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domenica 20 marzo 2022

Diventare proprietario di un immobile, pagando solo il costo della chiave: a proposito dell'inefficienza dei brevetti

 di Fabio Massimo Nicosia

Attorno al tema della forza monopolistica, si pone il tema della concorrenza monopolistica nell’ambito dell’immateriale, giacché sussistono ovviamente le forme dell’appropriazione dell’immateriale, e si tratta di forme artificiose, stante che l’immateriale è per natura della cosa soggetta al regime comunista, e posto che comunque la natura della cosa può essere modificata con la tecnologia, consentendo appunto l’appropriazione di ciò che, “per natura”, sarebbe comune, e ciò avviene fisicizzando i supporti, di tal che impadronirsi del supporto significa e comporta l’impadronirsi della res, pur questa essendo incorporale, il che equivarrebbe a divenire proprietario di un immobile o di un’automobile, pagando solo il costo delle chiavi, la sineddoche della parte per il tutto e della golden share, ovvero del “pacchetto di controllo”, per il quale, impadronendoti di un minuto ritaglio di carta, o magari di una mail, tu diventi soggetto dominante di una multinazionale, o della vita di una persona, se quel pezzetto di carta è un’ipoteca, reale e/o metaforica, sui suoi beni vitali.

Ciò vale ad esempio per i brevetti e, in generale, per i diritti di proprietà intellettuale, i quali rappresentano un esplicito vulnus per il principio libero-concorrenziale -giacché, essendo di base il bene immateriale comune, esso è liberamente attingibile a opera di chiunque- e, quindi, consistono in una norma derogatoria rispetto al diritto della concorrenza, dato che loro funzione è esattamente di costituire assegnazioni monopolistiche: di un’idea, di un progetto, di un prodotto qualsiasi dell’ingegno, i quali, per natura, una volta resi pubblici, diventano di “pubblico dominio”; sicché, impedire che ciò si verifichi, o precluderne gli effetti e le “naturali” conseguenze, comporta, per intrinseco, uso della forza nei confronti dei concorrenti e minaccia dell’uso della forza nei confronti degli aspiranti tali (pertanto stiamo parlando di esercizio della forza in un caso di victimless cryme), e quindi ci troviamo di fronte a veri e propri monopoli legali (che quindi, a rigore, dovrebbero comportare obbligo di contrattare!).

Quale sarebbe, allora, la ratio di un simile impedimento, conseguente a quell’assegnazione monopolistica del diritto di proprietà intellettuale? Si tratta, probabilmente, di una triplice ratio, che peraltro merita di essere profondamente riverificata, in quanto rationes in grande parte meramente putative: a) storica; b) etica; c) utilitaria.

a) Quella storica è irrefutabile, dato che si riferisce ad avvenimenti effettivamente avvenuti, ossia il fatto che, a un certo momento, nella dialettica tra principe sovrano e insorgente capitalismo (o anche in epoche precedenti), il primo riteneva di assegnare in monopolio di diritto talune produzioni o servizi a qualche soggetto che percepiva come vicino politicamente; tale vicenda revoca in dubbio le origini concorrenziali e non legalistiche e monopolistiche di buona parte del capitalismo moderno, facendo dubitare anche della correttezza di molte impostazioni marxiane, o, più frequentemente, di marxismo volgare; queste “patenti” hanno quindi natura concessoria, ponendo in evidenzia la natura del brevetto e dell’esclusiva nello sfruttamento come privilegio di diritto pubblico, e non come  libera e spontanea emersione di presunte dinamiche di mercato;

b) La ratio etica, che si ravvisa ad esempio in un’autrice cantrice dell’individualismo assoluto come Ayn Rand, salvo poi ella cadere in numerose contraddizioni dati i limiti culturali, consisterebbe in una sorta di “a ognuno il suo”, nel senso che i prodotti del proprio ingegno rappresentano l’espressione più alta della personalità umana, con la conseguenza che i prodotti dell’ingegno vanno riconosciuti a inventore ed autore, non solo quali diritti morali intrinseci suoi, ma anche in assegnazione patrimoniale esclusiva; qui siamo di fronte a una chiara fallacia naturalistica, peraltro piuttosto grave ed evidente, dato che tale assegnazione non è neutra e indolore, ma comporta, come si è visto, intervento coattivo dello Stato, o di qualche altra autorità coercitiva, in grado di esercitare la forza e la violenza sul concorrente o autopropostosi tale; e allora è su questo che si dovrebbe appuntare la capacità di argomentazione legittimante di chi condivide le opinioni di Ayn Rand, e non si vorrebbe che si trattasse di “anti-statalisti”, i quali poi però sono favorevoli a che le forze di polizia scardinino chiavistelli per sequestrare impianti a non violenti produttori e fornitori: è questo appunto il profilo morale che ne emerge come totalmente trascurato. A questo deve essere aggiunta una nota di sano realismo pratico: vale a dire che, nel mondo di oggi e non in quello dei wishful thinking, quello dove i sogni son desideri, fermo il diritto morale, ma poi nei fatti non sempre, la grande parte dei brevetti approvati oggidì sono frutto dell’invenzione -invero, nella più parte dei casi piuttosto modesta- di lavoratori dipendenti di multinazionali; salvo che poi i diritti di sfruttamento di siffatti diritti di proprietà intellettuale vanno alla multinazionale e non al dipendente inventore, sicché risulta ancora una volta comprovato come la difesa di diritti liberisti astratti si risolva in tutela del capitalismo reale, oltretutto, in un caso come questo, fortemente agevolato dallo Stato, in quanto vale la pena tenere sempre ben presente che stiamo parlando di concessioni di diritto pubblico;

