di Fabio Massimo Nicosia
Se Se quella che precede può apparire una fotografia pessimistica dell’attuale mondo cosiddetto “evoluto” -in attesa del trionfo dell’intelligenza artificiale e del sorgere dei nuovi problemi a essa connessi-, nella fotografia stessa si staglia comunque un elemento universale, ossia che tutto ciò -o altro di corrispondente in altre epoche, passate o future- richiede che il sistema sia dotato di idonee formule di legittimazione, altrimenti il meccanismo descritto si verrebbe a inceppare, dato che il sistema richiede che tu ti sottometta ogni ora della tua giornata, ma sempre nutrito del convincimento che l’atto di adesione-sottomissione sia legittimo e non abusivo, realizzando la contraddizione, per la quale è poi la formula di legittimazione a essere abusiva, in quanto data come pre-supposta, e in quindi, dal punto di vista della logica del sistema, non suscettibile di essere rimessa in discussione dal mero “aderente”, ma solo da parte di chi la pone, riformandola o revisionandola alla bisogna, ferma restando la finalità ultima, ossia di perseverare nell’acquisire “adesioni” e nel prevenire o limitare le contestazioni; quantomeno, fin quando queste non si facciano “rivoluzione”, e quindi propongano o impongano nuove formule di legittimazione, a loro volta inevitabilmente abusive e “illecite”, giacché si ripropongono comunque di imporre qualche cosa a me, e ciò in perpetuo, sino a quando non sopraggiunga una qualche forma di collasso finale.
La legittimazione
pretende così la sua propria riproduzione, e una formula di
legittimazione opera però anche, teoricamente, come limite morale al
potere, quando questo non si appaga mai però dei limiti conseguiti e raggiunti,
e allora pretende di alzare sempre di più l’asticella di ciò che gli è
consentito, con sempre nuove formule di giustificazione di quel sistema di
riscossione misto pubblico-privato che si è detto: qualcuno potrebbe eccepire
che, se tutto fosse gratis, nessuno avrebbe incentivo a produrre servizi
gratuiti, ma questo qualcuno errerebbe, dato che potrebbero sempre operare
incentivi reputazionali e non strettamente monetari.
Non si tratta però solo
di individuare formule di legittimazione del potere, ma anche di usare il
potere, l’autorità, come fonte di legittimazione di una formula, in quanto
proveniente da un’autorità legittimata o autolegittimata in feed back, dato che proprio il fatto di
promanare dall’autorità legittimata, dai suoi sacerdotes e dalle sue articolazioni, conferisce autorevolezza e
credibilità a una formula che, a questo punto, si propone come formula
di auto-legittimazione, il che la rende anche solo per questo
abusiva.
Si può immaginare che,
in un’ipotetica situazione originaria, si proceda alla ricerca dei mali
condivisi da stabilire di evitare, salvo che nel mondo reale il più forte
aspira al potere e respinge l’idea che l’universalizzazione possa essere estesa
ai suoi comportamenti, ma ciò richiede a lui di argomentare il perché, da qui
la nascita delle formule di legittimazione come formule di sanatoria del male,
in quanto argomentato come a fin di bene, o “male necessario”, e in genere si
tratta di “bene pubblico”, dato che non sarebbe ammessa una mera
giustificazione in termini di “bene privato” a solo vantaggio del soggetto dominante,
il quale quindi deve mentire in modo persuasivo e retorico, e quindi ingannare
per sistema, dimostrando che se il suo bene corrisponde a un male per gli altri,
ciò significa che è un male solo apparente, ma in realtà è un bene anche per
gli altri: il che è fonte di alimento del conflitto, e quindi la formula di
giustificazione deve essere sempre commista alla sua capacità di impressionare,
intimorire, ingenerare paura, come qualcosa di mostruoso e meraviglioso che non
si può evitare od eludere, salvo che tutto ciò richiede una qualche formula di
legittimazione in grado di assumere altresì carattere mistico e demoniaco,
diversamente non sarebbe dotata di quella capacità terrorizzante e placante al
tempo stesso.
L’immoralismo istituzionalizzato, “machiavelliano”, che si presume
necessario al governo di una società moralmente corrotta, convive però
dialetticamente, e non solo al margine, con una produzione infrastrutturale di
pressioni morali di senso comune e sociali, che penetrano nella persona fino
alle sue viscere, e quindi al punto di farla soffrire, fin quando quella
moralità si istituzionalizza a propria volta, ma solo in un percorso dall’alto
verso il basso, e solo in modo vaniloquente dal basso verso l’alto; fino ad
arrivare al modello del “credito sociale”, in cui anche il cittadino
“immorale”, tale dal punto di vista del potere, viene sanzionato, e non solo il
cittadino “reo”, con ciò determinandosi un salto di qualità e una crasi rispetto
al classico principio di legalità del cosiddetto “garantismo”, ossia il
principio per il quale anche l’interesse all’atto illecito è interesse
legittimo e proceduralmente tutelato, principio che resta in vigore solo per i
piani alti, ma cessa di ottenere vitalità per i piani bassi, i quali vengono marginalizzati
non solo se violano “la legge”, ma anche se non rispondono alle aspettative
morali delineate dal potere, come omaggio reso necessario nei suoi confronti.
