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martedì 15 marzo 2022

Formule di legittimazione, oggi: considerazioni generali

 di Fabio Massimo Nicosia

   Se  Se quella che precede può apparire una fotografia pessimistica dell’attuale mondo cosiddetto “evoluto” -in attesa del trionfo dell’intelligenza artificiale e del sorgere dei nuovi problemi a essa connessi-, nella fotografia stessa si staglia comunque un elemento universale, ossia che tutto ciò -o altro di corrispondente in altre epoche, passate o future- richiede che il sistema sia dotato di idonee formule di legittimazione, altrimenti il meccanismo descritto si verrebbe a inceppare, dato che il sistema richiede che tu ti sottometta ogni ora della tua giornata, ma sempre nutrito del convincimento che l’atto di adesione-sottomissione sia legittimo e non abusivo, realizzando la contraddizione, per la quale è poi la formula di legittimazione a essere abusiva, in quanto data come pre-supposta, e in quindi, dal punto di vista della logica del sistema, non suscettibile di essere rimessa in discussione dal mero “aderente”, ma solo da parte di chi la pone, riformandola o revisionandola alla bisogna, ferma restando la finalità ultima, ossia di perseverare nell’acquisire “adesioni” e nel prevenire o limitare le contestazioni; quantomeno, fin quando queste non si facciano “rivoluzione”, e quindi propongano o impongano nuove formule di legittimazione, a loro volta inevitabilmente abusive e “illecite”, giacché si ripropongono comunque di imporre qualche cosa a me, e ciò in perpetuo, sino a quando non sopraggiunga una qualche forma di collasso finale.

La legittimazione pretende così la sua propria riproduzione, e una formula di legittimazione opera però anche, teoricamente, come limite morale al potere, quando questo non si appaga mai però dei limiti conseguiti e raggiunti, e allora pretende di alzare sempre di più l’asticella di ciò che gli è consentito, con sempre nuove formule di giustificazione di quel sistema di riscossione misto pubblico-privato che si è detto: qualcuno potrebbe eccepire che, se tutto fosse gratis, nessuno avrebbe incentivo a produrre servizi gratuiti, ma questo qualcuno errerebbe, dato che potrebbero sempre operare incentivi reputazionali e non strettamente monetari.

Non si tratta però solo di individuare formule di legittimazione del potere, ma anche di usare il potere, l’autorità, come fonte di legittimazione di una formula, in quanto proveniente da un’autorità legittimata o autolegittimata in feed back, dato che proprio il fatto di promanare dall’autorità legittimata, dai suoi sacerdotes e dalle sue articolazioni, conferisce autorevolezza e credibilità a una formula che, a questo punto, si propone come formula di auto-legittimazione, il che la rende anche solo per questo abusiva.

Si può immaginare che, in un’ipotetica situazione originaria, si proceda alla ricerca dei mali condivisi da stabilire di evitare, salvo che nel mondo reale il più forte aspira al potere e respinge l’idea che l’universalizzazione possa essere estesa ai suoi comportamenti, ma ciò richiede a lui di argomentare il perché, da qui la nascita delle formule di legittimazione come formule di sanatoria del male, in quanto argomentato come a fin di bene, o “male necessario”, e in genere si tratta di “bene pubblico”, dato che non sarebbe ammessa una mera giustificazione in termini di “bene privato” a solo vantaggio del soggetto dominante, il quale quindi deve mentire in modo persuasivo e retorico, e quindi ingannare per sistema, dimostrando che se il suo bene corrisponde a un male per gli altri, ciò significa che è un male solo apparente, ma in realtà è un bene anche per gli altri: il che è fonte di alimento del conflitto, e quindi la formula di giustificazione deve essere sempre commista alla sua capacità di impressionare, intimorire, ingenerare paura, come qualcosa di mostruoso e meraviglioso che non si può evitare od eludere, salvo che tutto ciò richiede una qualche formula di legittimazione in grado di assumere altresì carattere mistico e demoniaco, diversamente non sarebbe dotata di quella capacità terrorizzante e placante al tempo stesso.

