di Fabio Massimo Nicosia
La mia proposta definitoria epistemologica, riferita a quello che chiamo empirismo afairetico-costitutivo, è stata illustrata in un mio precedente lavoro, Il valore della cosa – Conoscenza, individuo, autorealizzazione, uscito nel 2021, sicché rimando ampiamente a quella lettura, e cercherò di non ripetere quanto vi è contenuto -ad esempio che, quando parlo di empirismo afairetico (costitutivo), intendo che l’elemento induttivo ascendente e quello deduttivo discendente debbano coesistere paritariamente, senza che si possa pensare che il primo possa fare a meno del secondo, dovendosi invece incrociarsi l’uno con l’altro, combinandosi inscindibili nell’uomo sensi e cultura-, ma semmai di aggiungere, ove possibile, nuovi e ulteriori elementi, a partire dalla questione della dialettica tra approccio materialistico e approccio idealistico, contrapposizione che è mio intento superare, in quanto non ritengo che ci si possa accostare in alcun modo ai dati di materia, ignorando al contempo tutto quanto di ideale, mentale, funzionale, spirituale, universale e sussuntoreo si possa ravvisare in un dato elemento supposto “materiale”.
Il che ritengo in
ossequio ai principi di fisica quantistica di Heisenberg, i quali poi rimettono
in gioco antichissime proposte, come quelle della scuola di Mileto, che grosso
modo possiamo considerare ilozoistiche o panpsichiste, per le quali una
contrapposizione materiale/mentale o materiale/ideale sarebbe semplicemente un fuor
d’opera insensato, non essendo certo la nostra esistenza di esseri umani
caratterizzata dal destino di vivere immersi in una qualche sorta di “materia
inerte”, che non sia invece espressione di autentica e intelligente vitalità.
Tutto ciò trova piena espressione tanto in tutto ciò che è dato di natura,
quanto in tutto ciò che attiene a relazioni quali uomo e società, uomo e
diritto, uomo e attività morale, uomo e attività produttiva ed economica, in
quanto tutto ciò appare immancabilmente e inevitabilmente ispirato, improntato
e orientato ad attività mentale, culturale, creativa e intelligente.
Vorrei quindi anzitutto
confrontarmi, a tale proposito, con la classica proposta di “materialismo”
marxiano e marxista, che poi incontra la definizione di materialismo storico,
per cercare di comprendere come tale impostazione possa essere approcciata al
fine di ricondurla alla mia proposta, nonché, stante il tema oggetto del
presente lavoro, come operino tali approcci materialisti nei termini della formula
di legittimazione del potere e dell’autorità.
La rivoluzione tentata a suo tempo da Marx fu di liquidare come
“ideologie” tutte le formule di legittimazione precedenti e antiche, per
sostituirle con quello che l’uomo di Treviri riteneva essere un approccio
radicalmente materialista: da qui il
suo (relativo) allontanamento da Hegel, la critica a Feuerbach in quanto
“insufficiente” la critica di lui, e il suo concentrarsi sui “rapporti di
produzione”, volgarmente, l’”economia”, quale cuore individuato di quel
materialismo, che poi diviene, nelle precisazioni successive, appunto “materialismo
storico”. A questo punto, però, si imporrebbe una preliminare analisi di che
cosa debba intendersi, in questo quadro, con il termine “materialismo”, perché,
in effetti, se Marx rivendica “scientificità”, di modo che il socialismo
passerebbe con lui dall’utopia (poesia) alla scienza, è ai concetti scientifici
che occorrerebbe davvero fare riferimento, e così ad Heisenberg, a Carnap, a
Neurath, ma anche a Popper, Lakatos, Kuhn, Feyerabend e tutti gli altri, e
anche però allora a Nietzsche, ad Heidegger, a Wittgenstein, e così via, non
trascurando certo Carl Schmitt e i giuristi, che pongono accento e attenzioni
sui criteri seguiti in materia di uso della forza.
Va invece detto subito che
quel “materialismo” sconta da subito una gara ad handicap, ossia gravato
dal convincimento forte e duro in ordine all’esistenza di una realtà di “cose”
perfettamente conoscibili nella loro “effettualità”, in assenza di alcuna indeterminazione,
sicché compito dello scienziato sociale sarebbe puramente e semplicemente “conoscere”
di tale effettualità del reale, salvo poi operare un saltum non da poco,
ritenendo cioè di potere trarre nientedimeno che “leggi” dal divenire storico da
tale realtà delle cose effettuale, indefettibile e oggettiva, leggi più o meno
inflessibili, e comunque sempre adattabili ad hoc innanzi alle eventuali
“eccezioni”, che dovessero sopravvenire, eccezioni destinate a non confutare
mai l’affermazione iniziale, ma sempre a confermarla, semmai con i dovuti aggiustamenti;
sicché la libertà di azione dell’interprete resta qui sempre piuttosto limitata;
questo tipo di materialista, solo in parte sovrapponibile al marxista, non si
accontenta del fatto che la sua interpretazione della realtà possa essere
migliore di altre: egli pretende che, tra le varie interpretazioni possibili
del mondo, una debba essere per forza quella “giusta”, “obiettiva”, e di solito
pretende che sia la sua.
Fu personalmente Lenin a
prendere di petto tale questione, impostando un’epistemologia autoritaria,
la quale statuisse che l’esistenza di una realtà materiale oggettivamente
conoscibile dalla “scienza” fosse il presupposto indispensabile per la classe
operaia per condurre innanzi i suoi postulati sul plus-valore -ergo postulati
inadeguati, peraltro, giacché, sfuggendo a Marx il carattere strutturale e non
sovrastrutturale dello Stato, quel plus-valore era plus-valore della sovranità
schmittiano, e non mera autoriproduzione di valore “economico”. Lenin se la
prese dunque con l’empiriocriticismo di un Avenarius, il quale invece aveva
saggiamente indicato come l’esperienza umana fosse fenomeno unitario
interno-esterno, di tal che la percezione sensoriale fosse l’anticamera
della concettualizzazione individuale del mondo circostante, essendo detta
percezione inevitabilmente essa stessa individuale; e allora non poté mancare,
da parte di Lenin, la consueta accusa di solipsismo borghese, la quale
finì con l’investire i Mach e Poincaré, figurarsi allora gli Heisenberg, se
Lenin avesse avuto contezza della sua esistenza, e naturalmente la proposta
leniniana era quella reazionaria e inadeguata, giacché accusava di una qualche
sorta di deviazionismo e tradimento qualunque ipotesi di pur tenue scetticismo rispetto
alla realtà; il quale poi va inteso, ragionevolmente, come scetticismo rispetto
a determinate letture obbligate della realtà, sicché il materialismo
diviene dogmatica religione, proprio perché, a quanto pare, sulla divinità è
lecito opinare, ma sulla dura materia, al contrario, non è consentito, pena l’essere
additati come matti e anormali; sicché hanno buon gioco gli psichiatri
materialisti e fisicalisti, quelli che negano gli stati emotivi della mente, in
quanto tutti ricondotti a meri oggettivi meccanismi neuronali in annientamento
logico delle singole personalità, a proporsi anche da noi come nuovi sacerdotes
e vigili e militi custodi della laica e para-sovietica ortodossia, dato che
alla pretesa conoscibilità scientifica di una materia oggettiva, che faccia tabula
rasa della rilevanza sociale degli stati mentali soggettivi, corrisponde la
pretesa, come in Daniel Dennett, di conoscere da parte loro il momento
intra-psichico della persona meglio della persona stessa, che viene ridotta a
un ammasso di algoritmi, perfettamente sostituibile dall’intelligenza
artificiale, sicché gli stati interiori di questa possono venire de plano bollati
appunto come solipsistici, e quindi agevolmente ricondotti a patologia, la
malattia di essere uomini e non macchine con grande potenza di calcolo, ma
niuna capacità d’intuito ed estetica.
