-->

giovedì 31 marzo 2022

Legittimazione materialista e superamento della distinzione dall'idealismo: l’economia e il dominio nell’empirismo afairetico-costitutivo

 

di Fabio Massimo Nicosia

La mia proposta definitoria epistemologica, riferita a quello che chiamo empirismo afairetico-costitutivo, è stata illustrata in un mio precedente lavoro, Il valore della cosa – Conoscenza, individuo, autorealizzazione, uscito nel 2021, sicché rimando ampiamente a quella lettura, e cercherò di non ripetere quanto vi è contenuto -ad esempio che, quando parlo di empirismo afairetico (costitutivo), intendo che l’elemento induttivo ascendente e quello deduttivo discendente debbano coesistere paritariamente, senza che si possa pensare che il primo possa fare a meno del secondo, dovendosi invece incrociarsi l’uno con l’altro, combinandosi inscindibili nell’uomo sensi e cultura-, ma semmai di aggiungere, ove possibile, nuovi e ulteriori elementi, a partire dalla questione della dialettica tra approccio materialistico e approccio idealistico, contrapposizione che è mio intento superare, in quanto non ritengo che ci si possa accostare in alcun modo ai dati di materia, ignorando al contempo tutto quanto di ideale, mentale, funzionale, spirituale, universale e sussuntoreo si possa ravvisare in un dato elemento supposto “materiale”.

Il che ritengo in ossequio ai principi di fisica quantistica di Heisenberg, i quali poi rimettono in gioco antichissime proposte, come quelle della scuola di Mileto, che grosso modo possiamo considerare ilozoistiche o panpsichiste, per le quali una contrapposizione materiale/mentale o materiale/ideale sarebbe semplicemente un fuor d’opera insensato, non essendo certo la nostra esistenza di esseri umani caratterizzata dal destino di vivere immersi in una qualche sorta di “materia inerte”, che non sia invece espressione di autentica e intelligente vitalità. Tutto ciò trova piena espressione tanto in tutto ciò che è dato di natura, quanto in tutto ciò che attiene a relazioni quali uomo e società, uomo e diritto, uomo e attività morale, uomo e attività produttiva ed economica, in quanto tutto ciò appare immancabilmente e inevitabilmente ispirato, improntato e orientato ad attività mentale, culturale, creativa e intelligente.

Vorrei quindi anzitutto confrontarmi, a tale proposito, con la classica proposta di “materialismo” marxiano e marxista, che poi incontra la definizione di materialismo storico, per cercare di comprendere come tale impostazione possa essere approcciata al fine di ricondurla alla mia proposta, nonché, stante il tema oggetto del presente lavoro, come operino tali approcci materialisti nei termini della formula di legittimazione del potere e dell’autorità.

La rivoluzione tentata a suo tempo da Marx fu di liquidare come “ideologie” tutte le formule di legittimazione precedenti e antiche, per sostituirle con quello che l’uomo di Treviri riteneva essere un approccio radicalmente materialista: da qui il suo (relativo) allontanamento da Hegel, la critica a Feuerbach in quanto “insufficiente” la critica di lui, e il suo concentrarsi sui “rapporti di produzione”, volgarmente, l’”economia”, quale cuore individuato di quel materialismo, che poi diviene, nelle precisazioni successive, appunto “materialismo storico”. A questo punto, però, si imporrebbe una preliminare analisi di che cosa debba intendersi, in questo quadro, con il termine “materialismo”, perché, in effetti, se Marx rivendica “scientificità”, di modo che il socialismo passerebbe con lui dall’utopia (poesia) alla scienza, è ai concetti scientifici che occorrerebbe davvero fare riferimento, e così ad Heisenberg, a Carnap, a Neurath, ma anche a Popper, Lakatos, Kuhn, Feyerabend e tutti gli altri, e anche però allora a Nietzsche, ad Heidegger, a Wittgenstein, e così via, non trascurando certo Carl Schmitt e i giuristi, che pongono accento e attenzioni sui criteri seguiti in materia di uso della forza.

Va invece detto subito che quel “materialismo” sconta da subito una gara ad handicap, ossia gravato dal convincimento forte e duro in ordine all’esistenza di una realtà di “cose” perfettamente conoscibili nella loro “effettualità”, in assenza di alcuna indeterminazione, sicché compito dello scienziato sociale sarebbe puramente e semplicemente “conoscere” di tale effettualità del reale, salvo poi operare un saltum non da poco, ritenendo cioè di potere trarre nientedimeno che “leggi” dal divenire storico da tale realtà delle cose effettuale, indefettibile e oggettiva, leggi più o meno inflessibili, e comunque sempre adattabili ad hoc innanzi alle eventuali “eccezioni”, che dovessero sopravvenire, eccezioni destinate a non confutare mai l’affermazione iniziale, ma sempre a confermarla, semmai con i dovuti aggiustamenti; sicché la libertà di azione dell’interprete resta qui sempre piuttosto limitata; questo tipo di materialista, solo in parte sovrapponibile al marxista, non si accontenta del fatto che la sua interpretazione della realtà possa essere migliore di altre: egli pretende che, tra le varie interpretazioni possibili del mondo, una debba essere per forza quella “giusta”, “obiettiva”, e di solito pretende che sia la sua.

Fu personalmente Lenin a prendere di petto tale questione, impostando un’epistemologia autoritaria, la quale statuisse che l’esistenza di una realtà materiale oggettivamente conoscibile dalla “scienza” fosse il presupposto indispensabile per la classe operaia per condurre innanzi i suoi postulati sul plus-valore -ergo postulati inadeguati, peraltro, giacché, sfuggendo a Marx il carattere strutturale e non sovrastrutturale dello Stato, quel plus-valore era plus-valore della sovranità schmittiano, e non mera autoriproduzione di valore “economico”. Lenin se la prese dunque con l’empiriocriticismo di un Avenarius, il quale invece aveva saggiamente indicato come l’esperienza umana fosse fenomeno unitario interno-esterno, di tal che la percezione sensoriale fosse l’anticamera della concettualizzazione individuale del mondo circostante, essendo detta percezione inevitabilmente essa stessa individuale; e allora non poté mancare, da parte di Lenin, la consueta accusa di solipsismo borghese, la quale finì con l’investire i Mach e Poincaré, figurarsi allora gli Heisenberg, se Lenin avesse avuto contezza della sua esistenza, e naturalmente la proposta leniniana era quella reazionaria e inadeguata, giacché accusava di una qualche sorta di deviazionismo e tradimento qualunque ipotesi di pur tenue scetticismo rispetto alla realtà; il quale poi va inteso, ragionevolmente, come scetticismo rispetto a determinate letture obbligate della realtà, sicché il materialismo diviene dogmatica religione, proprio perché, a quanto pare, sulla divinità è lecito opinare, ma sulla dura materia, al contrario, non è consentito, pena l’essere additati come matti e anormali; sicché hanno buon gioco gli psichiatri materialisti e fisicalisti, quelli che negano gli stati emotivi della mente, in quanto tutti ricondotti a meri oggettivi meccanismi neuronali in annientamento logico delle singole personalità, a proporsi anche da noi come nuovi sacerdotes e vigili e militi custodi della laica e para-sovietica ortodossia, dato che alla pretesa conoscibilità scientifica di una materia oggettiva, che faccia tabula rasa della rilevanza sociale degli stati mentali soggettivi, corrisponde la pretesa, come in Daniel Dennett, di conoscere da parte loro il momento intra-psichico della persona meglio della persona stessa, che viene ridotta a un ammasso di algoritmi, perfettamente sostituibile dall’intelligenza artificiale, sicché gli stati interiori di questa possono venire de plano bollati appunto come solipsistici, e quindi agevolmente ricondotti a patologia, la malattia di essere uomini e non macchine con grande potenza di calcolo, ma niuna capacità d’intuito ed estetica.