L’immoralismo istituzionalizzato, “machiavelliano”, che si presume necessario al governo di una società moralmente corrotta, convive però dialetticamente, e non solo al margine, con una produzione infrastrutturale di pressioni morali di senso comune e sociali, che penetrano nella persona fino alle sue viscere, e quindi al punto di farla soffrire, fin quando quella moralità si istituzionalizza a propria volta, ma solo in un percorso dall’alto verso il basso, e solo in modo vaniloquente dal basso verso l’alto; fino ad arrivare al modello del “credito sociale”, in cui anche il cittadino “immorale”, tale dal punto di vista del potere, viene sanzionato, e non solo il cittadino “reo”, con ciò determinandosi un salto di qualità e una crasi rispetto al classico principio di legalità del cosiddetto “garantismo”, ossia il principio per il quale anche l’interesse all’atto illecito è interesse legittimo e proceduralmente tutelato, principio che resta in vigore solo per i piani alti, ma cessa di ottenere vitalità per i piani bassi, i quali vengono marginalizzati non solo se violano “la legge”, ma anche se non rispondono alle aspettative morali delineate dal potere, come omaggio reso necessario nei suoi confronti. Di modo che l’abuso istituzionalizzato del potere, dal fronte dell’abuso del diritto in senso giuridico, si formalizza anche in abuso legittimato in senso morale e pre-giuridico, nel senso che la distinzione di ceto sul piano del regime morale vigente diviene esplicita nella storia, determinando un chiaro ritorno da questo punto di vista all’Ancien Régime, alle Signorie e all’era feudale, in cui il censo consentiva di giovarsi di modelli morali differenti, non solo per prassi clandestina e nascosta, sia pure riconoscibile, ma per ufficialità rivendicata, attraverso il famoso motto “Io sono io, e voi non siete un cazzo”, che torna a essere anche formalmente la Grundnorm dell’ordinamento, in nome del quale il fatto che alcuni possano ciò che altri non possono riceve addirittura formalizzazione: chi comanda è dittatore e, come diceva Kenneth Arrow, impone le proprie preferenze personali all’insieme della società, che sono preferenze personali, ma, si badi, di tipo esterno, anzi, riferite a interi stati sociali, e quindi dalle vastissime esternalità; se poi ciò avviene attraverso la tecnologia, tale imposizione è ancora più stringente, ivi compreso il fatto stesso, preliminare, della preminenza della tecnologia, che è elemento di qualità del sistema, e non di mera strumentazione; per cui, ad esempio, la preferenza di un primitivista è totalmente sacrificata in una simile società (in cui ad esempio devi per forza avere uno Spin, etc.), sicché in nessun modo si potrà affermare che la sua preferenza sia trattata equanimemente.

A tale proposito, mi sono via via convinto che un principio etico fondamentale, forse il principio etico fondamentale, in quanto spia della buona o della cattiva fede di una persona o di un corpo organizzato, sia rappresentato dalla parità di trattamento. Ciò non significa che uno debba fare violenza a se stesso trattando un estraneo come un proprio amico o un proprio caro, o che non possa esprimere preferenze, tal per cui io non possa non invitare a casa chi coltivi costumi molto lontani dai miei; ciò significa, piuttosto, che non è accettabile che i mass-media trattino una guerra e un aggressore in un certo modo giustamente molto severo, e poi non abbiano assolutamente nulla da dire nei confronti di altri aggressori di pari grado o maggiore. Sottolineare questo non significa porsi dalla parte del primo aggressore, ma sottolineare la malafede dei mass-media e di molti esponenti politici; allo stesso modo, io posso anche riconoscere in astratto a un social network il diritto di escludere chi non rispetti determinate regole base di correttezza; non posso però accettare, se non considerandolo espressione di cattiva fede, il fatto che il social network stesso usi due pesi e due misure a seconda della vicinanza politica dell’utente. Identica considerazione vale per gli arbitraggi nelle partite di calcio: si può opinare e discutere all’infinito a proposito del fatto che un certo episodio rappresenti rigore oppure no; quello che non si può accettare è che episodi identici o molto simili siano trattati in modo estremamente diverso e discriminatorio a seconda che si tratti della Juventus oppure no; così come non è accettabile che i commentatori televisivi dedichino un’ora a commentare un episodio dubbio, mentre ne trascurino totalmente altri altrettanto dubbi, o addirittura più gravi: in altri termini, disporre di un determinato potere significa anche, e talora anzitutto, potere esercitare impunemente il potere di disparità di trattamento, quale espressione e trionfo del carattere in sé illecito e abusivo del potere.

In effetti, una “disparità di trattamento” consiste in una relazione trilaterale, triangolare, di tipo espropriativo, in violazione di un principio di giustizia distributiva (a ciascuno il suo), per cui si toglie a uno per dare a un altro, ossia un bene di A viene trasferito a B in violazione esistenziale e reputazionale di A, accrescendo il “patrimonio” di B sotto entrambi i profili, che è quanto poi di fatto lo Stato rivendica di poter fare, salvo che provvede a ciò in nome di legittimazioni di “giustizia redistributiva”, che poi realizzano più spesso il suo esatto contrario, giacché l’intervento dello Stato favorisce i potenti più di quanto non favorisca i deboli, come vorrebbe una certa vulgata. E quindi lo Stato stesso, il trionfatore della giungla di Hobbes, rappresenta anche per questo il trionfo dell’illecito, essendo lo Stato illecito addirittura dal suo stesso punto di vista, ossia dal punto di vista non solo del principio di parità di trattamento, principio che esso asserisce di volere rispettare e garantire, e che invece calpesta, ma delle norme che esso stesso pone o concorre a porre sotto ciascun altro profilo (come nel caso dell’istituto dell’abuso di posizione dominante o dell’associazione di tipo mafioso, che nella buona sostanza è norma di auto-descrizione dello Stato); salvo che, rivendicando per sé l’hobbeseano “diritto a tutto” e, quindi, il diritto a mantenere la propria illiceità, pone questa come deroga al diritto comune a proprio favore e privilegio, imponendo però agli altri soggetti il diritto comune, non consentendo loro cioè di giovarsi di altrettante condotte illecite, salvo per il caso in cui lo Stato non glielo conceda esplicitamente o tacitamente quali privilegio derivato dal privilegio originario, consistente alla pretesa abusiva al monopolio della legittimità.

