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lunedì 14 marzo 2022

Abusive legittimità e liceità reale dell’illecito

di Fabio Massimo Nicosia

I filosofi da sempre si interrogano sul fatto se esista e, in tal caso, quale sia il “primo principio”, da porre come presupposto di qualsiasi ulteriore indagine filosofica e scientifica, e quindi però anche di regolazione del vivere associato, se la filosofia è immancabilmente, oltre che teologia mascherata, anche filosofia del diritto e della politica, altrimenti si tratta di parole vacue, in quanto non applicabili al vivere reale, che è inevitabilmente, piaccia o non piaccia, vivere intersoggettivo.

Ebbene, a mio avviso, se proprio di primo principio occorre parlare, non può che trattarsi di una negazione, ossia della negazione di qualsiasi formula legittimante un principio qualsiasi di autorità, e quindi di qualsiasi pretesa logico-linguistica, volta a giustificare l’autorità di uomini su uomini, che quindi può aversi semmai solo di fatto, in quanto imposizione materiale, ma mai di diritto, se non nel limite in cui il diritto sia ricostruito come mera norma di riconoscimento del fatto stesso dell’imposizione, senza che un tale riconoscimento di un evento empirico sia mai in grado di fornirne una legittimazione e una giustificazione. Il che quindi delegittima a un tempo il fatto, ma anche l’idea che si possa legittimare il fatto, se non in termini meramente constativi dell’avvento del fatto, che può ben sì essere “spiegato”, ma non mai “giustificato” o legittimato, se non nei termini dell’auto-legittimazione, in quanto il soggetto dominante sia anche in grado di articolare linguisticamente le supposte ragioni del proprio dominio.

Ogni formula di legittimazione rappresenta un’afairesi strategica, e quindi però un abuso, un imbroglio, una frode, un atto linguistico performativo di minaccia velata e di avvertimento mafioso, di pretesa a sottrarsi all’onere della prova e alla messa in discussione di se stessa, la quale ipocritamente mira a porsi al riparo dallo scettico, pena il suo vacillare fortemente in quanto aspirante “principio primo”, e quindi questo volge in “mito”, più o meno immaginifico, più o meno efficace, più o meno accattivante, più o meno truffaldino.

D’altra parte, noi siamo sempre oppressi da un’idea, o comunque il nostro vivere viene di forza associato a un’idea collettiva, alla quale attenerci pena una qualche forma di sanzione sociale, ossia sulla base della suggestione di una violenza, derivante dalle leggi o dai valori sociali alimentati di proposito per indurmi a determinate condotte, sono delle “idee”, delle “parole” a opprimermi, dato che una minaccia può essere sia verbale che simbolica, nella consapevolezza che dietro idee e parole sussistono istituzioni e organizzazioni in grado di implementare con la forza della coercizione quelle idee e quelle parole; ed è l’immanenza di quelle istituzioni e organizzazioni a rendere immediatamente oppressive idee e parole, in quanto il rimando alla violenza è velato, come in una classica intimidazione mafiosa.

In quanto socialmente costituito e funzionale al vivere associato in una qualsiasi forma, il principio primo, volgentesi in formula di legittimazione di un dato sistema storicamente effettivo e vigente, non potrà che essere formula di legittimazione di una modalità del vivere associato, finalizzata alla stabilizzazione di questo, o eventualmente della sua riforma o della sua rimessa in discussione, sempre sotto la formula di accettazione di questa o quella prospettazione di un “bene pubblico”, di un bene sociale primario, che deve essere salvaguardato se, con esso, deve essere salvaguardata una determinata forma del vivere associato, la quale in quella formula di “bene” trova il proprio ubi consistam più o meno condiviso, il proprio concetto, intellegibile o sufficientemente oscuro, al quale riferirsi in ogni atto del proprio vivere, in quanto sussunto per sistema in un concetto che si ritiene debba necessariamente, a un dato superiore livello, essere comune, e persistente anche negli atti minimali della quotidianità, sia pure implicito e non certo sistematicamente proclamato.

Vero è però che la società di oggi, nella sua articolazione pubblico-privato, finisce con il caratterizzarsi, sotto il profilo antropologico, contrariamente a quanto la già attuale tecnologia consentirebbe, come società della riscossione, dato che a questo la tecnologia viene piegata, in attesa che essa trovi la sua invece “giusta” modalità d’uso, che è quella di condurre a una “fase suprema” della gratuità. Nel frattempo, la nostra esistenza di individui e di cittadini è caratterizzata dalla necessità, da parte nostra, di continui adempimenti burocratici, ai quali corrisponde per sistema una corresponsione economica a fronte di una pretesa da parte del soggetto burocratico, con distinzione solo formale ormai tra pubblico e privato: perché una bolletta per un servizio essenziale (luce, gas, telefono) non si distingue di fatto da una tassa, così come va considerata una tassa il pagamento delle risorse essenziali  per la sopravvivenza, come ad esempio il pagare la spesa al supermercato: e alla riscossione del denaro, corrisponde oggi, nell’era digitale, la riscossione permanente dei dati personali, sicché c’è sempre qualcuno, celato da qualche parte, e nemmeno tanto celato, il quale premendo un click possiede il tabulato completo della tua quotidianità, e di tutte le “riscossioni”, alle quali ti sei solertemente sottoposto, al fine di conseguire ciò che ti serve per vivere, sicché la tua vita corrisponde all’assoggettamento a una continua estorsione sistemica; sempre di più, sulla scorta del modello cinese, la cattura dei tuoi dati personali non è solo a titolo commerciale o informalmente conoscitivo, ma proprio per sottoporre la tua esistenza a un vaglio di qualità dal punto di vista dell’autorità, la quale si riserva di revocarti diritti a piacere, il che comporta fuoriuscita definitiva dal modello del costituzionalismo liberale, per entrare nella fase della discrezionalità tecnologica e tecnocratica. E a fronte di ciò si situa la necessità della pena del lavoro per potere fare fronte all’estorsione permanente, per cui di fatto si lavora 24 ore su 24, nel senso che la nostra vita ruota intorno a questo, per pagare tutte quelle “tasse”, materiali e simboliche, e ciò in un mondo economico e tecnologico che ha ormai le potenzialità per fornirci gratis qualsiasi servizio, mentre invece viene piegato all’uso suo opposto, che è quello del controllo, dell’estorsione e della revoca.