Il che spiega in che senso il materialista sub-tecnocratico e semicolto diventi agente attivo dell’inquisizione, benché il luogo comune possa essere propenso a ritenere il contrario, ossia che sia il religioso a farlo, quando invece noi sappiamo che il più radicale critico dell’oggettività dell’essere, e quindi il più antidogmatico dei filosofi, è stato un Vescovo, e parlo ovviamente di Berkeley: ma il marxista fanatico, trinariciuto e coi paraocchi, chiara parodia e satira di se stesso in servizio permanente ed effettivo, non può nemmeno prendere in considerazione l’idea ipotetica che “il mondo non esista”, altrimenti, perché perdere tanto tempo e profondere tante ottuse energie per imporre la rivoluzione di un mondo che non esiste? Si dirà che questa figura alla Giovannino Guareschi non esiste più da molto tempo, almeno dal Glorioso Evento della “Caduta del Muro”, ma in realtà quella figura si è solo trasferita di locale, vale a dire dal vecchio “comunismo” a varie forme di progressismo liberal e politicamente corretto, che scontano del vecchio comunismo il medesimo manicheismo e unilateralismo; in ultima analisi siamo di fronte al classico atteggiamento intollerante del semicolto che, anche in tal caso, si propone e nasconde dietro l’etichetta scientista della scienzah: in altri termini, al vecchio ottuso si è sostituito il nuovo ottuso, e a mio avviso ci abbiamo rimesso nel cambio, in particolare da quando “il liberale” non è più il vecchio liberale, per vocazione portato allo scetticismo, ma l’ex-comunista marxista volgare, quello di “tutto è economia e tecnica e il resto non conta”, per vocazione portato al dogmatismo e all’intolleranza; con la conseguenza che, dopo avere fatto fallire il comunismo, compito che questo tipo di fallito si è dato è di fare fallire anche il liberalismo progressista.

Ne abbiamo avuto riprova nella recente vicenda della cosiddetta pandemia, nella quale un certo numero di accademici lustrascarpe del regime, impiegati di concetto del ministero con la qualifica di “professore ordinario, o aspirante tale in assenza di prospettive”, sempre in omaggio all’aureo principio, per il quale se non sei un virologo televisivo non hai diritto di parola, e infatti ad Agamben e Cacciari, in quanto non virologi televisivi -ossia, Cacciari era abbastanza televisivo, ma non virologo-, hanno sostenuto con inutile sussiego la grossolana panzana che “la filosofia deve cedere alla scienza”, ossia, dati i tempi, a Cecchi Paone e a Selvaggia Lucarelli; il che però è piuttosto rustico e pacchiano per varie ragioni, dato che semmai si tratta dell’esatto contrario: è l’attività dello scienziato a essere sottoposta alla filosofia, vale a dire alla critica epistemologica e logica, per la già ricordata ragione, ossia che non esiste scienza in assenza di linguaggio, anzi, “scienza” stessa è concetto del tutto metafisico, che presuppone una concezione della realtà e la convinzione che sia possibile cavar qualcosa dal volgere il capo nella sua direzione, il che viene proposto come assiomatico, non essendo punto dimostrabile: la scienza, in ogni caso, si esprime esattamente attraverso il linguaggio, e quindi compete al filosofo, non allo scienziato, il quale non ne sa nulla -non per destino ineluttabile, ma stante l’attuale divisione per comparti stagni dell’accademia-, di disporre di una teoria del linguaggio, nonché di valutare poi in concreto l’adeguatezza (chiarezza, sensatezza e significanza) del linguaggio utilizzato dallo scienziato, al fine di verificarne gli ambiti di possibile confutazione o conferma: la prevalenza della scienza sulla filosofia è quindi semicoltume da istituto tecnico per geometri in astratto, ma tale è tanto più in concreto, alla luce di banalissime considerazioni di sociologia della scienza, in relazione a questi scienziati, con i loro palesi conflitti di interessi, con la loro propensione a divenire parte attiva dello showbiz, e tutto il resto che è ben noto a chi non sia evidentemente del tutto ottenebrato e stolto, come i testé ricordati impiegati di concetto del governo, trafuga-salario recidivi e professionali in danno del contribuente.

In realtà, nella buona sostanza, il materialismo marxista va inteso in un duplice senso, che poi risulta oggetto di rapida riduzione a un unico senso, ossia quale sociologia ed economia, salvo che immediatamente la sociologia stessa, che sarebbe ambito più ampio e comprensivo dell’economia dei mezzi di produzione, viene sollecitamente ricondotta a sua volta a economia dei mezzi di produzione, come lo stesso Antonio Labriola deludentemente acconsente a che sia, rinunciando così, o collocando in situazione strettamente subordinata, tutte le componenti simboliche che attengono al sociale, e che invece divengono a loro volta mere varianti della “produzione sottostante”, senza mai che davvero siffatta “sottostanza” sia mai minimamente dimostrata, ma sempre e solo data per scontata in modo appunto assiomatico e autoritario, sebbene Labriola in vari punti strizzi l’occhio in diversa direzione. Benedetto Croce, proprio leggendo Labriola, scrisse che il “materialismo storico” nemmeno dovesse intendersi come autentica filosofia della storia, semmai come filosofeggiamento sulla storia, trattandosi piuttosto di una scienza sociale fondata sulla raccolta dei dati, attività che indubbiamente prese impegno allo studioso Marx; però, in tal guisa, Croce obliterava l’elemento escatologico, a sua volta presente in Marx, per quanto non ritengo si debba negare laicità a una prospettiva di miglioramento anche drastico e radicale, “miglioramento”, naturalmente, dal punto di vista di uno specifico autore.

Gramsci del resto è esplicito, non si dà empirismo senza concetto, non v’è possibilità di accostarsi al reale in assenza di una teoria, alla quale ricondurre i dati appresi dal reale, e allora nella “filosofia della prassi” egli si sforza di ravvisare altro dall’”economia”, e quindi filosofia idealistica tedesca, empirismo inglese e scienza politica francese, per farne una scienza sociale compiuta, il che però comporta sempre il giro dell’asino, dato che ancora troppo latita, benché il Labriola l’avesse precisato che si trattava di teoria ancora ai primi vagiti, pur dopo il tanto ponderoso, quanto insufficiente, lavoro marxiano; dato che, come si vedrà, non solo l’economia non sa badare a se stessa e non basta a se stessa, ma ormai siamo ben oltre lo stesso debole soggettivismo del marginalismo, essendo soggettivo persino stabilire l’ambito di che cosa sia economia, non intendo come “scienza”, ma come delimitazione del proprio, e sia, “solipsistico” concetto di economia (e vedremo che non si tratta affatto di solipsismo), sicché l’ambito stesso della scienza è soggettivo.