c) La presunta e altrettanto putativa ratio utilitaria consisterebbe nel convincimento diffuso che, assegnando in monopolio all’inventore i diritti di sfruttamento dell’invenzione, costituendo una controintuitiva enclosure forzosa sul bene infinito immateriale, egli sarà incentivato tanto a inventare, quanto a investire nell’invenzione e nella sua valorizzazione; qui siamo di fronte a un luogo comune e a un pregiudizio, ben radicati, ma altrettanto infondati. Ad esempio, la multinazionale di cui all’esempio precedente, la quale accumula brevetti a migliaia come risulta dagli stati patrimoniali aziendali dei nostri tempi, potrebbe accumulare i brevetti stessi senza farne uso alcuno, magari per scarso interesse o per una questione di allocazione delle risorse nelle curve di indifferenza, al solo scopo, emulativo e parassitario, improntato a criterio di inefficienza deliberata, di impedire ad altri di intraprendere la corrispondente attività; in questo modo si inizia a rispondere alla domanda fondamentale, ossia se l’innovazione sia frutto del monopolio o della concorrenza.

I principi generali della ragione ci portano a sostenere la tesi del favor per la concorrenza, e quindi negare i diritti di esclusiva; anzi, diremmo che si tratta di affermazione autoevidente, ma a quanto pare non per tutti: in effetti, pare sufficiente rinviare a John Stuart Mill, i cui due lavori On Liberty  e Utilitarianism, come ho sostenuto altre volte, vanno letti insieme, quale opera unitaria sua, dalla quale si ricava che la libertà è utile iuris et de iure, dacché consente libera sperimentazione, e che, per ciò solo, favorisce la ricerca, in ogni ambito, delle soluzioni migliori, instaurandosi concorrenza tra le diverse ipotesi teoriche e le diverse modalità nell’approccio scientifico e tecnico, mentre la soluzione monopolistica, di necessità, ne mette a disposizione uno solo in via esclusiva; naturalmente, questo, se si ricostruisce la nozione concorrenziale come espressione e manifestazione della libertà dell’uomo e non come “bene pubblico”, da perseguirsi con artifizi e marchingegni cervellotici, che sia qualcosa di altro da quella libera ricerca; per contro, il monopolio si presume inefficiente, sia pure iuris tantum, dato che ammette la prova contraria, ossia consapevoli di possibili confutazioni particolari sul campo, sempre che non si tratti di monopolio preclusivo, ma di mero momentaneo monopolio di fatto, e quindi sempre aperto ai nuovi entranti, i quali in atto fossero solo latenti; e questo perché la preclusione, il divieto, non garantisce di per sé alcunché di buono, e anzi favorisce i possessi parassitari e inefficienti, fondati sulla consueta rendita di posizione. L’idea che solo assicurando la prospettiva di un monopolio, poi, l’ingegnoso si metta a ricercare, è idea meschina da non prendere in alcuna considerazione; semmai, fermo restando il diritto morale al riconoscimento della paternità storica, si potrà sempre riconoscere in suo capo il diritto a un’indennità, senza mai che ciò possa comportare divieto per chicchessia a fare altrettanto.

Del resto, l’autentico principio utilitario non consiste nel promettere meraviglie da una concessione monopolistica, ma dall’assegnare il bene, o la res, a chi la fa rendere di più e, in un caso come questo, l’assegnazione non deriverebbe da un atto di autorità, ma da un’auto-assegnazione, conseguente a un’auto-selezione in quanto imprenditore dell’innovazione e della buona volontà: i casi parassitari di mera copiatura, a loro volta, non sono meramente parassitari, anche solo per il fatto che diffondono l’invenzione al di là delle potenzialità finanziarie dell’inventore o del suo licenziatario; e poi la replicabilità comporta anche che ognuno aggiunga del proprio al replicato, con nuovi modelli di utilità, che non si comprende perché dovrebbero essere preclusi, in nome di un “diritto dell’inventore”, che, come si è già visto, nella realtà delle cose non esiste, trattandosi di diritti espropriati dalle multinazionali ai loro dipendenti, con conseguente uso inefficiente, molto spesso, del bene ablato, e fermo restando che, in molti casi, si tratta di “invenzioni” di ben poco momento a venir brevettate, quali la curvatura o no degli angoli dello smartphone: ossia questioni che non meriterebbero tutte queste discussioni. Va inoltre segnalato che, in base al diritto della concorrenza vivente, viene sanzionato il titolare di diritto di proprietà intellettuale, il quale neghi a un concorrente il diritto di licenza, ogni qualvolta il concorrente sia in grado di dimostrare la sua capacità di innovazione rispetto all’atteggiamento del titolare originario del diritto immateriale, il che in definitiva si atteggia alla stregua di una sorta di deroga al diritto stesso di proprietà intellettuale, vale a dire un pannicello caldo utilitarista, volto a lenire le inefficienze di un siffatto diritto monopolistico.

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