Di modo che l’abuso istituzionalizzato del potere, dal fronte dell’abuso del
diritto in senso giuridico, si formalizza anche in abuso legittimato in senso
morale e pre-giuridico, nel senso che la distinzione di ceto sul piano del
regime morale vigente diviene esplicita nella storia, determinando un
chiaro ritorno da questo punto di vista all’Ancien Régime, alle Signorie e all’era
feudale, in cui il censo consentiva di giovarsi di modelli morali differenti,
non solo per prassi clandestina e nascosta, sia pure riconoscibile, ma per
ufficialità rivendicata, attraverso il famoso motto “Io sono io, e voi non
siete un cazzo”, che torna a essere anche formalmente la Grundnorm dell’ordinamento,
in nome del quale il fatto che alcuni possano ciò che altri non possono riceve
addirittura formalizzazione: chi comanda è dittatore e, come diceva Kenneth
Arrow, impone le proprie preferenze personali all’insieme della società, che
sono preferenze personali, ma, si badi, di tipo esterno, anzi, riferite
a interi stati sociali, e quindi dalle vastissime esternalità; se poi ciò
avviene attraverso la tecnologia, tale imposizione è ancora più stringente, ivi
compreso il fatto stesso, preliminare, della preminenza della tecnologia, che è
elemento di qualità del sistema, e non di mera strumentazione; per cui, ad
esempio, la preferenza di un primitivista è totalmente sacrificata in una
simile società (in cui ad esempio devi per forza avere uno Spin, etc.), sicché
in nessun modo si potrà affermare che la sua preferenza sia trattata
equanimemente.
A tale proposito, mi sono via via convinto che un principio etico
fondamentale, forse il principio etico fondamentale, in quanto spia della buona
o della cattiva fede di una persona o di un corpo organizzato, sia rappresentato
dalla parità di trattamento. Ciò non significa che uno debba fare
violenza a se stesso trattando un estraneo come un proprio amico o un proprio
caro, o che non possa esprimere preferenze, tal per cui io non possa non
invitare a casa chi coltivi costumi molto lontani dai miei; ciò significa,
piuttosto, che non è accettabile che i mass-media trattino una guerra e un
aggressore in un certo modo giustamente molto severo, e poi non abbiano
assolutamente nulla da dire nei confronti di altri aggressori di pari grado o
maggiore. Sottolineare questo non significa porsi dalla parte del primo
aggressore, ma sottolineare la malafede dei mass-media e di molti esponenti
politici; allo stesso modo, io posso anche riconoscere in astratto a un social
network il diritto di escludere chi non rispetti determinate regole base di
correttezza; non posso però accettare, se non considerandolo espressione di
cattiva fede, il fatto che il social network stesso usi due pesi e due
misure a seconda della vicinanza politica dell’utente. Identica considerazione
vale per gli arbitraggi nelle partite di calcio: si può opinare e discutere all’infinito
a proposito del fatto che un certo episodio rappresenti rigore oppure no;
quello che non si può accettare è che episodi identici o molto simili siano
trattati in modo estremamente diverso e discriminatorio a seconda che si tratti
della Juventus oppure no; così come non è accettabile che i commentatori televisivi
dedichino un’ora a commentare un episodio dubbio, mentre ne trascurino
totalmente altri altrettanto dubbi, o addirittura più gravi: in altri termini,
disporre di un determinato potere significa anche, e talora anzitutto, potere
esercitare impunemente il potere di disparità di trattamento, quale espressione
e trionfo del carattere in sé illecito e abusivo del potere.
In effetti, una “disparità di trattamento” consiste in una relazione
trilaterale, triangolare, di tipo espropriativo, in violazione di un principio
di giustizia distributiva (a ciascuno il suo), per cui si toglie a uno
per dare a un altro, ossia un bene di A viene trasferito a B in violazione
esistenziale e reputazionale di A, accrescendo il “patrimonio” di B sotto
entrambi i profili, che è quanto poi di fatto lo Stato rivendica di poter fare,
salvo che provvede a ciò in nome di legittimazioni di “giustizia redistributiva”,
che poi realizzano più spesso il suo esatto contrario, giacché l’intervento
dello Stato favorisce i potenti più di quanto non favorisca i deboli, come
vorrebbe una certa vulgata. E quindi lo Stato stesso,
il trionfatore della giungla di Hobbes, rappresenta anche per questo il trionfo
dell’illecito, essendo lo Stato illecito addirittura dal suo stesso punto di
vista, ossia dal punto di vista non solo del principio di parità di
trattamento, principio che esso asserisce di volere rispettare e garantire, e
che invece calpesta, ma delle norme che esso stesso pone o concorre a porre sotto
ciascun altro profilo (come nel caso dell’istituto dell’abuso di posizione
dominante o dell’associazione di tipo mafioso, che nella buona sostanza è norma
di auto-descrizione dello Stato); salvo che, rivendicando per sé l’hobbeseano “diritto
a tutto” e, quindi, il diritto a mantenere la propria illiceità, pone questa
come deroga al diritto comune a proprio favore e privilegio, imponendo però
agli altri soggetti il diritto comune, non consentendo loro cioè di giovarsi di
altrettante condotte illecite, salvo per il caso in cui lo Stato non glielo
conceda esplicitamente o tacitamente quali privilegio derivato dal privilegio
originario, consistente alla pretesa abusiva al monopolio della legittimità.
