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lunedì 21 febbraio 2022

L'afairesi monetaria tra monopolio e libero conio

 di Fabio Massimo Nicosia

Il discorso sull’afairesi nell’economia e del valore va iniziato affrontando il tema monetario in alcuni suoi presupposti filosofici. Andrà sottolineato come una teoria immaterialistica del valore della moneta, quale quella propugnata da Auriti, che di per sé già è “intersoggettiva”, conduca de plano al libero conio, al di là delle intenzioni dell’autore, nel momento in cui il valore monetario è oggetto di un giudizio soggettivo di valore, e ancor più nel momento in cui la reputazione personale divenga oggetto di giudizio di valore, al di fuori di qualsiasi elemento fisico o materiale, salvo ipotizzare che a ogni giudizio reputazionale debba o possa accompagnarsi una qualche sorta di servizio assicurativo da parte di terzi in ordine agli effettivi livelli reputazionali socialmente riscontrati.

Dove Auriti sbaglia è però nel sottovalutare l’elemento materiale del virtuale, che non è mai del tutto assente, quantomeno sul piano simbolico; esiste cioè un elemento simbolico, che però appartiene alla sfera del materiale e non del virtuale o del convenzionale, o quantomeno anche del materiale, ovvero ancora del simbolico che il materiale esprime, con la conseguenza che non ci si può fermare ad acclarare il simbolo, dato che occorre accedere al materiale retrostante il simbolo, dato che dietro ogni munus si situa sempre un imperium. In termini più specifici, anche la moneta convenzionale, in ipotesi non rappresentativa di alcunché e a costo nullo, è in senso lato sempre anche moneta-merce, giacché si dà sempre un qualche elemento “forza” dietro una moneta, sia essa monopolista o a libero conio, giacché nel primo caso avremmo l’immanenza della forza promanante dallo Stato -che peraltro si esprime nella concretissima materialità del suo territorio, del suo demanio, oltre che delle sue forze armate-, mentre nel secondo avremo una qualche capacità persuasiva del singolo, di tal che la convenzione si appunta non tanto sul simbolo, quanto sul riconoscimento che quella forza immanente risulta oggetto di una qualche autorizzazione sociale, che è quanto serve a ingenerare fiducia nel prenditore, e che nel caso del singolo si esprime nel carattere di forza nella persuasività della sua reputazione, o in quella di un gruppo associato, per la sua capacità, anche in prospettiva futura, di fornire servizi, che si presume apprezzati dal mercato: in definitiva, si dà fiducia a una moneta a costo nullo e a valore intrinseco zero, perché si è consapevoli dell’esistenza di una forza a essa retrostante, e in questo senso quella forza può trattarsi alla stregua di “merce”, nel momento in cui quella forza, in termini di Public Choice, assume, oltre che rilevanza politica nel mercato, valenza economica direttamente, una volta stabilito che anche la forza è un fattore costitutivo della vicenda economica, e a questo punto la stessa reputazione diventa un elemento di forza (anche se non propriamente di “violenza”) economica.

Allo stesso modo, il primo uomo finanziariamente intelligente non fu chi sostituì al mercato un bene con la relativa certificazione, ma chi ebbe l’intuizione di sostituire il bene con certificazioni di quote del bene stesso, rendendo divisibile l’indivisibile, e creando così la prima società per azioni per conto terzi, vale a dire costituendo un gruppo associato finalizzato non alla mera conservazione protettiva, ma all’arricchimento produttivo, il che non esclude che possa avere recato seco persino l’elemento dell’autotutela congiunta e condivisa di tale comunione finanziaria disgiuntiva. La possibilità di a) certificare b) quotizzare qualsiasi bene risulta uno strumento di espansione monetaria particolarmente efficiente, in quanto comunque non arbitrario, ma ancorato a retrostanti reali e certi, sicché la quantità di moneta in circolazione corrisponde sistematicamente in automatico alle potenzialità dell’economia, senza alcuna necessità dell’esercizio di poteri arbitrari, discrezionali o di discrezionalità tecnica, tutti esposti ampiamente all’errore, tanto nella sovraestimazione, quanto nella sottovalutazione delle esigenze monetarie del mercato. Chi ha sostenuto, come il libertarian Hülsmann, che la moneta “naturale” nasce come elemento terzo di intermediazione, per la quale, non potendo ragguagliare la mela alla sedia, e non potendo tagliare a fette la sedia, allora si ragguagliano sedia e mela a un terzo bene, solito esempio, l’oro o altro metallo, introducendo un passaggio in più,   è incorso in un grave abbaglio, non si dice storico, il che è inverificabile, ma certamente logico, dato che il ragguaglio diretto sedia-mela è perfettamente configurabile, giacché non si tratta di tagliare la sedia in legnetti, ma di quotizzarla virtualmente, di tal che le parti possano dire immediatamente quante quote di sedia valga una mela; per quanto il ragguaglio a un meta-livello virtuale tra tutti i beni sia operato dal mercato -oltre che dalla logica matematica-, il quale, attraverso un imperturbato sistema dei prezzi, fornisce il giudizio sociale sul valore condiviso, per quanto non cogente, ma meramente d’abito e d’uso, di mela e sedia, di modo che le rispettive certificazioni operino come un confronto tra monete-credito, che però sono sempre riconducibili per implicito a una non detta unità di conto superiore e universale: non è affatto certo, dunque, che la moneta-credito sia un sottoderivato della moneta-merce, e non piuttosto l’unico modo per inverare davvero nella pratica l’ipotesi empirica della moneta-merce, una volta che i presunti deputati a essere tali (oro e argento) si rivelano inadeguati alle esigenze del mercato, data la loro rarità o scarsità; con l’ulteriore vantaggio che la moneta-certificato può atteggiarsi anche come certificato di bene futuro, ma quindi anche di servizio futuro, e quindi ancora della propria capacità lavorativa o produttiva, pur quando non ancora esercitata o espressa, e quindi ancora in perfetta aderenza alle potenzialità in prospettiva di un’economia: anche in tal caso, quindi, anche in tal caso di derivato o future, un retrostante, se pur labile, è sempre presente.