Il che spiega in che senso
il materialista sub-tecnocratico e semicolto diventi agente attivo dell’inquisizione,
benché il luogo comune possa essere propenso a ritenere il contrario, ossia che
sia il religioso a farlo, quando invece noi sappiamo che il più radicale
critico dell’oggettività dell’essere, e quindi il più antidogmatico dei
filosofi, è stato un Vescovo, e parlo ovviamente di Berkeley: ma il marxista fanatico,
trinariciuto e coi paraocchi, chiara parodia e satira di se stesso in servizio
permanente ed effettivo, non può nemmeno prendere in considerazione l’idea ipotetica
che “il mondo non esista”, altrimenti, perché perdere tanto tempo e
profondere tante ottuse energie per imporre la rivoluzione di un mondo che non
esiste? Si dirà che questa figura alla Giovannino Guareschi non esiste più da
molto tempo, almeno dal Glorioso Evento della “Caduta del Muro”, ma in realtà quella
figura si è solo trasferita di locale, vale a dire dal vecchio “comunismo” a
varie forme di progressismo liberal e politicamente corretto, che scontano
del vecchio comunismo il medesimo manicheismo e unilateralismo; in ultima
analisi siamo di fronte al classico atteggiamento intollerante del semicolto
che, anche in tal caso, si propone e nasconde dietro l’etichetta scientista
della scienzah: in altri termini, al vecchio ottuso si è sostituito il nuovo
ottuso, e a mio avviso ci abbiamo rimesso nel cambio, in particolare da
quando “il liberale” non è più il vecchio liberale, per vocazione portato allo
scetticismo, ma l’ex-comunista marxista volgare, quello di “tutto è economia e
tecnica e il resto non conta”, per vocazione portato al dogmatismo e all’intolleranza;
con la conseguenza che, dopo avere fatto fallire il comunismo, compito che questo
tipo di fallito si è dato è di fare fallire anche il liberalismo progressista.
Ne abbiamo avuto riprova
nella recente vicenda della cosiddetta pandemia, nella quale un certo numero di
accademici lustrascarpe del regime, impiegati di concetto del ministero con la
qualifica di “professore ordinario, o aspirante tale in assenza di prospettive”,
sempre in omaggio all’aureo principio, per il quale se
non sei un virologo televisivo non hai diritto di parola, e infatti ad Agamben e Cacciari, in quanto non virologi televisivi -ossia, Cacciari era abbastanza televisivo, ma non virologo-, hanno sostenuto con inutile sussiego la grossolana
panzana che “la filosofia deve cedere alla scienza”, ossia, dati i
tempi, a Cecchi Paone e a Selvaggia Lucarelli; il che però è piuttosto rustico
e pacchiano per varie ragioni, dato che semmai si tratta dell’esatto
contrario: è l’attività dello scienziato a essere sottoposta alla
filosofia, vale a dire alla critica epistemologica e logica, per la già
ricordata ragione, ossia che non esiste scienza in assenza di linguaggio,
anzi, “scienza” stessa è concetto del tutto metafisico, che presuppone una
concezione della realtà e la convinzione che sia possibile cavar qualcosa dal volgere
il capo nella sua direzione, il che viene proposto come assiomatico, non
essendo punto dimostrabile: la scienza, in ogni
caso, si esprime esattamente attraverso il linguaggio, e quindi compete al filosofo,
non allo scienziato, il quale non ne sa nulla -non per destino ineluttabile, ma
stante l’attuale divisione per comparti stagni dell’accademia-, di disporre di
una teoria del linguaggio, nonché di valutare poi in concreto l’adeguatezza
(chiarezza, sensatezza e significanza) del linguaggio utilizzato dallo
scienziato, al fine di verificarne gli ambiti di possibile confutazione o conferma:
la prevalenza della scienza sulla filosofia è quindi semicoltume da istituto
tecnico per geometri in astratto, ma tale è tanto più in concreto, alla luce di
banalissime considerazioni di sociologia della scienza, in relazione a
questi scienziati, con i loro palesi conflitti di interessi, con la loro
propensione a divenire parte attiva dello showbiz, e tutto il resto che
è ben noto a chi non sia evidentemente del tutto ottenebrato e stolto, come i
testé ricordati impiegati di concetto del governo, trafuga-salario recidivi e
professionali in danno del contribuente.
In realtà, nella buona
sostanza, il materialismo marxista va inteso in un duplice senso, che poi
risulta oggetto di rapida riduzione a un unico senso, ossia quale sociologia ed
economia, salvo che immediatamente la sociologia stessa, che sarebbe ambito più
ampio e comprensivo dell’economia dei mezzi di produzione, viene sollecitamente
ricondotta a sua volta a economia dei mezzi di produzione, come lo stesso
Antonio Labriola deludentemente acconsente a che sia, rinunciando così, o
collocando in situazione strettamente subordinata, tutte le componenti simboliche
che attengono al sociale, e che invece divengono a loro volta mere varianti della
“produzione sottostante”, senza mai che davvero siffatta “sottostanza”
sia mai minimamente dimostrata, ma sempre e solo data per scontata in modo
appunto assiomatico e autoritario, sebbene Labriola in vari punti strizzi l’occhio
in diversa direzione. Benedetto Croce, proprio leggendo Labriola, scrisse che
il “materialismo storico” nemmeno dovesse intendersi come autentica filosofia
della storia, semmai come filosofeggiamento sulla storia, trattandosi piuttosto
di una scienza sociale fondata sulla raccolta dei dati, attività che
indubbiamente prese impegno allo studioso Marx; però, in tal guisa, Croce
obliterava l’elemento escatologico, a sua volta presente in Marx, per quanto
non ritengo si debba negare laicità a una prospettiva di miglioramento anche
drastico e radicale, “miglioramento”, naturalmente, dal punto di vista di uno
specifico autore.
Gramsci del resto è
esplicito, non si dà empirismo senza concetto, non v’è possibilità di
accostarsi al reale in assenza di una teoria, alla quale ricondurre i dati
appresi dal reale, e allora nella “filosofia della prassi” egli si sforza di ravvisare
altro dall’”economia”, e quindi filosofia idealistica tedesca, empirismo
inglese e scienza politica francese, per farne una scienza sociale compiuta, il
che però comporta sempre il giro dell’asino, dato che ancora troppo latita,
benché il Labriola l’avesse precisato che si trattava di teoria ancora ai primi
vagiti, pur dopo il tanto ponderoso, quanto insufficiente, lavoro marxiano; dato
che, come si vedrà, non solo l’economia non sa badare a se stessa e non basta a
se stessa, ma ormai siamo ben oltre lo stesso debole soggettivismo del
marginalismo, essendo soggettivo persino stabilire l’ambito di che cosa sia
economia, non intendo come “scienza”, ma come delimitazione del proprio, e sia,
“solipsistico” concetto di economia (e vedremo che non si tratta affatto di
solipsismo), sicché l’ambito stesso della scienza è soggettivo.