Ma poiché lo Stato-idea
è poi nella pratica solo uno strumento organizzato nelle mani di qualcuno, come
lo è peraltro qualsiasi istituzione formale, la quale però viva della carne
viva di persone reali, che la incarnino in quanto corpus collettivo o
associato, ciò significa che alcuni tra gli uomini rivendicano per sé tale
diritto alla derogazione, nonché il diritto di concedere ad altri un diritto
derivato alla derogazione, derivato cioè dall’autorizzazione concessa dal
soggetto legittimato, salvo capire donde ricavi siffatta legittimazione, a un
qualche legittimato di grado inferiore, in un modello gerarchico, che si cela
dietro la gerarchia tra istituzioni, quale strumento per camuffare la gerarchia
tra persone.
Lo Stato si auto-legittima
attraverso la teorica del perseguimento del “bene pubblico” sull’erroneo
presupposto, non solo che attorno alla formazione del bene pubblico non si
determinino conflitti, ma anche che non possano esistere concezioni opposte su
che cosa rappresenti un bene pubblico in una data situazione. Ad esempio, per
alcuni, bene pubblico o comune sarebbe che tutti si vaccinassero, per altri,
bene pubblico o comune sarebbe che non si vaccinasse nessuno, al fine di
opporre resistenza compatta alla pretesa dello Stato a che tutti si vaccinino
(con questi vaccini).
Lo stesso vale con
riferimento a quel particolare “bene pubblico” che è rappresentato dal
principio di precauzione, perché tu in nome del principio puoi pretendere di
impormi la vaccinazione, mentre io posso rifiutarmi di vaccinarmi proprio in
ossequio allo stesso principio, ove ritenga pericolosa per me la tua pretesa,
oltre che pericolosa per la società tutta, in quanto foriera di controllo
sociale.
Alla base della
diversità, e anche del conflitto, tra i modi di vedere questo genere di cose
c’è sì la diversa inclinazione individuale, quindi anche su che cosa debba
intendersi per bene comune –salvo che alcuni potrebbero negare il concetto
stesso, in quanto perfettamente consapevoli dell’irriducibilità delle opposte
convinzioni al riguardo-, ma anche il fatto che si riflette anche a tale
proposito che i concetti scientifici stessi non sono univoci, cosa che da molto
tempo l’opinione pubblica sembra avere dimenticato o mai compreso, ossia che
non esiste un’opinione scientifica unanime
sulle questioni più importanti, e che, anzi, si tratta di una distorsione
concettuale e ideale avere propalato l’opposto, ossia che “la scienza” parli
con una voce sola, dato che questa non è scienza, ma scientismo volgare, quando
non mera iatrocrazia.
In effetti, la proposta
di Imre Lakatos di considerare la scienza come una libera competizione tra programmi di ricerca concorrenti, che oggi
non trova alcun riscontro nella vulgata dei
mass-media, va al contrario elevata a
un livello superiore, dovendosi intendere anzitutto la scienza come una libera competizione tra epistemologie,
anzi, una vera e propria libera
competizione tra concezioni diverse
di scienza, dal che deriva una costante discussione sui metodi scientifici,
dalla quale poi consegue una libera competizione tra concezioni del bene
pubblico, tra concezioni del bene privato, tra concezioni su quale sia da
intendersi il preferibile stile di vita –e la mente vola a John Stuart Mill-, e
così via, tutti valori posti a forte repentaglio dalle attuali tendenze
totalitarie e distopiche, ispirate sempre di più al modello cinese del credito
sociale e del controllo totale dello Stato sulla vita stessa del cittadino; il
tutto in aperta irrisione di qualsiasi, a parole esaltato, concetto di privacy, che non a caso è al contempo
bene pubblico, in quanto valore di primo livello, e privato, in quanto per sua
stessa natura valore finalizzato a edificare un tempio, un santuario
inespugnabile attorno a ciascun singolo individuo. Si noti, per paradosso, che
l’idea del credito sociale in sé non fa scandalo, dato che attiene alla
reputazione che ciascuno è in grado di guadagnare nei raffronti dell’altro; e
tuttavia anche tale concetto finisce con il risultare corrotto dal fatto che la
“reputazione” qui si riduce alla reputazione della propria capacità di
sudditanza top-down.