La riduzione della vita ad adempimento burocratico permanente, con la conseguenza di trasformare in burocratici, in quanto intermediati dalla sistematica necessità di applicare norme, buona parte dei rapporti umani, ha però ben altro significato a quello del versamento di un corrispettivo per ottenere il diritto di esistenza, ossia quello della totalitaria istituzionalizzazione della vita umana, quello della sconfitta di ogni ipotesi neo-naturalista, o neo-naturista, dato che ciò a cui si assiste è la completa sussunzione dell’essere umano in un sistema giuridico-economico, rappresentato da un connubio sempre più stretto tra il momento dello Stato e quello del grande capitale, che definiamo idiocratico, in cui la veste esteriore “pubblica” e quella “privata” si confondono in un coacervo di istituzioni misto pubblico-privato -e allora occorre ammettere che, anche da questo punto di vista, il modello cinese diviene scolastico-, e che però hanno in comune il fatto di contrapporsi come fronte unitario al cittadino, all’individuo, che ne rimane estraneo, quale impositore unilaterale di prestazioni, di “adempimenti”, a suo carico, per conseguire praticamente tutti i servizi di cui vi è oggi bisogno -bisogni percepiti come tali, anche solo per il fatto che vengono offerti, quando non esplicitamente imposti, e quindi ve n’è bisogno in quanto sono “obbligatori”-, pagando ogni volta il pegno della registrazione in qualche account di un qualche sito internet all’uopo dedicato, con password, pin, spin, spid e tutto quanto il semicoltume tecnologico è oggi in grado di offrirci come graziosa concessione in grado di renderci finalmente “partecipi” di questo sistema, al quale però continuiamo a rimanere estranei, data la barriera che un’istituzione costruisce attorno a una relazione, che cessa di essere quasi sempre inter-personale, per trasformarsi per sistema in rapporto con istituzioni, quando non tra istituzioni, una volta che l’individuo non sia assunto in società quasi più in quanto persona, ma sempre in quanto titolare di una qualche situazione giuridica soggettivata e costruita come gabbia intorno a lui, attribuendogli però allo stesso tempo l’illusione di avere “legittimato” qualche sua pretesa, comprese quelle che non gli sarebbe mai nemmeno venuto in mente di avanzare o anche solo di possedere.

Salvo i cuor-contenti, i quali traggono da ciò ragione di appagamento, in quanto percepiscono di avere “aderito” in pieno a questa società, senza che l’elemento dell’essere sottoposto a controllo e revoca ne scalfisca l’ingenuità di fondo, la quale consente loro di vivere una vita, non “nuda”, ma integralmente procedimentalizzata: sicché ogni atto in sé perfettamente naturale diviene invece fase in un qualche procedimento pubblico-privato, e idiocratico nella duplice accezione, dato che la riduzione dell’uomo a meccanismo burocratico ne determina anche l’istupidimento, con la perdita di creatività e di immaginazione, nella prospettiva di una “singolarità”, nella quale si presume (con molta probabilità infondatamente) che creative e immaginifiche saranno le macchine, e non più l’uomo-procedimento, ridotto a un ruolo ancillare rispetto alle macchine (controllare che funzionino, che sia attaccata la spina alla presa, che non si impallino, ricordarsi di aggiornare i programmi, programmi realizzati si badi bene da altre macchine, e così via).

Anche l’attività produttiva diventa adempimento burocratico, per quanto tecnologico, e la stessa innovazione schumpeteriana diventa routine, nel momento in cui ciascuna multinazionale diventa una fabbrica di migliaia di brevetti, ciascuna monopolizzazione della più banale delle innovazioni di superficie, per cui l’innovazione diventa procedura burocratica, nella quale l’imprenditore è figura assente o evanescente, in quanto sostituito da una burocrazia aziendale, che “inventa” con lo stesso spirito innovatore con il quale si timbra un cartellino.

E in effetti, in un simile quadro, non v’è “contratto sociale”, sostituito da una serie infinita di atti adesivi, che il sistema ti chiede di rilasciare per potere funzionare “legittimamente”, salvo che tu non sei poi nella condizione di non rilasciarli, a meno che tu non sia talmente forte d’animo da poterti dare senza scosse all’eremitaggio; senonché il sistema non si accontenta di quelle “adesioni” burocratiche, ma pretende altresì ch’esse siano entusiastiche, come entusiasta è il protagonista della pubblicità televisiva innanzi a qualsiasi nuovo prodotto, anche il più insignificante.

Tutto ciò in un contesto in cui, al contrario, tutto potrebbe essere gratuito, se non fosse monopolisticamente appropriato dagli estorsori, dato che anche il nostro ozio genera valore per il sistema, persino il nostro “far nulla”, dato che anche il nostro semplice guardare la pubblicità, o il rispondere a un sondaggio, diviene elemento ed alimento del sistema stesso, del suo riprodurre sudditi-consumatori, o, per meglio dire, proprio perché persino dal nostro “far nulla” viene estratto valore, per riprodurre sudditi-prosumatori non remunerati per la loro parte di consumatori immediatamente produttiva, sicché l’idea di Vaneigem, per il quale l’autentico momento dello sfruttamento è rappresentato dall’incolore “vita quotidiana” si riempie oggi di contenuti tecnici, dato che ora sappiamo che quello sfruttamento non presenta un mero significato simbolico e pessimisticamente poetico, ma, al contrario, squisitamente economico; ulteriore conseguenza è di rendere ampiamente superata una certa visione classica, che è tanto liberale, quanto hegelo-marxiana, per la quale, da un lato, avremmo lo Stato quale forma della coercizione e, da un altro lato, la società civile dei rapporti familiari e di mercato, che rappresenterebbe la sede del dispiegamento delle libertà naturali, e ciò per due ragioni: a) la prima, che il modello autoritativo dello Stato è divenuto pervasivo per li rami di tutta la società civile; b) la seconda, che questa, con la sua espressione “mercato”, non ha saputo reagire con adeguati anticorpi a tale pervasività, ma, al contrario, è stata stimolata in una direzione del tutto analoga, ossia figliando essa stessa rigidità burocratiche e ottusità di policy, tal per cui è stato facile definire il “governo dei privati” nei termini di un’idiocrazia, (da idion, privato in greco), sicché, nel modello vitale, Stato e società civile sono divenuti indistinguibili ai nostri occhi e al nostro cuore, inverando quello che un tempo si era soliti definire “il sistema”, nel senso che, alla prova dei fatti, la nostra esistenza si trova di fronte un corpo compatto, che rende poi praticamente impossibile individuare luoghi davvero “liberi”, al riparo dei quali sapersi rifugiare: la tesi libertarian, per la quale lo Stato sarebbe la sfera dell’illecito, mentre il mercato sarebbe la sfera del lecito, ne viene ridicolizzata, non, si badi, dal punto di vista dell’astratta dottrina -anche, stanti comunque le asimmetrie informative e di potere-, ma dal punto di vista pratico, che poi, alla fin fine, è l’unico che conta davvero, in quanto cartina di tornasole ultima della bontà di una dottrina e di una teoria, ossia della loro attitudine a relazionarsi in termini non velleitari con il mondo dei fatti.

La riduzione della vita ad adempimento formale e burocratico, che poi, oggi, è ormai adempimento tecnologico e informatico, finisce con il rivelare quindi la sua natura totalizzante, al di là di una netta ormai impossibile distinzione pubblico/privato, di già evidente a occhio nudo, attraverso la sua pretesa che la tecnologia digitale ci ponga al riparo dall’illecito, ossia del difforme e non riconducibile allo schema, si riveli cioè in grado di eliminare l’atto bollato come illecito dal mondo -senza però nemmeno l’intento di scalfire l’illecito fondativo, consistente nel fatto che il sistema si fonda su di una coercizione originaria del tutto ingiustificata e ingiustificabile in termini morali, ma consistente esclusivamente in un fatto bruto, che poi diviene oggetto di edulcorazione legittimante -, posto che la tecnologia informatica ammette solo adempimenti corretti, e forse anche politicamente corretti, dato che, diversamente, il sistema informatico non funziona, non prosegue nelle proprie procedure, e questo vale sia che tu vada sul sito di Carrefour, sia che tu vada su quello della Questura di Pescara, tanto più che entrambi utilizzano lo stesso irritante linguaggio da piazzista da televisione locale degli anni ‘80.