Ma poiché lo Stato-idea è poi nella pratica solo uno strumento organizzato nelle mani di qualcuno, come lo è peraltro qualsiasi istituzione formale, la quale però viva della carne viva di persone reali, che la incarnino in quanto corpus collettivo o associato, ciò significa che alcuni tra gli uomini rivendicano per sé tale diritto alla derogazione, nonché il diritto di concedere ad altri un diritto derivato alla derogazione, derivato cioè dall’autorizzazione concessa dal soggetto legittimato, salvo capire donde ricavi siffatta legittimazione, a un qualche legittimato di grado inferiore, in un modello gerarchico, che si cela dietro la gerarchia tra istituzioni, quale strumento per camuffare la gerarchia tra persone.

Lo Stato si auto-legittima attraverso la teorica del perseguimento del “bene pubblico” sull’erroneo presupposto, non solo che attorno alla formazione del bene pubblico non si determinino conflitti, ma anche che non possano esistere concezioni opposte su che cosa rappresenti un bene pubblico in una data situazione. Ad esempio, per alcuni, bene pubblico o comune sarebbe che tutti si vaccinassero, per altri, bene pubblico o comune sarebbe che non si vaccinasse nessuno, al fine di opporre resistenza compatta alla pretesa dello Stato a che tutti si vaccinino (con questi vaccini).

Lo stesso vale con riferimento a quel particolare “bene pubblico” che è rappresentato dal principio di precauzione, perché tu in nome del principio puoi pretendere di impormi la vaccinazione, mentre io posso rifiutarmi di vaccinarmi proprio in ossequio allo stesso principio, ove ritenga pericolosa per me la tua pretesa, oltre che pericolosa per la società tutta, in quanto foriera di controllo sociale.

Alla base della diversità, e anche del conflitto, tra i modi di vedere questo genere di cose c’è sì la diversa inclinazione individuale, quindi anche su che cosa debba intendersi per bene comune –salvo che alcuni potrebbero negare il concetto stesso, in quanto perfettamente consapevoli dell’irriducibilità delle opposte convinzioni al riguardo-, ma anche il fatto che si riflette anche a tale proposito che i concetti scientifici stessi non sono univoci, cosa che da molto tempo l’opinione pubblica sembra avere dimenticato o mai compreso, ossia che non esiste un’opinione scientifica unanime sulle questioni più importanti, e che, anzi, si tratta di una distorsione concettuale e ideale avere propalato l’opposto, ossia che “la scienza” parli con una voce sola, dato che questa non è scienza, ma scientismo volgare, quando non mera iatrocrazia.

In effetti, la proposta di Imre Lakatos di considerare la scienza come una libera competizione tra programmi di ricerca concorrenti, che oggi non trova alcun riscontro nella vulgata dei mass-media, va al contrario elevata a un livello superiore, dovendosi intendere anzitutto la scienza come una libera competizione tra epistemologie, anzi, una vera e propria libera competizione tra concezioni diverse di scienza, dal che deriva una costante discussione sui metodi scientifici, dalla quale poi consegue una libera competizione tra concezioni del bene pubblico, tra concezioni del bene privato, tra concezioni su quale sia da intendersi il preferibile stile di vita –e la mente vola a John Stuart Mill-, e così via, tutti valori posti a forte repentaglio dalle attuali tendenze totalitarie e distopiche, ispirate sempre di più al modello cinese del credito sociale e del controllo totale dello Stato sulla vita stessa del cittadino; il tutto in aperta irrisione di qualsiasi, a parole esaltato, concetto di privacy, che non a caso è al contempo bene pubblico, in quanto valore di primo livello, e privato, in quanto per sua stessa natura valore finalizzato a edificare un tempio, un santuario inespugnabile attorno a ciascun singolo individuo. Si noti, per paradosso, che l’idea del credito sociale in sé non fa scandalo, dato che attiene alla reputazione che ciascuno è in grado di guadagnare nei raffronti dell’altro; e tuttavia anche tale concetto finisce con il risultare corrotto dal fatto che la “reputazione” qui si riduce alla reputazione della propria capacità di sudditanza top-down.