Pannekoek precisa che
Lenin ha frainteso Mach e Avenarius, quest’ultimo difeso anche dal compagno
Bogdanov, dato che siffatti “idealisti” non sono per nulla additabili come
solipsisti, solo evidenziano il ruolo che l’ermeneutica assume nella
complessità della fisica; ma Lenin, al netto delle sue lacune culturali, più
che “fraintendere”, intendeva imporre una visione d’autorità che troncasse
nette ipotesi di comunismo libertario, tra le quali appunto poi Pannekoek, si
collocò; e infatti l’olandese, destinatario degli attacchi di Lenin all’infantilismo
dell’estremismo, si limita a ricordare come idealismo e materialismo, per il
marxismo, si distinguano in ciò, ossia che l’idealista antepone lo spirito alla
natura, e il materialista l’inverso, muove dalla natura, per ivi ravvisare gli
elementi ideali (così Engels nell’Antidühring); salvo che allora non si comprende in
che senso l’”economia” faccia parte della natura, e perché non piuttosto dell’universo
degli ingegni umani, al netto ovviamente delle condizioni storico-sociali con
annessi rapporti di forza, nelle quali gl’ingegni si manifestino. Ma tale
speciosa dicotomia è insopportabile, fa tanto di derby calcistico,
quando è evidente che le due cose vanno insieme, come ritiene il mio empirismo
afairetico, che sostituisce il dualismo con il monismo complesso, che rappresenta
anche una risposta al problema corpo/mente, dato che non v’è corpo senza mente
e non v’è mente senza corpo, nel senso che, con Damasio, la mente mi innerva
pure il ginocchio, e ogni mia cellula è viva e pensa, non solo il cervello, il
quale pure è il concentrato di nerbo, capace di esprimere intelligenza ed
emozione in sommo grado, come se ciò si potesse disgiungere in senso della
materia e capacità di intessere idee, dando luce a un mostruoso uomo dimidiato,
ente individuato dalla sola materia e non anche dalla sua “forma”, mentre, per
riprendere Tommaso, è solo dalla combinazione di materia e forma, intendendo per
forma tutto ciò che “non appare”, che l’ente si mostra in tutta la sua pienezza;
e invece il dimidiato homo materialis giungerebbe al livello dello spirito
solo in un “secondo momento”, non è ben chiaro quando, forse quando la locale brigata
di produzione si risolva ad ammetterlo. Ma so bene che rivolgersi a Marx esclusivamente
con un simile atteggiamento polemico sarebbe pretestuoso, mentre non lo è nei
confronti del marxismo volgare, pel quale pure Marx riveste responsabilità,
eppure ne va riconosciuta la complessità di pensiero.
Marx ha il merito di
avere introdotto il concetto di “conflitto” nell'economia politica classica,
che lui segue peraltro abbastanza pedissequamente nel momento stesso in cui la
sottopone a critica, inoculandovi quel tot di idealismo hegeliano,
che sembra necessario per delineare, da un lato, un certo “spirito” (nel senso
hegeliano) della storia in quanto materialismo e storia dei rapporti di
produzione -per cui in Marx si invera questa dialettica idealismo-materialismo,
che poi si rivela insufficiente nel momento in cui il treviriano non si
avvede che la “materia” della produzione è a sua volta innervata dell'elemento
idealistico (afairetico), per il quale non v'è produzione senza ingegno, senza
idea, senza creazione, senza innovazione schumpeteriana; e allora, non solo il
suo materialismo è in realtà un idealismo perché escatologico, ma è anche
intriso di idealismo perché la produzione è attività creativa dell'uomo e non
materiale sua: per cui il valore del lavoro non sta nel suo tempo, come sarebbe
quello del lavoro di un mulo, ma nella genialità dell'idea impiegata, che non
si misura certo a tempo, e allora il valore-lavoro varrà per l'operaio in
quanto soggetto reso bruto, per cui si misura quanto tempo egli deve impiegare
per procurarsi il pane, ma non si tratta di un giudizio universalizzabile, nel
momento in cui al “lavoro” bruto si sostituisce l'attività creativa (o discreativa
come quella dei manager dell’idiocrazia, peraltro).
Resta dunque il merito di Marx di avere individuato il carattere non
celestiale dell'economia politica, nel momento in cui questa è caratterizzata
dal conflitto, salvo che Marx vede questo solo nel rapporto di produzione in
senso stretto, laddove il conflitto è più vasto che non attorno alle merci, ma
è attorno alle inclinazioni umane (libertaria vs. autoritaria), attorno alle
culture, alle idee, alle religioni, al modo di intendere i rapporti di
gerarchia, economici e non economici, e così via: il tutto, ignorando Marx il
ruolo dello Stato in quel conflitto, tanto sotto il profilo economico
(produttivo in senso stretto), quanto sotto il profilo non economico (non
produttivo in senso stretto), essendo lo Stato capitale ex se direttamente,
e non mero garante del capitale e dei suoi detentori (e qui vale il discorso sul demanio
materiale e immateriale), e quindi giocatore autonomo, anche in quanto
monopsonista del conflitto politico e tra gli interessi costituiti e
occulti, e quindi preteso solutore unilaterale -seppur negoziato- del conflitto
stesso.
E allora veniamo al dunque, di dove poi davvero verrebbe ravvisato il
conflitto nell’ambito dell’economia politica e della “produzione”: nel
rapporto di lavoro e, quindi, nel lavoro subordinato. Si scrive “mezzi
di produzione”, ma si legge “lavoro subordinato”; e allora vien da chiedersi per
abduzione donde scaturisca siffatto rapporto di lavoro subordinato, dato che pare
da escludere che esso rappresenti la molecola ultima e fondamentale dell’esplicazione
del rapporto stesso, in via del tutto circolare e autoreferenziale, e non rimandi
viceversa a qualcosa d’altro di sottostante, tal per cui poi semmai sarà
questo “qualcosa d’altro” la struttura e non la sovrastruttura della società e
del rapporto di dominio da parte di una persona sull’altra. Poniamo dunque
allora che, in una data situazione x vi siano il soggetto A e il
soggetto B, e che A sia il signore e B il servo, che A sia il datore di lavoro
e B il lavoratore subordinato, che A sia il padrone e B il proletario e
operaio: perché A sia l’una di quelle cose e B sia invece l’altra è una
domanda che in Marx non trova alcuna risposta, tranne gli accenni nell’ambito
della discussione sull’”accumulazione originaria”, salvo che tali accenni
sono politici e legati all’uso della forza e per nulla economici, nel senso di
meramente “produttivi”: solo riconducendo alla categoria della produzione l’atto
politico e di forza si può definire “economico” quell’atto politico e di forza.
E quindi torniamo a quella situazione, al fine di ravvisare che A sia il
titolare proprietario dei mezzi di produzione e B sia privo di alcuna
titolarità del genere e sia semplicemente addetto e applicato dal proprietario
A al lavoro sotto direzione presso quei mezzi di produzione; ancora: perché A
è il proprietario e B l’addetto e applicato? Proviamo a formulare delle ipotesi
di risposta: a) A è per qualsiasi ragione superiore sul piano personale a
B, e quindi ha vinto la gara con lui nell’impossessamento del mezzo di
produzione, e B ne è rimasto privo; le ragioni di tale oggettiva superiorità
personale possono essere diverse, e le elenco in termini del tutto non
moralizzati, dato che non è qui mio interesse rilasciare inutili patenti di sorta,
tantomeno di “merito”, ad alcuno; quindi A potrebbe essere banalmente più intelligente
di B, quale che sia, si badi, la situazione storico-sociale, nella quale
A e B si trovino a operare; e
infatti non attribuisco alcuna connotazione di valore morale positivo qui al termine
“intelligente”, dato che potrebbe significare anche solo più astuto,
più capace di intessere relazioni sociali, e simili -ad esempio è abile nell’accedere
al credito-, mentre B potrebbe essere più dotato sotto altri profili, ad
esempio è capace di mantenere con coniuge e figli dei rapporti meravigliosi e
fantastici, ma ciò non lo aiuta in alcun modo a impossessarsi di mezzi di
produzione, tanto più che, stante tale sua incapacità, i rapporti con coniuge e
figli potrebbero deteriorarsi; b) A potrebbe essere semplicemente più forte
fisicamente e più spregiudicato nell’esercizio della forza bruta: in tal caso,
in corso di competizione, egli non ha avuto scrupoli nell’imporsi con la forza,
con la violenza, nei confronti di B: in tal caso, B non sarebbe nemmeno solo “lavoratore
subordinato”, ma schiavo puro e semplice e in senso stretto, dato che il
rapporto economico qui coincide perfettamente con un rapporto di puro potere,
di pura coercizione e coartazione; c) Le ragioni potrebbero essere storiche
con riferimento a vicende di giustizia distributiva e allocativa, tal per cui A
discende da una genìa appartenente alla classe dei dotati di diritti sulla
terra (sulla Terra), mentre B discende da una genìa di espropriati, e allora si
torna all’”accumulazione originaria”, che però non attiene a sua volta a
rapporti di produzione innocui, ma a esercizio della forza quanto all’impossessamento
coercitivo del territorio e delle risorse naturali, con espulsione del soggetto
più debole, e allora, però, anche la terza ipotesi ricade in una delle prime
due, solo collocata in un tempo del lontano passato.