Pannekoek precisa che Lenin ha frainteso Mach e Avenarius, quest’ultimo difeso anche dal compagno Bogdanov, dato che siffatti “idealisti” non sono per nulla additabili come solipsisti, solo evidenziano il ruolo che l’ermeneutica assume nella complessità della fisica; ma Lenin, al netto delle sue lacune culturali, più che “fraintendere”, intendeva imporre una visione d’autorità che troncasse nette ipotesi di comunismo libertario, tra le quali appunto poi Pannekoek, si collocò; e infatti l’olandese, destinatario degli attacchi di Lenin all’infantilismo dell’estremismo, si limita a ricordare come idealismo e materialismo, per il marxismo, si distinguano in ciò, ossia che l’idealista antepone lo spirito alla natura, e il materialista l’inverso, muove dalla natura, per ivi ravvisare gli elementi ideali (così Engels nell’Antidühring); salvo che allora non si comprende in che senso l’”economia” faccia parte della natura, e perché non piuttosto dell’universo degli ingegni umani, al netto ovviamente delle condizioni storico-sociali con annessi rapporti di forza, nelle quali gl’ingegni si manifestino. Ma tale speciosa dicotomia è insopportabile, fa tanto di derby calcistico, quando è evidente che le due cose vanno insieme, come ritiene il mio empirismo afairetico, che sostituisce il dualismo con il monismo complesso, che rappresenta anche una risposta al problema corpo/mente, dato che non v’è corpo senza mente e non v’è mente senza corpo, nel senso che, con Damasio, la mente mi innerva pure il ginocchio, e ogni mia cellula è viva e pensa, non solo il cervello, il quale pure è il concentrato di nerbo, capace di esprimere intelligenza ed emozione in sommo grado, come se ciò si potesse disgiungere in senso della materia e capacità di intessere idee, dando luce a un mostruoso uomo dimidiato, ente individuato dalla sola materia e non anche dalla sua “forma”, mentre, per riprendere Tommaso, è solo dalla combinazione di materia e forma, intendendo per forma tutto ciò che “non appare”, che l’ente si mostra in tutta la sua pienezza; e invece il dimidiato homo materialis giungerebbe al livello dello spirito solo in un “secondo momento”, non è ben chiaro quando, forse quando la locale brigata di produzione si risolva ad ammetterlo. Ma so bene che rivolgersi a Marx esclusivamente con un simile atteggiamento polemico sarebbe pretestuoso, mentre non lo è nei confronti del marxismo volgare, pel quale pure Marx riveste responsabilità, eppure ne va riconosciuta la complessità di pensiero.

Marx ha il merito di avere introdotto il concetto di “conflitto” nell'economia politica classica, che lui segue peraltro abbastanza pedissequamente nel momento stesso in cui la sottopone a critica, inoculandovi quel tot di idealismo hegeliano, che sembra necessario per delineare, da un lato, un certo “spirito” (nel senso hegeliano) della storia in quanto materialismo e storia dei rapporti di produzione -per cui in Marx si invera questa dialettica idealismo-materialismo, che poi si rivela insufficiente nel momento in cui il treviriano non si avvede che la “materia” della produzione è a sua volta innervata dell'elemento idealistico (afairetico), per il quale non v'è produzione senza ingegno, senza idea, senza creazione, senza innovazione schumpeteriana; e allora, non solo il suo materialismo è in realtà un idealismo perché escatologico, ma è anche intriso di idealismo perché la produzione è attività creativa dell'uomo e non materiale sua: per cui il valore del lavoro non sta nel suo tempo, come sarebbe quello del lavoro di un mulo, ma nella genialità dell'idea impiegata, che non si misura certo a tempo, e allora il valore-lavoro varrà per l'operaio in quanto soggetto reso bruto, per cui si misura quanto tempo egli deve impiegare per procurarsi il pane, ma non si tratta di un giudizio universalizzabile, nel momento in cui al “lavoro” bruto si sostituisce l'attività creativa (o discreativa come quella dei manager dell’idiocrazia, peraltro).

Resta dunque il merito di Marx di avere individuato il carattere non celestiale dell'economia politica, nel momento in cui questa è caratterizzata dal conflitto, salvo che Marx vede questo solo nel rapporto di produzione in senso stretto, laddove il conflitto è più vasto che non attorno alle merci, ma è attorno alle inclinazioni umane (libertaria vs. autoritaria), attorno alle culture, alle idee, alle religioni, al modo di intendere i rapporti di gerarchia, economici e non economici, e così via: il tutto, ignorando Marx il ruolo dello Stato in quel conflitto, tanto sotto il profilo economico (produttivo in senso stretto), quanto sotto il profilo non economico (non produttivo in senso stretto), essendo lo Stato capitale ex se direttamente, e non mero garante del capitale e dei suoi detentori (e qui vale il discorso sul demanio materiale e immateriale), e quindi giocatore autonomo, anche in quanto monopsonista del conflitto politico e tra gli interessi costituiti e occulti, e quindi preteso solutore unilaterale -seppur negoziato- del conflitto stesso.

 

E allora veniamo al dunque, di dove poi davvero verrebbe ravvisato il conflitto nell’ambito dell’economia politica e della “produzione”: nel rapporto di lavoro e, quindi, nel lavoro subordinato. Si scrive “mezzi di produzione”, ma si legge “lavoro subordinato”; e allora vien da chiedersi per abduzione donde scaturisca siffatto rapporto di lavoro subordinato, dato che pare da escludere che esso rappresenti la molecola ultima e fondamentale dell’esplicazione del rapporto stesso, in via del tutto circolare e autoreferenziale, e non rimandi viceversa a qualcosa d’altro di sottostante, tal per cui poi semmai sarà questo “qualcosa d’altro” la struttura e non la sovrastruttura della società e del rapporto di dominio da parte di una persona sull’altra. Poniamo dunque allora che, in una data situazione x vi siano il soggetto A e il soggetto B, e che A sia il signore e B il servo, che A sia il datore di lavoro e B il lavoratore subordinato, che A sia il padrone e B il proletario e operaio: perché A sia l’una di quelle cose e B sia invece l’altra è una domanda che in Marx non trova alcuna risposta, tranne gli accenni nell’ambito della discussione sull’”accumulazione originaria”, salvo che tali accenni sono politici e legati all’uso della forza e per nulla economici, nel senso di meramente “produttivi”: solo riconducendo alla categoria della produzione l’atto politico e di forza si può definire “economico” quell’atto politico e di forza.

 

E quindi torniamo a quella situazione, al fine di ravvisare che A sia il titolare proprietario dei mezzi di produzione e B sia privo di alcuna titolarità del genere e sia semplicemente addetto e applicato dal proprietario A al lavoro sotto direzione presso quei mezzi di produzione; ancora: perché A è il proprietario e B l’addetto e applicato? Proviamo a formulare delle ipotesi di risposta: a) A è per qualsiasi ragione superiore sul piano personale a B, e quindi ha vinto la gara con lui nell’impossessamento del mezzo di produzione, e B ne è rimasto privo; le ragioni di tale oggettiva superiorità personale possono essere diverse, e le elenco in termini del tutto non moralizzati, dato che non è qui mio interesse rilasciare inutili patenti di sorta, tantomeno di “merito”, ad alcuno; quindi A potrebbe essere banalmente più intelligente di B, quale che sia, si badi, la situazione storico-sociale, nella quale A e B si trovino a operare;  e infatti non attribuisco alcuna connotazione di valore morale positivo qui al termine “intelligente”, dato che potrebbe significare anche solo più astuto, più capace di intessere relazioni sociali, e simili -ad esempio è abile nell’accedere al credito-, mentre B potrebbe essere più dotato sotto altri profili, ad esempio è capace di mantenere con coniuge e figli dei rapporti meravigliosi e fantastici, ma ciò non lo aiuta in alcun modo a impossessarsi di mezzi di produzione, tanto più che, stante tale sua incapacità, i rapporti con coniuge e figli potrebbero deteriorarsi; b) A potrebbe essere semplicemente più forte fisicamente e più spregiudicato nell’esercizio della forza bruta: in tal caso, in corso di competizione, egli non ha avuto scrupoli nell’imporsi con la forza, con la violenza, nei confronti di B: in tal caso, B non sarebbe nemmeno solo “lavoratore subordinato”, ma schiavo puro e semplice e in senso stretto, dato che il rapporto economico qui coincide perfettamente con un rapporto di puro potere, di pura coercizione e coartazione; c) Le ragioni potrebbero essere storiche con riferimento a vicende di giustizia distributiva e allocativa, tal per cui A discende da una genìa appartenente alla classe dei dotati di diritti sulla terra (sulla Terra), mentre B discende da una genìa di espropriati, e allora si torna all’”accumulazione originaria”, che però non attiene a sua volta a rapporti di produzione innocui, ma a esercizio della forza quanto all’impossessamento coercitivo del territorio e delle risorse naturali, con espulsione del soggetto più debole, e allora, però, anche la terza ipotesi ricade in una delle prime due, solo collocata in un tempo del lontano passato.

