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domenica 3 aprile 2022

Imperialismo dell’economia, etica e dialettica dell’asso pigliatutto: l’Utility Monster.

 di Fabio Massimo Nicosia

È opportuno a questo punto tornare sul concetto di “economico”, al fine di comprendere quali siano i suoi ambiti di operatività, e se esso sia davvero così onnicomprensivo, come vorrebbero i fautori, peraltro ormai un po’ datati, dell’”imperialismo dell’economia”. Per altro verso, è anche possibile che un’accezione strettissima di economia, intesa come produzione e consumo di beni materiali, possa ancora essere accolta, riducendola a quanto riguardi la stretta sopravvivenza, dato che mangiare il pane non conosce sostituti, e quindi non posso appagarmi psichicamente -paradigma dell’economia “post-produttivistica”, soggettivistica e immateriale- se non a stomaco pieno.

E tuttavia i problemi non sono finiti; ad esempio, una frase come “Per me, la soddisfazione di avere fatto il mio dovere vale più dei soldi” individua “la soddisfazione di avere fatto il proprio dovere” come valore economicamente rilevante, o il fatto che si tratta di giudizio di valore di tipo etico lo sottrae al calcolo economico? O palesa l’intento dell’agente di sottrarlo al calcolo economico? Il fatto è che, in realtà, l’”economico” qui rientra dalla finestra, dato che il soggetto opera una comparazione tra il valore etico per sé dell’atto di compiere il proprio dovere e un valore economico (poniamo, un miliardo di dollari), e quindi sta pur sempre affermando che quella soddisfazione di tipo morale, in termini economici e monetari, vale più di un miliardo di dollari, e quindi si mostra suscettibile di calcolo economico; forse si potrebbe sostenere cosa diversa, per il caso in cui quella soddisfazione morale avesse portata di grado infinito, tal per cui nemmeno una somma infinita di dollari sarebbe sufficiente a fare deflettere dal compiere il proprio dovere morale: in un confronto tra “infiniti” si potrebbe quindi ravvisare un’effettiva autonomia dell’etico dall’economico, intendendosi qui  “economico” per “monetario”, salvo poi meglio precisare che cosa “monetario” possa anche significare.

E infatti, secondo Ludwig von Mises, “la sfera del ‘puramente economico’ non è né più né meno che la sfera del calcolo in termini di moneta”. L’affermazione appare recisa, e tuttavia non sembra in grado di risolvere davvero tutte le questioni che si propongono a noi; e ciò da due punti vista apparentemente opposti e incompatibili, ma a ben vedere strettamente connessi: a) in base a tale definizione, dovremmo escludere dalla sfera dell’economico, ossia dalla sfera di amministrazione delle risorse, tutto ciò che un soggetto valuta in termini di valore assoluto, e quindi sottratto da lui stesso all’ambito del monetario, il che però non si direbbe che comporti la sua fuoriuscita dall’”economico”, se sempre di amministrazione di risorse si tratta; b) in base alla definizione stessa, qualunque tipo di valore e bene rientrerebbe comunque potenzialmente nell’ambito “economico”, sol che un agente sia disponibile a transigere su quel valore o bene in termini monetari, e quindi l’affermazione non farebbe che ribadire il già ricordato “imperialismo dell’economia”, con la precisazione che, in tal modo, siffatto imperialismo vigerebbe non motu proprio, ma dalla disponibilità di un soggetto a trattare monetariamente i propri valori, persino i più elevati, e fare mercimonio degli stessi.

In entrambi i casi si viene a determinare qualche forma di sovrapposizione, totale o parziale, tra giudizio di valore etico e giudizio di valore economico, introducendo l’eventualità della monetarizzazione dell’etico, salvo poi constatare che persino l’etico non monetarizzato può ben presentare una valenza economica, ossia di razionale amministrazione di risorse, prima tra tutte la risorsa “se stesso”; di modo che l’istituto monetario diviene unità di misura della tensione etica, tanto nel caso in cui la transazione avvenga, quanto nel caso in cui la transazione abortisca.

Prendiamo il caso limite di una rispettata gentildonna –mi attengo qui a ordini mentali tradizionalisti e patriarcali per comodità di esposizione-, la quale riceva da un magnate della finanza l’offerta di tutti i suoi averi per guadagnarne i favori, e immaginiamo ch’ella rifiuti sdegnata lo scambio. Secondo un “austriaco”, ma anche secondo un neo-classico, dovremmo arguire che la condotta della donna stia a dimostrare che, dal suo personale punto di vista, non cedere alle profferte dell’uomo sviluppi un’utilità marginale superiore a quella che le deriverebbe dal possesso di tutti i beni di lui, e che quindi, proprio in base a una teoria integralmente soggettivistica del valore, dovremmo concludere che la donna è oggettivamente, vale a dire non solo prendendo come parametro vincolante il suo giudizio di valore, più ricca dell’uomo, dato che entrambi giudicano superiore il valore del possesso di lei rispetto al valore dell’insieme dei beni di lui (e quindi concorrono insieme nei fatti a determinare un confronto interpersonale di utilità), e tale possesso appartiene, e continua ad appartenere anche dopo l’offerta, a lei e non a lui.

In questo modo, la donna tanto accetta un calcolo monetario, quanto lo rifiuta nei fatti, inverando ossimoricamente (o per certi versi quantisticamente) entrambe le ipotesi, che abbiamo sopra indicato, dato che, rifiutandosi di sottoporre a misurazione monetaria il proprio valore, dando vita alla distonia, per la quale ciò che è monetario per lui non lo è per lei, in realtà fissa comunque un proprio prezzo in termini assoluti e infiniti, sicché resta l’ipotesi astratta che, eguagliandosi l’infinito, essa possa accedere all’offerta monetaria; e in ogni caso anche il rifiuto dell’offerta va fatto rientrare nella dimensione dell’economico, in quanto comunque amministrazione della risorsa “se stessa”.

Salvo che attribuire a se stessi o a un proprio comportamento un valore o un prezzo infinito significa esprimere l’intento di passare dall’economia all’etica (i valori per sé estremamente importanti); ma la soglia è labile, ove alzando indefinitamente l’offerta essa potrebbe essere accettata, senza che, d’altra parte, noi si sia autorizzati ad affermare che la condotta di accettazione, in tal caso, sarebbe non etica o immorale, sicché al margine la scelta etica e quella economica coincidono: ad esempio, l’offerta potrebbe essere accettata per curare un figlio malato, o anche solo per assicurare a sé un superiore tenore di vita, ove si ammetta che tale amor di sé non sia privo di valenza etica, pur risultando in concreto economicamente misurabile: d’altra parte, non solo l’utilitarismo è una corrente di pensiero al tempo stesso di contenuto etico quanto economico, ma tale è anche l’edonismo cosiddetto egoistico. In definitiva, resta il dubbio che la sfera dell’economico coincida con il misurabile monetariamente –anche perché allora non rientrerebbero nell’ambito dell’economico il baratto, il dono e lo scambio di doni, dato che in tali casi non v’è intermediazione di bene terzo di ragguaglio-, a meno di non estendere la misurabilità anche al concetto di infinito, in modo tale da trasferire anche l’etico nell’ambito economico; che poi assume anche valenza giuridica, dato che la donna in questione, fissando il proprio prezzo al livello dell’infinito, segna anche una linea di pretesa e rivendicazione del proprio diritto in senso soggettivo in quanto linea invalicabile della sua area riservata.

