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martedì 8 marzo 2022

Diritto, addio

di Fabio Massimo Nicosia
Nel mio libro Beati possidentes, uscito nel 2004 e scritto nel 2001, sostenni che il linguaggio giuridico era semplice linguaggio naturale comune che incontrava via via tecnicizzazione, salvo poi constatare il fenomeno inverso, per cui il termine tecnico entra nell'uso normale del linguaggio comune (contratto, assicurazione, etc.).
Allo stesso modo, ho spesso insistito sul fatto che il linguaggio economico è subalterno a quello giuridico, dato che l'economista si occupa immancabilmente di vicende materiali relative all'uso di istituti giuridici, per cui, ad esempio, parlare di "scambi" (come in borsa) significa parlare di "contratti", di "azioni", di "derivati", ossia tutti istituti giuridici, dei quali l'economista studia l'utilizzo concreto in società e nel mercato, per cui anche "mercato" e "concorrenza" diventano termini tecnico-giuridici.
Dicevo anche, in Beati possidentes, da un lato che gli individui "usano" gli istituti giuridici, in quanto questi funzionano come "giochi risolti", vale a dire segnaletica di come risolvere una controversia potenziale, facendo riferimento a inquadramenti già noti, per cui l'istituto giuridico rappresenta una "res", un bene come un altro che appunto si possa utilizzare nella vita.
E però aggiungevo che "ogni individuo pone il suo diritto" nel momento in cui segue un "criterio di azione" nella sua condotta, per cui quella condotta è "giuridica" in quanto sia conforme, o intenda esserlo, a un "criterio razionale", linguisticamente articolabile, di azione (salvo poi discutere se costituisca posizione di diritto anche non seguire alcun criterio o seguire criteri "irrazionali").
Stabilendo che ognuno pone diritto anche solo agendo (sia pure sulla base di criteri linguisticamente articolabili), già però siamo oltre la concezione diffusa del diritto come un che di vincolante, laddove al contrario qui il diritto è puramente "scelto" o liberamente "posto" con il fatto in sé della mera azione, sicché il concetto di diritto si viene a dissolvere, se non attraverso la riconoscibilità di un performativo illocutorio.
A questo punto faccio i conti con la coppia Stirner-Nietzsche, ossia con i due autori che hanno deliberatamente perseguito l'obiettivo della de-istituzionalizzazione della vita umana, ossia della distruzione delle forme, quindi anche di quelle linguistiche giuridicamente anche solo orientate, in nome, forse soprattutto Nietzsche, di una sorta, così l'ho definito ne "Il valore della cosa", di "programma naturalistico", per cui i fatti vitali naturali operano di per sé, in assenza e senza alcun bisogno di mediazioni formali e istituzionali.
Emerge quindi a questo punto alla mia attenzione la polemica nazionalsocialista nei confronti del diritto romano, che porta il progrmma dello NSDAP a porre al punto 19 la richiesta della "sostituzione di un diritto comune tedesco al posto del diritto romano al servizio di un ordine mondiale materialista".
Non si può comprendere bene tale punto se non si conosce la teoria del Volk, della quale tratta il Mosse ne "Le origini culturali del III Reich", ovvero se non si sa nulla dell'uso che i nazisti fecero di Tacito e della sua opera sui Germani, visti come popolo giovane e forte, dagli intensi valori comunitari, che quindi si venivano a contrapporre all'eccessivo formalismo romano, e, soprattutto per i tedeschi, tardo-romano, ossia il diritto romano inquinato dagli apporti lontani dal diritto romano originario, più legato alle consuetudini e, quindi, più gradito ai teorici del Volk, che intendono il diritto come qualcosa di molto vicino a una "morale concretamente ed effettivamente seguita", in termini non distantissimi da quelle che potevano essere le idee di un Savigny o dei Fratelli Grimm, in quanto cultori della antiche saghe.
E' trasparente qui anche una polemica anti-ebraica, ma io direi più anti-sadducea, ossia nei confronti di una forma mentis giuridica estremamente minuziosa e a vantaggio "individualistico" dei "commerci", per cui, come sostenne Marx ne "La questione ebraica", il cristianesimo rappresenta l'ebraismo reso astratto, ma le esigenze della borghesia e della vita pratica hanno resuscitato l'ebraismo nella società civile cristiana, di tal che poi è il diritto ebraico che prevale nella società civile hegeliana, e non quello cristiano, il che suggerisce di approfondire le relazioni, che esistono, tra diritto romano e diritto ebraico, stante anche la commistione mediata dalla classe sacerdotale sadducea, che poi è quella di un Caifa, mica roba da niente nella Storia.
E allora ci viene in soccorso Werner Sombart, quando nei suoi tre volumi su "Gli ebrei e la vita economica", scritto 20 anni prima l'avvento di Hitler al potere, mostra come non vi sia stata innovazione istituzionale, economica e finanziaria in Europa nei secoli che non abbia visto il primato ebraico e del suo know how.
Il presunto primato calvinista di cui parla Weber, infatti, sarebbe solo un abbaglio, posto che i valori calvinisti ai quali fece riferimento Weber, non erano altro che valori ebraici ereditati dai calvinisti.
A questo punto, perché "diritto addio"?
Perché la strada è quella di recuperare quel progetto di de-istituzionalizzazione, e come? Portando al parossismo la istituzionalizzazione, vale a dire sussumendo come forsennati in categorie giuridiche ogni azione umana, moltiplicando gli istituti di scaturigine spontanea, fino a quando il discorso giuridico manifesti totalmente il proprio carattere di pleonastica superfetazione, con il pieno ritorno al linguaggio naturale. 

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