 

Si badi che, in tutte e tre le ipotesi, il fondamento, non solo dell’esito della contesa, ma dell’esistenza stessa di una contesa, dipende da una supposta situazione di scarsità delle risorse, scarsità che può essere reale o soggettivamente percepita, e allora in tal caso entrano in gioco -un gioco palesemente a somma zero- fattori psicologici primari dell’uomo, fattori emozionali, come l’inclinazione a prevaricare, l’avidità o l’assenza di generosità e, quindi, in ultima analisi, entra in gioco il complesso dei valori e dei sentimenti morali provati dai due soggetti, con prevalenza di incidenza dei valori e dei sentimenti morali in capo al soggetto più forte, ossia di quello che riesce a impossessarsi del mezzo di produzione e, così, ad assoggettare l’altro come servo o lavoratore suo, oppure anche a proprio schiavo vero e proprio. In tale quadro, è il termine “economico”, sono le categorie dell’economia politica, in grado di restituire adeguatamente l’insieme e il complesso degli indicati fattori? Forse sì, soprattutto se la forza riesce ad assurgere a categoria dell’economia politica; forse no, se dall’economico fuoriesce tutto ciò che rappresenta irriducibile valore non monetizzabile, proveremo a vederlo.

 

Quel che però è evidente è che non può essere il rapporto di subordinazione in atto il fondamento ultimo di una struttura sociale, per la semplice ragione che quel rapporto di subordinazione ha delle cause sue proprie, che sono evidentemente altre ed esterne, “antecedenti”, rispetto a quel rapporto di subordinazione, quali che esse siano. Proviamo allora a proporre una simulazione analitica: A e B si trovano in un’isola deserta, e devono definire i loro rapporti di convivenza; al netto delle loro inclinazioni, libertaria o autoritaria, e dei loro caratteri individuali, di tal che l’uno disponga di una forte personalità e l’altro di una debole, l’uno sia persona generosa e l’altra meschina, e così via, prescindiamo da questo e immaginiamo che i loro caratteri siano molto simili. A questo punto i due soggetti possono cooperare e spartirsi pacificamente i compiti in un modo qualsiasi, oppure possono entrare in una contesa, la quale, per evitare esiti catastrofici, distruttivi e autodistruttivi, trova composizione in una qualche soluzione focal point del gioco falco/colomba, tal per cui A si imponga su B e A si autoponga, con l’acquiescenza o il consenso di B, nella condizione di potere dettare ordini a B, e B si accomodi, per qualsiasi ragione, a obbedire a tali ordini: in tal caso, la distinzione tra supremazia politica e supremazia economica, stante l’inesistenza di un sofisticato livello di divisione del lavoro sociale, è priva di alcun significato, dato che alla supremazia politica corrisponde toto coelo la supremazia economica, dato che gli ordini in materia di produzione sono al contempo ordini di segno politico e ordini di segno economico: qui l’elemento -legittimante o delegittimante la subordinazione- “lavoro” si carica ben sì dell’elemento “economico”, in quanto relativo a una data collocazione attorno all’impiego di qualsivoglia “mezzo di produzione”, ma anche totalmente dell’elemento politico, in quanto la subordinazione è mera, e quindi viene a connotare come politica e non solo economica la relazione hegeliana signore/servo.

 

Quale può essere quindi lo sbocco di fuoriuscita da una similmente connotata relazione? Non certo quella che -in assenza della capacità di cooperazione, essendo qui immersi in un gioco a somma zero, nel quale uno vince tutto e l’altro perde tutto- il rapporto di subordinazione A/B si rivolga in un rapporto di subordinazione B/A, ma -ripetesi: in assenza di capacità di coordinamento congiuntivo-, operando la disgiunzione di mercato tra i due soggetti, il che, però, si rende possibile esclusivamente riconoscendo che il lavoro dell’uno e dell’altro possano divenire retrostante o sottostante di emissione monetaria, in modo tale che, così facendo, il lavoro funzioni in forma warreniana, rendendo ognuno dei due giocatori banchiere di se stesso: e infatti non va dimenticato che anche il “datore di lavoro” della relazione sopra considerata è sempre subordinato a un sistema monetario e finanziario, dato che per produrre sul mercato occorrono anticipazioni finanziarie, a meno che egli non disponga al contempo, oltre cioè al controllo della risorsa produttiva, anche del potere di emissione monetaria; ma, in tal caso, dovremmo ritenere che l’altro ne sia privo, ma allora ne andrebbe spiegata la ragione. Supponendo invece la piena sovranità dell’individuo e, quindi, la comunione della terra e della Terra, ognuno può usare la propria quota di mondo quale retrostante simbolico dell’emissione monetaria, e quindi A e B, pur con tutte le loro differenze di personalità, potrebbero scambiare l’un l’altro il prodotto del proprio lavoro, senza nemmeno che ciò comporti totale eguaglianza ed egualitarismo tra i due: B riguadagnerebbe così la sua libertà, la sua autonomia nel lavoro, la propria capacità di libera emissione monetaria, senza nemmeno necessità di essere considerato totalmente “eguale” ad A, in una logica di divisione del lavoro, che non sia però coatta su diktat di una qualche autorità, ma per adempimento spontaneo ognuno nei raffronti della sua propria inclinazione personale e particolare: in tal caso, il “lavoro” funzionerebbe da formula di legittimazione, non di un rapporto di supremazia/soggezione, ma di un rapporto improntato a criterio di libertà, scontando il fatto che la libertà è compatibile con livelli di eguaglianza tutto sommato limitati, con la conseguenza che l’opzione nei confronti della libertà implica rinuncia a distopici obiettivi di piena eguaglianza, i quali, peraltro, impongono, in loro propria autonegazione, la presenza di un’irresistibile autorità in grado di implementarla, vale a dire a sua volta implementare la propria di autonegazione, il che mi appare prima facie assurdo, nonché improponibile tanto sul piano filosofico, quanto su quello politico; e se ciò è possibile che accada sull’isola deserta nei rapporti tra due persone (tra due “giocatori”), a maggior ragione questa appare la soluzione preferibile in una grande società di migliaia o milioni di persone, in cui la cooperazione non può che essere prevalentemente affidata a soluzioni di mercato, quindi disgiuntive, e solo in seconda battuta congiuntive e associative.

 

In ciascuno di tali modi si viene a spezzare una corrispondenza biunivoca, quella per la quale il materialismo viene ricondotto a categoria dell’economico, ma anche, per converso, che l’economico viene riduzionisticamente considerato categoria del materiale, dal cui circolo vizioso si esce, o ampliando il concetto di economico, o ampliando il concetto di materiale, o procedendo in entrambe le direzioni contemporaneamente; vale a dire però, in ultima analisi, rattrappendo di gran lunga tanto la nozione di materiale, quanto quella di economico, in nome di qualcosa di più elevato, di tal che l’homo oeconomicus non sia il dimidiato homo materialis, anzi sia uomo a tutto tondo, quindi insuscettibile di etichettature riduttive e riduzioniste, una volta chiarito che l’homo oeconomicus non può essere meramente “materialis”, posto che nell’attività economica ciascuno porta, se non davvero “tutto se stesso”, buona parte della propria personalità, e quindi come si diceva una volta anche il proprio “spirito”, giacché conferisce la propria mente, la propria intelligenza, la propria creatività, il proprio rompersi le scatole per un lavoro che non piace; il che ben difficilmente si fa ridurre in toto a “materia”, qualsiasi cosa ciò intenda significare.