Per altro verso, esiste anche un’economia della santità; pensiamo a Mohamed Mashally, stimato medico egiziano, il quale per oltre cinquanta anni ha curato gratis i poveri, ma che per far ciò aveva pur necessità di risorse e di distribuirle lungo le sue curve di indifferenza, e allora anche la sua espansione etica e altruista non riusciva a sottrarsi alla morsa dell’imperialista approccio economico alla condotta umana. Il fatto è che è da tempo acquisita la convinzione che la scienza economica non possieda, quantomeno a far data da Lionel Robbins, un proprio ambito esclusivo di disciplina e di studio, e può occuparsi di qualsiasi fenomeno, ignorando il feticcio produttivista, e quindi l’economia rivendica per sé una sorta di imperialismo, nel momento in cui nulla esclude, in termini di agire e interagire umano, dal proprio ambito di conoscenza; salvo che Robbins, come poi Mises, fonda l’affermazione sul presupposto della “scarsità dei mezzi”, ed è questo il profilo che, come detto, va riconsiderato, dato che l’individuazione dell’”economico” in qualsiasi scopo non viene meno, ove pure il “mezzo” non sia “scarso”, dato che anche in regime di abbondanza il bene va appropriato individualmente, oltre che eventualmente goduto collettivamente, e dato che “limitate” –e non necessariamente scarse- sono piuttosto le risorse intrinseche al soggetto in sé, in quanto essere vivente, in carne e ossa, e mortale; il che non ha come contraltare che debbano essere a loro volta scarse le risorse attorno a lui, le quali, anzi, con l’ingresso sulla scena del virtuale, dell’immateriale e dell’astratto finiscono davvero con il rivelarsi infinite, il che poi ha ricadute immediate anche sul modo di intendere il fenomeno monetario, nel momento in cui la moneta rivendica il proprio essere disancorata da qualsiasi retrostante merceologico materiale effettivamente posseduto.

Attraverso un tale proprio “imperialismo”, ossia non avere l’economico un preciso ambito riservato quanto ai fini, ma solo con riferimento a idoneità e adeguatezza dei mezzi -nozione non necessariamente correlata con l’esigenza che detti mezzi siano anche scarsi-, il concetto di economia finisce con l’estendersi a tutto ciò che riguardi l’aggregazione sociale, oltre che l’azione individuale, sulla base della consapevolezza che l’individuo non vive isolato, ma in società, e allora il gruppo sociale, ivi compresa la sua forma più complessa, che è quella rappresentata dallo Stato, viene incluso nell’”economico”, e con esso tutte le varie gradazioni di ciò che esprime forza, individuale ma anche sociale, e quindi anche la forza promanante da quel preteso monopolista del diritto e della legittimazione, che è appunto lo Stato: e allora anche un discorso sui fondamenti della legittimazione diviene discorso “economico”. A questo punto, l’approccio economico ha solo in parte a che fare con la produzione in senso stretto, se aiuta a spiegare, con l’ausilio del suo linguaggio tecnico, le dinamiche tra individui, gruppi e istituzioni, anche in termini di ricostruzione storica; le implicazioni economiche in senso stretto verranno poi da sé, dalla ricostruzione dei fenomeni sulla base delle concettuologie dei giuristi; i più consapevoli di tale dato di fatto appaiono gli esponenti della scuola dei costi di transazione, inaugurata da Ronald Coase, e chi forse ha messo meglio a fuoco il percorso evolutivo in tale chiave è stato Douglass C. North, il quale non fa alcuno sforzo per distinguere, nella storia, le vicende giuridico-normative da quelle tradizionalmente ritenute economiche.

 

Però, come si è anticipato, allorché vengono in rilievo le questioni di mera sussistenza, pare preferibile recuperare l’antica accezione di economico in senso stretto, dato che al livello dei bisogni della sussistenza emergono elementi di superiore stringente oggettività, come pure il marginalismo mengeriano riconosceva; considerando però che, oltrepassata tale soglia, la nozione di economia, che viene in rilievo, è esattamente quella, della quale si è già parlato, vale a dire null’affatto ancorata a una visione materialistica della disciplina, non essendo sufficiente l’attingere a un’energia bruta, giacché il prepotente irrompere degli elementi soggettivi rende sempre più necessaria l’elaborazione di un’idea, l’espressione di una capacita di ingegno, di intelligenza, di un modo di vedere le cose e di sentirle, quindi di una morale; il che però, circolarmente, vale anche già per la mera sussistenza, fronteggiare le esigenze della quale è già di per sé “imprenditoriale”, consapevoli che l’imprenditorialità è un concetto mentale e non meramente materiale, perché anche per cacciare un tordo devo possedere una strategia, anche per raccogliere erba devo pensare quanta raccoglierne e fare un calcolo su quante volte mi conviene o mi faccia piacere recarmi sul posto e così via, in un calcolo costi/benefici che richiede una considerazione su di sé, di amministrazione della propria energia fisica, ma anche psichica, sicché già nel fare fronte alle necessità della mera sussistenza abbiamo la mente che amministra la mente, rispetto alla quale la materia corporea -che pure sappiamo non essere seriamente disgiungibile dalla mente, come dire dal cervello e dalle sue ramificazioni nervose- svolge un ruolo puramente ancillare e strumentale, pur se è il corpo poi a dovere essere nutrito, e con esso però anche la mente, al fine di progettare ulteriori iniziative di autosostentamento e quindi però anche di auto-appagamento a un livello più elevato.

Una volta soddisfatti i bisogni elementari, l’uomo “non vive di solo pane”, e quindi tutti valori, i quali pure non riguardino la mera sussistenza, devono essere intesi come “economici” in un senso più ampio, pur quando non riguardino la “produzione” di beni e servizi in senso stretto, vale a dire organizzato per azienda, che rappresenta un requisito puramente estrinseco; e in quanto si tratti di oggetti percepiti come fonte di benessere, si viene a ricomprendere nell’economico qualsiasi previsione di utilità, benessere, ofelimità, guadagno, felicità, autorealizzazione immediate o, più spesso, future; altro approccio metodologico potrebbe essere quello di consentire l’evaporazione in tali compresivi concetti quello ben sì di economico, ma allora però anche quello di etico, in quanto l’uno e l’altro si mescolino nel procurare soddisfazione al singolo, inteso come agente e attore a tutto tondo, senza possibilità, non solo di proporre gerarchie tra economico e altri fattori di soddisfazione, e quindi anche di prestigio e reputazione, ma anche solo di distinguerli efficacemente; salvo che il denaro rappresenta un’unità di misura sufficientemente oggettiva, in quanto pubblicamente osservabile, del livello di reputazione e di forza sociale acquisito: se non è detto che tutto ciò che sia economico debba anche essere ritenuto monetizzabile, v’è ancora dubbio su questo, certo è che tutto ciò che è monetizzabile va inteso indubbiamente come economico; ma si badi che un tale approccio finisce con il prescrivere, non ideologicamente, ma scientificamente, il requisito del libero conio e l’approccio austriaco alla contabilità, per la semplice ragione, a ben vedere, che il monopolio monetario produce l’effetto di escludere dall’economico, in questo caso appunto dal monetario, infinite cose che potrebbero esserlo, in quanto potrebbero assurgere a oggetto agevole di compenso, quindi in grado di favorire lo scambio sociale, il che il controllo monopolistico della moneta preclude o rallenta fortemente.

