di Fabio Massimo Nicosia
Attorno al tema della forza monopolistica, si pone il tema della concorrenza monopolistica nell’ambito dell’immateriale, giacché sussistono ovviamente le forme dell’appropriazione dell’immateriale, e si tratta di forme artificiose, stante che l’immateriale è per natura della cosa soggetta al regime comunista, e posto che comunque la natura della cosa può essere modificata con la tecnologia, consentendo appunto l’appropriazione di ciò che, “per natura”, sarebbe comune, e ciò avviene fisicizzando i supporti, di tal che impadronirsi del supporto significa e comporta l’impadronirsi della res, pur questa essendo incorporale, il che equivarrebbe a divenire proprietario di un immobile o di un’automobile, pagando solo il costo delle chiavi, la sineddoche della parte per il tutto e della golden share, ovvero del “pacchetto di controllo”, per il quale, impadronendoti di un minuto ritaglio di carta, o magari di una mail, tu diventi soggetto dominante di una multinazionale, o della vita di una persona, se quel pezzetto di carta è un’ipoteca, reale e/o metaforica, sui suoi beni vitali.
Ciò vale ad esempio per i
brevetti e, in generale, per i diritti di proprietà intellettuale, i quali
rappresentano un esplicito vulnus per il principio libero-concorrenziale
-giacché, essendo di base il bene immateriale comune, esso è liberamente
attingibile a opera di chiunque- e, quindi, consistono in una norma derogatoria
rispetto al diritto della concorrenza, dato che loro funzione è esattamente di costituire
assegnazioni monopolistiche: di un’idea, di un progetto, di un prodotto
qualsiasi dell’ingegno, i quali, per natura, una volta resi pubblici, diventano
di “pubblico dominio”; sicché, impedire che ciò si verifichi, o precluderne gli
effetti e le “naturali” conseguenze, comporta, per intrinseco, uso della forza
nei confronti dei concorrenti e minaccia dell’uso della forza nei confronti
degli aspiranti tali (pertanto stiamo parlando di esercizio della forza in un
caso di victimless cryme), e quindi ci troviamo di fronte a veri e
propri monopoli legali (che quindi, a rigore, dovrebbero comportare obbligo di
contrattare!).
Quale sarebbe, allora, la
ratio di un simile impedimento, conseguente a quell’assegnazione
monopolistica del diritto di proprietà intellettuale? Si tratta, probabilmente,
di una triplice ratio, che peraltro merita di essere profondamente
riverificata, in quanto rationes in grande parte meramente putative: a)
storica; b) etica; c) utilitaria.
a) Quella storica è
irrefutabile, dato che si riferisce ad avvenimenti effettivamente avvenuti,
ossia il fatto che, a un certo momento, nella dialettica tra principe sovrano e
insorgente capitalismo (o anche in epoche precedenti), il primo riteneva di
assegnare in monopolio di diritto talune produzioni o servizi a qualche
soggetto che percepiva come vicino politicamente; tale vicenda revoca in dubbio
le origini concorrenziali e non legalistiche e monopolistiche di buona parte
del capitalismo moderno, facendo dubitare anche della correttezza di molte
impostazioni marxiane, o, più frequentemente, di marxismo volgare; queste
“patenti” hanno quindi natura concessoria, ponendo in evidenzia la natura del
brevetto e dell’esclusiva nello sfruttamento come privilegio di diritto
pubblico, e non come libera e spontanea
emersione di presunte dinamiche di mercato;
b) La ratio etica,
che si ravvisa ad esempio in un’autrice cantrice dell’individualismo assoluto
come Ayn Rand, salvo poi ella cadere in numerose contraddizioni dati i limiti
culturali, consisterebbe in una sorta di “a ognuno il suo”, nel senso
che i prodotti del proprio ingegno rappresentano l’espressione più alta della
personalità umana, con la conseguenza che i prodotti dell’ingegno vanno
riconosciuti a inventore ed autore, non solo quali diritti morali intrinseci
suoi, ma anche in assegnazione patrimoniale esclusiva; qui siamo di fronte a
una chiara fallacia naturalistica, peraltro piuttosto grave ed evidente, dato
che tale assegnazione non è neutra e indolore, ma comporta, come si è visto,
intervento coattivo dello Stato, o di qualche altra autorità coercitiva, in grado
di esercitare la forza e la violenza sul concorrente o autopropostosi tale; e
allora è su questo che si dovrebbe appuntare la capacità di argomentazione
legittimante di chi condivide le opinioni di Ayn Rand, e non si vorrebbe che si
trattasse di “anti-statalisti”, i quali poi però sono favorevoli a che le forze
di polizia scardinino chiavistelli per sequestrare impianti a non violenti
produttori e fornitori: è questo appunto il profilo morale che ne emerge come
totalmente trascurato. A questo deve essere aggiunta una nota di sano realismo
pratico: vale a dire che, nel mondo di oggi e non in quello dei wishful
thinking, quello dove i sogni son desideri, fermo il diritto morale, ma poi
nei fatti non sempre, la grande parte dei brevetti approvati oggidì sono frutto
dell’invenzione -invero, nella più parte dei casi piuttosto modesta- di lavoratori
dipendenti di multinazionali; salvo che poi i diritti di sfruttamento di
siffatti diritti di proprietà intellettuale vanno alla multinazionale e non al
dipendente inventore, sicché risulta ancora una volta comprovato come la difesa
di diritti liberisti astratti si risolva in tutela del capitalismo reale,
oltretutto, in un caso come questo, fortemente agevolato dallo Stato, in quanto
vale la pena tenere sempre ben presente che stiamo parlando di concessioni di
diritto pubblico;
c) La presunta e altrettanto putativa ratio utilitaria consisterebbe nel convincimento diffuso che, assegnando in monopolio all’inventore i diritti di sfruttamento dell’invenzione, costituendo una controintuitiva enclosure forzosa sul bene infinito immateriale, egli sarà incentivato tanto a inventare, quanto a investire nell’invenzione e nella sua valorizzazione; qui siamo di fronte a un luogo comune e a un pregiudizio, ben radicati, ma altrettanto infondati. Ad esempio, la multinazionale di cui all’esempio precedente, la quale accumula brevetti a migliaia come risulta dagli stati patrimoniali aziendali dei nostri tempi, potrebbe accumulare i brevetti stessi senza farne uso alcuno, magari per scarso interesse o per una questione di allocazione delle risorse nelle curve di indifferenza, al solo scopo, emulativo e parassitario, improntato a criterio di inefficienza deliberata, di impedire ad altri di intraprendere la corrispondente attività; in questo modo si inizia a rispondere alla domanda fondamentale, ossia se l’innovazione sia frutto del monopolio o della concorrenza.
