di Fabio Massimo Nicosia
È opportuno a questo punto tornare sul concetto di “economico”, al fine di comprendere quali siano i suoi ambiti di operatività, e se esso sia davvero così onnicomprensivo, come vorrebbero i fautori, peraltro ormai un po’ datati, dell’”imperialismo dell’economia”. Per altro verso, è anche possibile che un’accezione strettissima di economia, intesa come produzione e consumo di beni materiali, possa ancora essere accolta, riducendola a quanto riguardi la stretta sopravvivenza, dato che mangiare il pane non conosce sostituti, e quindi non posso appagarmi psichicamente -paradigma dell’economia “post-produttivistica”, soggettivistica e immateriale- se non a stomaco pieno.
E tuttavia i problemi non sono finiti; ad esempio,
una frase come “Per me, la soddisfazione di avere fatto il mio dovere vale
più dei soldi” individua “la soddisfazione di avere fatto il proprio dovere”
come valore economicamente rilevante, o il fatto che si tratta di giudizio di
valore di tipo etico lo sottrae al calcolo economico? O palesa l’intento dell’agente
di sottrarlo al calcolo economico? Il fatto è che, in realtà, l’”economico” qui
rientra dalla finestra, dato che il soggetto opera una comparazione tra
il valore etico per sé dell’atto di compiere il proprio dovere e un valore
economico (poniamo, un miliardo di dollari), e quindi sta pur sempre affermando
che quella soddisfazione di tipo morale, in termini economici e monetari, vale
più di un miliardo di dollari, e quindi si mostra suscettibile di calcolo
economico; forse si potrebbe sostenere cosa diversa, per il caso in cui quella
soddisfazione morale avesse portata di grado infinito, tal per cui nemmeno
una somma infinita di dollari sarebbe sufficiente a fare deflettere dal
compiere il proprio dovere morale: in un confronto tra “infiniti” si potrebbe
quindi ravvisare un’effettiva autonomia dell’etico dall’economico, intendendosi
qui “economico” per “monetario”, salvo
poi meglio precisare che cosa “monetario” possa anche significare.
E
infatti, secondo Ludwig von Mises, “la
sfera del ‘puramente economico’ non è né più né meno che la sfera del calcolo
in termini di moneta”. L’affermazione appare recisa, e tuttavia non sembra
in grado di risolvere davvero tutte le questioni che si propongono a noi; e ciò
da due punti vista apparentemente opposti e incompatibili, ma a ben vedere
strettamente connessi: a) in base a tale definizione, dovremmo escludere dalla
sfera dell’economico, ossia dalla sfera di amministrazione delle risorse, tutto
ciò che un soggetto valuta in termini di valore assoluto, e quindi sottratto da lui stesso all’ambito del
monetario, il che però non si direbbe che comporti la sua fuoriuscita
dall’”economico”, se sempre di amministrazione di risorse si tratta; b) in base
alla definizione stessa, qualunque tipo di valore e bene rientrerebbe comunque
potenzialmente nell’ambito “economico”, sol che un agente sia disponibile a
transigere su quel valore o bene in termini monetari, e quindi l’affermazione
non farebbe che ribadire il già ricordato “imperialismo dell’economia”, con la
precisazione che, in tal modo, siffatto imperialismo vigerebbe non motu proprio, ma dalla disponibilità di
un soggetto a trattare monetariamente i propri valori, persino i più elevati, e
fare mercimonio degli stessi.
In
entrambi i casi si viene a determinare qualche forma di sovrapposizione, totale
o parziale, tra giudizio di valore etico
e giudizio di valore economico,
introducendo l’eventualità della monetarizzazione
dell’etico, salvo poi constatare che persino
l’etico non monetarizzato può ben presentare una valenza economica, ossia
di razionale amministrazione di risorse, prima tra tutte la risorsa “se
stesso”; di modo che l’istituto monetario diviene unità di misura della
tensione etica, tanto nel caso in cui la transazione avvenga, quanto nel caso
in cui la transazione abortisca.
Prendiamo
il caso limite di una rispettata gentildonna –mi attengo qui a ordini mentali
tradizionalisti e patriarcali per comodità di esposizione-, la quale riceva da
un magnate della finanza l’offerta di tutti
i suoi averi per guadagnarne i favori, e immaginiamo ch’ella rifiuti sdegnata
lo scambio. Secondo un “austriaco”, ma anche secondo un neo-classico, dovremmo
arguire che la condotta della donna stia a dimostrare che, dal suo personale
punto di vista, non cedere alle profferte dell’uomo sviluppi un’utilità
marginale superiore a quella che le deriverebbe dal possesso di tutti i beni di
lui, e che quindi, proprio in base a una teoria integralmente soggettivistica
del valore, dovremmo concludere che la donna è oggettivamente, vale a dire non
solo prendendo come parametro vincolante il suo
giudizio di valore, più ricca dell’uomo, dato che entrambi giudicano superiore il valore del possesso di lei rispetto
al valore dell’insieme dei beni di lui (e quindi concorrono insieme nei fatti a
determinare un confronto interpersonale di utilità), e tale possesso
appartiene, e continua ad appartenere anche dopo l’offerta, a lei e non a lui.
In
questo modo, la donna tanto accetta un calcolo monetario, quanto lo rifiuta nei
fatti, inverando ossimoricamente (o per certi versi quantisticamente) entrambe
le ipotesi, che abbiamo sopra indicato, dato che, rifiutandosi di sottoporre a
misurazione monetaria il proprio valore, dando vita alla distonia, per la quale
ciò che è monetario per lui non lo è per lei, in realtà fissa comunque un
proprio prezzo in termini assoluti e infiniti, sicché resta l’ipotesi astratta
che, eguagliandosi l’infinito, essa possa accedere all’offerta monetaria; e in
ogni caso anche il rifiuto dell’offerta
va fatto rientrare nella dimensione dell’economico, in quanto comunque
amministrazione della risorsa “se stessa”.
Salvo
che attribuire a se stessi o a un proprio comportamento un valore o un prezzo
infinito significa esprimere l’intento di passare dall’economia all’etica (i
valori per sé estremamente importanti); ma la soglia è labile, ove alzando
indefinitamente l’offerta essa potrebbe essere accettata, senza che,
d’altra parte, noi si sia autorizzati ad affermare che la condotta di
accettazione, in tal caso, sarebbe non etica o immorale, sicché al margine la
scelta etica e quella economica coincidono: ad esempio, l’offerta potrebbe
essere accettata per curare un figlio malato, o anche solo per assicurare a sé
un superiore tenore di vita, ove si ammetta che tale amor di sé non sia privo
di valenza etica, pur risultando in concreto economicamente misurabile: d’altra
parte, non solo l’utilitarismo è una corrente di pensiero al tempo stesso di
contenuto etico quanto economico, ma tale è anche l’edonismo cosiddetto
egoistico. In definitiva, resta il dubbio che la sfera dell’economico coincida
con il misurabile monetariamente –anche perché allora non rientrerebbero
nell’ambito dell’economico il baratto, il dono e lo scambio di doni, dato che
in tali casi non v’è intermediazione di bene terzo di ragguaglio-, a meno di
non estendere la misurabilità anche al concetto di infinito, in modo tale da
trasferire anche l’etico nell’ambito economico; che poi assume anche valenza
giuridica, dato che la donna in questione, fissando il proprio prezzo al livello
dell’infinito, segna anche una linea di pretesa e rivendicazione del proprio
diritto in senso soggettivo in quanto linea invalicabile della sua area
riservata.