L’approccio degli economisti di scuola austriaca, in quanto fondato sull’attribuzione di rilevanza determinante all’elemento psicologico soggettivo e previsionale nella raffigurazione di un’autorealizzazione e di un appagamento psichico in senso squisitamente soggettivo, disancorandosi dai tenui elementi oggettivi contemplati dalla tabella di Menger, finisce con il favorire la confluenza della dimensione dell’”imperialismo economico” nell’etico, ridimensionando però per tale via quell’imperialismo, giacché la dimensione dell’economico qui si smaterializza quanto al bene fonte di appagamento, per divenire qualsiasi tipo di evento, che risulti fonte di soddisfazione; e allora però in tal modo non è più consentito di distinguere tra l’appagamento economico e la fierezza etica, dato che si tratta di vicende interamente di foro interno, se non nel senso della monetizzabilità eventuale di quanto attiene all’etica, il che però risulta rallentato, se non totalmente precluso, dal divieto di libero conio e, quindi, dalla facoltà di associare l’emissione monetaria alla reputazione, vale a dire alla considerazione etica pubblica riferita a una persona, fermo restando però per converso che le relative lesioni sono risarcibili, e quindi monetizzabili per tale via indiretta; il che non significa associare il carattere dell’eticità a qualche forma della “bontà”, ma solo considerarla in quanto manifestazione della forza umana socializzata, la quale possa divenire fonte della considerazione pubblica nei confronti di un dato soggetto.

Se l’economico si fonda sul considerare giusto ciò che conviene, mentre l’etico indica come conveniente ciò che sia giusto, la confluenza dei due fattori o approcci avviene in nome di una superiore razionalità cooperativa, per la quale ciò che è giusto diventa anche conveniente economicamente, dato che le massimizzazioni meramente egoistiche e defettive finiscono con l’apparire, nel giudizio previsionale, come autolesionistiche e autodistruttive; con la conseguenza che l’egoismo intelligente del momento economico confluisce con la necessità della considerazione dell’altro in quanto investimento a lungo o medio termine, e quindi vicenda etica, che si rivela vantaggiosa anche in senso stretto economico.

Si noti che qui l’imperialismo dell’economia si afferma spostando l’economia fuori dall’economico e chiamando economico ciò che non lo è, almeno non lo è tradizionalmente, in quanto diviene economica ogni sensazione provata dal soggetto; sicché viene a determinarsi l’imperialistica equazione tra sensazione ed economia, il che trova sempre però la scappatoia giustificativa nel considerare suscettibile la sensazione di calcolo monetario, agevolato a sua volta, ecco un punto significativo, dall’estendere il concetto stesso di monetario anche alla non-moneta (anche qui: a ciò che tradizionalmente non veniva considerato “moneta” o “denaro”), come la reputazione o altri eventuali indici immateriali, sicché l’economico diviene una vicenda puramente psichica e psicologica, estesa a qualsiasi giudizio di favorevole e vantaggioso o sfavorevole o svantaggioso, si trattasse pure di un giudizio estetico, oltre che etico. Il giudizio altrui può quindi qui ritenersi sempre “moneta”, e quindi il giudizio etico confluisce ipso facto nell’economico, in quanto una nostra condotta, anche per il solo fatto di esporsi al giudizio pubblico, diviene oggetto di un giudizio positivo/negativo, e quindi determina sempre un vantaggio o uno svantaggio sociale, e allora però sempre anche un “guadagno” o una “perdita”, transitando a vele spiegate nel mondo della metafora; vero è però anche che v’è un criterio almeno in parte oggettivo, per comprendere quando il calcolo monetario diviene possibile, e cioè, tautologicamente e circolarmente, quando la moneta viene effettivamente utilizzata nei fatti, ossia indipendentemente dalla riconducibilità teorica a priori al monetario di una data vicenda, dimodoché è la moneta stessa a imporre se stessa e quindi la calcolabilità, e ciò avviene ogni qualvolta emerga una qualsiasi ragione di carattere contabile: sicché non affermo, con David Graeber, che la moneta nasce dalle esigenze fiscali dello Stato, dato che la moneta ha origini più antiche e non fiscali, per quanto l’esigenza fiscale possa riconoscersi, non già “alla moneta” in assoluto, ma appunto alla moneta di fonte statuale, dato che anche una carta-valore spontanea e di fonte negoziale è, come si è già visto, “moneta”; vero è però anche che possono essere le esigenze del fisco a imporre un calcolo economico là dove le parti non lo vorrebbero, o quantomeno non monetario, ad esempio con riferimento a determinate attività gratuite e di buon vicinato, che viceversa il fisco presume monetizzate al solo scopo di prevenire elusioni; come dire al solo scopo di estendere il più possibile la propria pervasiva penetrazione in tutti i settori dell’agire umano, e anche teoricamente disinteressato da parte del soggetto.

D’altra parte, lo stesso soggetto, e quindi tutto quanto afferisce alle sue sensazioni “soggettive”, richiede un certo grado di decostruzione, in quanto si considerino le intransitività interne al soggetto stesso, frutto di quello che possiamo considerare il suo “molteplice interno”, di tal che una sua “parte” si riterrà appagata da un bene, un’altra parte se ne riterrà danneggiata, un’altra ancora se ne riterrà indifferente, e se si vuole tale contraddizione interna può anche essere ricostruita attraverso le categorie tradizionali dell’etico e dell’economico, per quanto si tratti di distinzione insoddisfacente; posto che, se pur l’etico viene ricondotto all’economico in senso ampio, si tratterà più spesso di contraddizione tra “economico quanto ai beni materiali” ed “economico quanto ai beni immateriali”, o, in tal caso, “spirituali”; sicché l’etica, in questo senso, diviene una sotto-branca dell’economico, in quanto si ammetta che questo ricomprenda tanto elementi strettamente egoistici, quanto altri invece “altruistici” (ossia egoistici a lungo termine o non asfittici), senza che si possa poi davvero affermare che l’altruistico fuoriesca dall’economico, in quanto lo stesso altruismo ben può rivelarsi conveniente, sia pure non scelto in funzione immediata di tale consapevole convenienza, quanto per la sua capacità di procurare soddisfazione in una dimensione più lata, nonché nella consapevolezza che attraverso l’atto etico si guadagna in reputazione, e quindi, ancora una volta, in “moneta”.