Ora, stabilito che il
concetto di “bene pubblico” funziona nel senso di omogeneizzare e appiattire le
scelte, sul falso presupposto che attorno a un bene pubblico, ossia in quanto “indivisibile”,
non si formino contrapposizioni di interessi e di modi di vedere le cose,
occorre sottolineare come oggi funzioni in senso autoritario il richiamo al
concetto di scienza, sempre per garantire la salute e l’ambiente,
ovviamente: ebbene, tutto ciò presuppone una genetica distorsione del concetto
stesso di scienza in senso epistemologico, dato che, anche senza bisogno di
scomodare l’anarchismo metodologico di Feyerabend, pensiamo ancora al
popperiano Imre Lakatos, per il quale la scienza consiste in una pluralità
di programmi di ricerca in concorrenza; salvo che lo Stato, per esprimere
la sua politica scientifica, ossia sanitaria, ambientale o di altro tipo, deve
scegliere uno solo tra questi programmi in concorrenza, o, nella
migliore delle ipotesi, imporre un compromesso, che di solito funziona poco,
tra programmi alternativi: questa è appunto la logica del “bene pubblico
indivisibile”, così come classicamente è ritenuta “indivisibile” la sovranità, che
quindi si impone d’autorità a discapito della libera concorrenza tra ipotesi e
teorie scientifiche, e così è facile comprendere che le ragioni del potere e
dell’autorità prevarranno su quelle davvero genuinamente scientifiche, che sono
per definizioni plurali e anche irriducibili.
Ma allora, la libera
competizione tra epistemologie e concezioni della scienza reca con sé anche la libera
competizione tra criteri di legittimazione ultimi di un sistema sociale,
che è un modo più sottile, se non profondo, di indicare la concorrenza tra i
modelli di società che vengono da ogni parte proposti, e si tratta, in
definitiva, di libera concorrenza tra forme linguistiche, ossia, in ultima
analisi, tra giochi linguistici, dato che ogni evento, nel momento in cui
assume il crisma dell’istituzionalità, vive più della propria forma linguistica
che della propria sostanza, che può essere evanescente o anche solo
opportunistica; di modo che poi, a relazionarsi, finiscono con l’essere la
sostanza, ove correttamente individuata e selezionata, e la sua
rappresentazione linguistica esteriore, che poi però finisce con il rivelarsi socialmente costitutiva della sostanza
empirica, o presunta e supposta tale, vale a dire socialmente recepita come tale, se la società che viviamo coincide
poi, o finisce con il combaciare, con il discorso
sulla società che viviamo, in quanto essenza del suo modo di percepirla e
di viverla, e quindi costitutiva del suo stesso modo di essere in quanto
concretamente animato dalle persone, il cui modo di essere è a sua volta
rappresentato dalla comunicazione; salvo che anche questa sconta le gerarchie,
di tal che anche la costruzione della realtà sociale finisce con il subire una
rappresentazione top-down, sia pure
in un feed-back teoricamente
inarrestabile, ma di fatto spesso ostruito attraverso l’uso della forza e
dell’atto di imperio.
E allora emerge come lo
stesso atto di forza e di imperio possa essere sostituito o corroborato dal
linguaggio, sicché la stessa parola, ove adottata dal dotato di potere
coercitivo, divenga coercizione essa stessa in quanto sia parola del dominio e della coartazione, e non parola neutra e non
qualificata da questo punto di vista, come fosse la parola di un chiunque del
popolo; in tal caso, la parola è sia espressione e manifestazione del dominio
in atto, sia elemento costitutivo, nel senso della sua riproduzione, del dominio stesso, in quanto questo si nutra della
parola quale elemento, in assenza del quale dominio non vi può essere, posto
che il dominio e l’imperio rappresentano comunque forme comunicazionali e modalità dell’interazione, per quanto non
paritaria, ma unilateralmente connotata dalla capacità di renderla squilibrata
e produttiva solo o prevalentemente in modalità unidirezionale.
E allora vien da
chiedersi quanto lo sviluppo della scienza e della tecnica incida in questo
processo di riformulazione linguistica, e però, in particolare, quanto abbia
inciso, negli ultimi decenni, nel senso di negare libertà,
contraddicendo il postulato concorrenziale insito nel progetto scientifico, dal
particolare punto di vista che, affinandosi la ricerca della perfezione sul
piano tecnico, e quindi perseguendosi sempre di più obiettivi di precisione
nell’individuazione di quelle che i tecnici stessi considerano le soluzioni
migliori ai “problemi”, non solo quelli di grande scala, ma, in modo connesso,
quelli relativi alla gestione delle minimalità quotidiane, le soluzioni di
precisione che vengono così individuate in quanto “norme tecniche”, ossia di
opportunità nell’amministrazione delle cose, finiscano con l’essere imposte
indivisibilmente a tutti come imperativi di legge, quindi soggetti a
implementazione forzosa e minacciosa, di tal che, progredendosi nella ricerca
della soluzione dei problemi pratici della vita, va a finire che ogni atto
minimale della vita diventa oggetto di normazione coattiva, e quindi di
sanzione e di riscossione, che si tratti dei pattini a rotelle, del potere o no
lavare l’automobile in cortile -per cui il bene comune e condiviso viene rispettato
non per l’uso che ognuno possa farne, ma in quanto ne sia puramente e
semplicemente vietato e inibito l’uso-, dal divieto di certi giocattoli o
prodotti in quanto “pericolosi”, dal divieto per il bambino di guardare dalla
macchina quelle che arrivano dietro, perché deve stare legato al seggiolino, per
fare alcuni esempi di tutte quelle soluzioni “tecniche”, individuate dai
“tecnici”, e che poi si risolvono in abbattimento della qualità e della varietà
delle esperienze individuali della vita, a partire dalla minore età, per cui al
ragazzino napoletano, in nome di tutta una serie di nuovi principi
sopravvenuti, buoni o no che siano,
viene inibito di potere vantare con gli amici di avere praticato le prime
esperienze sessuali con la signora adulta, perché in tal caso la signora adulta
verrebbe puramente e semplicemente arrestata dalle forze di polizia, nonché
additata alla pubblica riprovazione dalla stampa mainstream, vale a dire
da praticamente tutta.