Per
altro verso, esiste anche un’economia della santità; pensiamo a Mohamed Mashally, stimato medico
egiziano, il quale per oltre cinquanta anni ha curato gratis i poveri, ma che
per far ciò aveva pur necessità di risorse e di distribuirle lungo le sue curve
di indifferenza, e allora anche la sua espansione etica e altruista non
riusciva a sottrarsi alla morsa dell’imperialista approccio economico alla
condotta umana. Il fatto è che è da tempo acquisita la convinzione che
la scienza economica non possieda, quantomeno a far data da Lionel Robbins, un
proprio ambito esclusivo di disciplina e di studio, e può occuparsi di
qualsiasi fenomeno, ignorando il feticcio produttivista, e quindi l’economia
rivendica per sé una sorta di imperialismo,
nel momento in cui nulla esclude, in termini di agire e interagire umano, dal
proprio ambito di conoscenza; salvo
che Robbins, come poi Mises, fonda l’affermazione sul presupposto della “scarsità dei mezzi”, ed è questo il
profilo che, come detto, va riconsiderato, dato che l’individuazione
dell’”economico” in qualsiasi scopo non viene meno, ove pure il “mezzo” non sia
“scarso”, dato che anche in regime di abbondanza il bene va appropriato
individualmente, oltre che eventualmente goduto collettivamente, e dato che
“limitate” –e non necessariamente scarse- sono piuttosto le risorse intrinseche
al soggetto in sé, in quanto essere
vivente, in carne e ossa, e mortale; il che non ha come contraltare che debbano
essere a loro volta scarse le risorse attorno a lui, le quali, anzi, con
l’ingresso sulla scena del virtuale, dell’immateriale e dell’astratto finiscono
davvero con il rivelarsi infinite, il che poi ha ricadute immediate anche sul
modo di intendere il fenomeno monetario, nel momento in cui la moneta rivendica
il proprio essere disancorata da qualsiasi retrostante merceologico materiale
effettivamente posseduto.
Attraverso un tale proprio “imperialismo”,
ossia non avere l’economico un preciso ambito riservato quanto ai fini, ma solo
con riferimento a idoneità e adeguatezza dei mezzi -nozione non
necessariamente correlata con l’esigenza che detti mezzi siano anche scarsi-,
il concetto di economia finisce con
l’estendersi a tutto ciò che riguardi l’aggregazione sociale, oltre che
l’azione individuale, sulla base della consapevolezza che l’individuo non vive
isolato, ma in società, e allora il gruppo sociale, ivi compresa la sua forma
più complessa, che è quella rappresentata dallo Stato, viene incluso
nell’”economico”, e con esso tutte le varie gradazioni di ciò che esprime forza, individuale ma anche sociale, e
quindi anche la forza promanante da quel preteso monopolista del diritto e
della legittimazione, che è appunto lo Stato: e allora anche un discorso sui
fondamenti della legittimazione diviene discorso “economico”. A questo punto, l’approccio
economico ha solo in parte a che fare con la produzione in senso stretto,
se aiuta a spiegare, con l’ausilio del suo linguaggio tecnico, le dinamiche tra
individui, gruppi e istituzioni, anche in termini di ricostruzione storica; le
implicazioni economiche in senso stretto verranno poi da sé, dalla
ricostruzione dei fenomeni sulla base delle concettuologie dei giuristi; i più
consapevoli di tale dato di fatto appaiono gli esponenti della scuola dei costi
di transazione, inaugurata da Ronald Coase, e chi forse ha messo meglio a fuoco
il percorso evolutivo in tale chiave è stato Douglass C. North, il quale non fa
alcuno sforzo per distinguere, nella storia, le vicende giuridico-normative da
quelle tradizionalmente ritenute economiche.
Però, come si è anticipato, allorché vengono in rilievo le questioni di mera
sussistenza, pare preferibile recuperare l’antica accezione di economico
in senso stretto, dato che al livello dei bisogni della sussistenza
emergono elementi di superiore stringente oggettività, come pure il
marginalismo mengeriano riconosceva; considerando però che, oltrepassata tale
soglia, la nozione di economia, che viene in rilievo, è esattamente quella,
della quale si è già parlato, vale a dire null’affatto ancorata a una visione
materialistica della disciplina, non essendo sufficiente l’attingere a un’energia
bruta, giacché il prepotente irrompere degli elementi soggettivi rende sempre più
necessaria l’elaborazione di un’idea, l’espressione di una capacita di ingegno,
di intelligenza, di un modo di vedere le cose e di sentirle, quindi di una morale;
il che però, circolarmente, vale anche già per la mera sussistenza, fronteggiare
le esigenze della quale è già di per sé “imprenditoriale”, consapevoli che l’imprenditorialità
è un concetto mentale e non meramente materiale, perché anche per cacciare un
tordo devo possedere una strategia, anche per raccogliere erba devo pensare
quanta raccoglierne e fare un calcolo su quante volte mi conviene o mi faccia
piacere recarmi sul posto e così via, in un calcolo costi/benefici che
richiede una considerazione su di sé, di amministrazione della propria energia
fisica, ma anche psichica, sicché già nel fare fronte alle necessità della mera
sussistenza abbiamo la mente che amministra la mente, rispetto alla quale
la materia corporea -che pure sappiamo non essere seriamente disgiungibile
dalla mente, come dire dal cervello e dalle sue ramificazioni nervose- svolge
un ruolo puramente ancillare e strumentale, pur se è il corpo poi a dovere
essere nutrito, e con esso però anche la mente, al fine di progettare ulteriori
iniziative di autosostentamento e quindi però anche di auto-appagamento a un
livello più elevato.
Una volta soddisfatti i bisogni elementari, l’uomo
“non vive di solo pane”, e quindi tutti valori, i quali pure non riguardino la
mera sussistenza, devono essere intesi come “economici” in un senso più ampio,
pur quando non riguardino la “produzione” di beni e servizi in senso stretto,
vale a dire organizzato per azienda, che rappresenta un requisito puramente
estrinseco; e in quanto si tratti di oggetti percepiti come fonte di benessere,
si viene a ricomprendere nell’economico qualsiasi previsione di utilità,
benessere, ofelimità, guadagno, felicità, autorealizzazione immediate o, più
spesso, future; altro approccio metodologico potrebbe essere quello di
consentire l’evaporazione in tali compresivi concetti quello ben sì di
economico, ma allora però anche quello di etico, in quanto l’uno e l’altro si
mescolino nel procurare soddisfazione al singolo, inteso come agente e attore a
tutto tondo, senza possibilità, non solo di proporre gerarchie tra
economico e altri fattori di soddisfazione, e quindi anche di prestigio e
reputazione, ma anche solo di distinguerli efficacemente; salvo che il denaro
rappresenta un’unità di misura sufficientemente oggettiva, in quanto pubblicamente
osservabile, del livello di reputazione e di forza sociale acquisito: se non
è detto che tutto ciò che sia economico debba anche essere ritenuto
monetizzabile, v’è ancora dubbio su questo, certo è che tutto ciò che è monetizzabile
va inteso indubbiamente come economico; ma si badi che un tale approccio
finisce con il prescrivere, non ideologicamente, ma scientificamente, il requisito
del libero conio e l’approccio austriaco alla contabilità, per la semplice
ragione, a ben vedere, che il monopolio monetario produce l’effetto di escludere
dall’economico, in questo caso appunto dal monetario, infinite cose che potrebbero
esserlo, in quanto potrebbero assurgere a oggetto agevole di compenso, quindi
in grado di favorire lo scambio sociale, il che il controllo monopolistico
della moneta preclude o rallenta fortemente.