Ora, stabilito che il concetto di “bene pubblico” funziona nel senso di omogeneizzare e appiattire le scelte, sul falso presupposto che attorno a un bene pubblico, ossia in quanto “indivisibile”, non si formino contrapposizioni di interessi e di modi di vedere le cose, occorre sottolineare come oggi funzioni in senso autoritario il richiamo al concetto di scienza, sempre per garantire la salute e l’ambiente, ovviamente: ebbene, tutto ciò presuppone una genetica distorsione del concetto stesso di scienza in senso epistemologico, dato che, anche senza bisogno di scomodare l’anarchismo metodologico di Feyerabend, pensiamo ancora al popperiano Imre Lakatos, per il quale la scienza consiste in una pluralità di programmi di ricerca in concorrenza; salvo che lo Stato, per esprimere la sua politica scientifica, ossia sanitaria, ambientale o di altro tipo, deve scegliere uno solo tra questi programmi in concorrenza, o, nella migliore delle ipotesi, imporre un compromesso, che di solito funziona poco, tra programmi alternativi: questa è appunto la logica del “bene pubblico indivisibile”, così come classicamente è ritenuta “indivisibile” la sovranità, che quindi si impone d’autorità a discapito della libera concorrenza tra ipotesi e teorie scientifiche, e così è facile comprendere che le ragioni del potere e dell’autorità prevarranno su quelle davvero genuinamente scientifiche, che sono per definizioni plurali e anche irriducibili.

Ma allora, la libera competizione tra epistemologie e concezioni della scienza reca con sé anche la libera competizione tra criteri di legittimazione ultimi di un sistema sociale, che è un modo più sottile, se non profondo, di indicare la concorrenza tra i modelli di società che vengono da ogni parte proposti, e si tratta, in definitiva, di libera concorrenza tra forme linguistiche, ossia, in ultima analisi, tra giochi linguistici, dato che ogni evento, nel momento in cui assume il crisma dell’istituzionalità, vive più della propria forma linguistica che della propria sostanza, che può essere evanescente o anche solo opportunistica; di modo che poi, a relazionarsi, finiscono con l’essere la sostanza, ove correttamente individuata e selezionata, e la sua rappresentazione linguistica esteriore, che poi però finisce con il rivelarsi socialmente costitutiva della sostanza empirica, o presunta e supposta tale, vale a dire socialmente recepita come tale, se la società che viviamo coincide poi, o finisce con il combaciare, con il discorso sulla società che viviamo, in quanto essenza del suo modo di percepirla e di viverla, e quindi costitutiva del suo stesso modo di essere in quanto concretamente animato dalle persone, il cui modo di essere è a sua volta rappresentato dalla comunicazione; salvo che anche questa sconta le gerarchie, di tal che anche la costruzione della realtà sociale finisce con il subire una rappresentazione top-down, sia pure in un feed-back teoricamente inarrestabile, ma di fatto spesso ostruito attraverso l’uso della forza e dell’atto di imperio.

E allora emerge come lo stesso atto di forza e di imperio possa essere sostituito o corroborato dal linguaggio, sicché la stessa parola, ove adottata dal dotato di potere coercitivo, divenga coercizione essa stessa in quanto sia parola del dominio e della coartazione, e non parola neutra e non qualificata da questo punto di vista, come fosse la parola di un chiunque del popolo; in tal caso, la parola è sia espressione e manifestazione del dominio in atto, sia elemento costitutivo, nel senso della sua riproduzione, del dominio stesso, in quanto questo si nutra della parola quale elemento, in assenza del quale dominio non vi può essere, posto che il dominio e l’imperio rappresentano comunque forme comunicazionali e modalità dell’interazione, per quanto non paritaria, ma unilateralmente connotata dalla capacità di renderla squilibrata e produttiva solo o prevalentemente in modalità unidirezionale.

E allora vien da chiedersi quanto lo sviluppo della scienza e della tecnica incida in questo processo di riformulazione linguistica, e però, in particolare, quanto abbia inciso, negli ultimi decenni, nel senso di negare libertà, contraddicendo il postulato concorrenziale insito nel progetto scientifico, dal particolare punto di vista che, affinandosi la ricerca della perfezione sul piano tecnico, e quindi perseguendosi sempre di più obiettivi di precisione nell’individuazione di quelle che i tecnici stessi considerano le soluzioni migliori ai “problemi”, non solo quelli di grande scala, ma, in modo connesso, quelli relativi alla gestione delle minimalità quotidiane, le soluzioni di precisione che vengono così individuate in quanto “norme tecniche”, ossia di opportunità nell’amministrazione delle cose, finiscano con l’essere imposte indivisibilmente a tutti come imperativi di legge, quindi soggetti a implementazione forzosa e minacciosa, di tal che, progredendosi nella ricerca della soluzione dei problemi pratici della vita, va a finire che ogni atto minimale della vita diventa oggetto di normazione coattiva, e quindi di sanzione e di riscossione, che si tratti dei pattini a rotelle, del potere o no lavare l’automobile in cortile -per cui il bene comune e condiviso viene rispettato non per l’uso che ognuno possa farne, ma in quanto ne sia puramente e semplicemente vietato e inibito l’uso-, dal divieto di certi giocattoli o prodotti in quanto “pericolosi”, dal divieto per il bambino di guardare dalla macchina quelle che arrivano dietro, perché deve stare legato al seggiolino, per fare alcuni esempi di tutte quelle soluzioni “tecniche”, individuate dai “tecnici”, e che poi si risolvono in abbattimento della qualità e della varietà delle esperienze individuali della vita, a partire dalla minore età, per cui al ragazzino napoletano, in nome di tutta una serie di nuovi principi sopravvenuti,  buoni o no che siano, viene inibito di potere vantare con gli amici di avere praticato le prime esperienze sessuali con la signora adulta, perché in tal caso la signora adulta verrebbe puramente e semplicemente arrestata dalle forze di polizia, nonché additata alla pubblica riprovazione dalla stampa mainstream, vale a dire da praticamente tutta.