Si badi che, in tutte e tre le ipotesi, il fondamento, non solo dell’esito
della contesa, ma dell’esistenza stessa di una contesa, dipende da una supposta
situazione di scarsità delle risorse, scarsità che può essere reale o
soggettivamente percepita, e allora in tal caso entrano in gioco -un gioco
palesemente a somma zero- fattori psicologici primari dell’uomo, fattori
emozionali, come l’inclinazione a prevaricare, l’avidità o l’assenza di
generosità e, quindi, in ultima analisi, entra in gioco il complesso dei valori
e dei sentimenti morali provati dai due soggetti, con prevalenza di incidenza
dei valori e dei sentimenti morali in capo al soggetto più forte, ossia di
quello che riesce a impossessarsi del mezzo di produzione e, così, ad
assoggettare l’altro come servo o lavoratore suo, oppure anche a proprio
schiavo vero e proprio. In tale quadro, è il termine “economico”, sono le
categorie dell’economia politica, in grado di restituire adeguatamente l’insieme
e il complesso degli indicati fattori? Forse sì, soprattutto se la forza riesce
ad assurgere a categoria dell’economia politica; forse no, se
dall’economico fuoriesce tutto ciò che rappresenta irriducibile valore non
monetizzabile, proveremo a vederlo.
Quel che però è evidente è che non può essere il rapporto di
subordinazione in atto il fondamento ultimo di una struttura sociale, per la
semplice ragione che quel rapporto di subordinazione ha delle cause sue proprie,
che sono evidentemente altre ed esterne, “antecedenti”, rispetto a quel rapporto
di subordinazione, quali che esse siano. Proviamo allora a proporre una
simulazione analitica: A e B si trovano in un’isola deserta, e devono definire
i loro rapporti di convivenza; al netto delle loro inclinazioni, libertaria o
autoritaria, e dei loro caratteri individuali, di tal che l’uno disponga di una
forte personalità e l’altro di una debole, l’uno sia persona generosa e l’altra
meschina, e così via, prescindiamo da questo e immaginiamo che i loro caratteri
siano molto simili. A questo punto i due soggetti possono cooperare e spartirsi
pacificamente i compiti in un modo qualsiasi, oppure possono entrare in una
contesa, la quale, per evitare esiti catastrofici, distruttivi e
autodistruttivi, trova composizione in una qualche soluzione focal point del
gioco falco/colomba, tal per cui A si imponga su B e A si autoponga, con l’acquiescenza
o il consenso di B, nella condizione di potere dettare ordini a B, e B si
accomodi, per qualsiasi ragione, a obbedire a tali ordini: in tal caso, la
distinzione tra supremazia politica e supremazia economica, stante l’inesistenza
di un sofisticato livello di divisione del lavoro sociale, è priva di alcun
significato, dato che alla supremazia politica corrisponde toto coelo la
supremazia economica, dato che gli ordini in materia di produzione sono al
contempo ordini di segno politico e ordini di segno economico: qui l’elemento -legittimante
o delegittimante la subordinazione- “lavoro” si carica ben sì dell’elemento “economico”,
in quanto relativo a una data collocazione attorno all’impiego di qualsivoglia “mezzo
di produzione”, ma anche totalmente dell’elemento politico, in quanto la
subordinazione è mera, e quindi viene a connotare come politica e non
solo economica la relazione hegeliana signore/servo.
Quale può essere quindi lo sbocco di fuoriuscita da una similmente
connotata relazione? Non certo quella che -in assenza della capacità di
cooperazione, essendo qui immersi in un gioco a somma zero, nel quale uno vince
tutto e l’altro perde tutto- il rapporto di subordinazione A/B si rivolga in un
rapporto di subordinazione B/A, ma -ripetesi: in assenza di capacità di
coordinamento congiuntivo-, operando la disgiunzione di mercato tra i due
soggetti, il che, però, si rende possibile esclusivamente riconoscendo che il
lavoro dell’uno e dell’altro possano divenire retrostante o sottostante di emissione
monetaria, in modo tale che, così facendo, il lavoro funzioni in forma
warreniana, rendendo ognuno dei due giocatori banchiere di se stesso: e
infatti non va dimenticato che anche il “datore di lavoro” della relazione
sopra considerata è sempre subordinato a un sistema monetario e finanziario,
dato che per produrre sul mercato occorrono anticipazioni finanziarie, a
meno che egli non disponga al contempo, oltre cioè al controllo della
risorsa produttiva, anche del potere di emissione monetaria; ma, in tal caso,
dovremmo ritenere che l’altro ne sia privo, ma allora ne andrebbe spiegata la
ragione. Supponendo invece la piena sovranità dell’individuo e, quindi, la
comunione della terra e della Terra, ognuno può usare la propria quota di mondo
quale retrostante simbolico dell’emissione monetaria, e quindi A e B, pur con
tutte le loro differenze di personalità, potrebbero scambiare l’un l’altro il
prodotto del proprio lavoro, senza nemmeno che ciò comporti totale
eguaglianza ed egualitarismo tra i due: B riguadagnerebbe così la sua
libertà, la sua autonomia nel lavoro, la propria capacità di libera emissione
monetaria, senza nemmeno necessità di essere considerato totalmente “eguale” ad
A, in una logica di divisione del lavoro, che non sia però coatta su diktat di
una qualche autorità, ma per adempimento spontaneo ognuno nei raffronti della
sua propria inclinazione personale e particolare: in tal caso, il “lavoro” funzionerebbe
da formula di legittimazione, non di un rapporto di supremazia/soggezione, ma
di un rapporto improntato a criterio di libertà, scontando il fatto che la
libertà è compatibile con livelli di eguaglianza tutto sommato limitati, con la
conseguenza che l’opzione nei confronti della libertà implica rinuncia a
distopici obiettivi di piena eguaglianza, i quali, peraltro, impongono, in
loro propria autonegazione, la presenza di un’irresistibile autorità in
grado di implementarla, vale a dire a sua volta implementare la propria
di autonegazione, il che mi appare prima facie assurdo, nonché improponibile
tanto sul piano filosofico, quanto su quello politico; e se ciò è possibile che
accada sull’isola deserta nei rapporti tra due persone (tra due “giocatori”), a
maggior ragione questa appare la soluzione preferibile in una grande società di
migliaia o milioni di persone, in cui la cooperazione non può che essere
prevalentemente affidata a soluzioni di mercato, quindi disgiuntive, e solo in
seconda battuta congiuntive e associative.
In ciascuno di tali
modi si viene a spezzare una corrispondenza biunivoca, quella per la quale il
materialismo viene ricondotto a categoria dell’economico, ma anche, per
converso, che l’economico viene riduzionisticamente considerato categoria del
materiale, dal cui circolo vizioso si esce, o ampliando il concetto di
economico, o ampliando il concetto di materiale, o procedendo in entrambe le
direzioni contemporaneamente; vale a dire però, in ultima analisi, rattrappendo
di gran lunga tanto la nozione di materiale, quanto quella di economico, in
nome di qualcosa di più elevato, di tal che l’homo oeconomicus non sia
il dimidiato homo materialis, anzi sia uomo a tutto tondo, quindi
insuscettibile di etichettature riduttive e riduzioniste, una volta chiarito
che l’homo oeconomicus non può essere meramente “materialis”, posto che
nell’attività economica ciascuno porta, se non davvero “tutto se stesso”, buona
parte della propria personalità, e quindi come si diceva una volta anche il
proprio “spirito”, giacché conferisce la propria mente, la propria
intelligenza, la propria creatività, il proprio rompersi le scatole per un
lavoro che non piace; il che ben difficilmente si fa ridurre in toto a “materia”,
qualsiasi cosa ciò intenda significare.