Ma tale pretesa di soppressione dell’illecito è intrinsecamente patologica e folle, in quanto puramente e semplicemente contro natura, dato che la natura impone che l’essere umano eserciti facoltà naturali, sulla base dell’esercizio del proprio libero arbitrio, tanto lecite, in un qualsiasi senso, quanto illecite, sempre in un’accezione qualsiasi; a questo punto, sarà immaginabile un solo reato o illecito previsto: la manipolazione di sistema informatico, confidandosi nell’hackeraggio quale ultimo baluardo delle libertà naturali dell’essere umano vivente e, quindi, della trasgressione possibile, peraltro riconosciuta solo in capo a chi ne possiede le competenze tecniche; ma una società che pretenda di abolire l’errore, da che punto di vista, poi?, è una società condannata a non progredire e a perire, in quanto cristallizzata nella propria concezione della verità, che poi è la verità del semicolto compagno programmatore, e che può progredire solo in uno con il progredire della programmazione, in tutte le accezioni, salvo che, lo si è appena visto, il programmatore, in tutte le accezioni, è un mediocre e un semicolto.

Vale a dire lo stesso soggetto, il quale, dopo averti prescritto di firmare decine di moduli (digitali) sulla privacy, poi ti intona il famoso adagio: “Se non hai niente da nascondere di che ti preoccupi”, privando totalmente di senso quei moduli, che un senso non l’hanno mai avuto, dato che la loro funzione è sempre stata quella del controinteresse, ossia quella di ledere la tua privacy, costringendoti a pronunciare a favore della lesione il tuo consenso, in assenza del quale il programma non può procedere innanzi.

Che l’illecito sia motore della storia è dimostrato dal fatto che ciascun suo progresso ha sempre rappresentato una rottura istituzionale rispetto al passato, quella rottura che la tecnologia dei semicolti vorrebbe precludere, o assegnare esclusivamente al potere in atto, il quale attraverso la tecnologia può determinare esattamente quelle rotture istituzionali, ma pro domo sua, in quanto detiene le leve monopolistiche della gestione centralizzata della tecnologia; e infatti in tal modo impedisce che altri possano introdurre nuovi “illeciti”, vale a dire nuove formule di legittimazione alternative agli illeciti fondanti attuali, che possono essere riprodotti attraverso nuovi illeciti solo dai poteri già costituiti, e quindi già autorizzati e auto-legittimati a commettere nuovi e rinnovati illeciti, ovviamente sempre in nome di qualche neo-configurato interesse pubblico o bene pubblico, che sempre “prevale” su quello privato, quando si tratta del privato nostro, e non però del privato del soggetto dominante, dato che questi è in grado di argomentare la surrettizia coincidenza tra il suo interesse personale e quello comune, di tal che potrà astutamente proclamare, come al punto 24 del programma dello NSDAP, “Il bene della comunità prima del bene dell'individuo”, principio che, mentre scrivo, risulta nei fatti, e nelle declamazioni stentoree e retoriche, condiviso da tutte le forze progressiste che sostengono il governo dei migliori, radicali compresi.

Eppure, il proprium e il bello delle civiltà occidentale-liberale è sempre stato esattamente il diritto all'illecito, e quindi il diritto ad agire in ispregio all’affermato “bene comune”, anche perché nemmeno è sempre chiaro quando si tratti di illecito e non, ad esempio, di mera assunzione di un rischio imprenditoriale, come fu nel caso dell’emissione di certificati monetari superiori all’oro depositato presso il banco dell’orafo, come avveniva nella Londra del XVI secolo, il che, a dispetto di quanto pensano Rothbard e i suoi seguaci, deve ritenersi perfettamente lecito, posto che, trattandosi di bene fungibile, esso entra nella piena disponibilità del depositario irregolare, al quale poi compete di farsi carico dell’obbligazione di restituzione del tantundem eiusdem generis, senza che su di lui gravi alcun obbligo di non uso dell’oro depositato, il che i rothbardiani invece credono per semplice ignoranza dei principi del diritto.

A ben vedere, la società del controllo e dell’adempimento informatico usa come strumento di legittimazione del proprio potere penetrante e pervasivo l’affermazione totalizzante della pretesa all’eliminazione di qualsiasi rischio di fuoriuscita dai margini del sistema, nella doppia accezione, attraverso un’esasperata invocazione e applicazione del principio di precauzione, di tal che tutto ciò che comporti “attività pericolosa” (ad esempio, l’utilizzo di un’automobile degli anni ’50 o ’60) viene posto fuori legge e oggetto di disciplina minuziosa, il che vale tanto come strumento totalizzante di controllo sulle attività umane, quanto come pretesto per costringere a sempre nuove spese e nuovi costi-adempimento, quali acquistare automobili o apparati nuovi, ristrutturare di continuo impianti energetici e così via, in modo da assicurare il mantenimento a spese del cittadino e del contribuente “adempiemente” e costretto all’adempimento dell’apparato industriale e produttivo tutelato dallo Stato, al quale compete di fissare sempre nuove regole in grado di tenere in vita artificiosamente quel sistema produttivo in nome del perpetuo adeguamento a sempre nuovi standards di qualità, vera o presunta.

 

E invece l’ormai antico sistema liberale, non solo nel caso di attività pericolose, sul presupposto che rischio e pericolo implicano progresso, miglioramento, o quantomeno utile sperimentazione, ma anche in quella di aperto illecito vero e proprio ha sempre trattato il “reo” come titolare di una qualche quota di diritto o di interesse legittimo, meritevole di piena o ampia tutela, dato il presupposto laico che il reo non sia il “cattivo”, ma il semplice trasgressore di una norma di diritto positivo, in ultima analisi sempre opinabile nei fondamenti morali e di giustizia sostanziale, ai limiti del relativismo e dell’aperto scetticismo, di tal che, chissà, forse anche uccidere un proprio simile non può considerarsi in assoluto, o non in termini assolutamente certi, un male in quanto tale, sempre e comunque, pur quando il diritto sostanziale vigente sia inflessibile al riguardo, ma, si badi, quasi mai lo è il diritto processuale, in quanto comunque sede di “garanzie”.

 

D’altra parte, non di rado si ha la sensazione che una norma di divieto sia prevista come indicazione di che cosa debba o possa essere violato, salvo aggiungere “a proprio rischio e pericolo”, ad esempio se il prezzo-sanzione non è eccessivamente elevato, e d’altra parte un divieto non nascerebbe in società se una determinata condotta non fosse adottata nei fatti, sicché il divieto si accompagna di regola a una comprensione umana in ordine all’inevitabilità dell’illecito, dell’illecito in quanto fatto del tutto ordinario; e quindi un atto è tanto più oggetto di divieto o di disciplina, quanto più sia noto che esso sia effettivamente commesso in società, diversamente  nessuno si preoccuperebbe di vietarlo o di disciplinarlo, dato che non giungerebbe all’attenzione di nessuno. E, allo stesso modo, molte innovazioni, ad esempio di carattere commerciale o finanziario, in origine, o erano illecite, o erano ignorate, salvo che al loro emergere sorge sempre qualcuno a dire che si tratta di atto illecito o da proibire, ugualmente a come avviene o è avvenuto per determinate “droghe”, ossia sostanze da sempre esistenti in natura, e che improvvisamente qualcuno scopre trattarsi di prodotto “cattivo” della natura, e che quindi deve essere messo fuori legge.