Ovvero ben sì accettiamo di parlare di “materia”, ma ribadendo che la natura è da intendersi come innervata dalla mente in senso panpsichista, ilozoista e panteista (o, per i più religiosi come me, panenteista, mentre il resto è buono anche per il fisico quantistico), e allora anche la “materia”, nella quale consisterebbe l’”economico”, va considerata un tutt’uno con l’elemento mentale, psichico e intelligente. Questo da una parte; ma, d’altro canto, anche a volere proporsi come severi materialisti nel senso meno comprensivo e più esclusivista, ancora non mi è chiaro perché tale attenzione che, come dice Labriola, dovrebbe essere rivolta al “reale”, al “sociale”, ai “rapporti materiali” appunto, dovrebbe appuntarsi anzitutto sul momento “produttivo”, e non invece sul concetto, che è più ampio e comprensivo, di “rapporto di potere” in quanto tale. Sarebbe quindi meno “materialista”, empirista, realista, occuparsi di potere rispetto a occuparsi di mezzo di produzione? Non mi è chiaro il senso di tale impostazione, se non per il fatto che il potere di A su B sull’isola, nel caso in cui sia questa l’ipotesi ad affermarsi, comporta che A sia riuscito a imporre una formula di legittimazione del proprio potere attraverso un’articolazione linguistica, e quindi il potere si carica di elementi simbolici e psicologici di tipo tradizionale, mentre fare riferimento al mero dato produttivo dell’economia può apparire un modo più laico e moderno di approcciare la questione del rapporto tra oppressori e oppressi, e però abbiamo visto che un tale rapporto, ove ricostruito in termini di mera collocazione attorno al mezzo di produzione, finisce sempre con il rimandare a qualcosa di altro di retrostante.

E infatti, la storia dell’evoluzione dei rapporti di produzione può tranquillamente essere resa come storia di rapporti tra potere e libertà, se dalla schiavitù si passa al “libero” lavoro salariato, se l’economia politica classica muove dalla conquistata libertà della produzione, del commercio e del lavoro, e quindi tale storia materialista è sempre e comunque storia simbolica e psicologica, proponendosi il rapporto economico come una species del più ampio e comprensivo genusrapporto autorità-libertà”; se poi intendiamo la definizione dell’economico in Marx come analisi dei rapporti di produzione in relazione a un determinato assetto dei titoli di proprietà relativi ai mezzi di produzione, già vediamo come il momento dell’economico dismette la propria pretesa imperialistica, per auto-assoggettarsi consapevolmente a un primato del momento del giuridico -il titolo di proprietà-, in quanto combinazione di forza e concetto sulla forza, e quindi il concetto sulla forza, nel momento in cui trova inveramento, si fa istituzione, e detto carattere istituzionale si nutre dell’interpenetrazione tra un’idea, che trova fondamento in un atto di esercizio dell’ingegno, e l’uso della forza che rende tale idea dato di “materia”, solo in quanto sia socialmente riconosciuto, ma questo rimanda a sua volta a fattori culturali e psicologici, sempre intrisi dalla cogenza dei rapporti di forza in atto. E infatti, l’essere titolare di un “mezzo di produzione” non rappresenta mai un fatto possessorio bruto, la cui effettività sarebbe oltremodo precaria, per cui chiunque potrebbe sopravvenire e sottrarti il tuo “mezzo di produzione”, di qualsiasi cosa si tratti; detto “mezzo”, al contrario, ivi compresa la tua mente riposta dentro il tuo cranio intangibile e infrangibile secondo diritto, risulta oggetto di una protezione istituzionale, in quanto diritto formale riconosciuto da un ordinamento, il quale mette a tua disposizione la sua forza, sicché tu non eserciti mai un “mezzo di produzione”, ma sempre un diritto riconosciuto e convalidato dall’ordinamento sullo stesso, e allora anche a tale proposito si inseguono le ragioni ultime di un simile assetto istituzionale, che poi nella più parte dei casi è rappresentato da un assetto statuale; se un tale ordinamento non esistesse, il precario possesso del mezzo di produzione, che si presume insediato sul territorio, poggerebbe esclusivamente sul “diritto del più forte”, ma il diritto del più forte non ha alcuna efficacia vincolante od obbligatoria sul piano morale, come ricorda Rousseau, ed è superabile da un “più forte” ancora più forte, dato che sul lavoratore non ricade alcun obbligo morale di obbedire a un proprietario, o a un sistema, che lo escludano dall’accesso alle risorse naturali, e quindi avrebbe il pieno diritto “del più forte” di coalizzarsi con altri e abbattere quella proprietà del mezzo di produzione; del resto, chi si incaricherebbe di certi lavori, se non fosse ridotto sul lastrico?

E allora il punto è esattamente questo, ossia che la struttura sociale viene individuata da Marx nell’economia politica, in quanto ricomprendente i rapporti di produzione, che si vengono a determinare attorno a titoli proprietari aventi per oggetto mezzi di produzione; ma tali titoli proprietari vigono in quanto un ordinamento coercitivo “legittimo e legittimante” li supporti, peraltro in base a un certo insieme di dottrine e filosofie giuridiche e politiche, oltre che sulla base naturalmente di determinati interessi di ceto, che quei diritti proprietari rivendichino per sé; e quindi, per la proprietà transitiva, occorrerebbe concludere che anche quell’ordinamento coercitivo e quelle “ideologie” sono parte dell’economia politica, ma non, si badi, in via derivativa, ma a titolo co-costitutivo, e semmai fondativo; il che porta, in ultima analisi, che -ideologie a parte- la forza è una categoria dell’economia politica, anzi, ne sarebbe la fondamentale, ma Marx non è mai giunto a tale inquietante conclusione in termini tanto espliciti, mentre l’affermazione si ritrova in Lukàcs, allorchè l’ungherese sottolineò la “potenza economica” della violenza, anche se ne sottolineava la rilevanza nei momenti di transizione da un sistema di produzione all’altro, mentre la formula di Marx sulla violenza come “levatrice della storia” non arriva a farne categoria economica; vi si era avvicinato semmai di più Adam Smith, ordoliberale ante litteram, per il quale il mercato è un sistema politico e lo Stato elemento di un sistema economico, perché, se Marx vi fosse lucidamente giunto, avrebbe riconosciuto anche che lo Stato non è una sovrastruttura rispetto agli assetti proprietari, ma esattamente un elemento costitutivo fondamentale della struttura economica e, quindi, elemento dell’economia politica, il che anzi Marx nega ne “L’ideologia tedesca”, nonché categoria del capitale ex se direttamente; il che però avrebbe finito con l’alterare non poco la sua analisi, in quanto avrebbe dovuto affiancare, non come “altra” materia, ma sempre nell’ambito della stessa materia, lo Stato -anche in quanto dotato di formula di legittimazione attorno all’uso della forza, oltre che in quanto titolare dell’esercizio della forza legittimata- agli altri fattori di produzione, quali terra, lavoro, macchine, denaro, etc., i quali, anzi, nello Stato si incontrano e assieme trovano cristallizzazione, non foss’altro per il nesso forza/dominio sul territorio, che lo caratterizza, ma il territorio è esattamente il capitale preliminare, sul quale tutti gli (altri) fattori di produzione si insediano; e del resto, rendere produttivo un suolo presuppone la sua previa appropriazione, che è atto di energia fisica, e anche di forza sociale, nel momento in cui tale appropriazione legittima l’appropriatore a esercitare lo ius excluendi alios, e quindi a fondare il mercato tra i proprietari, che sono tali in quanto tributari di un atto di forza; di più: senza il “fattore di produzione Stato”, tutti gli altri incontrerebbero la propria delegittimazione -anche nel senso che non sopraggiungerebbero i carabinieri a cavallo in caso di sciopero-, e verrebbero a venire caducati socialmente: ebbene, lo Stato è dunque certamente “materia”, dato che si fonda sulla forza ed esercita la forza, domina sul demanio, che è capitale comune, ed è costituito da un apparato organizzato in guisa militare o para-militare; e tuttavia al contempo incarna valori ideali, autentici o truffaldini qui non importa, sicché rappresenta espressione di quel materialismo “afairetico”, del quale andiamo qui discorrendo, tanto più che il capitale-demanio incorpora inevitabilmente la cultura di un popolo e di una nazione; più in generale, sarebbe parte costitutiva essenziale dell’economia politica il diritto, in quanto elemento di sintesi tra idea e uso della forza, ove si assuma che una norma o un concetto giuridico altro non sono che giustificazioni particolari all’uso della forza argomentata con riferimento a situazioni date.