L’approccio degli economisti di scuola austriaca, in
quanto fondato sull’attribuzione di rilevanza determinante all’elemento
psicologico soggettivo e previsionale nella raffigurazione di un’autorealizzazione
e di un appagamento psichico in senso squisitamente soggettivo,
disancorandosi dai tenui elementi oggettivi contemplati dalla tabella di
Menger, finisce con il favorire la confluenza della dimensione dell’”imperialismo
economico” nell’etico, ridimensionando però per tale via quell’imperialismo, giacché
la dimensione dell’economico qui si smaterializza quanto al bene fonte di
appagamento, per divenire qualsiasi tipo di evento, che risulti fonte di
soddisfazione; e allora però in tal modo non è più consentito di distinguere tra
l’appagamento economico e la fierezza etica, dato che si tratta di vicende
interamente di foro interno, se non nel senso della monetizzabilità
eventuale di quanto attiene all’etica, il che però risulta rallentato, se non totalmente
precluso, dal divieto di libero conio e, quindi, dalla facoltà di associare
l’emissione monetaria alla reputazione, vale a dire alla considerazione etica
pubblica riferita a una persona, fermo restando però per converso che le
relative lesioni sono risarcibili, e quindi monetizzabili per tale via indiretta;
il che non significa associare il carattere dell’eticità a qualche forma della “bontà”,
ma solo considerarla in quanto manifestazione della forza umana socializzata,
la quale possa divenire fonte della considerazione pubblica nei confronti di un
dato soggetto.
Se l’economico si fonda sul considerare giusto ciò
che conviene, mentre l’etico indica come conveniente ciò che sia giusto, la
confluenza dei due fattori o approcci avviene in nome di una superiore
razionalità cooperativa, per la quale ciò che è giusto diventa anche
conveniente economicamente, dato che le massimizzazioni meramente egoistiche e
defettive finiscono con l’apparire, nel giudizio previsionale, come
autolesionistiche e autodistruttive; con la conseguenza che l’egoismo
intelligente del momento economico confluisce con la necessità della
considerazione dell’altro in quanto investimento a lungo o medio termine, e
quindi vicenda etica, che si rivela vantaggiosa anche in senso stretto
economico.
Si noti che qui l’imperialismo dell’economia si
afferma spostando l’economia fuori dall’economico e chiamando economico ciò che
non lo è, almeno non lo è tradizionalmente, in quanto diviene economica ogni
sensazione provata dal soggetto; sicché viene a determinarsi l’imperialistica equazione
tra sensazione ed economia, il che trova sempre però la scappatoia
giustificativa nel considerare suscettibile la sensazione di calcolo monetario,
agevolato a sua volta, ecco un punto significativo, dall’estendere il
concetto stesso di monetario anche alla non-moneta (anche qui: a ciò che
tradizionalmente non veniva considerato “moneta” o “denaro”), come la reputazione
o altri eventuali indici immateriali, sicché l’economico diviene una vicenda
puramente psichica e psicologica, estesa a qualsiasi giudizio di favorevole e
vantaggioso o sfavorevole o svantaggioso, si trattasse pure di un giudizio
estetico, oltre che etico. Il giudizio altrui può quindi qui ritenersi sempre
“moneta”, e quindi il giudizio etico confluisce ipso facto
nell’economico, in quanto una nostra condotta, anche per il solo fatto di
esporsi al giudizio pubblico, diviene oggetto di un giudizio
positivo/negativo, e quindi determina sempre un vantaggio o uno svantaggio
sociale, e allora però sempre anche un “guadagno” o una “perdita”, transitando
a vele spiegate nel mondo della metafora; vero è però anche che v’è un
criterio almeno in parte oggettivo, per comprendere quando il calcolo monetario
diviene possibile, e cioè, tautologicamente e circolarmente, quando la moneta
viene effettivamente utilizzata nei fatti, ossia indipendentemente dalla
riconducibilità teorica a priori al monetario di una data vicenda,
dimodoché è la moneta stessa a imporre se stessa e quindi la
calcolabilità, e ciò avviene ogni qualvolta emerga una qualsiasi ragione di
carattere contabile: sicché non affermo, con David Graeber, che la
moneta nasce dalle esigenze fiscali dello Stato, dato che la moneta ha origini
più antiche e non fiscali, per quanto l’esigenza fiscale possa riconoscersi,
non già “alla moneta” in assoluto, ma appunto alla moneta di fonte statuale,
dato che anche una carta-valore spontanea e di fonte negoziale è, come si è già
visto, “moneta”; vero è però anche che possono essere le esigenze del fisco
a imporre un calcolo economico là dove le parti non lo vorrebbero, o quantomeno
non monetario, ad esempio con riferimento a determinate attività gratuite e di
buon vicinato, che viceversa il fisco presume monetizzate al solo scopo
di prevenire elusioni; come dire al solo scopo di estendere il più possibile la
propria pervasiva penetrazione in tutti i settori dell’agire umano, e anche
teoricamente disinteressato da parte del soggetto.
D’altra parte, lo stesso soggetto, e quindi tutto
quanto afferisce alle sue sensazioni “soggettive”, richiede un certo grado di
decostruzione, in quanto si considerino le intransitività interne al soggetto
stesso, frutto di quello che possiamo considerare il suo “molteplice interno”,
di tal che una sua “parte” si riterrà appagata da un bene, un’altra parte se ne
riterrà danneggiata, un’altra ancora se ne riterrà indifferente, e se si vuole
tale contraddizione interna può anche essere ricostruita attraverso le
categorie tradizionali dell’etico e dell’economico, per quanto si tratti di
distinzione insoddisfacente; posto che, se pur l’etico viene ricondotto
all’economico in senso ampio, si tratterà più spesso di contraddizione tra “economico
quanto ai beni materiali” ed “economico quanto ai beni immateriali”,
o, in tal caso, “spirituali”; sicché l’etica, in questo senso, diviene una
sotto-branca dell’economico, in quanto si ammetta che questo ricomprenda tanto
elementi strettamente egoistici, quanto altri invece “altruistici” (ossia
egoistici a lungo termine o non asfittici), senza che si possa poi davvero
affermare che l’altruistico fuoriesca dall’economico, in quanto lo stesso
altruismo ben può rivelarsi conveniente, sia pure non scelto in funzione
immediata di tale consapevole convenienza, quanto per la sua capacità di
procurare soddisfazione in una dimensione più lata, nonché nella consapevolezza
che attraverso l’atto etico si guadagna in reputazione, e quindi, ancora una
volta, in “moneta”.