La società della riscossione, l’uomo-procedimento e l’uomo-normazione, vale a dire l’uomo-oggetto e non soggetto sociale, sono all’evidenza la negazione della libertà, ma la libertà dovrebbe al contrario essere la forma normale dell’azione umana, come si ricava agevolmente dal linguaggio comune, in cui il carattere libero dell’azione umana è percepito linguisticamente come scontato e presupposto, vale a dire costitutivo e co-estensivo, in situazione normale, dell’azione: ad esempio, se io dico “ho mangiato”, “ho bevuto”, “ho visto un film”, “ho fatto l’amore”, “ho assunto un farmaco”, “ho ascoltato un album musicale”, il fatto che tali azioni siano rappresentative di libere scelte dell’agente non richiede di essere specificato, dato che è implicito in quelle affermazioni; mentre al contrario ne viene specificato l’eventuale carattere di costrizione quando questo si verifica, e allora dirò “mi hanno costretto…” a mangiare, a bere, a fare l’amore (ossia mi hanno violentato sessualmente), “mi hanno costretto ad assumere un farmaco e me lo hanno inoculato”, e così via, sicché la normalità è la libertà è la coercizione è l’eccezione, o almeno è sempre stato così, fino a poco tempo fa, nel sentire comune e nel senso comune; laddove al contrario con il tempo si è venuta affermando la mentalità, per la quale qualunque azione umana debba essere necessariamente adempitiva di una qualche prescrizione normativa o comunque di carattere sociale, il che inibisce l’espressione tanto di quella che ho chiamato “libertà come bene privato”, corrispondente all’esercizio di un potere autonomo personale, quanto quella da intendersi quale “libertà come bene comune”, vale a dire lo spazio condiviso in cui l’esercizio della tua libertà e del tuo essere libero consente l’esaltarsi del mio, e non a limitarlo come afferma la vulgata semicolta, ossia ignorante.

In realtà, è forse meglio chiarire che le due nozioni non sono in opposizione, non solo perché la libertà privata (autonomia) si esprime sempre e comunque nell’ambito di quel terreno comune, che, in nome della reciprocità, vede le diverse autonomie esprimersi in compossibilità, salvo eventuali rispettive interferenze da risolversi in concordia, o in conflitto risolto dai principi supremi del diritto; ma anche perché l’una confluisce nell’altra, essendo l’altra frutto di uno scambio, che consegue all’esercizio della prima. In altri termini, esiste una soglia nell’esercizio dell’autonomia, oltrepassata la quale, non è vero che, come dicono gli stupidi, la libertà “finisce”; semplicemente confluisce con quella degli altri, arricchendosi del loro apporto, dando vita a una libertà questa volta comune e condivisa, che ha le potenzialità per rinforzare il potere dell’autonomia del singolo, versandola in una forza derivante dall’unione e dalla cooperazione, che amplia e non riduce le nostre possibilità; naturalmente sempre che se ne abbia l’inclinazione e la capacità, dimodoché da un tale rapporto non emerga la coartazione dell’uno sull’altro, per quanto anche in libertà condivisa vi saranno delle differenziazioni di capacità di influenza in funzione delle diverse personalità di ciascuno.

Alla distinzione tra libertà come bene privato e libertà come bene comune può farsi in parte corrispondere, con qualche minima forzatura, la distinzione di Benjamin Constant tra libertà dei moderni e libertà degli antichi, quella per la quale gli antichi per “libertà” intendevano qualcosa di molto simile alla partecipazione democratica, mentre i moderni intendono la libertà come spazio autonomo riservato, ivi compresi però taluni diritti di influenza sul governo; dimodoché la “privacy” degli antichi era totalmente sacrificata (salvo in parte ad Atene), epperò decidevano di cose rilevantissime per la nazione, come della pace e della guerra, di tal che “libertà” qui era appunto libertà nazionale e della “patria”. La mia proposta di libertà come spazio comune è libertà dell’individuo, ma intesa in senso ampliato, come condivisione massimizzante con l’altro, il che ben può includere anche la partecipazione alle decisioni di rilievo comune; e tuttavia non può sfuggire che, se Constant parlava della necessità di conciliare la libertà degli antichi con quella dei moderni, ossia quella collettiva e della nazione con quella privata dell’individuo, ciò era in effetti già stato codificato negli Stati Uniti d’America, non foss’altro che dal Secondo Emendamento, per il quale il cittadino americano è, virtualmente, armato “due volte”, ossia tanto in quanto cittadino privato con diritto di portare armi -concetto che intacca di gran lunga quello di monopolio della forza da parte dello Stato, ove le armi “portabili” non siano di minimale dimensione-, quanto in qualità di membro organizzato della “milizia” popolare, sicché la forza, che poi è forza di emanazione del diritto, fa da snodo e interfaccia tra le due forme di libertà, quella come autonomia e quella come partecipazione.