Laddove in passato ho semmai sostenuto l’esatto opposto, ossia essere l’economia una branca del diritto, in quanto ripresa dinamica del concetto giuridico in atto nel suo svolgimento pratico, dato che immancabilmente un atto economico -come anche da etimologia- è un atto di disposizione di una nozione giuridica, per cui, ad esempio, uno scambio economico tecnicamente non è altro che un contratto, quindi uno scambio di diritti e di titoli, e il rapporto economico tra le parti non è altro che la materializzazione del rapporto giuridico astratto scaturito dal contratto, sicché l’economico si appalesa in quanto inveramento concreto dell’astratto giuridico: il che plasticamente evidenzia l’elemento che chiamo afairetico, dato che il rapporto giuridico-economico in atto non è altro che un rapporto materiale innervato da un concetto astratto, che si rende dinamicamente operativo nell’ambito di una vicenda di carattere produttivo, o comunque economico in un’accezione più lata, ossia in ogni caso relativo alla satisfazione di un interesse o di un bisogno in connessione con un altro corrispettivo.

D’altra parte, se si assegna un carattere materialistico in senso stretto al rapporto di produzione, non tanto in quanto rapporto di oppressione, per cui l’elemento materiale consisterebbe nella fotografia dello squilibrio nella relazione, ma in quanto detto rapporto afferisca a un elemento di creazione di beni e di servizi, ciò significa che tale elemento produttivo di beni e di servizi sia ricondotto nella buona sostanza a una “trasformazione della materia”, e ciò, nonostante il fatto che un servizio sia un bene immateriale, e anche la produzione dei beni è oggi in grande parte produzione di beni nell’ambito dell’economia dell’immateriale e del virtuale, sicché contrassegnare l’economia come materiale non può che essere inteso in senso fortemente metaforico; ma anche a prescindere da tale elemento, che particolarmente attiene alla modernità, designare in termini materiali il momento produttivo denuncia un empirismo e un induttivismo alquanto ingenui, dato che, posto che si sta parlando di prodotti della tecnica, in una tecnica l’elemento prevalente e decisivo è esattamente quello progettuale, conseguente a un’attività creativa dell’intelletto, e quindi opera in pieno anche sotto tale profilo quello che chiamo il fattore afairetico, vale a dire il combinarsi dell’elemento ideale con quello sensoriale, sicché in nessun caso il dato economico può essere adeguatamente espresso utilizzando un linguaggio puramente materialista, il quale non includa l’elemento intellettivo e prospettico, e non di mera brutalità sensoriale.

La tecnica è un prodotto della mente, oltre che della forza fisica, dato che immancabilmente la materia si trasforma in base a un progetto preliminare: anche costruire uno strumento per uccidere un orso presuppone progetto, quindi anche la formula primum manducare implica un preposto primum cogitare; tant’è che io posso “costituire” mentalmente una pietra in arma, anche senza “costruire” materialmente alcuna arma, limitandomi a raccogliere la pietra da terra, e ciò comporta un’attività di sussunzione della pietra, dunque della materia naturale, in quanto espressione dell’idea di arma, ossia imponendo un concetto alla pietra, ovvero ancora accostandomi a una pietra in quanto concetto, dopo averla concettualizzata, o concettualizzandola all’atto dell’apprensione, e una simile vicenda illustra alquanto plasticamente che cosa io intenda esattamente per empirismo afairetico-costitutivo, dato che la sussunzione si pone qui al servizio della percezione sensoriale, costituendo altresì nel mondo delle cose un ente nuovo, l’”arma”, laddove prima dell’azione sussuntorea e creativa disponevamo qui solo di una “pietra”, che l’elaborazione umana fa uscire da tale stato bruto, per consentirle di assurgere invece a funzione, funzione mentalmente impressa dall’agente creativo, e quindi ad “arma”.

A questo punto, un’accezione volgare dell’imperialismo dell’economia fornisce di questa una qualificazione troppo ristretta e generica, e nemmeno adeguatamente esplicativa, occorrendo altre specificazioni, che sono la forza, la capacità dell’elaborazione di un’idea, la capacità di strutturare un bisogno ripartendolo per funzioni, etc. tal per cui la dimensione dell’economico, nel momento in cui si rivelasse in grado di ricomprendere e introiettare ciascuno di tali elementi,  diventa asso pigliatutto e smarrisce la sua specificità, se economico diventa qualsiasi atto o bene della vita, il quale possa essere mentalmente comparato a un altro possibile, in modo tale da potere esprimere una preferenza tra le diverse ipotesi, di tal che l’agire economico è agire secondo un criterio di ragione, che trascende il dato del mero appagamento bruto, per risolversi in un atto di conformazione del mondo in base a “diritto”, ossia appunto in base a criteri regolatori della propria energia materiale, criteri in grado di indirizzare i propri movimenti del corpo in quanto funzionali a determinati obiettivi: un concetto di economia che non incorpori tutto questo, identificandolo con qualche idea di materia che si staglierebbe oggettiva innanzi ai nostri sensi, deve perciò essere totalmente abbandonato, mostrando la validità, anche da questo punto di vista, dell’approccio afairetico, ossia di un approccio anche sì “materialistico”, nel senso di empirista, ma che in tale empirismo sappia ricomprendere anche tutto ciò che riguarda gli elementi ideali e spirituali della vita dell’uomo, in quanto a loro volta oggetto di percezione a un tempo sensoriale, per il tramite dei supporti, e intellettuale, per il tramite dei concetti veicolati dai supporti.

A questo punto, si rende necessario inquadrare in tale impostazione teorica non solo l’attività produttiva in quanto attività creativa e intelligente, ma la questione dei “mezzi di produzione” in quanto tali, i quali, si badi bene, ricomprendono al primo posto esattamente la mente umana, mezzo di produzione, semmai, l’intelligenza, e subito dopo tutti i suoi primi immediati prolungamenti, che nel nostro tempo sono rappresentati simbolicamente da un telefono e da un computer; e quindi deve essere inquadrata in tale cornice la questione stessa del lavoro e del suo “valore”, giacché questo oscilla tra i due poli della materialità e dell’immaterialità, in quanto sia collegato a uno “sforzo”  psico-fisico della persona, giacché emerge il tema se lo sforzo psico-fisico meriti un premio particolare in quanto tale, ossia fuori da una logica squisitamente di produzione effettiva di un valore socialmente riconoscibile, che non sia altro dal riconoscimento etico della fatica compiuta dalla persona, fatica da premiarsi in quanto produttiva di una reputazione in capo al “lavoratore”, che però può essere puramente morale e scarsamente economica, e allora emerge il tema su chi debba gravare il premio etico-reputazionale in favore di chi si sia impegnato in uno sforzo scarsamente produttivo sul piano economico in senso stretto, e che comunque mostri di avere “meritato” il proprio compenso, sul presupposto che al riconoscimento etico di uno sforzo compiuto non corrisponda però necessariamente anche l’efficacia dello sforzo stesso; sicché in tal modo si entra a vele spiegate nell’ambito del solidarismo e dell’assistenzialismo, a fronte di una pretesa al trattamento paritario da parte di chi però non abbia conferito alla società esiti paragonabili a quelli di altri, magari per ragioni intrinseche legate a limiti personali di qualsiasi tipo della persona; ma non si tratta di un tema che intendo particolarmente affrontare qui, se non per segnalare come il valore economico di un lavoro, e non il suo valore etico, offre criteri oggettivi, nel senso di affidati a un giudizio diffuso del mercato, che sono variabili indipendenti rispetto allo sforzo profuso dal “lavoratore”, a meno che il mercato stesso non ritenga di introiettare nel proprio giudizio di valore e, quindi, nell’assegnazione di prezzi e compensi, altresì l’elemento etico, attraverso una qualche forma di suffragio compensativo nei confronti del lavoratore meritevole, ancorché scarsamente efficace sul piano produttivo in senso stretto.