A questo punto occorrerebbe sviluppare un discorso
attorno all’amore, e quindi disquisire sul suo carattere di sentimento
vantaggioso o no dal punto di vista economico, o in quanto fonte di condotte
apprezzate dal punto di vista etico, ma anche del loro contrario; salvo
constatare che una quota di amore è indispensabile ai rapporti umani, tanto
nella veste dell’amore verso se stesso, il che sta alla base di notevoli imprese,
o comunque dell’ambizione, quanto nella veste di amore verso gli altri, che è
ciò che almeno in parte ci induce all’azione nel mercato, ogni qualvolta
constatiamo che, se siamo dotati di empatia, quantomeno nella sua versione
fredda e cinica del comprendere l’altro pur senza patire per esso, per
guadagnare noi dobbiamo in qualche misura fare stare bene anche l’altro in
regime di reciprocità; reciprocità che non è necessariamente frutto del
volere davvero il bene dell’altro, ma anche solo della razionale comprensione
che il bene dell’altro è strumento indispensabile a noi per potere perseguire
il nostro, il che ci riconduce ancora una volta alla categoria dell’economico,
tanto in senso stretto, quanto in senso lato.
Resta il tema se possa
definirsi “economico” il sacrificio di una madre per il figlio, sol perché tale
sacrificio rappresenta per la madre stessa, in certi casi, il più alto
appagamento che ella possa conseguire, e noi abbiamo risolto la questione
invocando la categoria del neo-utilitarismo dell’”asso pigliatutto”, che
consente di allegare come criterio del “piacere” qualsivoglia categoria
immaginabile, posto altresì che l’”utilitarismo” è già comunemente inteso
come categoria a un tempo etica ed economica, e così si parla di
utilitarismo in ambedue le accezioni, salvo la possibilità di ricondurle a
unità in nome appunto del costituire siffatto neo-utilitarismo un “asso
pigliatutto”, dimodoché vi si possa ricomprendere qualsiasi sfumatura
intermedia, intermedia appunto tra i due poli presunti opposti dell’economico e
dell’etico. Resta la possibilità di distinguere l’etico dall’economico in un
modo piuttosto preciso, ossia non rendendo pubblico il proprio atto
eticamente motivato o connotato, di tal che esso non funzioni nemmeno come
alimento della reputazione, e quindi non sia “monetario” nemmeno da questo
quasi-metaforico punto di vista; in tal modo, come si è anticipato, ciascuno
perimetra da sé l’ambito soggettivo di operatività del proprio “economico”
rilevante, e quindi segna il perimetro per sé della scienza economica,
il cui ambito di operatività guadagna così pieno carattere soggettivo, se non
addirittura solipsistico, intaccando il mito dell’”oggettività della scienza”,
quantomeno, in tal caso, della scienza sociale, vale a dire di una scienza
sociale, che, al limite, è possibile addirittura soggettivamente negare nella
sua stessa esistenza, o almeno ridurla al lumicino davvero, come può essere
nel caso estremo di uno stilita, il quale viva di forme di autofagia o di
autoconsumo dei propri prodotti corporei.
L’asso pigliatutto del
neo-utilitarismo, che ho più volte proposto, ci conduce nei fatti, ne sono
consapevole, a una sorta di tautologia, per la quale ognuno sceglie il
meglio per sé e non il peggio; ma se ciò è banale, cessa di esserlo nel momento
in cui un tale naturalistico vitalismo, per il quale l’agente naturale -dal
micro-organismo, alle piante, agli animali superiori e all’uomo- vive del
proprio conato di vivere, porta poi di volta in volta a dovere scegliere se,
per sopravvivere, vivere e conseguire il meglio per sé, ciò induca a condotte
di mera massimizzazione immediata unilaterale, il che può rivelarsi miope e
addirittura autolesionistico, o se invece piuttosto a scelte cooperative, le
quali sappiano tenere conto anche dell’interesse dell’altro: tant’è che né la
tradizione dell’utilitarismo economico, né quella dell’utilitarismo etico,
parlano di mero “egoismo” o “egotismo”, ma sempre prevedono, come del resto la
teoria classica del mercato, forme di cooperazione e di considerazione
dell’altro; di tal che utilitarismo ed edonismo egoistico finiscono con il
confluire, una volta constatato che difficilmente si può perseguire il proprio
piacere in forma esclusivamente egoistica, se è vero che, ad esempio, in un
rapporto sessuale, il proprio godimento è di norma maggiore quando gode anche
il partner. Se tale coincidenza non si verifica, ciò è dovuto, o a difetti di
razionalità e al prevalere delle “azioni non logiche”, o al timore che
cooperando noi defezioni l’altro, profittando della nostra ingenuità (“bastona
il cane che affoga”), o perché ciò è di natura, dato che in natura i
comportamenti non sono spesso cooperativi, dato che la leonessa divora la
gazzella e non dialoga con essa, o la pianta estende i propri rami pensando
solo a se stessa, sicché se v’è armonia nel creato essa è sovente o non di rado
armonia conflittuale, polemica e non irenica. Emergono così due elementi: da un
lato, quello che ho chiamato “dilemma di Stirner”, il dilemma dell’egoista se
soggiacere alla soddisfazione immediata e di corto respiro, o se non piuttosto
sapere attendere, al fine di poter constatare se la cooperazione altrui possa
appagare ancor più la nostra auto-soddisfazione in reciprocità, però, con
l’altro; e, d’altra parte, il fatto che esistono varie situazioni necessitate,
nelle quali le esigenze della nostra autotutela prevalgono su quelle
dell’armonia con l’altro, di tal che si rende necessario un esercizio egoistico
del potere e la “guerra” può rivelarsi efficace in determinati casi, ma questo
allora prevede il ricorso alla dissimulazione e all’inganno, ricorrendo a tal
fine anche ad astuzie di tipo giuridico, e quindi si rinuncia a priori al gioco
a somma positiva, per puntare tutto sulla vittoria nella contesa in un gioco a
somma zero; ora, il fatto è che il mercato reale, e non quello ideale descritto
da economisti liberali ottimisti come Bastiat (le famose “armonie economiche”),
somiglia sovente più a una somma di giochi a somma zero escludenti che non alla
somma di cooperazioni che sarebbe auspicabile, tanto in senso orizzontale,
ossia rispetto ai competitor, quanto in senso verticale, ossia rispetto
ai cittadini-consumatori, per non parlare dei rapporti di lavoro.
