valutaria ottimale; posto infatti che un’unica
moneta implica un’unica banca centrale, se non ci troviamo di fronte a un
territorio sufficientemente omogeno dal punto di vista economico e produttivo,
quella banca centrale potrebbe entrare in conflitto con se stessa nell’elaborare
politiche adeguate; dato che in conflitto potrebbero risultare le politiche di
lotta contro l’inflazione nei confronti di quelle volte a migliorare
l’occupazione, se sono diverse le esigenze delle diverse regioni, nelle quali
si suddivide l’area di riferimento; ragionando in termini invece di moneta come
espressione spontanea di una cultura sociale, potrebbe benissimo accadere che
un popolo preferisca privilegiare la lotta alla disoccupazione, a discapito
della stabilità dei prezzi, e un altro popolo preferisca l’esatto opposto:
invece, con l’euro, la preferenza del secondo popolo (diciamo la Germania o i
nordici) viene imposta al primo popolo (poniamo Italia o Stati membri meridionali),
dato che poi il Trattato di Funzionamento Europeo nemmeno indica tra gli
obiettivi della BCE quello della piena occupazione, a differenza di quanto
avviene invece ad esempio nello statuto della FED.
Inoltre,
si introducono regole idonee a fotografare la situazione di alcuni Stati e non
di altri -come imporre il diritto di famiglia cattolico a un paese islamico o
viceversa-, ad esempio con regole sul debito caratterizzate in senso “statalista”,
ovvero, forse meglio, statocentriche,
dato che non guardano alle condizioni complessive dell’economia di un paese
–men che meno alle persone reali-, ma solo alle condizioni del suo “Stato”. Ad
esempio, viene spesso rilevato come l’Italia goda di un forte risparmio privato
a fronte di un basso indebitamento (privato), ma tale circostanza –che pure viene
talora presa in considerazione dalle stesse agenzie di rating- non rileva a fini di esenzione dalle procedure d’infrazione,
mentre paesi come quelli nordici vengono favorite da regole, le quali ignorino
il debito privato, dato che possiedono un alto debito privato, ma ciò non li
sfavorisce in alcun modo, stante che l’ideologia neo-liberista incoraggia e non
combatte l’indebitamento privato. Si è già sottolineato, a tale proposito, come
una nazione potrebbe liberamente pensare di utilizzare il proprio Stato come
una bad company, più di quanto già
non sia, con l’indebitamento pubblico a fronte di una ricchezza privata, ma una
simile sperimentazione –ad esempio, coniugare indebitamento con bassa
tassazione- non è consentita dai parametri di Maastricht e dalla normazione
attuativa, mentre un paese potrebbe avere un forte indebitamento privato e i
conti dello Stato “in ordine”, senza che per questo si possa dire che le
condizioni di quella nazione siano “migliori” dell’altra: questo è il senso di ritenere
espressione di collettivismo e non di flessibilità o libertà un tale sistema di
“regole”, quando le regole sono sempre opinabili, e non giustificano mai un
simile feticismo nei loro confronti.