Ovvero ben sì
accettiamo di parlare di “materia”, ma ribadendo che la natura è da intendersi come innervata dalla
mente in senso panpsichista, ilozoista e panteista (o, per i più religiosi come
me, panenteista, mentre il resto è buono anche per il fisico quantistico), e
allora anche la “materia”, nella quale consisterebbe l’”economico”, va
considerata un tutt’uno con l’elemento mentale, psichico e intelligente. Questo
da una parte; ma, d’altro canto, anche a volere proporsi come severi
materialisti nel senso meno comprensivo e più esclusivista, ancora non mi è
chiaro perché tale attenzione che, come dice Labriola, dovrebbe essere rivolta
al “reale”, al “sociale”, ai “rapporti materiali” appunto, dovrebbe appuntarsi
anzitutto sul momento “produttivo”, e non invece sul concetto, che è più ampio
e comprensivo, di “rapporto di potere” in quanto tale. Sarebbe quindi meno “materialista”,
empirista, realista, occuparsi di potere rispetto a occuparsi di mezzo di
produzione? Non mi è chiaro il senso di tale impostazione, se non per il fatto
che il potere di A su B sull’isola, nel caso in cui sia questa l’ipotesi ad
affermarsi, comporta che A sia riuscito a imporre una formula di
legittimazione del proprio potere attraverso un’articolazione
linguistica, e quindi il potere si carica di elementi simbolici e
psicologici di tipo tradizionale, mentre fare riferimento al mero dato
produttivo dell’economia può apparire un modo più laico e moderno di
approcciare la questione del rapporto tra oppressori e oppressi, e però abbiamo
visto che un tale rapporto, ove ricostruito in termini di mera collocazione
attorno al mezzo di produzione, finisce sempre con il rimandare a qualcosa di
altro di retrostante.
E infatti, la storia dell’evoluzione dei rapporti di produzione può
tranquillamente essere resa come storia di rapporti tra potere e libertà, se dalla
schiavitù si passa al “libero” lavoro salariato, se l’economia politica
classica muove dalla conquistata libertà della produzione, del commercio e del
lavoro, e quindi tale storia materialista è sempre e comunque storia simbolica
e psicologica, proponendosi il rapporto economico come una species del più
ampio e comprensivo genus “rapporto autorità-libertà”; se poi
intendiamo la definizione dell’economico in Marx come analisi dei rapporti di
produzione in relazione a un determinato assetto dei titoli di proprietà
relativi ai mezzi di produzione, già vediamo come il momento dell’economico
dismette la propria pretesa imperialistica, per auto-assoggettarsi
consapevolmente a un primato del momento del giuridico -il titolo di proprietà-,
in quanto combinazione di forza e concetto sulla forza, e quindi il concetto
sulla forza, nel momento in cui trova inveramento, si fa istituzione, e
detto carattere istituzionale si nutre dell’interpenetrazione tra un’idea, che
trova fondamento in un atto di esercizio dell’ingegno, e l’uso della forza che
rende tale idea dato di “materia”, solo in quanto sia socialmente riconosciuto,
ma questo rimanda a sua volta a fattori culturali e psicologici, sempre intrisi
dalla cogenza dei rapporti di forza in atto. E infatti, l’essere titolare di un
“mezzo di produzione” non rappresenta mai un fatto possessorio bruto, la cui
effettività sarebbe oltremodo precaria, per cui chiunque potrebbe sopravvenire
e sottrarti il tuo “mezzo di produzione”, di qualsiasi cosa si tratti; detto “mezzo”,
al contrario, ivi compresa la tua mente riposta dentro il tuo cranio
intangibile e infrangibile secondo diritto, risulta oggetto di una protezione
istituzionale, in quanto diritto formale riconosciuto da un ordinamento, il
quale mette a tua disposizione la sua forza, sicché tu non eserciti mai un “mezzo
di produzione”, ma sempre un diritto riconosciuto e convalidato dall’ordinamento
sullo stesso, e allora anche a tale proposito si inseguono le ragioni ultime di
un simile assetto istituzionale, che poi nella più parte dei casi è
rappresentato da un assetto statuale; se un tale ordinamento non esistesse, il
precario possesso del mezzo di produzione, che si presume insediato sul
territorio, poggerebbe esclusivamente sul “diritto del più forte”, ma il
diritto del più forte non ha alcuna efficacia vincolante od obbligatoria sul
piano morale, come ricorda Rousseau, ed è superabile da un “più forte” ancora
più forte, dato che sul lavoratore non ricade alcun obbligo morale di obbedire
a un proprietario, o a un sistema, che lo escludano dall’accesso alle risorse
naturali, e quindi avrebbe il pieno diritto “del più forte” di coalizzarsi con
altri e abbattere quella proprietà del mezzo di produzione; del resto, chi si
incaricherebbe di certi lavori, se non fosse ridotto sul lastrico?
E allora il punto è esattamente questo, ossia che la struttura sociale viene individuata da Marx nell’economia politica, in quanto ricomprendente i rapporti di produzione, che si vengono a determinare attorno a titoli proprietari aventi per oggetto mezzi di produzione; ma tali titoli proprietari vigono in quanto un ordinamento coercitivo “legittimo e legittimante” li supporti, peraltro in base a un certo insieme di dottrine e filosofie giuridiche e politiche, oltre che sulla base naturalmente di determinati interessi di ceto, che quei diritti proprietari rivendichino per sé; e quindi, per la proprietà transitiva, occorrerebbe concludere che anche quell’ordinamento coercitivo e quelle “ideologie” sono parte dell’economia politica, ma non, si badi, in via derivativa, ma a titolo co-costitutivo, e semmai fondativo; il che porta, in ultima analisi, che -ideologie a parte- la forza è una categoria dell’economia politica, anzi, ne sarebbe la fondamentale, ma Marx non è mai giunto a tale inquietante conclusione in termini tanto espliciti, mentre l’affermazione si ritrova in Lukàcs, allorchè l’ungherese sottolineò la “potenza economica” della violenza, anche se ne sottolineava la rilevanza nei momenti di transizione da un sistema di produzione all’altro, mentre la formula di Marx sulla violenza come “levatrice della storia” non arriva a farne categoria economica; vi si era avvicinato semmai di più Adam Smith, ordoliberale ante litteram, per il quale il mercato è un sistema politico e lo Stato elemento di un sistema economico, perché, se Marx vi fosse lucidamente giunto, avrebbe riconosciuto anche che lo Stato non è una sovrastruttura rispetto agli assetti proprietari, ma esattamente un elemento costitutivo fondamentale della struttura economica e, quindi, elemento dell’economia politica, il che anzi Marx nega ne “L’ideologia tedesca”, nonché categoria del capitale ex se direttamente; il che però avrebbe finito con l’alterare non poco la sua analisi, in quanto avrebbe dovuto affiancare, non come “altra” materia, ma sempre nell’ambito della stessa materia, lo Stato -anche in quanto dotato di formula di legittimazione attorno all’uso della forza, oltre che in quanto titolare dell’esercizio della forza legittimata- agli altri fattori di produzione, quali terra, lavoro, macchine, denaro, etc., i quali, anzi, nello Stato si incontrano e assieme trovano cristallizzazione, non foss’altro per il nesso forza/dominio sul territorio, che lo caratterizza, ma il territorio è esattamente il capitale preliminare, sul quale tutti gli (altri) fattori di produzione si insediano; e del resto, rendere produttivo un suolo presuppone la sua previa appropriazione, che è atto di energia fisica, e anche di forza sociale, nel momento in cui tale appropriazione legittima l’appropriatore a esercitare lo ius excluendi alios, e quindi a fondare il mercato tra i proprietari, che sono tali in quanto tributari di un atto di forza; di più: senza il “fattore di produzione Stato”, tutti gli altri incontrerebbero la propria delegittimazione -anche nel senso che non sopraggiungerebbero i carabinieri a cavallo in caso di sciopero-, e verrebbero a venire caducati socialmente: ebbene, lo Stato è dunque certamente “materia”, dato che si fonda sulla forza ed esercita la forza, domina sul demanio, che è capitale comune, ed è costituito da un apparato organizzato in guisa militare o para-militare; e tuttavia al contempo incarna valori ideali, autentici o truffaldini qui non importa, sicché rappresenta espressione di quel materialismo “afairetico”, del quale andiamo qui discorrendo, tanto più che il capitale-demanio incorpora inevitabilmente la cultura di un popolo e di una nazione; più in generale, sarebbe parte costitutiva essenziale dell’economia politica il diritto, in quanto elemento di sintesi tra idea e uso della forza, ove si assuma che una norma o un concetto giuridico altro non sono che giustificazioni particolari all’uso della forza argomentata con riferimento a situazioni date.