Ma appunto il mercato
nella sua forma idealizzata funziona enfatizzando la cooperazione in vista
degli scambi e attraverso gli scambi stessi -di forma idealizzata si tratta,
dato che la realtà imbastardita che conosciamo è più spesso predatoria che
davvero genuinamente cooperativa, proprio perché fondata su di un principio di
scarsità-, ma ciò che qui interessa individuare è che il presupposto logico del
concetto di mercato, così come enfatizzato dagli economisti classici e
liberali, è identico presupposto a quello dell’ideale socialista: vale a
dire l’idea che la produzione congiunta rende di più di quella isolata (Hülsmann),
salvo risultando poi diversa la modalità della congiunzione, essendo
occasionale, e fondata sulla divisione del lavoro spontanea e “naturale” quella
liberale, laddove la cooperazione socialista si invera nell’associazione
stabile, salvo che il presupposto normativo è il medesimo, ossia la necessità
di una forma o dell’altra di congiunzione e di cooperazione, e del resto
tendenzialmente “socialista”, in quanto inserisce valutazioni di tipo oggettivo
accanto a quelle soggettive, la legge dell’utilità marginale decrescente, che a
loro volta i liberali accolgono, a partire da Menger; tant’è che un Mises ci
parla di una generale comunque “legge dell’associazione”, il tutto a partire
certo dalla “mano invisibile” smithiana, che è una modalità indiretta del
coordinamento (spontaneo), ma anche della legge dei costi comparati di David
Ricardo.
Tuttavia, occorre fare i
conti con la teoria dei costi di transazione, inaugurata da Ronald Coase, per
la quale ogni negozio deve fare i conti con le difficoltà del raggiungimento
dell’accordo, il che però va ulteriormente esteso di due direzioni
apparentemente opposte; vale a dire che, da un lato, la vita, o alcuni aspetti
della vita, rischiano di essere un unico perenne “costo di transazione”, dato
che non si finisce mai di combattere, di discutere, di prendere e sciogliere
accordi, negoziando e rinegoziando, fino a un punto di satisfazione che non
viene mai totalmente conseguito, si pensi alla lotta politica o per stare a
galla nel mercato; ma, per altro verso, tutto ciò, oltre che sforzo e fatica,
può risultare satisfattivo in sé, di tal che, in tal caso, il “costo” di
transazione è “negativo”, nel senso che nemmeno più viene percepito come costo
-così come sono soggettivi gli appagamenti, lo sono i sentimenti a proposito di
ciò che è da considerarsi, per sé, costo-, ma come premio costante che la vita
ci offre: si pensi all’esempio banale di qualcuno che deve acquistare un
immobile, il quale provi piacere dal fatto di fare il giro delle case da
visitare, in quanto attività per lui immediatamente gradevole.
Ora, che cosa hanno in
ogni caso in comune, però, quei due presunti poli opposti dell’economico e
dell’etico, tale per cui l’asso possa essere davvero pigliatutto, in quanto
sempre viene in rilievo un momento psichico del soggetto -e che però sempre
comporta inevitabilmente una qualche forma di intersoggettività, oltre che di
intrasoggettività- che l’utilitarismo classico chiamò “piacere”, che poi via
via fu denominato “felicità”, “autorealizzazione” o altro? I due poli hanno in
comune una teoria del valore, ossia quella per la quale, tanto sotto il
profilo etico, quanto sotto quello del consumo, il valore è un concetto
immateriale, che pertiene allo spirito e non alla materia bruta, il che
vale tanto per i beni immateriali in senso stretto (ad esempio, un marchio o un
diritto di autore), i quali pure presentano un “supporto” materiale, che però
non è in alcun modo fonte del valore, quanto per quelli materiali, con
riferimento ai quali il valore dipende sempre e comunque da una loro utilità,
che trascende l’elemento fisico, che è mezzo e non fine in sé. In tal modo,
ricondotta a unità la teoria del valore, essa non consente più di distinguere,
sul piano della struttura, tra sentimento del valore economico e sentimento del
valore etico, fermo restando il giudizio altrui, in termini di reputazione,
sulle azioni che uno possa compiere al fine di conseguire quell’appagamento
psichico. In modo tale che un soggetto -il quale per ragioni culturali o
sotto-culturali, abbia estremamente a cuore la propria reputazione, costruita
sulla base di faide, sfide di potere, questioni di onore e
simboliche-, possa giungere a spendere una significativa somma di denaro per un
qualcosa che a noi può apparire una piccola questione di principio, ma simbolica
ed espressiva del suo status di uomo di potere, e che quindi per lui è
molto importante: è questo un calcolo economico, o siamo totalmente
fuori dal calcolo economico nel senso di monetario?
Forse la questione comincia a perdere di
rilevanza anche sotto un altro profilo; e cioè che, se si iniziano a dilatare
la portata e l’estensione della nozione monetaria, per cui è tale tutto quanto
investe la reputazione o sia comunque suscettibile di una qualche pur informale
certificazione, anche fare riferimento alla moneta come metro dell’economico diviene
poco significativo, dato che quando Mises introdusse il concetto ragionava in
una logica di “moneta scarsa”, o con valore “intrinseco”, ossia tale in quanto conseguente
al suo essere scarsa.
Il punto è che anche un giudizio morale, ove questo assuma rilievo pubblico,
è in una qualche forma “certificabile”, rileva sul piano reputazionale, quindi
“monetariamente”, e allora ripeto che l’unico modo per sottrarre l’etico all’economico
è mantenere riservato o segreto il giudizio etico-morale. Dal punto di vista
del soggetto stesso, tuttavia, il
concetto di interesse non è scomponibile nel suo essere etico od economico, è
unico, unitario, semmai con sfaccettature; il
suo benessere è uno solo, l’ofelimità è una sola, anche se pulsioni diverse possono premere in direzioni diverse; e quindi economico ed etico concorrono e sono anzi indistinguibili
a questo livello della considerazione, dato che nulla osta a che uno, nella
medesima azione, ispirata a principi di economicità, introduca anche altri
valori comunemente ritenuti non monetari, e il tutto convive in un unico
contesto. E allora immaginiamo che un attore operi nell’ambito di una curva di
indifferenza, da una parte un bene “economico” dall’altro un bene “etico”, e in
base al vincolo di bilancio rappresentato dalla mia forza, dalla mia energia,
fisica e interiore, distribuisco quote dei due “beni” a me stesso, indipendentemente
dal loro carattere etico o economico, giungendo all’esito che anche i valori
morali si rivelano assets immateriali valutabili sulla base di criteri
economici.
Solo la mia ipotetica attitudine a isolarmi dal
mondo può consentire di sottrarre il giudizio sul mio stesso benessere, non
solo al calcolo monetario, il che già di per sé introduce un elemento oggettivistico,
in quanto la moneta sia entità rivolta al pubblico; ma di sottrarlo a qualsiasi
forma di consenso e di giudizio sociale; in questo tipo di de-contestualizzazione
solipsistica, la definizione di che cosa rientri nella nozione di economico è
attività totalmente soggettiva; vale a dire che non solo è soggettivo il fatto
di sentire e provare appagamenti nell’ambito dell’indubbiamente economico, ma
proprio lo stabilire che cosa sia, in una chiave soggettiva, ma
oggettivata, economico; il che può apparire davvero estremo, dato che qualcuno
potrebbe sostenere che sarebbe come dire che è soggettivo stabilire che cosa
sia storico o biologico, ma ciò non significa che ogni autore decida che cosa
sia economia, biologia o storia; significa che ogni individuo stabilisce, per
sé, che cosa sia economico, il che non è forse altrettanto configurabile
nelle scienze naturali, mentre ha più senso negli ambiti umanistici e di
scienza sociale: ad esempio stabilire che cosa sia per sé giuridico, etico,
politico, il che già sembra essere dotato di maggiore senso, e non solo in nome
del vecchio slogan “il privato è politico”, per cui il mio privato sarà
totalmente diverso dal tuo, con la conseguenza di innervare ciascuno la
politica di entità del tutto diversificate da soggetto a soggetto. Introduco qui dunque la nozione di scienza
soggettiva, scienza in senso soggettivo, di tal che ognuno è abilitato a fissare per sé gli ambiti
di operatività di una data disciplina: ossia, “per me qui l’economia non
opera”, anche se Burioni non sarebbe d’accordo, dato che eccepirebbe molto a
che io possa fissare gli ambiti di operatività di una scienza per me, in
quanto la scienza si opporrebbe a me di autorità, in quanto oggettivamente
scienza: ma abbiamo visto a quali disastri culturali e sociali abbiano portato
simili posizioni, che, gabellandosi per “oggettive”, in realtà sono solo
autoritarie.