In un caso come questo, si raggiungono livelli ideali molto elevati nell’elaborazione di una dottrina della legittimazione, giacché siamo finitimi, in realtà, con una teoria della delegittimazione, dato che questo comporta “armare il cittadino” -e armarlo “due volte”-, il che esprime il massimo possibile di diffidenza (jeffersoniana) nei confronti del potere e del suo esercizio.

Oggi, per contro, siamo abituati a livelli di propaganda legittimante ben più miseri, la cui odierna versione edulcorata è quella del nudge, che è ancora un modo per mettere la parola, quindi l’atto linguistico performativo in quanto “fatto”, a fondamento legittimante di un sistema legale, che si ammanta persino da libertario, pur riconoscendo la propria impronta paternalistica, impronta che in effetti deve essere riconosciuta al soft law in quanto tale, in quanto espressione di una cultura aziendalistica che si fa Stato, di tal che la policy tiene luogo alla costituzione, non è molto chiaro con quale guadagno netto, se la costituzione dovrebbe essere rigida, ma a vantaggio dei cittadini, laddove la policy rivendica la propria flessibilità, ma a vantaggio delle gerarchie “aziendali”: con l’effetto pratico di rendere la costituzione appunto flessibile e non rigida, tornando così al modello dello Statuto Albertino, che dimostrò a suo tempo ampiamente la propria insufficienza, come peraltro sta mostrando ampiamente la propria insufficienza la Costituzione attuale, in quanto fondata sul principio del “bilanciamento degli interessi e dei valori”, il che rappresenta a sua volta un modello di flessibilità, la cui gestione è affidata totalmente all’autorità governativa, quantomeno in prima battuta, latitando molto sovente, peraltro, quella “seconda battuta” che dovrebbe competere e spettare alla giurisdizione ordinaria, amministrativa e soprattutto costituzionale.

La teoria del nudge, ossia della cosiddetta “spinta gentile”, vorrebbe almeno in parte sostituire l’intervento coercitivo della normazione coattiva dello Stato con interventi di attiva “persuasione” da parte sua, tali da indurre i cittadini ad adottare una serie di condotte considerate “virtuose” da vari punti di vista, sicché chi propone tale strategia parla appunto di “paternalismo libertario”, atteso che l’elemento libertario consisterebbe nell’assenza di coazione, mentre quello paternalistico andrebbe ravvisato in questa propensione, in ogni caso, ad assistere i cittadini nelle scelte reputate “migliori” da determinati soggetti “competenti”; senonché il rischio evidente è che l’elemento paternalistico prevalga di gran lunga su quello libertario, per la precisa ragione che, in tal modo, l’intervento attivistico dello Stato, ma anche di altri soggetti interessati a che siano effettuate determinate scelte, si ampli e non si riduca. Intanto, una simile impostazione presuppone l’esistenza in ogni caso di “architetti delle scelte”, i quali quindi addirittura delineino i contorni della fisionomia del vivere associato in un dato contesto, il che, finché si ferma a come disporre i biscotti sullo scaffale del supermercato può essere considerato di modesto impatto sociale, ma quando diviene fondamento di opzioni di politica generale fa totalmente smarrire la presunta componente “libertaria”, consistente nel fatto che siffatte opzioni non siano assistite dalla minaccia della coazione fisica.