Quel che qui però interessa in generale sottolineare per chiudere il cerchio del discorso è che anche la fiat money  ha un “retrostante”, e si tratta, nel caso della moneta monopolistica, della forza dello Stato, al quale le banche centrali sono comunque in ultima analisi riconducibili, e si tratta di forza tanto simbolica e astratta, quanto materiale, riferibile al territorio, al demanio e al preteso monopolio della forza; mentre nel caso della moneta diffusa si tratta della credibilità e della reputazione dell’emittente, e quindi in ultima analisi della sua forza sociale e del suo potere di mercato; emerge così un potente elemento afairetico, nel momento in cui, confondendosi materiale e virtuale, fisico e simbolico, i “due corpi del re” fanno sì che il mentale innervi l’empirico, con la conseguenza che nella moneta i due momenti finiscono con il rivelarsi indistinguibili. In effetti, sempre Hülsmann se la prende con la cartamoneta -quella apparentemente priva di alcun retrostante o riserva-, in quanto essa sarebbe pressoché per definizione frutto della coercizione dello Stato, ma questo va individuato come fatto contingente della storia, e non essenziale o definitorio, per quanto evidentemente furono gli Stati, o le banche centrali a essi connesse, a possedere la forza sufficiente a farle valere come corso legale e appunto forzoso (vale a dire senza facoltà di convertibilità); ma il passaggio da moneta creditizia a cartamoneta non è rappresentato da una cesura, ma da continuum, per cui si passa dall’uno all’altro attraverso il meccanismo della riserva frazionaria, il quale sorge viceversa come fenomeno di mercato (gli orafi di Londra del XVII secolo, ma già prima i banchi italiani); Hülsmann dice “purtroppo nemmeno la libera concorrenza garantisce dagli abusi, anche se su minore scala”, ma siamo sicuri che si tratti davvero di un abuso? In effetti, a prescindere dalla constatazione che tale abuso ha svolto una funzione essenziale nella storia dell’economia, immettendo nel mercato quantitativi più adeguati rispetto a quanto di moneta avrebbe consentito l’infondata fissazione aurea o metallica, va pur precisato che la riserva frazionaria poteva comunque perfettamente funzionare, nel senso che l’andare in overbooking quanto all’emissione di certificati -ossia rilasciare certificati in valore nominale superiore rispetto alle riserve depositate- opera in quanto fenomeno statistico, vale a dire confidando che saranno sempre comunque presenti riserve sufficienti a soddisfare la domanda di ritiro delle riserve dal banco: in tal caso, non solo non si verifica nessuna disfunzione, ma l’esito è perfettamente efficiente, in quanto la moneta circolante sarà adeguata alla domanda di moneta, la quale sarebbe stata viceversa insoddisfatta nel caso contrario: e questo non per uno strano paradosso, per il quale il male funziona, l’abuso funziona, dato che quell’overbooking e quel fenomeno statistico sono legittimati giuridicamente dal fatto che ci troviamo di fronte a un bene fungibile, soggetto quindi a deposito irregolare e non regolare, vale a dire che la proprietà della riserva passa nelle mani del banco, mentre a suo carico grava una mera obbligazione, a fronte del diritto di credito del depositante, il quale acquisisce il diritto a conseguire, non il bene specifico depositato, ma il tantundem eiusdem generis, sicché, statisticamente parlando, l’importante è che sia soddisfatta l’obbligazione al momento della richiesta, non che il bene depositato resti depositato specificamente individuato.

E poi perché, semmai, avrebbe dovuto essere considerata abusiva una situazione di scarsità imposta dalla fissazione aurea, la quale ha avuto infiniti motivi culturali, antropologici e mitici per perdurare, ma ciò non significa affatto che tali motivi fossero anche davvero razionali; del resto, non si comprende per quale strana ragione la moneta in circolazione dovrebbe dipendere non da ragioni collegate alle esigenze dell’economia -che si accompagnano al principio di diritto per il quale non esiste il numerus clausus dei negozi giuridici-, ma dal numero delle miniere esistenti e dalla loro capacità estrattiva.


1 commento:

  1. Mi scusi Nicosia lei tralascia un particolare non di poco conto che e'il monopolio ebraico di tutta l'economia e di tutti i media
    Poi se cita auriti e 'meglio che si guardi prima questo video digiti " auriti ebrei video"

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