I principi generali della
ragione ci portano a sostenere la tesi del favor per la concorrenza, e
quindi negare i diritti di esclusiva; anzi, diremmo che si tratta di
affermazione autoevidente, ma a quanto pare non per tutti: in effetti, pare
sufficiente rinviare a John Stuart Mill, i cui due lavori On Liberty e Utilitarianism, come ho sostenuto
altre volte, vanno letti insieme, quale opera unitaria sua, dalla quale si
ricava che la libertà è utile iuris et de iure, dacché consente libera
sperimentazione, e che, per ciò solo, favorisce la ricerca, in ogni
ambito, delle soluzioni migliori, instaurandosi concorrenza tra le diverse
ipotesi teoriche e le diverse modalità nell’approccio scientifico e tecnico,
mentre la soluzione monopolistica, di necessità, ne mette a disposizione uno solo
in via esclusiva; naturalmente, questo, se si ricostruisce la nozione
concorrenziale come espressione e manifestazione della libertà dell’uomo e non
come “bene pubblico”, da perseguirsi con artifizi e marchingegni cervellotici,
che sia qualcosa di altro da quella libera ricerca; per contro, il monopolio si
presume inefficiente, sia pure iuris tantum, dato che ammette la prova
contraria, ossia consapevoli di possibili confutazioni particolari sul campo,
sempre che non si tratti di monopolio preclusivo, ma di mero momentaneo
monopolio di fatto, e quindi sempre aperto ai nuovi entranti, i quali in atto
fossero solo latenti; e questo perché la preclusione, il divieto, non
garantisce di per sé alcunché di buono, e anzi favorisce i possessi parassitari
e inefficienti, fondati sulla consueta rendita di posizione. L’idea che solo
assicurando la prospettiva di un monopolio, poi, l’ingegnoso si metta a
ricercare, è idea meschina da non prendere in alcuna considerazione; semmai,
fermo restando il diritto morale al riconoscimento della paternità storica, si
potrà sempre riconoscere in suo capo il diritto a un’indennità, senza mai che
ciò possa comportare divieto per chicchessia a fare altrettanto.
Del resto, l’autentico
principio utilitario non consiste nel promettere meraviglie da una concessione
monopolistica, ma dall’assegnare il bene, o la res, a chi la fa rendere
di più e, in un caso come questo, l’assegnazione non deriverebbe da un atto di
autorità, ma da un’auto-assegnazione, conseguente a un’auto-selezione in quanto
imprenditore dell’innovazione e della buona volontà: i casi parassitari di mera
copiatura, a loro volta, non sono meramente parassitari, anche solo per il
fatto che diffondono l’invenzione al di là delle potenzialità finanziarie
dell’inventore o del suo licenziatario; e poi la replicabilità comporta anche
che ognuno aggiunga del proprio al replicato, con nuovi modelli di utilità, che
non si comprende perché dovrebbero essere preclusi, in nome di un “diritto
dell’inventore”, che, come si è già visto, nella realtà delle cose non esiste,
trattandosi di diritti espropriati dalle multinazionali ai loro dipendenti, con
conseguente uso inefficiente, molto spesso, del bene ablato, e fermo restando
che, in molti casi, si tratta di “invenzioni” di ben poco momento a venir
brevettate, quali la curvatura o no degli angoli dello smartphone: ossia
questioni che non meriterebbero tutte queste discussioni. Va inoltre segnalato
che, in base al diritto della concorrenza vivente, viene sanzionato il titolare
di diritto di proprietà intellettuale, il quale neghi a un concorrente il
diritto di licenza, ogni qualvolta il concorrente sia in grado di dimostrare la
sua capacità di innovazione rispetto all’atteggiamento del titolare originario
del diritto immateriale, il che in definitiva si atteggia alla stregua di una
sorta di deroga al diritto stesso di proprietà intellettuale, vale a
dire un pannicello caldo utilitarista, volto a lenire le inefficienze di un
siffatto diritto monopolistico.
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