Del resto, per il Talmud si può trasgredire qualsiasi precetto della Torah, salvo alcuni primari, se si è sotto minaccia, ma ciò significa che lo stato di necessità, dal punto di vista normativo, è gerarchicamente superiore a qualsiasi precetto, la necessitas prevale sulla legge, e allora è la brutalità del fatto naturale a prevalere per definizione alla legge, se il fatto naturale è costrittivo, e la legge a esso è costretta a inchinarsi, per cui è legge che la legge non prevale in termini assoluti, mai, e quindi, a ben vedere, nemmeno la norma per la quale necessitas facit legem, nulla fa davvero legge, salvo che necessitas facit licitum quod alias non este licitum, ma poiché la sussistenza di uno stato di necessità dipende totalmente dal giudizio soggettivo dell’interessato, opera lo stato di necessità putativo, e quindi la pura anarchia giuridica è legge, dato che ognuno è arbitro della sua propria necessità, ivi compresa, paradossalmente, la necessità di attenersi alla legge, magari però non alla legge scritta, ma a una qualche legge, percepita come di ordine superiore.

Un metodo per rendere lecito l’illecito è un accorto uso della nozione di eccezione, che può essere a tal punto esteso dal giungere ad erodere la regola eccepita, sicché questa viene ridotta a enunciazione pressoché retorica, quanto più le eccezioni sono numerose o interpretate estensivamente, ma ferma restando l’esigenza di facciata di salvaguardare la norma fondamentale; ad esempio, si magnificano le doti della libera concorrenza, in quanto avente effetto e scopo di garantire il principio di libertà sub specie di libera iniziativa economica, di libera scelta del consumatore, di libertà di scelta dello stesso collaboratore, nel garantire più chance di creatività, ricerca e innovazione tecnologica, in quanto virtuale “sistema di gara” permanente e dinamico, in grado, si suppone, di mantenere bassi i prezzi e meno onerose le altre condizioni contrattuali, di garantire una certa distribuzione del reddito dal monopolista fino all’ultimo concorrente entrante: in generale, si tratta sempre di valori afferenti la libertà, in quanto “concorrenza” significa sminuzzamento del potere, sua distribuzione verticale e orizzontale, e però anche, nella dottrina, benessere e reddito diffusi; e tuttavia, tutti questi pregi, e quindi lo stesso principio di libertà sotteso, possono essere ignorati una volta che si faccia entrare in campo la superiore e genericissima nozione di efficienza, salvo che poi questa, “norma gerarchicamente superiore”, opera in quanto sia dimostrata, ma è ovvio che tale dimostrazione è sempre totalmente opinabile e opinata, di tal che poi essa stessa assurge a “necessità”, in grado di derogare a un principio inteso in linea generale primario, e tuttavia non inderogabile, come è capitato nell’”emergenza covid”, in cui le esigenze necessitate hanno consentito all’Unione Europea di invocare le ragioni del “coordinamento” in deroga quindi a un principio di concorrenza intransigentemente inteso, con la conseguenza che l’”emergenza”, come di consueto, finisce con l’autorizzare concentrazioni di potere anche sotto questo punto di vista, e quindi funziona quasi sempre come pretesto, ove il potere di disporre “eccezioni” non sia di ciascuno, in quanto espressione della sovranità morale dell’individuo, ma di una ben precisa autorità: d’altra parte, ben vediamo come l’”innovazione tecnologica” poi si ritorca contro il “consumatore”, che qui rileva però in quanto cittadino soggetto al controllo di siffatta “innovazione”, o comunque soggetto al semicoltismo informatico e tutto quel che ne consegue, ivi compresa la tendenza alla standardizzazione, affidata all’intelligenza artificiale, di regole e prezzi, naturalmente a vantaggio di chi possiede la tecnologia, e quindi finisce con l’essere in grado di fissare regole e prezzi in modo totalmente unilaterale.

Il principio di eccezione può assumere varie forme, sempre in nome di una qualche sorta di relativismo morale, e ciò può funzionare nelle due direzioni, quanto in quella dell’autorità, come si è appena visto, quanto in quella della libertà, ove l’eccezione sia all’esercizio dell’autorità e non, come nel caso precedente, a quello della libertà; e allora avremo il classico “stato di eccezione” schmittiano e agambeniano, quello per cui, posto che, contra Kelsen, diritto e Stato essendo due concetti diversi, lo stato di eccezione nega il diritto, riportando tutti allo stato di natura nell’accezione di Hobbes, ma certo non nega lo Stato, anzi, lo rafforza proprio nel momento in cui lo priva del “fardello” di dovere (dovere morale e non giuridico, nella misura in cui non sia effettivamente enforceable) rispettare il diritto, dato che in quello stato di natura vince il più forte senza tanti infingimenti; ma poi, trattando di “eccezioni”, ci troveremo anche di fronte allo sforzo di attenuare le rigidità kantiane sugli universali morali, per cui obbligo di dire la verità e di mantenere le promesse sarebbero per definizione indefettibili, quando solo un fanatico potrebbe davvero ritenerli obblighi incondizionati e ineccepibili.

Ma il punto è che, se lo Stato non ha bisogno di stati di eccezione per essere intrinsecamente illegittimo e abusivo, dato che un potere abusa per definizione e per natura, l’abuso rappresenta allora un concetto generalizzato tanto nel pubblico, quanto nel privato, tal per il quale abbiamo poi l’abuso del diritto, l’abuso di posizione dominante, l’abuso del potere come forma generale, perché se così non fosse dovremmo ritenere che la dialettica tra norma scritta e azione umana si risolva a vantaggio della prima, il che è insensato, dato che va escluso che la declamazione di una parola, per quanto ben articolata, possa annientare l’autonomia sovrana della seconda, che non è perimetrabile e contenibile a priori da alcuna verbalizzazione scritta, ma evidentemente nemmeno pronunciata, non funzionando all’uopo nemmeno il giuramento, giacché poi uno può giurare qualcosa pubblicamente, e il suo opposto in foro interno, e tanto più quanto più una personalità sia strategica, come strategiche sono di necessità le personalità, le quali siano poste o auto-poste in condizione di esercitare un qualsiasi potere di supremazia.

E infatti noi abbiamo visto come in occasione della cosiddetta “pandemia”, entità fasulla ed esteriore, di facciata, dichiarata dall’OMS solo perché erano in scadenza i relativi derivati finanziari, in Italia si è proceduto passando da eccezione in eccezione, pur in assenza di alcuna norma scritta in costituzione sullo stato di eccezione, e ben pochi hanno avuto da eccepire, dato che la facoltà di “eccezione” è stata di fatto ritenuta immanente a un ordinamento purchessia, a riprova della normalità dell’illecito, pur se a suo sostegno sia necessario invocare una supposta necessità e l’eccezionalità presunta di una situazione, salvo che chi possiede il potere di una tale invocazione è sovrano nel qualificare una situazione, e approfitta con facilità dell’assenza di opposizioni e di resistenze adeguate, assenza che evidentemente si radica su ragioni antropologiche e culturali di una certa rilevanza.