Laddove in passato ho semmai sostenuto l’esatto opposto, ossia essere l’economia
una branca del diritto, in quanto ripresa dinamica del concetto giuridico in
atto nel suo svolgimento pratico, dato che immancabilmente un atto economico
-come anche da etimologia- è un atto di disposizione di una nozione giuridica,
per cui, ad esempio, uno scambio economico tecnicamente non è altro che un
contratto, quindi uno scambio di diritti e di titoli, e il rapporto economico
tra le parti non è altro che la materializzazione del rapporto giuridico astratto
scaturito dal contratto, sicché l’economico si appalesa in quanto inveramento
concreto dell’astratto giuridico: il che plasticamente evidenzia l’elemento che
chiamo afairetico, dato che il rapporto giuridico-economico in atto non è altro
che un rapporto materiale innervato da un concetto astratto, che si rende
dinamicamente operativo nell’ambito di una vicenda di carattere produttivo, o
comunque economico in un’accezione più lata, ossia in ogni caso relativo alla
satisfazione di un interesse o di un bisogno in connessione con un altro
corrispettivo.
D’altra parte, se si assegna un carattere materialistico in senso
stretto al rapporto di produzione, non tanto in quanto rapporto di oppressione,
per cui l’elemento materiale consisterebbe nella fotografia dello squilibrio
nella relazione, ma in quanto detto rapporto afferisca a un elemento di creazione
di beni e di servizi, ciò significa che tale elemento produttivo di beni e di
servizi sia ricondotto nella buona sostanza a una “trasformazione della
materia”, e ciò, nonostante il fatto che un servizio sia un bene
immateriale, e anche la produzione dei beni è oggi in grande parte produzione
di beni nell’ambito dell’economia dell’immateriale e del virtuale, sicché contrassegnare
l’economia come materiale non può che essere inteso in senso fortemente
metaforico; ma anche a prescindere da tale elemento, che particolarmente
attiene alla modernità, designare in termini materiali il momento produttivo
denuncia un empirismo e un induttivismo alquanto ingenui, dato che, posto che
si sta parlando di prodotti della tecnica, in una tecnica l’elemento prevalente
e decisivo è esattamente quello progettuale, conseguente a un’attività creativa
dell’intelletto, e quindi opera in pieno anche sotto tale profilo quello che chiamo
il fattore afairetico, vale a dire il combinarsi dell’elemento ideale con quello
sensoriale, sicché in nessun caso il dato economico può essere adeguatamente espresso
utilizzando un linguaggio puramente materialista, il quale non includa l’elemento
intellettivo e prospettico, e non di mera brutalità sensoriale.
La tecnica è un prodotto della mente, oltre che della forza fisica, dato
che immancabilmente la materia si trasforma in base a un progetto preliminare:
anche costruire uno strumento per uccidere un orso presuppone progetto, quindi
anche la formula primum manducare implica un preposto primum cogitare;
tant’è che io posso “costituire” mentalmente una pietra in arma, anche senza “costruire”
materialmente alcuna arma, limitandomi a raccogliere la pietra da terra, e ciò
comporta un’attività di sussunzione della pietra, dunque della materia naturale,
in quanto espressione dell’idea di arma, ossia imponendo un concetto alla
pietra, ovvero ancora accostandomi a una pietra in quanto concetto, dopo averla
concettualizzata, o concettualizzandola all’atto dell’apprensione, e una simile
vicenda illustra alquanto plasticamente che cosa io intenda esattamente per
empirismo afairetico-costitutivo, dato che la sussunzione si pone qui al
servizio della percezione sensoriale, costituendo altresì nel mondo delle cose
un ente nuovo, l’”arma”, laddove prima dell’azione sussuntorea e creativa
disponevamo qui solo di una “pietra”, che l’elaborazione umana fa uscire da
tale stato bruto, per consentirle di assurgere invece a funzione, funzione
mentalmente impressa dall’agente creativo, e quindi ad “arma”.
A questo punto, un’accezione volgare dell’imperialismo dell’economia fornisce
di questa una qualificazione troppo ristretta e generica, e nemmeno adeguatamente
esplicativa, occorrendo altre specificazioni, che sono la forza, la capacità
dell’elaborazione di un’idea, la capacità di strutturare un bisogno ripartendolo
per funzioni, etc. tal per cui la dimensione dell’economico, nel momento in cui
si rivelasse in grado di ricomprendere e introiettare ciascuno di tali
elementi, diventa asso pigliatutto
e smarrisce la sua specificità, se economico diventa qualsiasi atto o bene
della vita, il quale possa essere mentalmente comparato a un altro possibile,
in modo tale da potere esprimere una preferenza tra le diverse ipotesi, di tal
che l’agire economico è agire secondo un criterio di ragione, che trascende il
dato del mero appagamento bruto, per risolversi in un atto di conformazione del
mondo in base a “diritto”, ossia appunto in base a criteri regolatori della
propria energia materiale, criteri in grado di indirizzare i propri movimenti
del corpo in quanto funzionali a determinati obiettivi: un concetto di economia
che non incorpori tutto questo, identificandolo con qualche idea di materia che
si staglierebbe oggettiva innanzi ai nostri sensi, deve perciò essere totalmente
abbandonato, mostrando la validità, anche da questo punto di vista, dell’approccio
afairetico, ossia di un approccio anche sì “materialistico”, nel senso di
empirista, ma che in tale empirismo sappia ricomprendere anche tutto ciò che
riguarda gli elementi ideali e spirituali della vita dell’uomo, in quanto a
loro volta oggetto di percezione a un tempo sensoriale, per il tramite dei
supporti, e intellettuale, per il tramite dei concetti veicolati dai supporti.
A questo punto, si rende necessario inquadrare in
tale impostazione teorica non solo l’attività produttiva in quanto attività creativa
e intelligente, ma la questione dei “mezzi di produzione” in quanto tali, i
quali, si badi bene, ricomprendono al primo posto esattamente la mente umana, mezzo
di produzione, semmai, l’intelligenza, e subito dopo tutti i suoi primi
immediati prolungamenti, che nel nostro tempo sono rappresentati simbolicamente
da un telefono e da un computer; e quindi deve essere inquadrata in tale
cornice la questione stessa del lavoro e del suo “valore”, giacché questo
oscilla tra i due poli della materialità e dell’immaterialità, in quanto sia
collegato a uno “sforzo” psico-fisico
della persona, giacché emerge il tema se lo sforzo psico-fisico meriti un
premio particolare in quanto tale, ossia fuori da una logica
squisitamente di produzione effettiva di un valore socialmente
riconoscibile, che non sia altro dal riconoscimento etico della fatica
compiuta dalla persona, fatica da premiarsi in quanto produttiva di una
reputazione in capo al “lavoratore”, che però può essere puramente morale e scarsamente
economica, e allora emerge il tema su chi debba gravare il premio
etico-reputazionale in favore di chi si sia impegnato in uno sforzo scarsamente
produttivo sul piano economico in senso stretto, e che comunque mostri di avere
“meritato” il proprio compenso, sul presupposto che al riconoscimento etico di
uno sforzo compiuto non corrisponda però necessariamente anche l’efficacia
dello sforzo stesso; sicché in tal modo si entra a vele spiegate nell’ambito
del solidarismo e dell’assistenzialismo, a fronte di una pretesa al trattamento
paritario da parte di chi però non abbia conferito alla società esiti paragonabili
a quelli di altri, magari per ragioni intrinseche legate a limiti personali di
qualsiasi tipo della persona; ma non si tratta di un tema che intendo
particolarmente affrontare qui, se non per segnalare come il valore economico
di un lavoro, e non il suo valore etico, offre criteri oggettivi, nel senso di
affidati a un giudizio diffuso del mercato, che sono variabili indipendenti
rispetto allo sforzo profuso dal “lavoratore”, a meno che il mercato stesso non
ritenga di introiettare nel proprio giudizio di valore e, quindi, nell’assegnazione
di prezzi e compensi, altresì l’elemento etico, attraverso una qualche forma di
suffragio compensativo nei confronti del lavoratore meritevole, ancorché
scarsamente efficace sul piano produttivo in senso stretto.