Si
noti che, da deputato, l’economista liberista, allievo di Milton Friedman,
Antonio Martino votò, in dissenso dal gruppo, contro l’introduzione del vincolo
di pareggio di bilancio in Costituzione, motivando proprio sul fatto che esso
avrebbe comportato maggiore tassazione. Il liberale medio sostiene però che il
debito di oggi è tassazione futura, e per tale motivo finisce però con il
preferire una tassazione certa oggi
rispetto a una futura e incerta –tale
perché non conosciamo il corso degli eventi sulle sorti dello stesso debito,
che potrebbe venire ripudiato, ristrutturato o cancellato-, entrando in un
chiaro loop, dato che considera
irrazionalmente la tassazione certa immediata un meno peggio rispetto a quella
eventuale futura; oltretutto in violazione del principio di preferenza
temporale, per il quale è razionale preferire un danno futuro solo ipotetico
–nel frattempo potrebbe avvenire qualche sorta di collasso - a un danno certo
attuale. “Per pagare c’è sempre tempo”
è un assioma della morale di senso comune, direbbe Sidgwick
Il
fatto che l’euro sia ben più che una moneta, ma un fattore attivo di
disciplinamento viene rivendicato esplicitamente da un esponente della scuola
austriaca di economia, Huerta de Soto, il quale accosta il rigore dell’euro al
meccanismo del gold standard, e
accomuna tutti i critici in quanto demagoghi e scialacquatori; però se un libertarian
sostiene l’euro esattamente per la sua capacità di vincolare e
disciplinare, si fuoriesce secondo me dal pur ristretto ambito libertarian,
per sposare a vele spiegate la dottrina neoliberal. Tuttavia, tra gli
oppositori dell’euro troviamo non solo uno Stiglitz, ma persino, ante litteram, Hayek, il quale difese,
come second best rispetto all’ipotesi
di un libero mercato tra monete private, la concorrenza tra monete nazionali, a
corso libero in ciascuno Stato, per evitare il concentrarsi di eccessivo potere
nelle mani del banchiere centrale continentale.
Certo,
gli oppositori “di sinistra” avanzano critiche diverse, soprattutto
sottolineano come un sistema a cambi fissi, impedendo le svalutazioni
competitive, dia poi vita alla ricordata svalutazione interna, vale a dire a
una compressione dei salari e a una precarizzazione del lavoro, che finiscono
per diventare l’unica via per poter “competere” tra economie nazionali così
differenti, aventi però la moneta in comune. Si tratta del resto di un
tracciato, che è stato formalizzato e istituzionalizzato dalla modifica,
intervenuta nel 2011 ed entrata in vigore nel 2013, dell’art. 136 del Trattato,
che ha istituito un meccanismo permanente di stabilità di governance dell’eurozona (European Stability Mechanism, ESM), in
base al quale la concessione di qualsiasi assistenza finanziaria agli Stati “sarà soggetta a una rigorosa condizionalità”.
E tali “condizioni” comprendono l’impegno a contenere la spesa pensionistica,
quella per la sanità e l’istruzione, ma anche indicazioni sulle modalità di incremento
delle entrate attraverso programmi di privatizzazione nei settori dell’energia,
delle telecomunicazioni, delle assicurazioni e dei servizi pubblici locali; e
questo per non parlare degli interventi sul mercato del lavoro, rimuovendo gli
ostacoli alla flessibilizzazione e alla precarizzazione. Alla
categoria della “condizionalità” sono state ricondotte altresì le “lettere”
inviate dalla BCE di Trichet, con controfirma dei governatori nazionali, , tra
cui Mario Draghi, ai governi italiano e spagnolo nel 2011. Per quanto in
particolare riguarda l’Italia, la BCE indicava quali misure strutturali
antispeculazione l’Italia avrebbe dovuto adottare con urgenza, “per ristabilire
la fiducia degli investitori”. Più precisamente, tra tali misure venivano indicate
una maggiore concorrenza nei servizi locali, con “privatizzazioni su larga
scala”, e professionali, “riformare ulteriormente il sistema di contrattazione
salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa”, “revisione
delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti”,
ottenere “un deficit migliore di quanto previsto fin qui nel 2011”, “un
bilancio in pareggio nel 2013” e interventi vari sull’amministrazione pubblica;
come si vede, le questioni di bilancio sono solo uno degli elementi di tale
informale atto di supremazia, negli altri casi trattandosi di opzioni opinabili
squisitamente politiche e discrezionali: in questo modo, il “vincolo esterno”
diventava anche verticale.
In definitiva, proprio l’euro
diventa un test all’acido del cosiddetto neo-liberismo, mostrando il carattere
per nulla genuinamente “liberista” di questo filone di pensiero, e svelandone
il carattere perfettamente autoritario.