A questo punto occorrerebbe sviluppare un discorso attorno all’amore, e quindi disquisire sul suo carattere di sentimento vantaggioso o no dal punto di vista economico, o in quanto fonte di condotte apprezzate dal punto di vista etico, ma anche del loro contrario; salvo constatare che una quota di amore è indispensabile ai rapporti umani, tanto nella veste dell’amore verso se stesso, il che sta alla base di notevoli imprese, o comunque dell’ambizione, quanto nella veste di amore verso gli altri, che è ciò che almeno in parte ci induce all’azione nel mercato, ogni qualvolta constatiamo che, se siamo dotati di empatia, quantomeno nella sua versione fredda e cinica del comprendere l’altro pur senza patire per esso, per guadagnare noi dobbiamo in qualche misura fare stare bene anche l’altro in regime di reciprocità; reciprocità che non è necessariamente frutto del volere davvero il bene dell’altro, ma anche solo della razionale comprensione che il bene dell’altro è strumento indispensabile a noi per potere perseguire il nostro, il che ci riconduce ancora una volta alla categoria dell’economico, tanto in senso stretto, quanto in senso lato.

Resta il tema se possa definirsi “economico” il sacrificio di una madre per il figlio, sol perché tale sacrificio rappresenta per la madre stessa, in certi casi, il più alto appagamento che ella possa conseguire, e noi abbiamo risolto la questione invocando la categoria del neo-utilitarismo dell’”asso pigliatutto”, che consente di allegare come criterio del “piacere” qualsivoglia categoria immaginabile, posto altresì che l’”utilitarismo” è già comunemente inteso come categoria a un tempo etica ed economica, e così si parla di utilitarismo in ambedue le accezioni, salvo la possibilità di ricondurle a unità in nome appunto del costituire siffatto neo-utilitarismo un “asso pigliatutto”, dimodoché vi si possa ricomprendere qualsiasi sfumatura intermedia, intermedia appunto tra i due poli presunti opposti dell’economico e dell’etico. Resta la possibilità di distinguere l’etico dall’economico in un modo piuttosto preciso, ossia non rendendo pubblico il proprio atto eticamente motivato o connotato, di tal che esso non funzioni nemmeno come alimento della reputazione, e quindi non sia “monetario” nemmeno da questo quasi-metaforico punto di vista; in tal modo, come si è anticipato, ciascuno perimetra da sé l’ambito soggettivo di operatività del proprio “economico” rilevante, e quindi segna il perimetro per sé della scienza economica, il cui ambito di operatività guadagna così pieno carattere soggettivo, se non addirittura solipsistico, intaccando il mito dell’”oggettività della scienza”, quantomeno, in tal caso, della scienza sociale, vale a dire di una scienza sociale, che, al limite, è possibile addirittura soggettivamente negare nella sua stessa esistenza, o almeno ridurla al lumicino davvero, come può essere nel caso estremo di uno stilita, il quale viva di forme di autofagia o di autoconsumo dei propri prodotti corporei.

 

L’asso pigliatutto del neo-utilitarismo, che ho più volte proposto, ci conduce nei fatti, ne sono consapevole, a una sorta di tautologia, per la quale ognuno sceglie il meglio per sé e non il peggio; ma se ciò è banale, cessa di esserlo nel momento in cui un tale naturalistico vitalismo, per il quale l’agente naturale -dal micro-organismo, alle piante, agli animali superiori e all’uomo- vive del proprio conato di vivere, porta poi di volta in volta a dovere scegliere se, per sopravvivere, vivere e conseguire il meglio per sé, ciò induca a condotte di mera massimizzazione immediata unilaterale, il che può rivelarsi miope e addirittura autolesionistico, o se invece piuttosto a scelte cooperative, le quali sappiano tenere conto anche dell’interesse dell’altro: tant’è che né la tradizione dell’utilitarismo economico, né quella dell’utilitarismo etico, parlano di mero “egoismo” o “egotismo”, ma sempre prevedono, come del resto la teoria classica del mercato, forme di cooperazione e di considerazione dell’altro; di tal che utilitarismo ed edonismo egoistico finiscono con il confluire, una volta constatato che difficilmente si può perseguire il proprio piacere in forma esclusivamente egoistica, se è vero che, ad esempio, in un rapporto sessuale, il proprio godimento è di norma maggiore quando gode anche il partner. Se tale coincidenza non si verifica, ciò è dovuto, o a difetti di razionalità e al prevalere delle “azioni non logiche”, o al timore che cooperando noi defezioni l’altro, profittando della nostra ingenuità (“bastona il cane che affoga”), o perché ciò è di natura, dato che in natura i comportamenti non sono spesso cooperativi, dato che la leonessa divora la gazzella e non dialoga con essa, o la pianta estende i propri rami pensando solo a se stessa, sicché se v’è armonia nel creato essa è sovente o non di rado armonia conflittuale, polemica e non irenica. Emergono così due elementi: da un lato, quello che ho chiamato “dilemma di Stirner”, il dilemma dell’egoista se soggiacere alla soddisfazione immediata e di corto respiro, o se non piuttosto sapere attendere, al fine di poter constatare se la cooperazione altrui possa appagare ancor più la nostra auto-soddisfazione in reciprocità, però, con l’altro; e, d’altra parte, il fatto che esistono varie situazioni necessitate, nelle quali le esigenze della nostra autotutela prevalgono su quelle dell’armonia con l’altro, di tal che si rende necessario un esercizio egoistico del potere e la “guerra” può rivelarsi efficace in determinati casi, ma questo allora prevede il ricorso alla dissimulazione e all’inganno, ricorrendo a tal fine anche ad astuzie di tipo giuridico, e quindi si rinuncia a priori al gioco a somma positiva, per puntare tutto sulla vittoria nella contesa in un gioco a somma zero; ora, il fatto è che il mercato reale, e non quello ideale descritto da economisti liberali ottimisti come Bastiat (le famose “armonie economiche”), somiglia sovente più a una somma di giochi a somma zero escludenti che non alla somma di cooperazioni che sarebbe auspicabile, tanto in senso orizzontale, ossia rispetto ai competitor, quanto in senso verticale, ossia rispetto ai cittadini-consumatori, per non parlare dei rapporti di lavoro.