Se queste sono questioni che si pongono nella
modernità, è però perché ci troviamo sempre innanzi a forme di controllo
monopolistico (nel senso di escludente gli altri) dei mezzi di produzione e, in
particolare, dell’emissione monetaria, controllo che non va inteso come la
fonte di tutto il potere autoritativo, ma di una significativa quota di potere
autoritativo; salvo che, così individuata la prospettiva, non è “l’economia”
che comanda e regola, ma l’atto autoritativo di controllo unilaterale dei mezzi
materiali, magari attraverso la predazione abusiva del demanio “capitale comune”,
riproponendo la dialettica potere/economia, al fine di evitare lo strabismo di
individuare il potere nel rapporto meramente economico e non a latere o
a monte di esso.
E allora viene da chiedersi come mai Marx rivolga il
proprio impegno critico nella direzione dell’ambito dell’economia, intesa come tutto
ciò che afferisce alla produzione e all’evoluzione delle tecniche della
produzione stessa, e non invece al più ampio e comprensivo concetto di potere e
di autorità, nel quale semmai poi sussumere determinate relazioni economicamente
improntate; si direbbe che ciò consegua alla constatazione che lo sviluppo
delle tecniche e dei modi di produzione appaiano come un percorso di tipo impersonale,
in forza del quale i rapporti oggettivi dominerebbero gli individui, come egli afferma
ne “L’ideologia tedesca”, quasi ad affermare che gli effetti inintenzionali
delle azioni degli individui si ripercuotono a loro volta in forma collettiva,
aggregata, sui singoli individui, divenendo fattori impersonali, ridimensionando
il peso, in tal caso, degli uomini concreti di potere in carne e ossa, ossia ciò
sulla base della sua particolare filosofia della storia; ma ciò è molto
discutibile, dato che anche il potere in quanto potere è in buona parte una entità
impersonale e oggettivata, oltre che personale, in quanto fenomeno sociale
diffuso e non concentrato in specifiche persone, o almeno non solo concentrato,
e comunque indivisibilmente impattante socialmente, oltre che operante nell’ambito
di relazioni particolari e specifiche. D’altra parte, se uno si chiede perché Tizio
e non Caio controlli un dato mezzo di produzione, il discorso impersonale deve
trovare anche una spiegazione personale specifica su quell’individuo
particolare, sulle sue doti, o caratteristiche particolari, che l’hanno
collocato dalla parte del controllo unilaterale dei mezzi di produzione e non
sul versante dei controllati. Come
dire che tanto economia quanto potere sono tanto personali quanto impersonali,
ed entrambi si prestano a elaborare una filosofia della storia, che sia segnata
dalle curve di andamento della concentrazione o deconcentrazione di potere,
sulla base della capacità delle classi dominanti, ma non solo, ossia anche
sulla base, forse soprattutto, di credenze diffuse, di imporre
determinate idee al riguardo.
Per altro verso, una volta che si prenda atto che il concetto di “economico”
ricomprenda la forza, la forza argomentata del diritto e quella bruta, nonché però
anche tutto quanto attiene alla creatività. all’ingegno, alle idee e alla cultura,
il presunto “primato dell’economia” finisce in realtà con l’assegnare il
primato a un asso pigliatutto, a una formula passpartout, che in
realtà contempla “tutto” quanto rappresenta fenomeno sociale nell’ambito del mix
forza/idee sull’uso della forza, e ciò va a beneficio di Marx, il quale, rispetto
alla visione tradizionale dell’homo oeconomicus, aggiunge che i rapporti
economici non sono paritari, ma sono relazioni di potere, nei quali è agevole
ravvisare un sopra e un sotto, se non sempre, molto spesso; ma ciò allora
conferma che Marx avrebbe dovuto individuare la struttura dei rapporti sociali
nella dinamica dei mutevoli rapporti di autorità, per poi appunto
individuare quali tra le relazioni economiche meritassero di essere ricostruite
nei termini dei rapporti di autorità, e allora si sarebbe reso conto, come
meglio vedremo in prosieguo, che tra questi non rientrano solo i rapporti di
lavoro. Ma non è del tutto esatto quanto dicono alcuni critici di destra e
cattolici di Marx, sul fatto che egli avrebbe fatto puramente e semplicemente
proprio l’homo oeconomicus: il progetto di Marx è di andare oltre l’homo
oeconomicus, in una società ipotizzata come di piena libertà dell’uomo, e
nemmeno totalmente egualitaria, ma fondata sulle differenze a tutto tondo tra
le persone, salvo la preclusione dello “sfruttamento”. Semmai si può dire che,
ponendo “l’economia” a struttura della filosofia della storia, egli abbia
singolarmente collocato a struttura quell’homo oeconomicus, così come
attribuito ai classici dell’economia politica liberale -Sombart dice che ciò
potrebbe essere valido per l’”epoca dell’economia”, ossia quel particolare
periodo storico in cui davvero l’economia era “tutto”-, e non invece l’uomo a
tutto tondo che pure è nei suoi voti: perché non l’uomo a tutto tondo sarebbe
stato struttura, ma solo l’homo oeconomicus, tuttavia non risulta spiegato
in termini persuasivi.
Ciò deriva dall’avere inteso l’economia in chiave ristretta e non adeguatamente
afairetico-costitutiva, di tal che gli altri fenomeni ne fuoriescono, ma non in
quanto ne sia riconosciuta appieno l’autonomia scientifica, ossia in quanto oggetto
meritevole di pienamente degna conoscenza in sé e per sé considerato, ma in
quanto sempre sistematicamente gli altri fenomeni siano sottordinati alla
vicenda produttiva: e allora Marx si produce in proposizioni tutto sommato
banali, come quella, contenuta ne “L’ideologia tedesca”, per la quale le
idee dominanti sono sempre le idee della classe dominante; salvo che la
classe dominante viene ravvisata poco fantasiosamente nei possessori dei mezzi
di produzione, e non nei forti di spirito capaci di innovare sul fronte delle
idee, e di renderle dominanti nel tempo per forza propria; d’altra parte, tale
proposizione è meno realista di quanto non si atteggerebbe a pretendere, dato
che non mi appare davvero sufficientemente “nietzscheana”: in fondo, le idee
dominanti in una data epoca sono idee conformiste, non idee a disposizione
dei soggetti dominanti, i quali sono dominanti solo se trasgrediscono alle
idee dominanti, e quindi seguono ben altri ordini di idee, che poi non sono
davvero quelli dominanti in un dato contesto sociale, che sono normalmente idee
più cheap e a disposizione del volgo, per dire così, in quanto mirano a
piacere al volgo, e riescono a dominare in quanto poi effettivamente piacciano
al volgo, almeno fino a quella soglia cui il volgo è disposto a prestare acquiescenza,
mentre un soggetto forte tende a ignorare il dominio delle idee prevalenti in
una data epoca: si badi bene che “comandare” non significa tanto dare ordini a
qualcuno, quanto agire in piena autonomia, sicché poi gli altri, semmai, si
adegueranno, se il tuo esempio sarà efficace e trascinante e, se le regole
dovranno evolvere, evolveranno e muteranno di conseguenza.