La società della
riscossione, l’uomo-procedimento e l’uomo-normazione, vale a dire l’uomo-oggetto
e non soggetto sociale, sono all’evidenza la negazione della libertà, ma la
libertà dovrebbe al contrario essere la forma normale dell’azione umana,
come si ricava agevolmente dal linguaggio comune, in cui il carattere libero
dell’azione umana è percepito linguisticamente come scontato e presupposto,
vale a dire costitutivo e co-estensivo, in situazione normale,
dell’azione: ad esempio, se io dico “ho mangiato”, “ho bevuto”, “ho visto un
film”, “ho fatto l’amore”, “ho assunto un farmaco”, “ho ascoltato un album
musicale”, il fatto che tali azioni siano rappresentative di libere scelte dell’agente
non richiede di essere specificato, dato che è implicito in quelle
affermazioni; mentre al contrario ne viene specificato l’eventuale carattere di
costrizione quando questo si verifica, e allora dirò “mi hanno costretto…” a
mangiare, a bere, a fare l’amore (ossia mi hanno violentato sessualmente), “mi
hanno costretto ad assumere un farmaco e me lo hanno inoculato”, e così via,
sicché la normalità è la libertà è la coercizione è l’eccezione, o
almeno è sempre stato così, fino a poco tempo fa, nel sentire comune e nel
senso comune; laddove al contrario con il tempo si è venuta affermando la
mentalità, per la quale qualunque azione umana debba essere necessariamente
adempitiva di una qualche prescrizione normativa o comunque di carattere
sociale, il che inibisce l’espressione tanto di quella che ho chiamato “libertà
come bene privato”, corrispondente all’esercizio di un potere autonomo
personale, quanto quella da intendersi quale “libertà come bene comune”, vale a
dire lo spazio condiviso in cui l’esercizio della tua libertà e del tuo essere
libero consente l’esaltarsi del mio, e non a limitarlo come afferma la vulgata
semicolta, ossia ignorante.
In realtà, è forse meglio
chiarire che le due nozioni non sono in opposizione, non solo perché la libertà
privata (autonomia) si esprime sempre e comunque nell’ambito di quel terreno
comune, che, in nome della reciprocità, vede le diverse autonomie esprimersi in
compossibilità, salvo eventuali rispettive interferenze da risolversi in
concordia, o in conflitto risolto dai principi supremi del diritto; ma anche
perché l’una confluisce nell’altra, essendo l’altra frutto di uno scambio, che
consegue all’esercizio della prima. In altri termini, esiste una soglia nell’esercizio
dell’autonomia, oltrepassata la quale, non è vero che, come dicono gli stupidi,
la libertà “finisce”; semplicemente confluisce con quella degli altri,
arricchendosi del loro apporto, dando vita a una libertà questa volta comune e
condivisa, che ha le potenzialità per rinforzare il potere dell’autonomia del
singolo, versandola in una forza derivante dall’unione e dalla cooperazione,
che amplia e non riduce le nostre possibilità; naturalmente sempre che se ne
abbia l’inclinazione e la capacità, dimodoché da un tale rapporto non emerga la
coartazione dell’uno sull’altro, per quanto anche in libertà condivisa vi
saranno delle differenziazioni di capacità di influenza in funzione delle
diverse personalità di ciascuno.
Alla distinzione tra
libertà come bene privato e libertà come bene comune può farsi in parte
corrispondere, con qualche minima forzatura, la distinzione di Benjamin Constant
tra libertà dei moderni e libertà degli antichi, quella per la quale gli
antichi per “libertà” intendevano qualcosa di molto simile alla partecipazione
democratica, mentre i moderni intendono la libertà come spazio autonomo
riservato, ivi compresi però taluni diritti di influenza sul governo; dimodoché
la “privacy” degli antichi era totalmente sacrificata (salvo in parte ad
Atene), epperò decidevano di cose rilevantissime per la nazione, come della
pace e della guerra, di tal che “libertà” qui era appunto libertà nazionale e
della “patria”. La mia proposta di libertà come spazio comune è libertà dell’individuo,
ma intesa in senso ampliato, come condivisione massimizzante con l’altro, il
che ben può includere anche la partecipazione alle decisioni di rilievo comune;
e tuttavia non può sfuggire che, se Constant parlava della necessità di
conciliare la libertà degli antichi con quella dei moderni, ossia quella
collettiva e della nazione con quella privata dell’individuo, ciò era in
effetti già stato codificato negli Stati Uniti d’America, non foss’altro che
dal Secondo Emendamento, per il quale il cittadino americano è, virtualmente, armato
“due volte”, ossia tanto in quanto cittadino privato con diritto di portare
armi -concetto che intacca di gran lunga quello di monopolio della forza da
parte dello Stato, ove le armi “portabili” non siano di minimale dimensione-,
quanto in qualità di membro organizzato della “milizia” popolare, sicché la
forza, che poi è forza di emanazione del diritto, fa da snodo e interfaccia tra
le due forme di libertà, quella come autonomia e quella come partecipazione.