Il nostro tema, qui, è quindi quello della normalità dell’illecito; tant’è che, in altre epoche, lo stesso codice penale venne subito letto come Magna Charta del delinquente, come concessione al delinquente del diritto a essere in qualche misura tale, attraverso le famose “garanzie” processuali, oltre che con i limiti posti alla potestà punitiva, che sono le garanzie della sua coscienza; ivi compresa la libera scelta di delinquere, il che è del tutto conforme al precetto religioso del riconoscimento del libero arbitrio, come libertà di scegliere tra il “bene” e il “male”, dato che non sarebbe concepibile libero arbitrio in assenza del male, o, meglio della nostra propensione al male, posto che scegliere tra un bene e un altro bene è troppo facile e troppo comodo, e del resto il male è solo la mano sinistra di Dio, dice la Cabala, e la vera Legge scritta è invisibile alla percezione umana, bisogna guardare negli spazi bianchi tra le macchie nere delle parole; la “cattiva inclinazione”, dice il Talmud, è tanto importante quanto la buona, quella che poi nella vita reale mostra tutto il suo portato auto-lesionistico, dato che, in assenza di cattiva inclinazione, nessuno costruirebbe la propria casa, nessuno intraprenderebbe un’attività commerciale, sicché questo nostro lato cattivo è in realtà a sua volta buono, dato che da tale pulsione vitale, anche distruttiva verso l’esterno, poi deriva la nostra sopravvivenza, senza tanti complimenti.

E in effetti, io stesso, in quanto uomo di chiesa e ministro di culto dovrei essere giusnaturalista -e del resto faccio mia l’invettiva di Isaia, quando maledice i fautori delle leggi ingiuste-, e tuttavia ho elaborato nel tempo, esattamente a partire dalle mie complesse esperienze mistiche, una dottrina della “facoltà naturale”, che è totalmente non moralizzata, se non addirittura immoralista, perché Dio, anzi, la Dea, non distingue tra bene e male, per Lei, e allora ti sfida per vedere se osi essere come Lei ed esercitare la qualsiasi facoltà naturale, e allora “lecito” va inteso in senso etimologico, vale a dire che è lecita qualsiasi licenza, è libertà fare tutto ciò che piace (libere); sicché Nietzsche diceva che l'uomo, per raggiungere il superuomo, deve superare la morale, ma ciò è corretto, dato che la moralucccia piccolo-borghese non si attaglia alla divinità, e allora?, la divinità è un modello anche per l’Uomo, oppure no?

Del resto, come insegna la dottrina del peccato originale, solo commettendo un illecito -ossia disobbedendo- si apprende la distinzione tra ciò che è bene e ciò che male, anzi, la si costituisce, in assenza di che male e bene non si possono distinguere, ma l’atto costitutivo, singolarmente, viene assegnato al male, senza il quale non esisterebbe ex negativo e a contrariis il bene, ma nemmeno il consesso sociale, che si fonda, in quanto secolarizzato, su di un atto di trasgressione, costitutivo della distinzione tra bene e male; fuori di che, in termini stranamente positivistici, l’obbedienza a qualsiasi comando, anche il più assurdo dal nostro punto di vista, è lecito -ogni comando della natura è lecito in termini del tutto non moralizzati-, non in quanto “bene”, ma in quanto né-bene-né-male, e quindi comunque permesso (lecito); che è però anche come dire che Maria, in quanto supposta priva di peccato originale, si colloca a sua volta al di là del bene e del male e tutto le è concesso, come tutto è concesso a Dio, al quale non si attaglia affatto la banale distinzione umana tra ciò che è bene e ciò che è male: ed ecco allora che il “male”, ossia l’atto illecito, si prende la rivincita, trovando ampio spazio nei rapporti umani -di tal che l’illecito è istituto giuridico produttivo e non disproduttivo, a volte per chi lo compie, a volte per chi lo subisce, quando questi riesce a ottenere risarcimento-, anzi, giungendo a pervadere qualsiasi formula di legittimazione dell’autorità, in quanto autorità “illecita” e fraudolenta nell’elaborazione della propria auto-legittimazione, eppure effettiva “al di là del bene e del male”, fondando così il carattere non moralizzato della scienza politica da Machiavelli in poi, salvo constatare quanto il Guicciardini sia più “moralista” di quanto non si pensi comunemente.

Ma se l’illecito costituito, rappresentato da una data situazione sociale, è assunto come basilare e normale a partire dalla spiegazione, che ne fornirebbe il  peccato originale, il quale segna la società umana come fondata su un atto illecito, un abuso, al quale si può rimediare solo fondando a sua volta illecitamente la società umana, rileva il fatto che l’illecito è sempre relativo a un dato ordinamento; per cui, ad esempio, sarebbe illecita la disobbedienza al monopolio divino della capacità di tenere le mani sul bene e sul male, salvo che in tal modo si decade dalla precedente situazione, nella quale, come in Dio, nemmeno tra gli uomini c’era la distinzione tra bene e male -diritto di fare il male-, forse perché però il male nemmeno veniva commesso, e quindi non se ne aveva contezza, mentre conoscendolo lo si compie, a meno che non sia male fittizio, ossia non lesivo e puramente moralistico, ossia di tipo puramente proibizionistico.

Il male, come si è detto, svolge la funzione fondamentale di argomentare la sussistenza del libero arbitrio, ma ciò può anche apparire un controsenso, e sostenersi semmai il contrario: potrebbe essere il libero arbitrio a giustificare il (compimento del) male, e però, in quanto possa essere “liberamente” scelto, esso cessa di essere male in quanto pacificamente ammesso. Il suo essere male è “relativo”, ossia dal punto di vista di chi lo patisce, nel senso che subisce un danno, e da qui, ossia dal bruto interesse leso, o dall’interesse morale e psicologico leso, nasce il senso dell’ingiustizia, in quanto il male subito è sempre percepito e inteso come ingiusto per sé, in quanto si tende a generalizzare il proprio sentimento, si ritiene di essere autorizzati a rivendicare risarcimento, ove la società tenda effettivamente a condividere per simiglianza ed empatia il tuo senso del male subito, dal che deriva l’universalizzazione del relativo concetto, e così l’istituzionalizzazione dell’istituto risarcitorio.

Se l’uomo nasce già gravato da un peccato originale, ciò significa che nasce con innato un diritto di risarcimento speculare, altrettanto originale, stante il principio di ambivalenza, per cui al peccato corrisponde -stante che non esiste un chiaro obbligato esterno al risarcimento- un diritto al libero conio, quale rimedio imperfetto alla sottrazione all’età aurea del comunismo originario, quello di cui parla Virgilio nella Quarta Egloga delle Bucoliche; e allora l’automazione, nelle prospettazioni moderne di comunismo dell’abbondanza, valgono quale invocazione di un ritorno all’età dell’oro, come punto di arrivo di un percorso in circolo dall’eterno ritorno, progredendo tecnologicamente, a quando il lavoro non era punto necessario. E infatti, stante l’imperfezione umana, il comunismo originario evidentemente fallisce, venendo sostituito e/o integrato da un sistema fondato sulla proprietà privata; senonché, visto che gli scambi tra proprietari -peraltro le azioni umane prevedono la presenza connaturata di una capacità di scambio, indipendentemente dalla presenza di beni materiali da scambiare, dato che si scambiano anche beni immateriali, concetti, valori, dialoghi e opinioni- richiedono moneta, o moneta nel senso più lato, e ognuno, in quanto ognuno è gravato di peccato, è legittimato a emettere moneta: l’età del ferro nasce con la monopolizzazione, e quindi con la sottrazione, di tale diritto, e quindi ancora con la privazione del diritto attivo di auto-risarcimento, rendendo attuale il principio di risarcimento quale sorta reale di second best.