Se queste sono questioni che si pongono nella modernità, è però perché ci troviamo sempre innanzi a forme di controllo monopolistico (nel senso di escludente gli altri) dei mezzi di produzione e, in particolare, dell’emissione monetaria, controllo che non va inteso come la fonte di tutto il potere autoritativo, ma di una significativa quota di potere autoritativo; salvo che, così individuata la prospettiva, non è “l’economia” che comanda e regola, ma l’atto autoritativo di controllo unilaterale dei mezzi materiali, magari attraverso la predazione abusiva del demanio “capitale comune”, riproponendo la dialettica potere/economia, al fine di evitare lo strabismo di individuare il potere nel rapporto meramente economico e non a latere o a monte di esso.

E allora viene da chiedersi come mai Marx rivolga il proprio impegno critico nella direzione dell’ambito dell’economia, intesa come tutto ciò che afferisce alla produzione e all’evoluzione delle tecniche della produzione stessa, e non invece al più ampio e comprensivo concetto di potere e di autorità, nel quale semmai poi sussumere determinate relazioni economicamente improntate; si direbbe che ciò consegua alla constatazione che lo sviluppo delle tecniche e dei modi di produzione appaiano come un percorso di tipo impersonale, in forza del quale i rapporti oggettivi dominerebbero gli individui, come egli afferma ne “L’ideologia tedesca”, quasi ad affermare che gli effetti inintenzionali delle azioni degli individui si ripercuotono a loro volta in forma collettiva, aggregata, sui singoli individui, divenendo fattori impersonali, ridimensionando il peso, in tal caso, degli uomini concreti di potere in carne e ossa, ossia ciò sulla base della sua particolare filosofia della storia; ma ciò è molto discutibile, dato che anche il potere in quanto potere è in buona parte una entità impersonale e oggettivata, oltre che personale, in quanto fenomeno sociale diffuso e non concentrato in specifiche persone, o almeno non solo concentrato, e comunque indivisibilmente impattante socialmente, oltre che operante nell’ambito di relazioni particolari e specifiche. D’altra parte, se uno si chiede perché Tizio e non Caio controlli un dato mezzo di produzione, il discorso impersonale deve trovare anche una spiegazione personale specifica su quell’individuo particolare, sulle sue doti, o caratteristiche particolari, che l’hanno collocato dalla parte del controllo unilaterale dei mezzi di produzione e non sul versante dei controllati. Come dire che tanto economia quanto potere sono tanto personali quanto impersonali, ed entrambi si prestano a elaborare una filosofia della storia, che sia segnata dalle curve di andamento della concentrazione o deconcentrazione di potere, sulla base della capacità delle classi dominanti, ma non solo, ossia anche sulla base, forse soprattutto, di credenze diffuse, di imporre determinate idee al riguardo.

Per altro verso, una volta che si prenda atto che il concetto di “economico” ricomprenda la forza, la forza argomentata del diritto e quella bruta, nonché però anche tutto quanto attiene alla creatività. all’ingegno, alle idee e alla cultura, il presunto “primato dell’economia” finisce in realtà con l’assegnare il primato a un asso pigliatutto, a una formula passpartout, che in realtà contempla “tutto” quanto rappresenta fenomeno sociale nell’ambito del mix forza/idee sull’uso della forza, e ciò va a beneficio di Marx, il quale, rispetto alla visione tradizionale dell’homo oeconomicus, aggiunge che i rapporti economici non sono paritari, ma sono relazioni di potere, nei quali è agevole ravvisare un sopra e un sotto, se non sempre, molto spesso; ma ciò allora conferma che Marx avrebbe dovuto individuare la struttura dei rapporti sociali nella dinamica dei mutevoli rapporti di autorità, per poi appunto individuare quali tra le relazioni economiche meritassero di essere ricostruite nei termini dei rapporti di autorità, e allora si sarebbe reso conto, come meglio vedremo in prosieguo, che tra questi non rientrano solo i rapporti di lavoro. Ma non è del tutto esatto quanto dicono alcuni critici di destra e cattolici di Marx, sul fatto che egli avrebbe fatto puramente e semplicemente proprio l’homo oeconomicus: il progetto di Marx è di andare oltre l’homo oeconomicus, in una società ipotizzata come di piena libertà dell’uomo, e nemmeno totalmente egualitaria, ma fondata sulle differenze a tutto tondo tra le persone, salvo la preclusione dello “sfruttamento”. Semmai si può dire che, ponendo “l’economia” a struttura della filosofia della storia, egli abbia singolarmente collocato a struttura quell’homo oeconomicus, così come attribuito ai classici dell’economia politica liberale -Sombart dice che ciò potrebbe essere valido per l’”epoca dell’economia”, ossia quel particolare periodo storico in cui davvero l’economia era “tutto”-, e non invece l’uomo a tutto tondo che pure è nei suoi voti: perché non l’uomo a tutto tondo sarebbe stato struttura, ma solo l’homo oeconomicus, tuttavia non risulta spiegato in termini persuasivi.

Ciò deriva dall’avere inteso l’economia in chiave ristretta e non adeguatamente afairetico-costitutiva, di tal che gli altri fenomeni ne fuoriescono, ma non in quanto ne sia riconosciuta appieno l’autonomia scientifica, ossia in quanto oggetto meritevole di pienamente degna conoscenza in sé e per sé considerato, ma in quanto sempre sistematicamente gli altri fenomeni siano sottordinati alla vicenda produttiva: e allora Marx si produce in proposizioni tutto sommato banali, come quella, contenuta ne “L’ideologia tedesca”, per la quale le idee dominanti sono sempre le idee della classe dominante; salvo che la classe dominante viene ravvisata poco fantasiosamente nei possessori dei mezzi di produzione, e non nei forti di spirito capaci di innovare sul fronte delle idee, e di renderle dominanti nel tempo per forza propria; d’altra parte, tale proposizione è meno realista di quanto non si atteggerebbe a pretendere, dato che non mi appare davvero sufficientemente “nietzscheana”: in fondo, le idee dominanti in una data epoca sono idee conformiste, non idee a disposizione dei soggetti dominanti, i quali sono dominanti solo se trasgrediscono alle idee dominanti, e quindi seguono ben altri ordini di idee, che poi non sono davvero quelli dominanti in un dato contesto sociale, che sono normalmente idee più cheap e a disposizione del volgo, per dire così, in quanto mirano a piacere al volgo, e riescono a dominare in quanto poi effettivamente piacciano al volgo, almeno fino a quella soglia cui il volgo è disposto a prestare acquiescenza, mentre un soggetto forte tende a ignorare il dominio delle idee prevalenti in una data epoca: si badi bene che “comandare” non significa tanto dare ordini a qualcuno, quanto agire in piena autonomia, sicché poi gli altri, semmai, si adegueranno, se il tuo esempio sarà efficace e trascinante e, se le regole dovranno evolvere, evolveranno e muteranno di conseguenza.