Il mio “asso
pigliatutto utilitaristico” consiste dunque in ciò, che ognuno è totalmente
libero di allegare, in un ipotetico confronto interpersonale di utilità, o in
una contesa, quale ragione del proprio appagamento, qualsiasi elemento lo
aggradi; naturalmente, dal punto di vista di quella che considero la mia “inclinazione
libertaria”, le soddisfazioni da atto coercitivo nei confronti degli altri (preferenze
sadiche) non sono contemplate; non sono cioè contemplate nel “calcolo
di utilità” le preferenze meramente “esterne” nel senso di Harsanyi, il che
comporta accostamento dell’utilitarismo a una teoria dei diritti, il che non è
per nulla stravagante, stante che i diritti sono utilitaristi, nel senso
che nascono per assicurare benessere, piacere e felicità alle persone, non
certo in quanto fini a se stessi; ciò però non in termini assoluti, nel senso che
il mio approccio non prevede l’intangibilità incondizionata dei diritti pretesi
e allegati, stante l’operatività di un principio di reciprocità, che funziona
come limitazione all’assolutezza della pretesa unilaterale e del dominio
proprietario; introduco però nella formula l’ingresso sistematico del principio
di risarcimento o di indennizzo di Kaldor-Hicks, allorché nell’ipotetico ipotetico
bilanciamento tra pretese contrapposte, si venga a determinare la necessità di
imporre un parziale sacrificio a una di tali pretese contrapposte; e però, a
questo punto, perde di peso la distinzione tra pretesa e appagamento etico e
pretesa e appagamento economico -ambiti nei quali entrambi opera una filosofia
utilitarista-, dato che giudicando iuxta probata et allegata, io posso
dimostrare e allegare quello che mi pare, l’etico come l’economico.
In tal caso,
scandalosamente, io potrei mettere in gioco i miei “disinteressati” sacrifici
per i figli non diversamente da come metterei in gioco il mio amore per il
cinema italiano o per il Lego, o ancora la mia propensione al lavoro intenso,
sempre che sia accompagnato da significativo utile e corrispettivo, ovvero
ancora il mio rivendicato diritto alla speculazione finanziaria: non opera, in
tal caso, alcuna “gerarchia dei valori”, con la sola restrizione che la loro
invocazione non comporti coercizione nei confronti dei terzi; il che nemmeno è
precluso in assoluto, semplicemente è precluso dalla mia “inclinazione
libertaria”, che è del tutto personale e soggettiva a sua volta, sempre con la
clausola di indennizzo o risarcimento per il caso di sacrifici imposti.
Gli elementi supposti etici e gli elementi supposti economici finiscono
con il sovrapporsi in quanto entrambe le categorie siano intese dall’interessato
come strumenti felicifici per lui, nel
senso più lato della sua autorealizzazione, per cui l’una e l’altra
ipotesi sono categorie omogenee nel giudizio soggettivo, riferito da sé a per
sé, ferma restando la variabilità dei giudizi provenienti dall’esterno nei
termini della reputazione, che il fatto di puntare su di un elemento piuttosto
che su di un altro ti procura nei confronti dei terzi e della società intera;
stando così le cose, nemmeno funziona più la distinzione tra il monetizzabile e
il non monetizzabile, se assumiamo come concetto operante il libero conio
reputazionale, che, come tale, tutto rende monetizzabile in reputazione,
ad esempio in like di Facebook, e quindi anche il buttarsi nel fuoco per
salvare il figlio, venendo a rientrare nella proverbiale società dello
spettacolo, può risultare, volenti o nolenti, finalizzato a un riconoscimento pubblico
del proprio “valore” (in tutte le accezioni), quindi della propria reputazione,
persino nel caso che si tratti di reputazione postuma, essendo magari postumi i
like ottenuti; in effetti, la reputazione discende da un fascio di
relazioni, che in realtà mettono in collegamento anche sconosciuti, ma
conosciuti “per interposta persona”, per “sentito dire”, per fama o infamia,
tal per cui si viene a determinare attorno alla persona un vero e proprio capitale
immateriale, che è il capitale relazionale, fatto istituzionale che “appartiene”
al soggetto, nel senso che dalla buona reputazione gli derivano una serie di
vantaggi; con la conseguenza che, ad esempio, l’attribuzione di una cattiva
azione a un soggetto, azione che però il soggetto non ha compiuto, diviene una
lesione ingiusta, che determina o può determinare un grave danno relazionale, e
quindi comporta risarcimento del danno arrecato; ma siccome noi sappiamo che un
danno subito e risarcibile costituisce retrostante monetario, quindi anche moneta-merce
direttamente, ecco allora che la reputazione è a sua volta moneta in quanto
tale, e può essere spesa; ovvero può essere “affittata”, messa a disposizione
in quanto garante, e quindi diviene attività economica vero e propria in grado
di procurare utili, il che equivale a dire che consente emissione monetaria.
Se quindi la reputazione
di una persona ha fondamento nella sua eticità, in tal modo quella persona è immediatamente
in grado di monetizzare l’etico; e in effetti, io potrei anche accettare di
adottare un comportamento di grande valore etico, tanto nella sostanza, quanto
nella parvenza, come donare il midollo o un rene a mio figlio, agendo in tal
modo anche solo per ragioni opportunistiche e insincere, al solo scopo
di rispettare una moralità di senso comune, che me lo impone, dato che sarò
biasimato se non lo facessi, e io stesso sarei diviso nel giudizio nei miei
stessi confronti, essendo io stesso pervaso e attraversato dal giudizio etico
che pur io stesso non condivido davvero nel profondo. Oppure al solo scopo di ottenere
visibilità e reputazione mass-mediale, senza che il gesto perda per tale
ragione la sua pregnanza, avendo dimostrato io che, pur di finire sul giornale
o in televisione, sono disposto a un notevole sacrificio e a correre un
notevole rischio; la reputazione che ne consegue rientra ancora nella categoria
del “conio reputazionale” sul modello like di Facebook, argomento di cui
ho elaborato la caratterizzazione monetaria nel mio lavoro “Concetti economici”.