In un caso come questo,
si raggiungono livelli ideali molto elevati nell’elaborazione di una dottrina
della legittimazione, giacché siamo finitimi, in realtà, con una teoria della delegittimazione,
dato che questo comporta “armare il cittadino” -e armarlo “due volte”-, il che
esprime il massimo possibile di diffidenza (jeffersoniana) nei confronti del
potere e del suo esercizio.
Oggi, per contro, siamo
abituati a livelli di propaganda legittimante ben più miseri, la cui odierna
versione edulcorata è quella del nudge, che è ancora un modo per mettere
la parola, quindi l’atto linguistico performativo in quanto “fatto”, a
fondamento legittimante di un sistema legale, che si ammanta persino da
libertario, pur riconoscendo la propria impronta paternalistica, impronta che
in effetti deve essere riconosciuta al soft law in quanto tale, in
quanto espressione di una cultura aziendalistica che si fa Stato, di tal che la
policy tiene luogo alla costituzione, non è molto chiaro con quale
guadagno netto, se la costituzione dovrebbe essere rigida, ma a vantaggio
dei cittadini, laddove la policy rivendica la propria flessibilità,
ma a vantaggio delle gerarchie “aziendali”: con l’effetto pratico di rendere la
costituzione appunto flessibile e non rigida, tornando così al modello dello
Statuto Albertino, che dimostrò a suo tempo ampiamente la propria insufficienza,
come peraltro sta mostrando ampiamente la propria insufficienza la Costituzione
attuale, in quanto fondata sul principio del “bilanciamento degli interessi e
dei valori”, il che rappresenta a sua volta un modello di flessibilità, la cui
gestione è affidata totalmente all’autorità governativa, quantomeno in prima
battuta, latitando molto sovente, peraltro, quella “seconda battuta” che dovrebbe
competere e spettare alla giurisdizione ordinaria, amministrativa e soprattutto
costituzionale.
La teoria del nudge,
ossia della cosiddetta “spinta gentile”, vorrebbe almeno in parte sostituire l’intervento
coercitivo della normazione coattiva dello Stato con interventi di attiva “persuasione”
da parte sua, tali da indurre i cittadini ad adottare una serie di condotte
considerate “virtuose” da vari punti di vista, sicché chi propone tale
strategia parla appunto di “paternalismo libertario”, atteso che l’elemento
libertario consisterebbe nell’assenza di coazione, mentre quello paternalistico
andrebbe ravvisato in questa propensione, in ogni caso, ad assistere i
cittadini nelle scelte reputate “migliori” da determinati soggetti “competenti”;
senonché il rischio evidente è che l’elemento paternalistico prevalga di gran
lunga su quello libertario, per la precisa ragione che, in tal modo, l’intervento
attivistico dello Stato, ma anche di altri soggetti interessati a che siano
effettuate determinate scelte, si ampli e non si riduca. Intanto, una simile
impostazione presuppone l’esistenza in ogni caso di “architetti delle scelte”,
i quali quindi addirittura delineino i contorni della fisionomia del vivere
associato in un dato contesto, il che, finché si ferma a come disporre i
biscotti sullo scaffale del supermercato può essere considerato di modesto
impatto sociale, ma quando diviene fondamento di opzioni di politica generale
fa totalmente smarrire la presunta componente “libertaria”, consistente nel
fatto che siffatte opzioni non siano assistite dalla minaccia della coazione
fisica.