Il principio di risarcimento correlato all’illecito vale a determinare una ricomposizione sociale attraverso la riparazione e anche il “perdono”, ma subordinandosi il perdono a un riconoscimento del danno arrecato, e quindi alla reintegrazione dell’illecito in società attraverso la sua mercatizzazione e monetizzazione. Ma se alla base del dominio vi è una formula politica di legittimazione abusiva, ciò deve comportare risarcimento ai cittadini governati, salvo che ciò disvelerebbe l’imbroglio, e quindi vanificherebbe la formula di legittimazione, che quindi, per vigere, è destinata a rimanere abusiva ed esente da risarcimento, altrimenti si metterebbe in discussione il diritto di comandare. Il potere abusante vive di atti emulativi, dato che la loro funzione non è produttiva, ma di mera caratterizzazione simbolica di una supremazia.

L’idea hohfeldiana, per la quale a un diritto debba corrispondere un obbligo, non è immediatamente intuitiva, dato che, nella normalità della vita quotidiana, al diritto di A può benissimo corrispondere il diritto di B e non il suo obbligo: se viene in mente che debba corrispondere un obbligo è perché si ha sistematicamente in mente lo sfondo di uno scenario in qualche misura illecito, che quindi richiede restrizione e/o restituzione, per cui si assume che B, o possa commettere un illecito verso A, o l’abbia già commesso, e quindi si trova in condizione di obbligazione risarcitoria, che poi è la lotta per la scarsità di Hobbes, quindi siamo sempre in ambito “peccato originale”, ossia nell’ambito di una situazione sociale umana data immancabilmente e irrimediabilmente come profondamente imperfetta. D’altra parte, i due diritti che si fronteggiano possono entrare in conflitto, ma ciò non significa che allora uno dei due diritti si trasformi in obbligo rispetto al contrapposto diritto, semplicemente abbiamo due diritti in conflitto che cercano una soluzione al conflitto, come forse può intendersi lo stesso “scambio di pretese” in Bruno Leoni; ma non sta scritto in nessun luogo che la soluzione debba stare nel fatto che una parte si debba obbligare nei confronti dell’altra, a meno che non riceva un indennizzo di efficienza secondo il criterio di Kaldor-Hicks, ma allora si ricade nella logica dello scambio e non in quella dell’imposizione unilaterale: dimodoché può anche ovviamente capitare, ad esempio in una relazione contrattuale, che da una parte stia obbligo e dall’altra pretesa di diritto, salvo che ciò, in una simile relazione, è reciproco, dato che ciò vale per ambedue le parti coinvolte, il che può anche essere inteso come coppia di risarcimenti, ovvero coppia di compensazioni o indennizzi per avere proceduto a una trasgressione a un divieto, vale a dire il divieto alla “bella pretesa” di star pretendendo qualcosa dall’altro!

 

D’altra parte, i divieti vanno a loro volta intesi anche come esenzioni da responsabilità, dato che vietare a un farmacista di vendere un farmaco pericoloso significa anche esentare il farmacista stesso dalla responsabilità per il caso che il farmaco produca danni, sicché l’esenzione opera se il farmacista ha rispettato il divieto. Del resto anche la moneta si fonda su di uno scambio iniquo, dato che, da una parte, abbiamo un soggetto che cede il proprio lavoro o i frutti del proprio lavoro, mentre dall’altra abbiamo uno che, in cambio, ti fornisce nulla più che un simbolo evanescente, che in fondo è sempre un future e rappresenta una mera spes, il che sarebbe a sua volta illecito per cattivo sinallagma, sarebbe estorsione e minaccia, se tu stai rilasciando la tua fatica in cambio di qualcosa che nemmeno si sa se valga davvero qualcosa, se non sulla base di un’aspettativa che può anche essere illusoria e fallace. Il libero conio è quindi paradossalmente una libertà in sé innocua, se la moneta si fonda totalmente sull’opinione, tal per cui, riconoscendoti tale libertà, ti sto attribuendo esclusivamente la semplice libertà di dotare gli altri della facoltà di farsi un’opinione su di te e sulla tua cavolo di moneta; non succede che tu, in tal modo, possa creare dal nulla il bene reale direttamente, ma solo appunto la spes di ottenere in futuro un bene reale, sempre che tu sia in grado di persuadere l’altro a cederti, in cambio del tuo prodotto simbolico e virtuale, nientedimeno che i frutti del suo lavoro, o del lavoro di qualcuno, o anche del prodotto di un macchinario.

La sfida morale sta dunque semmai nell’intelligenza, nella razionalità e nella convenienza, di tal che uno magari scopre che cooperare con gli altri e non aggredirli conviene, e quindi la questione diventa di teoria dei giochi, se tu cooperi, in quanto propenso a simili scambi, ma l'altro preferisce invece applicare la massima maoiana “bastona il cane che affoga”, in pratica un dilemma del prigioniero: ma nessuna religione prescrive di cooperare con chi ti bastona, dato che anche “porgere l'altra guancia” è una forma di disobbedienza, di atto a sua volta ai limiti dell’illecito, quantomeno di quello consuetudinario, il cui scopo scandaloso è di “disorientare l'interlocutore”, e non va intesa come una forma di sottomissione. Da tutto ciò ricavo che razionalità e convenienza impongono però di abbandonare il paradigma di Hobbes, duplice paradigma fondato su: a) principio di scarsità delle risorse, per il quale le relazioni umane sono dure contese per accaparrarsi le risorse supposte scarse, e quindi ribadirò come si tratti di operare nella direzione dell'abbondanza; b) principio per il quale l’inevitabile associazionismo umano comporti sacrificio di libertà, ma anche di risorse, paradigma che va superato con quello “Ci si associa per guadagnarci e non per rimetterci”, come ho già più volte proposto con il mio innovativo istituto dei common trust, il che è a sua volta percepito come fatto trasgressivo dai tradizionalisti e dai classicisti, dato che in effetti si tratta di un salto di paradigma e quindi, in termini kuhniani, di una rivoluzione scientifica.

Il tutto quando ormai da secoli la stessa affermazione che ciascuno è innocente fino a prova contraria implica una quota di diritto a compiere illeciti e a non essere scoperti, quindi una quota di diritto a essere trasgressivo non solo rispetto a costumi e consuetudini, ma financo alle più sacrali leggi scritte, giacché il principio vale anche per il più tremendo dei criminali, visto che è l’inquisitore a dovere dimostrare la colpa, la responsabilità, almeno in linea di principio, sicché responsabilità non dimostrata non esiste, tutto è rimesso alle forme, al gioco processuale, nel quale la parte che ha “torto” nella sostanza può vincere, dato che non v’è alcuna seria pretesa a che la verità storica sia provata, e tutto si riduce a un gioco di scacchi; tant’è che si rimedia a questo con le forme brutali della carcerazione preventiva, dove tutto recupera “discrezionalità” e le guarentigie tendono a sfumare, dato che il sistema rivendica la propria rivincita da “doppio Stato”, quello delle regole, da un lato, e quello bruto, dall’altro, premendo di volta in volta acceleratore e freno sull’uno o sull’altro.