 

Ma appunto il mercato nella sua forma idealizzata funziona enfatizzando la cooperazione in vista degli scambi e attraverso gli scambi stessi -di forma idealizzata si tratta, dato che la realtà imbastardita che conosciamo è più spesso predatoria che davvero genuinamente cooperativa, proprio perché fondata su di un principio di scarsità-, ma ciò che qui interessa individuare è che il presupposto logico del concetto di mercato, così come enfatizzato dagli economisti classici e liberali, è identico presupposto a quello dell’ideale socialista: vale a dire l’idea che la produzione congiunta rende di più di quella isolata (Hülsmann), salvo risultando poi diversa la modalità della congiunzione, essendo occasionale, e fondata sulla divisione del lavoro spontanea e “naturale” quella liberale, laddove la cooperazione socialista si invera nell’associazione stabile, salvo che il presupposto normativo è il medesimo, ossia la necessità di una forma o dell’altra di congiunzione e di cooperazione, e del resto tendenzialmente “socialista”, in quanto inserisce valutazioni di tipo oggettivo accanto a quelle soggettive, la legge dell’utilità marginale decrescente, che a loro volta i liberali accolgono, a partire da Menger; tant’è che un Mises ci parla di una generale comunque “legge dell’associazione”, il tutto a partire certo dalla “mano invisibile” smithiana, che è una modalità indiretta del coordinamento (spontaneo), ma anche della legge dei costi comparati di David Ricardo.

 

Tuttavia, occorre fare i conti con la teoria dei costi di transazione, inaugurata da Ronald Coase, per la quale ogni negozio deve fare i conti con le difficoltà del raggiungimento dell’accordo, il che però va ulteriormente esteso di due direzioni apparentemente opposte; vale a dire che, da un lato, la vita, o alcuni aspetti della vita, rischiano di essere un unico perenne “costo di transazione”, dato che non si finisce mai di combattere, di discutere, di prendere e sciogliere accordi, negoziando e rinegoziando, fino a un punto di satisfazione che non viene mai totalmente conseguito, si pensi alla lotta politica o per stare a galla nel mercato; ma, per altro verso, tutto ciò, oltre che sforzo e fatica, può risultare satisfattivo in sé, di tal che, in tal caso, il “costo” di transazione è “negativo”, nel senso che nemmeno più viene percepito come costo -così come sono soggettivi gli appagamenti, lo sono i sentimenti a proposito di ciò che è da considerarsi, per sé, costo-, ma come premio costante che la vita ci offre: si pensi all’esempio banale di qualcuno che deve acquistare un immobile, il quale provi piacere dal fatto di fare il giro delle case da visitare, in quanto attività per lui immediatamente gradevole.

 

Ora, che cosa hanno in ogni caso in comune, però, quei due presunti poli opposti dell’economico e dell’etico, tale per cui l’asso possa essere davvero pigliatutto, in quanto sempre viene in rilievo un momento psichico del soggetto -e che però sempre comporta inevitabilmente una qualche forma di intersoggettività, oltre che di intrasoggettività- che l’utilitarismo classico chiamò “piacere”, che poi via via fu denominato “felicità”, “autorealizzazione” o altro? I due poli hanno in comune una teoria del valore, ossia quella per la quale, tanto sotto il profilo etico, quanto sotto quello del consumo, il valore è un concetto immateriale, che pertiene allo spirito e non alla materia bruta, il che vale tanto per i beni immateriali in senso stretto (ad esempio, un marchio o un diritto di autore), i quali pure presentano un “supporto” materiale, che però non è in alcun modo fonte del valore, quanto per quelli materiali, con riferimento ai quali il valore dipende sempre e comunque da una loro utilità, che trascende l’elemento fisico, che è mezzo e non fine in sé. In tal modo, ricondotta a unità la teoria del valore, essa non consente più di distinguere, sul piano della struttura, tra sentimento del valore economico e sentimento del valore etico, fermo restando il giudizio altrui, in termini di reputazione, sulle azioni che uno possa compiere al fine di conseguire quell’appagamento psichico. In modo tale che un soggetto -il quale per ragioni culturali o sotto-culturali, abbia estremamente a cuore la propria reputazione, costruita sulla base di faide, sfide di potere, questioni di onore e simboliche-, possa giungere a spendere una significativa somma di denaro per un qualcosa che a noi può apparire una piccola questione di principio, ma simbolica ed espressiva del suo status di uomo di potere, e che quindi per lui è molto importante: è questo un calcolo economico, o siamo totalmente fuori dal calcolo economico nel senso di monetario?

 

Forse la questione comincia a perdere di rilevanza anche sotto un altro profilo; e cioè che, se si iniziano a dilatare la portata e l’estensione della nozione monetaria, per cui è tale tutto quanto investe la reputazione o sia comunque suscettibile di una qualche pur informale certificazione, anche fare riferimento alla moneta come metro dell’economico diviene poco significativo, dato che quando Mises introdusse il concetto ragionava in una logica di “moneta scarsa”, o con valore “intrinseco”, ossia tale in quanto conseguente al suo essere scarsa.

 

Il punto è che anche un giudizio morale, ove questo assuma rilievo pubblico, è in una qualche forma “certificabile”, rileva sul piano reputazionale, quindi “monetariamente”, e allora ripeto che l’unico modo per sottrarre l’etico all’economico è mantenere riservato o segreto il giudizio etico-morale. Dal punto di vista del soggetto stesso, tuttavia, il concetto di interesse non è scomponibile nel suo essere etico od economico, è unico, unitario, semmai con sfaccettature; il suo benessere è uno solo, l’ofelimità è una sola, anche se pulsioni diverse possono premere in direzioni diverse; e quindi economico ed etico concorrono e sono anzi indistinguibili a questo livello della considerazione, dato che nulla osta a che uno, nella medesima azione, ispirata a principi di economicità, introduca anche altri valori comunemente ritenuti non monetari, e il tutto convive in un unico contesto. E allora immaginiamo che un attore operi nell’ambito di una curva di indifferenza, da una parte un bene “economico” dall’altro un bene “etico”, e in base al vincolo di bilancio rappresentato dalla mia forza, dalla mia energia, fisica e interiore, distribuisco quote dei due “beni” a me stesso, indipendentemente dal loro carattere etico o economico, giungendo all’esito che anche i valori morali si rivelano assets immateriali valutabili sulla base di criteri economici.

 

Solo la mia ipotetica attitudine a isolarmi dal mondo può consentire di sottrarre il giudizio sul mio stesso benessere, non solo al calcolo monetario, il che già di per sé introduce un elemento oggettivistico, in quanto la moneta sia entità rivolta al pubblico; ma di sottrarlo a qualsiasi forma di consenso e di giudizio sociale; in questo tipo di de-contestualizzazione solipsistica, la definizione di che cosa rientri nella nozione di economico è attività totalmente soggettiva; vale a dire che non solo è soggettivo il fatto di sentire e provare appagamenti nell’ambito dell’indubbiamente economico, ma proprio lo stabilire che cosa sia, in una chiave soggettiva, ma oggettivata, economico; il che può apparire davvero estremo, dato che qualcuno potrebbe sostenere che sarebbe come dire che è soggettivo stabilire che cosa sia storico o biologico, ma ciò non significa che ogni autore decida che cosa sia economia, biologia o storia; significa che ogni individuo stabilisce, per sé, che cosa sia economico, il che non è forse altrettanto configurabile nelle scienze naturali, mentre ha più senso negli ambiti umanistici e di scienza sociale: ad esempio stabilire che cosa sia per sé giuridico, etico, politico, il che già sembra essere dotato di maggiore senso, e non solo in nome del vecchio slogan “il privato è politico”, per cui il mio privato sarà totalmente diverso dal tuo, con la conseguenza di innervare ciascuno la politica di entità del tutto diversificate da soggetto a soggetto. Introduco qui dunque la nozione di scienza soggettiva, scienza in senso soggettivo, di tal che  ognuno è abilitato a fissare per sé gli ambiti di operatività di una data disciplina: ossia, “per me qui l’economia non opera”, anche se Burioni non sarebbe d’accordo, dato che eccepirebbe molto a che io possa fissare gli ambiti di operatività di una scienza per me, in quanto la scienza si opporrebbe a me di autorità, in quanto oggettivamente scienza: ma abbiamo visto a quali disastri culturali e sociali abbiano portato simili posizioni, che, gabellandosi per “oggettive”, in realtà sono solo autoritarie.