Invero, la coazione fisica e la sua minaccia non rilevano tanto in quanto afferiscano a una particolare indicazione da parte del governo, quanto nel loro essere immanente a tutto il sistema, da un lato e, d’altro lato, occorre considerare che tale coazione non è davvero indispensabile a segnare un rapporto di supremazia sociale e culturale, dato che questo rapporto si nutre più spesso, nella realtà dei fatti, della pressione determinata dai giudizi diffusi sulla reputazione; di tal che, un conto sono i giudizi, che scaturiscano spontanei da libere interazione, altro conto sono giudizi imposti da un governo attivamente impegnato in una qualche sorta di “pubblicità progresso”, trasmessa h24 da mass-media proni e servili, anche perché profumatamente finanziati, i quali quindi finiscano con il condizionare l’opinione pubblica molto più di qualche generica minaccia di sanzione, minaccia in molti casi ampiamente velleitaria; sicché i mass-media funzionano da efficace istrumento di quotidiana e attivistica riproduzione della legittimazione a benefizio dei potenti, come abbiamo visto nei due anni che mi precedono a proposito della cosiddetta “pandemia”, come dimostra ad esempio il fatto che, imbottiti di messaggi di terrore e di pavura, i cittadini meno accorti hanno seguito diligentemente norme del tutto inesistenti, ma inventate di sana pianta dal “diritto televisivo” di Myrta Merlino e altri Legislatori della sanior pars del pavese, come portare la mascherina quando non ce n’è alcun bisogno od obbligo, fino a portarla persino a obbligo scaduto, e questi sono esattamente i frutti della cosiddetta “spinta gentile”; che rapidamente è divenuta ben altro che gentile, posto che, persino in assenza di alcun obbligo vaccinale, molte attività elementari del vivere civile sono state assoggettate a vaccinazione, oltre che assoggettati a bullismo di Stato e stalking televisivo di Stato i non vaccinati, ripetesi, pur in assenza di obbligo vaccinale, dato che l’”obbligo morale a vaccinarsi” rischia di essere più opprimente e pervasivo, oltre che più ingiurioso, dell’”obbligo giuridico a vaccinarsi”: questo è il volto del “nudge realizzato” e non di quello astratto; e ai mass-media, come si conviene a ogni contesto totalitario, si è affiancata da par suo l’istituzione scolastica, sicché nel mondo di oggi i ragazzi non vanno più a scuola per apprendere qualche rudimento di vera o finta cultura, ma per passare ore a farsi spiegare l’importanza di rispettare le misure del governo, il distanziamento, appunto la mascherina -persino con casi di trattamenti sanitari obbligatori nei confronti dei giovani dissidenti-, esattamente in una logica da “libro e moschetto”, in cui però il libro tende a latitare e il moschetto è rivolto contro i ragazzi, e non affidato in mano loro come si converrebbe.

Tutto ciò rende all’evidenza di grande attualità l’insegnamento di Ivan Illich, sul duplice fronte dell’abolizionismo sanitario e scolastico, i due pilastri del “welfare autoritario” -che si vengono ad affiancare al “welfare carcerario”, di tal che, come diceva Claudio Lolli, “…e poi costruiremo dei grandi ospedali, e i carabinieri saranno più buoni, assistenza forzata e gratuita per tutta la vita, e un vitto migliore nelle nostre prigioni”-, quello per cui è lo Stato a scegliere e imporre i modelli di cura, ed è altrettanto lo Stato a scegliere ed imporre i modelli di cultura, entrambi veri o presunti; ultimamente più spesso presunti che veri, ma non è il caso di dilungarci troppo su questa vicenda nella presente sede.

Emergono a tutti tali riguardi evidenti questioni di psicologia sociale, ossia una diffusa tendenza alla massificazione e al gregarismo, in particolar modo, non è constatazione di oggi, del popolo italiano, poco avvezzo a introiettare i principi di autonomia e libertà, certamente meno di altri popoli, magari protestanti e non abituati a secoli di predominio cattolico, che poi è divenuto, da noi, catto-comunista, come si suol dire; il che si viene a sposare con quel fatalismo nostrano, per il quale si finisce con il non dare troppa importanza a questioni che ad altri, come me, apparirebbero invece fondamentali, e anche questa “incapacità di indignarsi” probabilmente ha a che fare con una qualche distorta concezione della “Provvidenza” e, quindi, con una certa propensione alla rassegnazione, oltre che con l’adeguarsi facile: il che conferma quanto spesso si dice, ossia che al moralismo corrisponde in realtà la debolezza, non la fermezza, morale. Vengono quindi in rilievo considerazioni come quelle di Gustave Le Bon e Sigmund Freud sulla psicologia delle folle e delle masse, ossia la loro cupidigia di servilismo, la loro fanatica ricerca assetata di un padrone al quale obbedire, il che però non si vorrebbe fosse un destino antropologico ineluttabile, per quanto in una qualche misura asintotico, ma solo una fase culturalmente “orientata” della vicenda storica.

Per cui viene facile al potere porre in essere sistematici “abusi della credulità popolare”, in questa dottrina della coercizione persuasiva, o della persuasione coercitiva, con continua elaborazione e rielaborazione del linguaggio performativo-costitutivo, di tal che si fanno cose con parole, come sosteneva John L. Austin, e sono cose e parole pesanti come pietre, in quanto promananti dal monopolista della forza, o preteso tale, e prima ancora però monopolista, preteso tale, della produzione giuridica, e prima ancora però della produzione e riproduzione della legittimazione e dell’articolazione delle formule legittimanti; per quanto poi, a ben vedere, non vi sia grande differenza strutturale e funzionale, ma solo di grado, tra le rispettive propagande di mercato e quelle monopolistiche, stante che le ricostruzioni storiche ci hanno informato di come le tecniche goebbelsiane siano derivate de plano da quelle pubblicitarie americane, formulate sulla base delle teorizzazioni e le pratiche di un pioniere come Edward Bernays, così come sono noti i rapporti tra forme dell’organizzazione e della propaganda nazionalsocialista e quelle del management contemporaneo, come ci ha ben illustrato Johann Chapoutot.