Vero è del resto che, data ad esempio una norma, una legge o un costume,
ove pure esse riflettano i comodi della classe dominante, alle stesse si
adatteranno i deboli di spirito, in quanto se ne sentano “regolati” come da un
binario, ma non certo vi si adatteranno i forti, i quali, non perché siano “immorali”,
ma in quanto non riconoscano soverchio potere morale a una norma, giuridica o
morale, che sia “posta”, per il solo fatto di essere “posta”, e quindi si
autoregoleranno quali che siano i criteri dominanti, quindi indipendentemente
da essi. In altri termini, è pur vero che, in moltissimi casi, le norme
giuridiche e morali vigenti valgono solo per il popolo, mentre le élites
tendono a non sentirsene vincolate e ad agire come se quelle norme non
esistessero; e tuttavia è eccessivamente autoconsolatorio ritenere che il
popolo sia puramente e semplicemente assoggettato a norme volute e imposte
dalle élites, e non anche volute, o comunque accettate, o comunque
ancora non contestate dal popolo; il che significa che, in ultima analisi,
questo popolo si sente, quantomeno in una certa misura, rappresentato da quelle
categorie normative, in quanto tutto sommato conformi allo spirito diffuso dei
tempi e alla communis opinio, che in quelle norme effettivamente vigenti
trovano almeno in parte, se non piena, espressione.
Quanto ai “detentori dei mezzi di produzione”, essi non di rado sono conformisti
e moralisti, o almeno lo sono spesso stati, mentre non è affatto detto che un “aristocratico
dello spirito”, il quale sia incline a seguire criteri di condotta tutti
propri, debba poi anche detenere necessariamente “mezzi di produzione”: è anzi
verosimile che i migliori se ne terranno lontani; il fatto è che le regole
vigenti in una data epoca dipendono da un’infinità di fattori, che non
necessariamente hanno a che fare con un determinato sviluppo dei mezzi
produttivi, tal per cui in certi stati degli Stati uniti d’America ancora si
sanziona penalmente -sulla carta- la fellatio, ma non mi è per nulla
chiaro il nesso tra una siffatta norma di proibizione e lo sviluppo delle forze
materiali e produttive in quella porzione di continente! Semmai il nesso sarà
con determinati rimasugli puritani antichi, quindi, se nesso tra costumi e sviluppo
dei mezzi produttivi esiste, si tratterà dello sviluppo dei mezzi produttivi di
quattro secoli fa.
D’altra parte, se per “classi dominanti” in grado di imporre idee si
intendono i detentori di denaro, e come tali soggetti in grado di comprare la
diffusione delle idee loro gradite, va pur detto che gli autentici detentori di
denaro non sono i proprietari dei “mezzi di produzione”, ma i banchieri, ai
quali i capitalisti devono rivolgersi per finanziarsi, in assenza di libero
conio. Oppure lo Stato stesso, il quale smuove una mole di denaro certamente
superiore a quella di qualsiasi capitalista, almeno se stiamo parlando di Stati
di una certa proporzione dimensionale. Se chi dispone del denaro impone le
idee, costoro saranno semmai i banchieri, che il denaro non solo lo detengono,
ma lo creano; e lo Stato, il quale acquisisce dosi incommensurabili di denaro
con la tassazione e l’indebitamento; poi, certo, anche i vari attori del consumismo
delle merci e delle idee spicciole, merci a loro volta, ma sempre come soggetti
autorizzati e concessionari, ma non, a ben vedere, davvero in prima battuta,
quanto piuttosto come “tecnici” della riproduzione al servizio di chi, in
ultima analisi, del denaro dispone davvero come meglio ritiene; del resto
nessuno ritiene davvero che la famiglia del mulino bianco Barilla sia davvero
un’idea dominante creata dalla classe dominante e che, a suo tempo, si impose
sul presunto popolino recalcitrante; semmai si trattava di idea del tutto
banale e conforme, buona non ad altro che a vendere qualche spaghetto in più,
non a conformare, ma semmai a vellicare, lo “spirito della nazione”; ruolo oggi semmai
ricoperto dalle nuove pubblicità politicamente corrette, multietniche e
multicolori, nonché arcobaleno sotto qualsiasi altro profilo; in questo caso
sì, parrebbe trattarsi di idee delle “classi dominanti”, dato che non può dirsi
che dal “popolo” sia sorta una tanto massiccia domanda di film, telefilm e
pubblicità siffattamente contrassegnati.
In definitiva, il fatto stesso che si impieghi la dizione di classi
dominanti comporta che è al dominio e non all’”economia” che si debba prestare
la maggiore attenzione, così come gli anarchici compresero meglio di Marx; d’altra
parte, se si vuole individuare un dominio nell’ambito del sistema economico,
esso non può che essere ravvisato anzitutto che nel monopolista del denaro, il
quale amministra nei fatti l’economia con atti di potere e di imperio, ben più
di quanto non faccia il caduco “capitalista” sempre esposto al fallimento;
salvo che quel monopolio monetario è configurabile solo in quanto vi siano
degli Stati che lo reggono, e allora a questo punto occorre ammettere che la
grande intelligenza di Marx risulta in buona parte male indirizzata, e quindi
sprecata, nel momento in cui la stragrande maggioranza dello spazio viene
dedicato dal suo impegno critico a determinati soggetti, mentre non è del tutto
chiaro perché non sia dedicato altrettanto, se non superiore impegno, a ben
altrimenti pericolosi soggetti, almeno dal punto di vista della detenzione del
potere reale e del dominio sulla società.
Eppure, con tutti questi caveat, in particolare il non avere a
disposizione Marx un persuasivo concetto di “materia”, e avere individuato
questo nel momento economico-produttivo, pur essendo invece tale elemento massimamente
impregnato di mentale e di culturale in ogni accezione, vale a dire di umano,
la centralità da lui assegnata al rapporto tra “economico” e “dominio” deve
essere salvata in quanto contributo centrale; e questo, non perché il dominio
vada ravvisato di necessità in un rapporto economico e non in altro, altrimenti
qualificato, ma per l’inverso: ossia per il fatto che un rapporto di dominio
ha sempre almeno anche un risvolto economico, un elemento caratterizzante
anche in senso economico, in quanto è chiaro che, se vi è rapporto di dominio,
in esso si insinuerà di necessità una qualche forma di sfruttamento a vantaggio
della parte forte; e questo consente di considerare Marx tra gli anticipatori
di materie come la scienza delle finanze di scuola italiana e suoi derivati
illustri come la public choice di James Buchanan, ovvero anche dell’approccio
economico alla condotta umana di Gary Becker -e quindi stiamo parlando di economisti
liberali e “liberisti”-, ossia tutti coloro i quali hanno saputo ravvisare nell’esercizio
della forza, della supremazia dell’uomo sull’uomo comunque connotata, vale a
dire anche schmittianamente politica, oltre che della condotta umana in
generale -il che ci conduce anche, paradossalmente, alla microeconomia della “scelta
del consumatore”- la valenza economica nel senso di una qualche accezione del “profitto”
e, in generale, dell’utilità e delle relative funzioni; il che poi ci porta
alla nozione di “imperialismo dell’economia”, che più avanti vaglieremo quanto
ai limiti della sua fondatezza, che è nozione a sua volta ascrivibile ad autori
di scuola liberale come Robbins e von Mises; il che poi rappresenta conferma a
posteriori di quanto il pensiero marxiano, al netto dei suoi elementi storicisti
ed escatologici, sia tutto interno alla tradizione dell’economia politica
liberale, o tale in senso lato, che ha accompagnato il sorgere e l’affermarsi
del sistema capitalistico.
In definitiva, se vogliamo chiudere questo capitolo con uno slogan, si
può dire, con Marx e contro Marx, non “l’economia è rapporto di dominio”,
ma “il rapporto di dominio è sempre anche un rapporto economico”.
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