 

Il mio “asso pigliatutto utilitaristico” consiste dunque in ciò, che ognuno è totalmente libero di allegare, in un ipotetico confronto interpersonale di utilità, o in una contesa, quale ragione del proprio appagamento, qualsiasi elemento lo aggradi; naturalmente, dal punto di vista di quella che considero la mia “inclinazione libertaria”, le soddisfazioni da atto coercitivo nei confronti degli altri (preferenze sadiche) non sono contemplate; non sono cioè contemplate nel “calcolo di utilità” le preferenze meramente “esterne” nel senso di Harsanyi, il che comporta accostamento dell’utilitarismo a una teoria dei diritti, il che non è per nulla stravagante, stante che i diritti sono utilitaristi, nel senso che nascono per assicurare benessere, piacere e felicità alle persone, non certo in quanto fini a se stessi; ciò però non in termini assoluti, nel senso che il mio approccio non prevede l’intangibilità incondizionata dei diritti pretesi e allegati, stante l’operatività di un principio di reciprocità, che funziona come limitazione all’assolutezza della pretesa unilaterale e del dominio proprietario; introduco però nella formula l’ingresso sistematico del principio di risarcimento o di indennizzo di Kaldor-Hicks, allorché nell’ipotetico ipotetico bilanciamento tra pretese contrapposte, si venga a determinare la necessità di imporre un parziale sacrificio a una di tali pretese contrapposte; e però, a questo punto, perde di peso la distinzione tra pretesa e appagamento etico e pretesa e appagamento economico -ambiti nei quali entrambi opera una filosofia utilitarista-, dato che giudicando iuxta probata et allegata, io posso dimostrare e allegare quello che mi pare, l’etico come l’economico.

 

In tal caso, scandalosamente, io potrei mettere in gioco i miei “disinteressati” sacrifici per i figli non diversamente da come metterei in gioco il mio amore per il cinema italiano o per il Lego, o ancora la mia propensione al lavoro intenso, sempre che sia accompagnato da significativo utile e corrispettivo, ovvero ancora il mio rivendicato diritto alla speculazione finanziaria: non opera, in tal caso, alcuna “gerarchia dei valori”, con la sola restrizione che la loro invocazione non comporti coercizione nei confronti dei terzi; il che nemmeno è precluso in assoluto, semplicemente è precluso dalla mia “inclinazione libertaria”, che è del tutto personale e soggettiva a sua volta, sempre con la clausola di indennizzo o risarcimento per il caso di sacrifici imposti.

 

Gli elementi supposti etici e gli elementi supposti economici finiscono con il sovrapporsi in quanto entrambe le categorie siano intese dall’interessato come strumenti felicifici per lui, nel senso più lato della sua autorealizzazione, per cui l’una e l’altra ipotesi sono categorie omogenee nel giudizio soggettivo, riferito da sé a per sé, ferma restando la variabilità dei giudizi provenienti dall’esterno nei termini della reputazione, che il fatto di puntare su di un elemento piuttosto che su di un altro ti procura nei confronti dei terzi e della società intera; stando così le cose, nemmeno funziona più la distinzione tra il monetizzabile e il non monetizzabile, se assumiamo come concetto operante il libero conio reputazionale, che, come tale, tutto rende monetizzabile in reputazione, ad esempio in like di Facebook, e quindi anche il buttarsi nel fuoco per salvare il figlio, venendo a rientrare nella proverbiale società dello spettacolo, può risultare, volenti o nolenti, finalizzato a un riconoscimento pubblico del proprio “valore” (in tutte le accezioni), quindi della propria reputazione, persino nel caso che si tratti di reputazione postuma, essendo magari postumi i like ottenuti; in effetti, la reputazione discende da un fascio di relazioni, che in realtà mettono in collegamento anche sconosciuti, ma conosciuti “per interposta persona”, per “sentito dire”, per fama o infamia, tal per cui si viene a determinare attorno alla persona un vero e proprio capitale immateriale, che è il capitale relazionale, fatto istituzionale che “appartiene” al soggetto, nel senso che dalla buona reputazione gli derivano una serie di vantaggi; con la conseguenza che, ad esempio, l’attribuzione di una cattiva azione a un soggetto, azione che però il soggetto non ha compiuto, diviene una lesione ingiusta, che determina o può determinare un grave danno relazionale, e quindi comporta risarcimento del danno arrecato; ma siccome noi sappiamo che un danno subito e risarcibile costituisce retrostante monetario, quindi anche moneta-merce direttamente, ecco allora che la reputazione è a sua volta moneta in quanto tale, e può essere spesa; ovvero può essere “affittata”, messa a disposizione in quanto garante, e quindi diviene attività economica vero e propria in grado di procurare utili, il che equivale a dire che consente emissione monetaria.

 

Se quindi la reputazione di una persona ha fondamento nella sua eticità, in tal modo quella persona è immediatamente in grado di monetizzare l’etico; e in effetti, io potrei anche accettare di adottare un comportamento di grande valore etico, tanto nella sostanza, quanto nella parvenza, come donare il midollo o un rene a mio figlio, agendo in tal modo anche solo per ragioni opportunistiche e insincere, al solo scopo di rispettare una moralità di senso comune, che me lo impone, dato che sarò biasimato se non lo facessi, e io stesso sarei diviso nel giudizio nei miei stessi confronti, essendo io stesso pervaso e attraversato dal giudizio etico che pur io stesso non condivido davvero nel profondo. Oppure al solo scopo di ottenere visibilità e reputazione mass-mediale, senza che il gesto perda per tale ragione la sua pregnanza, avendo dimostrato io che, pur di finire sul giornale o in televisione, sono disposto a un notevole sacrificio e a correre un notevole rischio; la reputazione che ne consegue rientra ancora nella categoria del “conio reputazionale” sul modello like di Facebook, argomento di cui ho elaborato la caratterizzazione monetaria nel mio lavoro “Concetti economici”.