Invero, la coazione
fisica e la sua minaccia non rilevano tanto in quanto afferiscano a una particolare
indicazione da parte del governo, quanto nel loro essere immanente a tutto il
sistema, da un lato e, d’altro lato, occorre considerare che tale coazione non
è davvero indispensabile a segnare un rapporto di supremazia sociale e
culturale, dato che questo rapporto si nutre più spesso, nella realtà dei
fatti, della pressione determinata dai giudizi diffusi sulla reputazione; di
tal che, un conto sono i giudizi, che scaturiscano spontanei da libere
interazione, altro conto sono giudizi imposti da un governo attivamente
impegnato in una qualche sorta di “pubblicità progresso”, trasmessa h24 da
mass-media proni e servili, anche perché profumatamente finanziati, i quali
quindi finiscano con il condizionare l’opinione pubblica molto più di qualche
generica minaccia di sanzione, minaccia in molti casi ampiamente velleitaria;
sicché i mass-media funzionano da efficace istrumento di quotidiana e
attivistica riproduzione della legittimazione a benefizio dei potenti, come
abbiamo visto nei due anni che mi precedono a proposito della cosiddetta “pandemia”,
come dimostra ad esempio il fatto che, imbottiti di messaggi di terrore e di
pavura, i cittadini meno accorti hanno seguito diligentemente norme del tutto inesistenti,
ma inventate di sana pianta dal “diritto televisivo” di Myrta Merlino e altri Legislatori
della sanior pars del pavese, come portare la mascherina quando non ce n’è
alcun bisogno od obbligo, fino a portarla persino a obbligo scaduto,
e questi sono esattamente i frutti della cosiddetta “spinta gentile”; che rapidamente
è divenuta ben altro che gentile, posto che, persino in assenza di alcun
obbligo vaccinale, molte attività elementari del vivere civile sono state
assoggettate a vaccinazione, oltre che assoggettati a bullismo di Stato e stalking
televisivo di Stato i non vaccinati, ripetesi, pur in assenza di obbligo
vaccinale, dato che l’”obbligo morale a vaccinarsi” rischia di essere più
opprimente e pervasivo, oltre che più ingiurioso, dell’”obbligo giuridico a
vaccinarsi”: questo è il volto del “nudge realizzato” e non di quello
astratto; e ai mass-media, come si conviene a ogni contesto totalitario, si è affiancata
da par suo l’istituzione scolastica, sicché nel mondo di oggi i ragazzi non
vanno più a scuola per apprendere qualche rudimento di vera o finta cultura, ma
per passare ore a farsi spiegare l’importanza di rispettare le misure del
governo, il distanziamento, appunto la mascherina -persino con casi di trattamenti
sanitari obbligatori nei confronti dei giovani dissidenti-, esattamente in una
logica da “libro e moschetto”, in cui però il libro tende a latitare e il
moschetto è rivolto contro i ragazzi, e non affidato in mano loro come si
converrebbe.
Tutto ciò rende all’evidenza
di grande attualità l’insegnamento di Ivan Illich, sul duplice fronte dell’abolizionismo
sanitario e scolastico, i due pilastri del “welfare autoritario” -che si vengono
ad affiancare al “welfare carcerario”, di tal che, come diceva Claudio Lolli, “…e
poi costruiremo dei grandi ospedali, e i carabinieri saranno più buoni, assistenza
forzata e gratuita per tutta la vita, e un vitto migliore nelle nostre prigioni”-,
quello per cui è lo Stato a scegliere e imporre i modelli di cura, ed è
altrettanto lo Stato a scegliere ed imporre i modelli di cultura, entrambi veri
o presunti; ultimamente più spesso presunti che veri, ma non è il caso di
dilungarci troppo su questa vicenda nella presente sede.
Emergono a tutti tali
riguardi evidenti questioni di psicologia sociale, ossia una diffusa tendenza
alla massificazione e al gregarismo, in particolar modo, non è constatazione di
oggi, del popolo italiano, poco avvezzo a introiettare i principi di autonomia
e libertà, certamente meno di altri popoli, magari protestanti e non abituati a
secoli di predominio cattolico, che poi è divenuto, da noi, catto-comunista,
come si suol dire; il che si viene a sposare con quel fatalismo nostrano, per
il quale si finisce con il non dare troppa importanza a questioni che ad altri,
come me, apparirebbero invece fondamentali, e anche questa “incapacità di
indignarsi” probabilmente ha a che fare con una qualche distorta concezione
della “Provvidenza” e, quindi, con una certa propensione alla rassegnazione,
oltre che con l’adeguarsi facile: il che conferma quanto spesso si dice, ossia
che al moralismo corrisponde in realtà la debolezza, non la fermezza, morale.
Vengono quindi in rilievo considerazioni come quelle di Gustave Le Bon e
Sigmund Freud sulla psicologia delle folle e delle masse, ossia la loro
cupidigia di servilismo, la loro fanatica ricerca assetata di un padrone al
quale obbedire, il che però non si vorrebbe fosse un destino antropologico ineluttabile,
per quanto in una qualche misura asintotico, ma solo una fase culturalmente “orientata”
della vicenda storica.
Per cui viene facile al
potere porre in essere sistematici “abusi della credulità popolare”, in questa
dottrina della coercizione persuasiva, o della persuasione coercitiva,
con continua elaborazione e rielaborazione del linguaggio
performativo-costitutivo, di tal che si fanno cose con parole, come sosteneva
John L. Austin, e sono cose e parole pesanti come pietre, in quanto promananti
dal monopolista della forza, o preteso tale, e prima ancora però monopolista,
preteso tale, della produzione giuridica, e prima ancora però della produzione
e riproduzione della legittimazione e dell’articolazione delle formule legittimanti;
per quanto poi, a ben vedere, non vi sia grande differenza strutturale e
funzionale, ma solo di grado, tra le rispettive propagande di mercato e quelle
monopolistiche, stante che le ricostruzioni storiche ci hanno informato di come
le tecniche goebbelsiane siano derivate de plano da quelle pubblicitarie
americane, formulate sulla base delle teorizzazioni e le pratiche di un pioniere
come Edward Bernays, così come sono noti i rapporti tra forme dell’organizzazione
e della propaganda nazionalsocialista e quelle del management
contemporaneo, come ci ha ben illustrato Johann Chapoutot.