Tutto ciò fa parte della teoria della legittimità come abuso e fatto illecito, dato che tale immane apparato “argomentativo” e “persuasivo” è in grandissima parte costituito da menzogne e da consapevoli alterazioni della verità, per quanto possano nutrirsi dubbi fondati su tale nozione, e tuttavia altro è che ognuno di noi si costruisca la “propria” verità alla quale ispirarsi, la propria ricostruzione mentale del mondo da poi liberamente seguire; altra cosa è che una bolla mass-mediale e “politica”, nel sostituirsi senza pudore alle più elementari verità dei fatti -dato l’accesso privilegiato ai mass-media che la propaganda politica viene oggi ad assumere-, poi pretenda di imporsi “indivisibilmente”, da sovrano e da bene pubblico, alla società intera e nel suo assieme, “verità” di Stato e di regime, alla quale diventa oltremodo impervio sottrarsi.

La formula di legittimazione odierna del potere indossa così le vesti di un estremamente pressante “pungolo” in una determinata direzione, di tal che l’azione rivolta in una direzione difforme affronta la pena della riprovazione sociale, pressione e riprovazione quotidianamente ribadite da mass-media e scuola pubblica, in quanto agenti non segreti della riproduzione continua degli elementi di legittimazione di una qualche formula fondamentale, peraltro sempre pronti e proni a mutare questa stessa all’occorrenza fin dai livelli infimi della classe elementare, o persino della scuola materna, attraverso la vituperabile “educazione civica”, e del tinello di casa, donde orde di massaie muovono per poi ripetere al supermercato le verità rivelate di e da Myrta Merlino, Enrico Mentana e Ditliende Gruber, vale a dire esattamente da coloro i quali Nietzsche più disprezzava, ossia “i giornalisti”; salvo che i giornalisti di Nietzsche si rivolgevano ai semicolti dell’epoca, e si può immaginare quale potesse essere il livello di preparazione di un semicolto del XIX secolo; mentre i giornalisti di oggi si rivolgono ai prodotti della scuola pubblica di oggi, quindi il confronto è impietoso nei nostri confronti.

La propaganda incessante assume i pretesi caratteri di una sorta di “utilitarismo delle regole”, vale a dire indicare “certezze” in grado di minimizzare, dal punto di vista dell’autorità, i costi di informazione e di persuasione, massimizzando il plusvalore della sovranità schmittiano attraverso il “suggerimento” invadente di scelte di default da parte del cittadino-suddito, quindi scelte non consapevoli e del tutto acritiche, di pura “certificazione di conformità” a determinati dettami di comodo, di comodo per il potere, ma poi, in ultima analisi, per lo stesso cittadino, per quanto suo malgrado, il quale a sua volta trova premio nel risparmiarsi i costi della libertà e del dissenso, che peraltro non sarebbero costi intrinseci a una data attività, ma costi imposti e artificiali.

E allora l’istituzione dominante e le sue articolazioni, nel loro essere una combinazione di bene materiale e bene immateriale, si dota di ulteriori elementi immateriali meta-istituzionali, patendo un’ulteriore istituzionalizzazione-sussunzione a un meta-livello superiore, sulla base di una qualche determinata ideologia, che nel nostro mondo assurge rapidamente a bene di consumo, per cui lo Stato-fatto istituzionale mira a sottrarsi alla libertà nella sussunzione assiologica, per la quale le varie interpretazioni a rigore non si escluderebbero l’una l’altra, per imporre quale prevalente una determinata visione, la quale però oggi, si badi, assume spesso come detto carattere prettamente consumistico e occasionale, per cui si alternano forme di politicamente corretto, viene enfatizzata la rilevanza di fenomeni puramente mass-mediatici come le “Sardine”, e un’altra volta ci sarà la necessità di combattere Forza Nuova, o verrà ribadita qualche altra forma di antifassismo, e così via, in rapida e pleonastica successione, tutti “pungolati” dal nudge a pensare in un modo o nell’altro.

Salvo che poi, nelle prospettive della società pienamente tecnologica, e parlo sempre di una tecnologia a direziona accentrata, il “pungolo” assume ben più pregnanti vesti, se, come si è detto, si passa dal semplice sifulo dell’automobile, per il caso che tu non indossi prontamente la cintura di sicurezza, a interi sistemi che semplicemente “non partono” e non funzionano se tu sei considerato un cittadino “illegale”, o anche solo irregolare o eterodosso, con preclusione tecnologica, come ho ricordato, di ogni minima ipotesi di disobbedienza, civile o incivile che sia, ovvero ancora di diritto di resistenza, che vengono materialmente impedite in nome di una nuova meccanizzata forma di sacralità della legge, ma anche del regolamento, della circolare, della policy e di tutto il cosiddetto soft law passato, presente e futuro.

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