Per converso, si sostiene che per fare il bene occorre sofferenza, altrimenti non è davvero “fare il bene”, trattandosi di una mera modalità dell’edonismo; ma allora, non posso forse io fare il bene con gioia? Se non esistesse il dolore, non esisterebbe alcuna etica, dato che l'etica regola esattamente i casi di legittimità e illegittimità del dolore procurato; ma se non esistesse il dolore, nemmeno saremmo sicuri di esistere, perché potremmo essere le figurine di un videogioco, o di un Matrix; se quindi postuliamo che le figurine di un videogioco non provano dolore, dobbiamo dedurre che noi, provando dolore, non siamo tali, quindi siamo reali -ammesso e non concesso che un ologramma non sia a sua volta reale, e ammesso e non concesso, il che non possiamo sapere davvero, che un ologramma non goda della conoscenza di che cosa sia il dolore, o che lo possa provare direttamente. In effetti, l’utilitarismo classico si fonda esattamente sulla distinzione tra piacere e dolore, verificando altresì le diverse qualità e intensità del piacere e del dolore, provvedendo a comparazioni tra i relativi stati, nella prospettiva che il maggior numero possibile di persone provi piacere e non dolore, tenendo sempre ben presente -del che pochi si mostrano consapevoli- che il maggiore numero di persone che si possa immaginare sono “tutte le persone”, come chiaramente del resto enunciò John Stuart Mill sulla scorta di jeremy Bentham.

Eppure, pur a fronte di tali chiare precisazioni, occorre sempre fare i conti con le incomprensioni e i travisamenti, che a mio avviso sono frutto di degenerazione e di decadenza filosofica; in passato ho lamentato il travisamento dell’utilitarismo operato da John Rawls, ora invece dirò qualche parola a proposito dell’equivoco, nel quale incorse il suo antagonista storico Robert Nozick, il quale però, a quanto pare, diffidava in pari modo dell’utilitarismo, sia pure con sfumature diverse rispetto a Rawls. E però di quale utilitarismo stiamo parlando? Perché qui ci troviamo a parlare di un utilitarismo in versione corrotta e degenerata, per cui poi diventa facile bersaglio e strawman argument parlarne male; ossia, prima tu ti crei uno spaventapasseri che non ha nulla a che fare con la teoria genuina, lo disegni nel modo peggiore possibile, lo chiami “utilitarismo”, e poi concludi che l’utilitarismo è una pessima cosa.

Io mi attengo all’utilitarismo nella sua versione originaria, come si ricava da Benham e Mill: occorre favorire il piacere di tutti, e se non è possibile consentire che tutti provino piacere e benessere, e che conseguano felicità e autorealizzazione, cercheremo di fare stare il meglio possibile il maggior numero di persone possibile, quantità che al limite combacia con il “tutti”; mi sembra tutto molto lineare. Dopo di che, è ben possibile che perseguire questa meta ideale comporti una serie di difficoltà logiche, ma siamo ben lontani dall’inventare trabocchetti insensati, per dimostrare che l’utilitarismo autorizzi danni deliberati alle persone, in nome di una qualche formula truffaldina, che dovrebbe legittimare il fatto di procurare quei danni, in nome di un qualche “benessere” superiore, non si sa esattamente di chi, trasformando in un gioco a somma zero quello che per la dottrina originaria è un gioco a somma positiva.

E allora veniamo a Nozick, il quale, in “Anarchia, stato e utopia”, trattando, si badi, di diritti degli animali, scrive: “La teoria utilitarista è messa in discussione dalla possibilità che mostri di utilità ottengano dal sacrificio altrui guadagni, in termini di utilità, estremamente maggiori rispetto alle perdite subite dagli altri. Infatti, e in modo inaccettabile, la teoria sembra esigere il sacrificio di tutti noi nelle fauci del mostro al fine di aumentare l’utilità sociale” (pag. 62 dell’edizione italiana).

Si tratta del cosiddetto Utility Monster, il cui strapotere determinerebbe la crisi della teoria utilitarista, e quindi il suo sostanziale accantonamento; ma di quale teoria utilitarista stiamo parlando? Forse di quella di qualche rubastipendio di qualche ameregan iuniversiti, dato che l’utilitarismo classico non autorizza nessuna folle, delirante e demenziale conclusione del genere, per la semplicissima ragione che nell’utilitarismo classico di Bentham e Mill, e anche di Sidgwick, il benessere di ogni singolo è inteso come compossibile rispetto a quello dell’altro, per cui già è fuorviante tale raffigurazione, per la quale il colossale benessere dell’uno debba sacrificare quello degli altri, laddove il tuo colossale benessere, di per sé, non impedisce a me di avere un pur più contenuto benessere. Queste versioni ridicole dell’utilitarismo, che perdono di vista che l’obiettivo originario era assicurare la felicità di tutti e ciascuno e, semmai, del maggior numero possibile quale second best rispetto alla felicità di tutti, conseguono all’errore, proprio nell’accezione etimologica dell’errare nel senso di girare a vuoto, di avere posto al centro della riflessione, non l’individuo, com’è chiarissimo in John Stuart Mill, ma qualche “somma” o qualche “media”, il che consente poi qualsiasi arbitrio connotato nel senso dell’autoritarismo.

E così Derek Parfit si perde nel vaniloquio di chiedersi se sia meglio che mille persone abbiano utilità “sei” o se cento persone ricavino utilità “dieci”, dato che 6x1000 fa seimila, e quindi è di più di 100x10 che fa solo mille! Si tratta come si vede di scemenze, che confondono la quantità con la qualità, dato che noi si deve guardare a come stanno effettivamente le persone reali, non andare a peso e a kili, per cui sommando tante persone si ha un’utilità-somma maggiore anche se stanno peggio! Vien da chiedersi perché filosofi quotati perdano tempo con queste idiozie, per poi concludere che “l’utilitarismo pone dei problemi irrisolvibili”, irrisolvibili solo nelle loro teste di cose inutili.

Quindi si tratta di riportare l’utilitarismo alle origini, nel quale la funzione di utilità è individuale e non globale, il che è l’anticamera dei peggiori autoritarismi; i confronti interpersonali di utilità sono ben sì ammessi, ma solo nel senso dell’assegnare una risorsa, nel caso di scarsità, a chi la sappia far fruttare meglio o a chi ne sappia trarre maggiore soddisfazione, ma, evidentemente, senza confondere un sacrificio da mancato guadagno con un sacrifico da danno emergente procurato, dato che in un caso come questo, quantomeno, vigerebbe il principio di indennizzo o di risarcimento. Per cui, io posso anche non assegnarti un guadagno, se un altro trae maggiore frutto da quello stesso bene di cui stiamo discutendo, ma non assegnare all’altro il bene determinando però la conseguenza di farti perire o di determinare la tua miseria! Negli esempi in cui ciò viene prospettato, non si fa questione di utilitarismo, ma di stati di necessità, nel senso che possono capitare casi di mors tua, vita mea, ma non casi di “mors tua, maggior diletto mio”: qui si fuoriesce chiaramente dall’utilitarismo, per entrare nel sadismo o nell’egoismo immorale di tipo volgare e autoritario; per cui sarebbe come dire che gli stermini hitleriani fossero legittimi per l’utilitarismo, dato che lui ne traeva enorme piacere; ma l’utilitarismo è una teoria morale, non un pretesto a uso dei sadici, quindi è nell’ambito della ripartizione del bene, che occorre ragionare, non routinizzare il gioco a somma zero, per il quale al mio bene debba corrispondere la tua distruzione: negli utilitarismi classici non si trova una sola sillaba di supporto a simili degenerazioni accademiche.