Per converso, si sostiene che per fare il bene
occorre sofferenza, altrimenti non è davvero “fare il bene”, trattandosi di una
mera modalità dell’edonismo; ma allora, non posso forse io fare il bene con
gioia? Se non esistesse il dolore, non esisterebbe alcuna etica, dato che
l'etica regola esattamente i casi di legittimità e illegittimità del dolore procurato;
ma se non esistesse il dolore, nemmeno saremmo sicuri di esistere, perché
potremmo essere le figurine di un videogioco, o di un Matrix; se quindi postuliamo
che le figurine di un videogioco non provano dolore, dobbiamo dedurre che noi, provando
dolore, non siamo tali, quindi siamo reali -ammesso e non concesso che un
ologramma non sia a sua volta reale, e ammesso e non concesso, il che non
possiamo sapere davvero, che un ologramma non goda della conoscenza di che cosa
sia il dolore, o che lo possa provare direttamente. In effetti, l’utilitarismo
classico si fonda esattamente sulla distinzione tra piacere e dolore,
verificando altresì le diverse qualità e intensità del piacere e del dolore,
provvedendo a comparazioni tra i relativi stati, nella prospettiva che il
maggior numero possibile di persone provi piacere e non dolore, tenendo sempre
ben presente -del che pochi si mostrano consapevoli- che il maggiore numero di
persone che si possa immaginare sono “tutte le persone”, come chiaramente del
resto enunciò John Stuart Mill sulla scorta di jeremy Bentham.
Eppure, pur a fronte di tali chiare precisazioni,
occorre sempre fare i conti con le incomprensioni e i travisamenti, che a mio
avviso sono frutto di degenerazione e di decadenza filosofica; in passato ho
lamentato il travisamento dell’utilitarismo operato da John Rawls, ora invece
dirò qualche parola a proposito dell’equivoco, nel quale incorse il suo
antagonista storico Robert Nozick, il quale però, a quanto pare, diffidava in pari
modo dell’utilitarismo, sia pure con sfumature diverse rispetto a Rawls. E però
di quale utilitarismo stiamo parlando? Perché qui ci troviamo a parlare di un
utilitarismo in versione corrotta e degenerata, per cui poi diventa facile
bersaglio e strawman argument parlarne male; ossia, prima tu ti crei uno
spaventapasseri che non ha nulla a che fare con la teoria genuina, lo disegni
nel modo peggiore possibile, lo chiami “utilitarismo”, e poi concludi che l’utilitarismo
è una pessima cosa.
Io mi attengo all’utilitarismo nella sua versione
originaria, come si ricava da Benham e Mill: occorre favorire il piacere di
tutti, e se non è possibile consentire che tutti provino piacere e benessere, e
che conseguano felicità e autorealizzazione, cercheremo di fare stare il meglio
possibile il maggior numero di persone possibile, quantità che al limite
combacia con il “tutti”; mi sembra tutto molto lineare. Dopo di che, è ben
possibile che perseguire questa meta ideale comporti una serie di difficoltà
logiche, ma siamo ben lontani dall’inventare trabocchetti insensati, per
dimostrare che l’utilitarismo autorizzi danni deliberati alle persone, in nome
di una qualche formula truffaldina, che dovrebbe legittimare il fatto di
procurare quei danni, in nome di un qualche “benessere” superiore, non si sa
esattamente di chi, trasformando in un gioco a somma zero quello che per la
dottrina originaria è un gioco a somma positiva.
E allora veniamo a Nozick, il quale, in “Anarchia,
stato e utopia”, trattando, si badi, di diritti degli animali, scrive: “La
teoria utilitarista è messa in discussione dalla possibilità che mostri di utilità
ottengano dal sacrificio altrui guadagni, in termini di utilità, estremamente
maggiori rispetto alle perdite subite dagli altri. Infatti, e in modo
inaccettabile, la teoria sembra esigere il sacrificio di tutti noi nelle fauci
del mostro al fine di aumentare l’utilità sociale” (pag. 62 dell’edizione
italiana).
Si tratta del cosiddetto Utility Monster, il cui strapotere determinerebbe la crisi
della teoria utilitarista, e quindi il suo sostanziale accantonamento; ma di quale
teoria utilitarista stiamo parlando? Forse di quella di qualche rubastipendio
di qualche ameregan iuniversiti, dato che l’utilitarismo classico non
autorizza nessuna folle, delirante e demenziale conclusione del genere, per la
semplicissima ragione che nell’utilitarismo classico di Bentham e Mill, e anche
di Sidgwick, il benessere di ogni singolo è inteso come compossibile rispetto
a quello dell’altro, per cui già è fuorviante tale raffigurazione, per la quale
il colossale benessere dell’uno debba sacrificare quello degli altri, laddove
il tuo colossale benessere, di per sé, non impedisce a me di avere un pur più
contenuto benessere. Queste versioni ridicole dell’utilitarismo, che perdono di
vista che l’obiettivo originario era assicurare la felicità di tutti e ciascuno
e, semmai, del maggior numero possibile quale second best rispetto alla
felicità di tutti, conseguono all’errore, proprio nell’accezione etimologica
dell’errare nel senso di girare a vuoto, di avere posto al centro della riflessione,
non l’individuo, com’è chiarissimo in John Stuart Mill, ma qualche “somma”
o qualche “media”, il che consente poi qualsiasi arbitrio connotato nel senso
dell’autoritarismo.
E così Derek Parfit si perde nel vaniloquio di chiedersi se sia meglio
che mille persone abbiano utilità “sei” o se cento persone ricavino utilità “dieci”,
dato che 6x1000 fa seimila, e quindi è di più di 100x10 che fa solo mille! Si
tratta come si vede di scemenze, che confondono la quantità con la qualità,
dato che noi si deve guardare a come stanno effettivamente le persone reali,
non andare a peso e a kili, per cui sommando tante persone si ha un’utilità-somma
maggiore anche se stanno peggio! Vien da chiedersi perché filosofi quotati
perdano tempo con queste idiozie, per poi concludere che “l’utilitarismo pone
dei problemi irrisolvibili”, irrisolvibili solo nelle loro teste di cose
inutili.
Quindi si tratta di riportare l’utilitarismo alle origini, nel quale la
funzione di utilità è individuale e non globale, il che è l’anticamera dei
peggiori autoritarismi; i confronti interpersonali di utilità sono ben sì
ammessi, ma solo nel senso dell’assegnare una risorsa, nel caso di scarsità, a
chi la sappia far fruttare meglio o a chi ne sappia trarre maggiore
soddisfazione, ma, evidentemente, senza confondere un sacrificio da mancato
guadagno con un sacrifico da danno emergente procurato, dato che in un caso
come questo, quantomeno, vigerebbe il principio di indennizzo o di
risarcimento. Per cui, io posso anche non assegnarti un guadagno, se un altro
trae maggiore frutto da quello stesso bene di cui stiamo discutendo, ma non
assegnare all’altro il bene determinando però la conseguenza di farti perire o
di determinare la tua miseria! Negli esempi in cui ciò viene prospettato, non
si fa questione di utilitarismo, ma di stati di necessità, nel senso che
possono capitare casi di mors tua, vita mea, ma non casi di “mors tua,
maggior diletto mio”: qui si fuoriesce chiaramente dall’utilitarismo, per
entrare nel sadismo o nell’egoismo immorale di tipo volgare e autoritario; per
cui sarebbe come dire che gli stermini hitleriani fossero legittimi per l’utilitarismo,
dato che lui ne traeva enorme piacere; ma l’utilitarismo è una teoria morale,
non un pretesto a uso dei sadici, quindi è nell’ambito della ripartizione del
bene, che occorre ragionare, non routinizzare il gioco a somma zero, per il
quale al mio bene debba corrispondere la tua distruzione: negli utilitarismi
classici non si trova una sola sillaba di supporto a simili degenerazioni
accademiche.