Vero è del resto che, data ad esempio una norma, una legge o un costume, ove pure esse riflettano i comodi della classe dominante, alle stesse si adatteranno i deboli di spirito, in quanto se ne sentano “regolati” come da un binario, ma non certo vi si adatteranno i forti, i quali, non perché siano “immorali”, ma in quanto non riconoscano soverchio potere morale a una norma, giuridica o morale, che sia “posta”, per il solo fatto di essere “posta”, e quindi si autoregoleranno quali che siano i criteri dominanti, quindi indipendentemente da essi. In altri termini, è pur vero che, in moltissimi casi, le norme giuridiche e morali vigenti valgono solo per il popolo, mentre le élites tendono a non sentirsene vincolate e ad agire come se quelle norme non esistessero; e tuttavia è eccessivamente autoconsolatorio ritenere che il popolo sia puramente e semplicemente assoggettato a norme volute e imposte dalle élites, e non anche volute, o comunque accettate, o comunque ancora non contestate dal popolo; il che significa che, in ultima analisi, questo popolo si sente, quantomeno in una certa misura, rappresentato da quelle categorie normative, in quanto tutto sommato conformi allo spirito diffuso dei tempi e alla communis opinio, che in quelle norme effettivamente vigenti trovano almeno in parte, se non piena, espressione.

Quanto ai “detentori dei mezzi di produzione”, essi non di rado sono conformisti e moralisti, o almeno lo sono spesso stati, mentre non è affatto detto che un “aristocratico dello spirito”, il quale sia incline a seguire criteri di condotta tutti propri, debba poi anche detenere necessariamente “mezzi di produzione”: è anzi verosimile che i migliori se ne terranno lontani; il fatto è che le regole vigenti in una data epoca dipendono da un’infinità di fattori, che non necessariamente hanno a che fare con un determinato sviluppo dei mezzi produttivi, tal per cui in certi stati degli Stati uniti d’America ancora si sanziona penalmente -sulla carta- la fellatio, ma non mi è per nulla chiaro il nesso tra una siffatta norma di proibizione e lo sviluppo delle forze materiali e produttive in quella porzione di continente! Semmai il nesso sarà con determinati rimasugli puritani antichi, quindi, se nesso tra costumi e sviluppo dei mezzi produttivi esiste, si tratterà dello sviluppo dei mezzi produttivi di quattro secoli fa.

D’altra parte, se per “classi dominanti” in grado di imporre idee si intendono i detentori di denaro, e come tali soggetti in grado di comprare la diffusione delle idee loro gradite, va pur detto che gli autentici detentori di denaro non sono i proprietari dei “mezzi di produzione”, ma i banchieri, ai quali i capitalisti devono rivolgersi per finanziarsi, in assenza di libero conio. Oppure lo Stato stesso, il quale smuove una mole di denaro certamente superiore a quella di qualsiasi capitalista, almeno se stiamo parlando di Stati di una certa proporzione dimensionale. Se chi dispone del denaro impone le idee, costoro saranno semmai i banchieri, che il denaro non solo lo detengono, ma lo creano; e lo Stato, il quale acquisisce dosi incommensurabili di denaro con la tassazione e l’indebitamento; poi, certo, anche i vari attori del consumismo delle merci e delle idee spicciole, merci a loro volta, ma sempre come soggetti autorizzati e concessionari, ma non, a ben vedere, davvero in prima battuta, quanto piuttosto come “tecnici” della riproduzione al servizio di chi, in ultima analisi, del denaro dispone davvero come meglio ritiene; del resto nessuno ritiene davvero che la famiglia del mulino bianco Barilla sia davvero un’idea dominante creata dalla classe dominante e che, a suo tempo, si impose sul presunto popolino recalcitrante; semmai si trattava di idea del tutto banale e conforme, buona non ad altro che a vendere qualche spaghetto in più, non a conformare, ma semmai a vellicare,  lo “spirito della nazione”; ruolo oggi semmai ricoperto dalle nuove pubblicità politicamente corrette, multietniche e multicolori, nonché arcobaleno sotto qualsiasi altro profilo; in questo caso sì, parrebbe trattarsi di idee delle “classi dominanti”, dato che non può dirsi che dal “popolo” sia sorta una tanto massiccia domanda di film, telefilm e pubblicità siffattamente contrassegnati.

In definitiva, il fatto stesso che si impieghi la dizione di classi dominanti comporta che è al dominio e non all’”economia” che si debba prestare la maggiore attenzione, così come gli anarchici compresero meglio di Marx; d’altra parte, se si vuole individuare un dominio nell’ambito del sistema economico, esso non può che essere ravvisato anzitutto che nel monopolista del denaro, il quale amministra nei fatti l’economia con atti di potere e di imperio, ben più di quanto non faccia il caduco “capitalista” sempre esposto al fallimento; salvo che quel monopolio monetario è configurabile solo in quanto vi siano degli Stati che lo reggono, e allora a questo punto occorre ammettere che la grande intelligenza di Marx risulta in buona parte male indirizzata, e quindi sprecata, nel momento in cui la stragrande maggioranza dello spazio viene dedicato dal suo impegno critico a determinati soggetti, mentre non è del tutto chiaro perché non sia dedicato altrettanto, se non superiore impegno, a ben altrimenti pericolosi soggetti, almeno dal punto di vista della detenzione del potere reale e del dominio sulla società.

Eppure, con tutti questi caveat, in particolare il non avere a disposizione Marx un persuasivo concetto di “materia”, e avere individuato questo nel momento economico-produttivo, pur essendo invece tale elemento massimamente impregnato di mentale e di culturale in ogni accezione, vale a dire di umano, la centralità da lui assegnata al rapporto tra “economico” e “dominio” deve essere salvata in quanto contributo centrale; e questo, non perché il dominio vada ravvisato di necessità in un rapporto economico e non in altro, altrimenti qualificato, ma per l’inverso: ossia per il fatto che un rapporto di dominio ha sempre almeno anche un risvolto economico, un elemento caratterizzante anche in senso economico, in quanto è chiaro che, se vi è rapporto di dominio, in esso si insinuerà di necessità una qualche forma di sfruttamento a vantaggio della parte forte; e questo consente di considerare Marx tra gli anticipatori di materie come la scienza delle finanze di scuola italiana e suoi derivati illustri come la public choice di James Buchanan, ovvero anche dell’approccio economico alla condotta umana di Gary Becker -e quindi stiamo parlando di economisti liberali e “liberisti”-, ossia tutti coloro i quali hanno saputo ravvisare nell’esercizio della forza, della supremazia dell’uomo sull’uomo comunque connotata, vale a dire anche schmittianamente politica, oltre che della condotta umana in generale -il che ci conduce anche, paradossalmente, alla microeconomia della “scelta del consumatore”- la valenza economica nel senso di una qualche accezione del “profitto” e, in generale, dell’utilità e delle relative funzioni; il che poi ci porta alla nozione di “imperialismo dell’economia”, che più avanti vaglieremo quanto ai limiti della sua fondatezza, che è nozione a sua volta ascrivibile ad autori di scuola liberale come Robbins e von Mises; il che poi rappresenta conferma a posteriori di quanto il pensiero marxiano, al netto dei suoi elementi storicisti ed escatologici, sia tutto interno alla tradizione dell’economia politica liberale, o tale in senso lato, che ha accompagnato il sorgere e l’affermarsi del sistema capitalistico.

In definitiva, se vogliamo chiudere questo capitolo con uno slogan, si può dire, con Marx e contro Marx, non “l’economia è rapporto di dominio”, ma “il rapporto di dominio è sempre anche un rapporto economico”.

 

Nessun commento:

Posta un commento