Del resto, queste sono fondate sul più completo arbitrio anche dal punto di vista che pretendono di sondare la mente altrui, per stabilire, dall’esterno, quanto punteggio di piacere o di dolore io ti possa assegnare a fronte di un dato evento, non secondo un ragionevole id quod plerumque accidit, ma così, senza criterio, per puro sperimentalismo accademico-analitico totalmente vacuo; per cui ucciderti perché io possa mangiare un biscotto diventa un esempio proposto senza alcun pudore, quel pudore e ritegno che si dovrebberoro provare quando si spara una grossa cazzata, e che invece assurge a dibattito accademico.

Guarda caso, il ragionevole criterio dell’id quod plerumque accidit è poi quello che consente all’utilitarismo anche di assegnare dei diritti, che divengono quindi degli standards utilitari, ossia un cerchio milliano invalicabile, nel quale siano circoscritti gli interessi protetti del soggetto in funzione della sua soddisfazione, il cui primo principio è anche però che si sta assegnando all’interessato, e non a terzi autoritari e invasivi, una competenza a stabilire del proprio piacere e del proprio dolore; diversamente, si ricade nell’autoritarismo collettivista, o comunista nell’accezione peggiore, di un Dennett, per il quale spetta alla comunità e, in definitiva, nella buona sostanza, allo Stato, di stabilire quali siano i tuoi piaceri e i tuoi dolori, quali i piaceri da autorizzare, ma anche quali i dolori, non solo da vietare, ma da autorizzare a loro volta! Qualsiasi invasività violenta e sadica è già espunta dal calcolo utilitarista, che non ammette, come si è detto, le preferenze meramente “esterne”, figurarsi quelle violente e sadiche, ma ciò è chiarissimo tanto in Bernham, quanto e ancor più in Mill, quindi non si sa di che cosa si stia discutendo e perché si sia sollevato, tra i “moderni”, questo inutile dibattito artificioso; verosimilmente per la ragione “accademica” di creare nuove dottrine competitor, le quali quindi ritengono di doversi impegnare in “pubblicità comparative” di stampo denigratorio nei confronti dei ricorrenti. Il punto da tenere fermo è che l’utilitarismo, di regola, prevede giochi a somma positiva, e solo nei casi limite, giochi a somma zero, che invece questi epigoni e questi critici elevano a esito generale, elevando di fatto a esito generale di questo presunto “utilitarismo” la coercizione a proprio vantaggio, venduta come modalità del perseguimento del proprio utile, il tutto ovviamente per screditare la proposta utilitaria.

Occorre quindi invece precisare che l’utilitarismo bene inteso è un utilitarismo dei diritti, che è una correzione leggera rispetto all’utilitarismo originario, ma che di prepotenza oggi si impone e si rende necessario rispetto alle letture degenerative, e infatti io ho sempre parlato di utilitarismo libertario; e quindi, una volta ammesso che valga qualsiasi forma di autorealizzazione quale principio etico di riferimento (e di giudizio soggettivo di valore economico, oltre che etico), vale ancora la pena di precisare in che senso sarebbe questa etica diversa da un qualsiasi egoismo; ciò dunque avviene, alla luce di quanto si è appena visto, sulla base di due restrizioni: a) la reciprocità, ossia che la tua autorealizzazione deve essere non confliggente con quella degli altri in regime di compatibilità e compossibilità, salvo eccezioni rette dal principio del confronto interpersonale (ma con previsione di indennizzo), o al limite, dello stato di necessità (sempre e a maggior ragione con previsione di indennizzo, come del resto il codice penale già prevede); b) e l’universalizzazione, l’universalizzabilità della condotta di autorealizzazione, che comporta la stessa restrizione di cui al punto della reciprocità, ossia un certo grado di livellamento e di calmierizzazione della tua pretesa di autorealizzazione in quanto non comportante esternalità in danno dei terzi.

 

Riprendendo ora il filo del nostro discorso, possiamo affermare che, se la distinzione tra il momento etico e quello economico, viene assegnata all’operatività o no dell’elemento monetario, per cui un bene etico diviene economico nel momento in cui è oggetto di calcolo e scambio, occorre pur riconoscere che ci troviamo di fronte a una visione a sua volta moralistica, in quanto dà per fissato un antagonismo tra il mondo dell’etico e quello del denaro, il che andrebbe meglio precisato: semmai, si potrà dire che l’elemento monetario misura quanto vale per te un fattore etico, e quindi a quale momento di calcolo economico tu ti poni in condizione di rinunciare all’elemento etico, mutando partito e condotta, ma questo dato, più che porre un antagonismo, fissa una continuità, contrappuntata dall’intervento dell’elemento monetario, per cui anche la donna più “virtuosa” accetterà una certa somma, eventualmente elevatissima, per “concedersi”, e allora ciò non oblitera l’elemento suo etico, ma lo fissa a un determinato livello, che può indicarsi come infinito, solo esclusivamente nel caso in cui ella rifiutasse davvero qualsiasi somma a un qualsiasi livello, ma soprattutto tenesse per sé tale decisione (non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra), e nessuno di chi la conoscesse la raccontasse a nessuno, in modo da sterilizzare persino il giudizio reputazionale: solo in tal modo l’etico resta etico e non diventa economico.

Fuori di che, in effetti, come si è già accennato, la contrapposizione tra valore etico ed economico, intendendo questo come monetario e l’altra no, consegue in grande parte al controllo monopolistico della moneta, dato che in regime di libero conio verrebbero sperimentate forme monetarie diverse da quella ufficiale, il che consentirebbe una più agevole monetizzazione dell’etico e della dimensione morale, consentendo così più decisamente di assegnare dei premi al soggetto morale, incentivando le condotte virtuose, ma non tali a giudizio dello Stato e a spese del contribuente; il che pone un problema interessante, sul quale tornerò, ossia se il perseguimento del “bene pubblico” sia attività associabile a una specifica persona, ossia se sia possibile perseguire deliberatamente il bene pubblico o comune, ad esempio sul presupposto che uno valuti conveniente per sé una vita di carattere sociale, e allora prenda iniziative non esclusivamente autointeressate, ma appunto deliberatamente costitutive di un bene superindividuale; e il crinale da percorrere è sempre quello che distingue l’azione volontaria, consapevole, libera e informata e quella costretta o artificiosamente indotta.

 

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