Del resto, queste sono fondate sul più completo arbitrio anche dal punto
di vista che pretendono di sondare la mente altrui, per stabilire, dall’esterno,
quanto punteggio di piacere o di dolore io ti possa assegnare a fronte di un
dato evento, non secondo un ragionevole id quod plerumque accidit, ma
così, senza criterio, per puro sperimentalismo accademico-analitico totalmente
vacuo; per cui ucciderti perché io possa mangiare un biscotto diventa un esempio
proposto senza alcun pudore, quel pudore e ritegno che si dovrebberoro provare
quando si spara una grossa cazzata, e che invece assurge a dibattito
accademico.
Guarda caso, il ragionevole criterio dell’id quod plerumque accidit
è poi quello che consente all’utilitarismo anche di assegnare dei diritti,
che divengono quindi degli standards utilitari, ossia un cerchio
milliano invalicabile, nel quale siano circoscritti gli interessi protetti del
soggetto in funzione della sua soddisfazione, il cui primo principio è anche
però che si sta assegnando all’interessato, e non a terzi autoritari e invasivi,
una competenza a stabilire del proprio piacere e del proprio dolore;
diversamente, si ricade nell’autoritarismo collettivista, o comunista nell’accezione
peggiore, di un Dennett, per il quale spetta alla comunità e, in definitiva,
nella buona sostanza, allo Stato, di stabilire quali siano i tuoi piaceri e i
tuoi dolori, quali i piaceri da autorizzare, ma anche quali i dolori, non solo
da vietare, ma da autorizzare a loro volta! Qualsiasi invasività violenta
e sadica è già espunta dal calcolo utilitarista, che non ammette, come si è
detto, le preferenze meramente “esterne”, figurarsi quelle violente e sadiche,
ma ciò è chiarissimo tanto in Bernham, quanto e ancor più in Mill, quindi non
si sa di che cosa si stia discutendo e perché si sia sollevato, tra i “moderni”,
questo inutile dibattito artificioso; verosimilmente per la ragione “accademica”
di creare nuove dottrine competitor, le quali quindi ritengono di
doversi impegnare in “pubblicità comparative” di stampo denigratorio nei
confronti dei ricorrenti. Il punto da tenere fermo è che l’utilitarismo, di
regola, prevede giochi a somma positiva, e solo nei casi limite,
giochi a somma zero, che invece questi epigoni e questi critici elevano a esito
generale, elevando di fatto a esito generale di questo presunto “utilitarismo”
la coercizione a proprio vantaggio, venduta come modalità del perseguimento del
proprio utile, il tutto ovviamente per screditare la proposta utilitaria.
Occorre quindi invece
precisare che l’utilitarismo bene inteso è un utilitarismo dei diritti,
che è una correzione leggera rispetto all’utilitarismo originario, ma che di
prepotenza oggi si impone e si rende necessario rispetto alle letture degenerative,
e infatti io ho sempre parlato di utilitarismo libertario; e quindi, una
volta ammesso che valga qualsiasi forma di autorealizzazione quale principio
etico di riferimento (e di giudizio soggettivo di valore economico, oltre che etico),
vale ancora la pena di precisare in che senso sarebbe questa etica diversa da
un qualsiasi egoismo; ciò dunque avviene, alla luce di quanto si è appena
visto, sulla base di due restrizioni: a) la reciprocità, ossia che la
tua autorealizzazione deve essere non confliggente con quella degli altri in
regime di compatibilità e compossibilità, salvo eccezioni rette dal principio
del confronto interpersonale (ma con previsione di indennizzo), o al
limite, dello stato di necessità (sempre e a maggior ragione con previsione di
indennizzo, come del resto il codice penale già prevede); b) e l’universalizzazione,
l’universalizzabilità della condotta di autorealizzazione, che comporta la
stessa restrizione di cui al punto della reciprocità, ossia un certo grado di
livellamento e di calmierizzazione della tua pretesa di autorealizzazione in
quanto non comportante esternalità in danno dei terzi.
Riprendendo ora il filo del nostro discorso, possiamo affermare che, se
la distinzione tra il momento etico e quello economico, viene assegnata all’operatività
o no dell’elemento monetario, per cui un bene etico diviene economico nel
momento in cui è oggetto di calcolo e scambio, occorre pur riconoscere che ci
troviamo di fronte a una visione a sua volta moralistica, in quanto dà per
fissato un antagonismo tra il mondo dell’etico e quello del denaro, il che
andrebbe meglio precisato: semmai, si potrà dire che l’elemento monetario
misura quanto vale per te un fattore etico, e quindi a quale momento di calcolo
economico tu ti poni in condizione di rinunciare all’elemento etico, mutando
partito e condotta, ma questo dato, più che porre un antagonismo, fissa una
continuità, contrappuntata dall’intervento dell’elemento monetario, per cui
anche la donna più “virtuosa” accetterà una certa somma, eventualmente
elevatissima, per “concedersi”, e allora ciò non oblitera l’elemento suo
etico, ma lo fissa a un determinato livello, che può indicarsi come
infinito, solo esclusivamente nel caso in cui ella rifiutasse davvero qualsiasi somma a un qualsiasi livello,
ma soprattutto tenesse per sé tale decisione (non sappia la tua sinistra ciò
che fa la tua destra), e nessuno di chi la conoscesse la raccontasse a
nessuno, in modo da sterilizzare persino il giudizio reputazionale: solo in tal
modo l’etico resta etico e non diventa economico.
Fuori di che, in effetti, come si è già accennato, la contrapposizione
tra valore etico ed economico, intendendo questo come monetario e l’altra no, consegue
in grande parte al controllo monopolistico della moneta, dato che in regime di
libero conio verrebbero sperimentate forme monetarie diverse da quella
ufficiale, il che consentirebbe una più agevole monetizzazione dell’etico e
della dimensione morale, consentendo così più decisamente di assegnare dei
premi al soggetto morale, incentivando le condotte virtuose, ma non tali a
giudizio dello Stato e a spese del contribuente; il che pone un problema
interessante, sul quale tornerò, ossia se il perseguimento del “bene pubblico”
sia attività associabile a una specifica persona, ossia se sia possibile perseguire
deliberatamente il bene pubblico o comune, ad esempio sul presupposto che
uno valuti conveniente per sé una vita di carattere sociale, e allora prenda
iniziative non esclusivamente autointeressate, ma appunto deliberatamente
costitutive di un bene superindividuale; e il crinale da percorrere è sempre
quello che distingue l’azione volontaria, consapevole, libera e informata e quella
costretta o artificiosamente indotta.
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