Ma che nell’occidente liberale il colpevole può avere il diritto di legittimità dalla propria lo hanno insegnato al colto e all’inclita i telefilm di Perry Mason già in tempi ormai lontani, e del resto è noto che al cinema la gente fa il tifo per il criminale, giacché proietta su di lui la propria voglia di trasgressione alle regole sociali, per altro verso introiettate. L'idea che la legge debba sempre trionfare è invece totalitaria, ed è favorita dalla tecnologia, che non lascia scampo, dato che devi compilare tutti i riquadri, anche in senso metaforico, secondo una logica “sadducea”, che è quella del tecnico informatico semicolto, però, e non certo quella del giurista, che sa distinguere tra il rilevante e l’irrilevante, mentre per il semicolto informatico, corrispondente all’antico “cretino cognitivo”, tutto è rilevante in egual modo.

A tale cretino semicolto, ben “inserito” nel sistema, del quale condivide in toto i valori di conformità -nello stesso senso in cui oggi ogni prodotto possiede il suo bravo “certificato di conformità”-, io sono in grado di contrapporre il mio “Ebbene sì, ho qualcosa da nascondere, per questo non ti voglio tra le balle, non voglio te e la tua tecnologia di merda a controllarmi”, perché è falso che la libertà sia il diritto di fare ciò che le leggi mi permettono, come diceva Montesquieu, dato che le tue leggi sai bene dove puoi ficcartele.

 

La libertà di commettere illeciti è quindi consustanziale a un sistema liberale, dato che l'abolizione dell'illecito può albergare solo nel capo di Davigo, quello per il quale non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti, o di Pol Pot, per il quale è da sopprimere chiunque costituisca ostacolo al suo progetto sociale ispirato al bene, non nelle persone ragionevoli e razionali. A questo punto emerge con chiarezza come il digitalizzare l'universo mondo sia una minaccia fondamentale al sistema liberal-democratico, dato che sfuggire alle cosiddette "regole", anche alle più assurde o stupide, diventa puramente e semplicemente impossibile, tanto dalle regole del pubblico, quanto dalle idiote “policy aziendali”, quelle messe in scena con maestria da Michael Douglas in “Un giorno di ordinaria follia”, dato che di fronte a uno che pronuncia la locuzione “policy aziendale” puoi rispondere solo con una raffica di mitra.

 

In effetti, la pretesa a che non si possa sfuggire dalle regole, che è il sogno dell’informatico di regime e l’incubo per ciascuno di noi che si rifà alla vecchia e grande tradizione, sottintende l'assurda presunzione che le regole siano tutte perfette e impeccabili, e che il loro rispetto sia sempre preferibile alla benché minima trasgressione, il che non si dà in natura. Pensiamo ai disastri che farà l'automobile senza pilota, ossia il pilota più ottuso nell'applicazione del codice stradale che si possa immaginare, come se il rispetto del codice stradale fosse un valore morale supremo e non una mera indicazione di massima da vagliare caso per caso con razionalità e buon senso, giacché non si tratta di essere vacuamente “contro la tecnologia”, ma di essere contro la tecnologia imposta dagli idioti e dai semicolti, e semmai andare alla ricerca di una tecnologia diffusa e autogovernata.

 

Parlo dunque di “diritto all'illecito”, dato che il sistema delle garanzie, costituzionali e penali, che sono il proprium del sistema occidentale-liberale classico (ossia tutta roba che si vuole sia passata ampiamente di moda), non distingue tra “innocenti” (figura inesistente nel mondo degli uomini) e “colpevoli” (laicamente tali dal punto di vista del diritto, per quanto il termine sia comunque criticabile): anche il colpevole gode di un diritto o, se si vuole, di un interesse legittimo a tutelare la sua colpevolezza, dato che anche il colpevole gode in toto di identiche garanzie, anche perché formalmente non si sarà mai certi di tale “colpevolezza”, posto che qualsiasi sentenza di condanna è sempre aperta alla revocazione e alla revisione, il che in ultima analisi comporta appunto il riconoscimento astratto di quel “diritto all'illecito”.

 

Che anche il colpevole sia tutelato è dimostrato dal fatto che a scuola si insegna anche che non è lecito chiamare "ladro" il "ladro", e quindi il ladro è tutelato altresì nella sua dignità e nella sua reputazione di ladro. Alla base di tutto questo si colloca anche un altro concetto, ossia che si dà per scontato che le leggi siano imperfette, e quindi chi le viola non è un paria della società: al contrario, potrebbe avere ragione e il fatto di violare le leggi potrebbe anche essere un merito, ad esempio venire riconosciuto a posteriori  come un merito storico: un negoziante che non richieda il green pass per accedere ai suoi locali, ad esempio, verrà ricordato in futuro come un legittimo resistente alla follia oggi dominante e al ritardo mentale dei più che incontriamo per la via, mascherinati persino allorché isolati e nei boschi.

 

Il problema che emerge è semmai un altro, ossia che si persegue un modello, nel quale non richiedere il green pass sia reso addirittura impossibile, in cui sia negato il libero arbitrio di scegliere se rispettare o trasgredire la legge, perché la trasgressione viene resa, tecnologicamente, puramente e semplicemente impossibile tecnicamente; anzi, di più: si va verso un sistema in cui si viene sanzionati pur non commettendo alcun illecito, ad esempio se sei critico verso il potere costituito, il che non viene formalmente reso illecito, ma sottoposto a un qualche discrezionale “clic”, che di fatto ti blocca l’esistenza, per cui non puoi ottenere fidi, non puoi prendere il treno o l'aereo, e così via.Il green pass attuale già segue la stessa logica, dato che il suo meccanismo funziona sanzionando comportamenti considerati leciti, non illeciti, e tuttavia, se non si soddisfano determinati oneri, ad esempio vaccinarsi con i vaccini stabiliti dal potere, ugualmente il tuo atto lecito ti viene impedito, attraverso questo passaggio dalla logica dell’obbligo a quella dell’onere; e ciò in ulteriore evoluzione anticipatrici rispetto a un modello in cui, stante il sistema tecnologico, diventa puramente e semplicemente impossibile la disobbedienza civile, impossibile materialmente, perché il conto corrente ti viene bloccato, l'automobile senza pilota non si mette in moto, l'internet delle cose blocca i meccanismi di funzionamento dei tuoi utensili, come minacciato in Canada il tuo sistema assicurativo viene annullato, e così via. Quindi ripeto che non vado conducendo una perorazione contro la tecnologia, ma contro il suo controllo unilaterale da parte di questi poteri autoritari, che confidano nel fatto di potere diventare, in nome della tecnologia, sempre più autoritari, e che vedono la singolare convergenza delle élites tecnocratiche, in questo momento malamente rappresentate dal mediocre e sopravvalutato Draghi, di sindacalisti (Landini, Cofferati) e di sinistre ritardate (Letta, Speranza, Bersani), tanto per stare alle cose piccole nostrane; già, perché la politica altro non è che attività volta a proporre o imporre esattamente distinzioni tra ciò che è lecito e ciò che non lo è o non lo sarebbe, costituendo in un senso o nell’altro afairesi sussuntoree su condotte e interazioni, per le quali taluna diviene oggetto di un’assegnazione costitutiva al novero del consentito e altra a quello del vietato o, per meglio dire, del sanzionato o, meglio ancora, del minacciato di sanzione; per cui avremo forze politiche, le quali, a vantaggio dei propri sostenitori, intendono allargare il novero del lecito in qualche ambito e dell’illecito in qualche altro, e il viceversa altre forze politiche, pur nella consapevolezza che, in assenza di idonei strumenti tecnologici di enforcement, tutto ciò resta in buona parte nel perimetro del simbolico-espressivo: l’antiproibizionista puro, il quale trasferisca in toto ogni azione e interazione nell’ambito del lecito non esiste, mentre sussistono in grande numero i “regolamentatori”, che sono coloro i quali meglio danno il senso alla loro propria esistenza e alla loro pleonastica mercede in quanto “regolamentatori” di professione, ossia soggetti auto-incaricati di individuare minuziosi criteri di ammissibilità o di preclusione di questa o quella azione entro determinati limiti, spesso destinati a rimanere lettera morta, salvo che non si tratti di prescrizioni minuziose richieste da determinate categorie o lobbies, o negoziate con esse, tal per cui è loro interesse che quelle prescrizioni siano rispettate, con la conseguenza che non le “istituzioni”, ma quelle stesse categorie interessate si attivino per la loro effettiva implementazione.