Tutto ciò fa parte della
teoria della legittimità come abuso e fatto illecito, dato che tale immane
apparato “argomentativo” e “persuasivo” è in grandissima parte costituito da menzogne
e da consapevoli alterazioni della verità, per quanto possano nutrirsi dubbi
fondati su tale nozione, e tuttavia altro è che ognuno di noi si costruisca la “propria”
verità alla quale ispirarsi, la propria ricostruzione mentale del mondo da poi
liberamente seguire; altra cosa è che una bolla mass-mediale e “politica”, nel
sostituirsi senza pudore alle più elementari verità dei fatti -dato l’accesso
privilegiato ai mass-media che la propaganda politica viene oggi ad assumere-,
poi pretenda di imporsi “indivisibilmente”, da sovrano e da bene pubblico, alla
società intera e nel suo assieme, “verità” di Stato e di regime, alla quale
diventa oltremodo impervio sottrarsi.
La formula di
legittimazione odierna del potere indossa così le vesti di un estremamente pressante
“pungolo” in una determinata direzione, di tal che l’azione rivolta in una
direzione difforme affronta la pena della riprovazione sociale, pressione e
riprovazione quotidianamente ribadite da mass-media e scuola pubblica, in
quanto agenti non segreti della riproduzione continua degli elementi di
legittimazione di una qualche formula fondamentale, peraltro sempre pronti e
proni a mutare questa stessa all’occorrenza fin dai livelli infimi della classe
elementare, o persino della scuola materna, attraverso la vituperabile “educazione
civica”, e del tinello di casa, donde orde di massaie muovono per poi ripetere al
supermercato le verità rivelate di e da Myrta Merlino, Enrico Mentana e Ditliende
Gruber, vale a dire esattamente da coloro i quali Nietzsche più disprezzava, ossia
“i giornalisti”; salvo che i giornalisti di Nietzsche si rivolgevano ai
semicolti dell’epoca, e si può immaginare quale potesse essere il livello di
preparazione di un semicolto del XIX secolo; mentre i giornalisti di oggi si
rivolgono ai prodotti della scuola pubblica di oggi, quindi il confronto è
impietoso nei nostri confronti.
La propaganda incessante
assume i pretesi caratteri di una sorta di “utilitarismo delle regole”, vale a
dire indicare “certezze” in grado di minimizzare, dal punto di vista dell’autorità,
i costi di informazione e di persuasione, massimizzando il plusvalore della sovranità
schmittiano attraverso il “suggerimento” invadente di scelte di default
da parte del cittadino-suddito, quindi scelte non consapevoli e del tutto
acritiche, di pura “certificazione di conformità” a determinati dettami di
comodo, di comodo per il potere, ma poi, in ultima analisi, per lo stesso
cittadino, per quanto suo malgrado, il quale a sua volta trova premio nel
risparmiarsi i costi della libertà e del dissenso, che peraltro non sarebbero
costi intrinseci a una data attività, ma costi imposti e artificiali.
E allora l’istituzione
dominante e le sue articolazioni, nel loro essere una combinazione di bene
materiale e bene immateriale, si dota di ulteriori elementi immateriali
meta-istituzionali, patendo
un’ulteriore istituzionalizzazione-sussunzione a un meta-livello superiore,
sulla base di una qualche determinata ideologia, che nel nostro mondo assurge
rapidamente a bene di consumo, per cui lo Stato-fatto istituzionale mira a
sottrarsi alla libertà nella sussunzione assiologica, per la quale le varie
interpretazioni a rigore non si escluderebbero l’una l’altra, per imporre quale
prevalente una determinata visione, la quale però oggi, si badi, assume spesso come
detto carattere prettamente consumistico e occasionale, per cui si alternano
forme di politicamente corretto, viene enfatizzata la rilevanza di fenomeni puramente
mass-mediatici come le “Sardine”, e un’altra volta ci sarà la necessità di
combattere Forza Nuova, o verrà ribadita qualche altra forma di antifassismo, e
così via, in rapida e pleonastica successione, tutti “pungolati” dal nudge a
pensare in un modo o nell’altro.
Salvo che poi, nelle
prospettive della società pienamente tecnologica, e parlo sempre di una
tecnologia a direziona accentrata, il “pungolo” assume ben più pregnanti vesti,
se, come si è detto, si passa dal semplice sifulo dell’automobile, per il caso
che tu non indossi prontamente la cintura di sicurezza, a interi sistemi che
semplicemente “non partono” e non funzionano se tu sei considerato un cittadino
“illegale”, o anche solo irregolare o eterodosso, con preclusione tecnologica,
come ho ricordato, di ogni minima ipotesi di disobbedienza, civile o incivile
che sia, ovvero ancora di diritto di resistenza, che vengono materialmente impedite
in nome di una nuova meccanizzata forma di sacralità della legge, ma anche del
regolamento, della circolare, della policy e di tutto il cosiddetto soft
law passato, presente e futuro.
Nessun commento:
Posta un commento