 

Il fatto che non tutti gli illeciti fossero fino a ora perseguiti è stata una scelta deliberata (si veda negli USA il sistema dell'azione penale non obbligatoria, ma negoziata), e massimamente opportuna e desiderabile, proprio come contrappeso alla mania “regolamentatoria” o proibizionista, talché che io in passato ho intessuto l’elogio, prima ancora che della disobbedienza civile, di quella che ho chiamato “disobbedienza incivile”, intesa come falsificazione sul campo dell’inadeguatezza della pretesa normativa del legislatore. Il discorso sulla tecnologia, sull'informatizzazione e sul digitale, si staglia invece per il fatto che, anche indipendentemente da un autentico intento autoritario, si rivelano comunque sistemi demenziali, dato che demenziale è il loro scopo, oltre che consapevolmente autoritario, di rendere inderogabili le regole, tutte le regole, senza alcuna distinzione e discriminazione, che sia fondata sulla loro ragionevolezza e desiderabilità. Siffatta tecnologizzazione non rappresenta quindi, ipocritamente, una mera efficientazione del sistema, ma un salto di qualità, ossia essa comporta che si passi a un altro e ben diverso sistema, molto peggiore in quanto fondato su premesse irrazionali e irragionevoli, e l'irrazionalità consiste nella violazione del riconosciuto principio di sociologia del diritto, per il quale che non tutte le regole siano applicate è addirittura opportuno, sul presupposto logico che l'applicazione indiscriminata di tutte le regole determina esiti inefficienti (si veda il caso dello sciopero bianco, che consiste nel procurare deliberatamente danni applicando deliberatamente tutte le regole alla lettera). Con la digitalizzazione, il sistema passa dunque da liberale a tecno-fascista, con l'aggravante che mentre le leggi una volta le facevano Giustiniano, Baldo degli Ubaldi o Alfredo Rocco financo, oggi la tecnologia è il prodotto di una classe di “tecnici” la cui dote maggiore è di essere dei semicolti privi di alcuna vision, che non sia lo stupido e mediocre funzionamento della loro “macchina”.

 

Ma questo lo vediamo ogni giorno, quando dobbiamo fare degli adempimenti informatici e ci scontriamo con l'immanente idiozia del tecnico semicolto che ha programmato il "processo", lo vediamo quando dobbiamo mettere una password dietro l'altra per garantire noi stessi da noi stessi. Per cui siamo indotti a pensare che questa sia “la tecnologia”, mentre si tratta solo della tecnologia degli idioti dell'idiocrazia. Superato questo elemento, che potrebbe essere considerato di colore, resta la sostanza, ossia il carattere distopico di un sistema nel quale nulla sfugge al sistema (informatico), sempre in nome del principio già ridicolizzato, per il quale “se non hai nulla da nascondere, ma di che mai ti preoccupi?". E quindi arrivano le folli ipotesi di abolizione del contante, motivate dalla necessità di combattere l'illegalità, o addirittura, con il massimo dell’ipocrisia, di renderci la vita più comoda, come propose, raccogliendo molte adesioni, un idiota al congresso di Radicali Italiani del 2015, assorbito dal delirio tardo-pannelliano, per il quale occorreva “legalizzare” e “regolamentare” tutto, compreso ciò che era già totalmente libero; il che vi appare ancor più folle, una volta compreso come una quota di 'illegalita' nel sistema sia un pregio e non un difetto, in quanto fonte di rimedio e di contrappeso all'inevitabile imperfezione della legge, che non di rado è “imperfezione” grave e deliberata. Il problema di fondo è infatti quello del carattere distopico di un sistema inevitabilmente imperfetto che, però, guarda caso, funzioni “perfettamente”, però solo dal suo punto di vista.

 

Eppure, spesso l’illecito è funzionale alla sopravvivenza stessa di un sistema di potere, per quanto questo si caratterizzi per la sua arretratezza dal punto di vista della razionalità. Ad esempio, i vigili urbani fanno carriera in base a quante multe irroghino, e si tratta di un caso di inefficienza deliberata, dato che efficienza non è massimizzare gli illeciti, ma semmai fare sì che non si compiano, a meno appunto di non ammetterne l’inevitabilità. Ma c’è di più: l’illecito può essere addirittura alimentato quale fonte di profitto, come nel caso delle carceri privati americane, il cui meccanismo, fondato sul micidiale mix repressione-profitto commisurato sull’entità della repressione, non fa che alimentare la corruzione dei giudici, finalizzata al conseguimento di sempre più condanne; o la corruzione dei parlamentari, finalizzata a ottenere sempre più leggi che introducano nuovi reati o incrementino le pene: creare illeciti ad arte diventa conveniente per qualcuno, l’illecito come motore dell’economia, come certuni, i quali si gettano sotto le automobili, al brillante scopo di  lucrare sulle assicurazioni: si ha bisogno di creare ex nihilo un fatto illecito per potere lucrare “in conformità alla legge”, a tacere ovviamente delle economie fondate sulla proibizione, che prosperano perché, evidentemente, quelle condotte proibite sono diffuse e anelate: prostituzione, droghe e, in certi luoghi, pornografia, ma con il paradosso che, da un certo punto di vista, l’illegalità avvantaggia; ad esempio, l’attività illegale non è soggetta a imposizione fiscale, laddove tassare diviene una strategia di legalizzazione, così come sta avvenendo da noi per la prostituzione, mentre i cartelli della droga ovviamente continuano a non pagare imposte, per quanto poi debbano sopportare significativi costi di autotutela, dato che sono privi di quel “servizio di legittimazione”, che poi è la funzione fondamentale dello Stato con riferimento agli interessi più importanti, e che poi giustifica, dal suo punto di vista, la pretesa alla riscossione fiscale.

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