di Fabio Massimo Nicosia
Quanto Marx espone ne Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte con riferimento alle vicende storiche, che hanno condotto alla formazione progressiva dello Stato, a partire dal medioevo fino ad arrivare all’avvento e all’affermarsi di Napoleone Bonaparte, mira a evidenziare con nettezza una continuità concettuale tra l’idea di proprietà privata e l’istituzione statuale. Anzi, più propriamente tra lo stesso concetto aziendalistico, già allora, e quello statale, evidenziando le analogie sotto il profilo dell’accentramento organizzativo, parlando di lavoro diviso e centralizzato nello Stato “come in un’officina”.
Questo processo di accentramento è proseguito via via attraverso le signorie, e il trasferirsi dei privilegi signorili allo Stato burocratico, oggetto di un progressivo accentramento, passando per la Rivoluzione Francese e poi appunto fino a Napoleone; il quale, del resto, è l’autore memorabile di un codice civile, nel quale la proprietà privata è intesa come ius abutendi, oltre che come ius utendi, e quel “diritto di abusare” Napoleone rivendicò per sé anche nella sua veste di dominus dello Stato; diritto di abusare che è proprio della proprietà privata intesa in un certo modo, ma che non dovrebbe essere proprio di uno Stato, il quale si assoggetti ai principi del costituzionalismo, dato che questo segna i limiti dell’esercizio legittimo del potere, dichiarandosi intenzionato esattamente a prevenire gli abusi del potere, che, riconosce Marx, possano venirsi a determinare proprio dall’invocazione di un “interesse generale”, che si affermi più elevato di qualsiasi interesse particolare o locale, così come, al contrario, nello Stato patrimoniale erano propri del sovrano assoluto, questa volta non in nome di un interesse generale più o meno contrassegnato in senso rousseauiano, ma in quanto interesse del sovrano in quanto tale e, quindi, semmai, presunto coincidente con quello “generale”, senza poi che questo sia davvero teorizzato esplicitamente, ma solo per implicito.
Va detto peraltro a questo punto, che quanto Marx, nel manifesto, intesse l’elogio storico della borghesia in quanto progressiva, e in quanto capace di realizzare grandiosità ben superiori alle piramidi egizie, non si deve pensare che egli stia attribuendo siffatta capacità di realizzazione al “mercato capitalistico”, quanto più esattamente allo “Stato borghese”, che è altro dall’idea di mercato, e che viceversa presuppone la messa in campo di tutto quel potere granitico che è dello Stato e non del mercato, indipendentemente poi dal fatto che si tratti di Stato “borghese”, per quanto tale attributo finisce poi con il concentrare quelle realizzazioni in determinati ambiti “produttivi”, e non appunto sul corrispondente delle piramidi; e così ferrovie, strade, infrastrutture in generale, che non rappresentavano esito di mercato, ma appunto di Stato, sia pure di uno Stato attento agli interessi della borghesia in quanto classe, ma in quanto classe capace, al di là delle intenzioni, di realizzare un interesse in qualche misura “generale”, e così realizzava ferrovie, strade e infrastrutture, e non cose futili o superflue, ponendo in tale modo ante litteram la questione della capacità o del fallimento del mercato in assenza ipotetica di Stato di realizzare i famosi “beni pubblici”, tema sul quale Marx poi tornerà nei Grundrisse, notando come forse un giorno la borghesia sarebbe arrivata a realizzare direttamente i beni pubblici, addirittura prescindendo dall’intervento statuale, e così preconizzando nientedimeno che l’anarco-capitalismo come ipotesi empirica realistica; salvo poi constatare il suo piegarsi all’accettazione dello Stato, quantomeno per la realizzazione delle grandi infrastrutture delle quali il mercato abbisognerebbe senza essere in grado di fornirle, sicché poi l’anarco-capitalismo ripiega, riconoscendo il proprio fallimento, o la propria convenienza in quest’altra direzione, nello Stato privato e nell’idiocrazia, vale a dire nel cartello dei grandi privati, non però limitati al cartello para-nozickiano della “protezione”, ma al cartello consolidato, ben più redditizio, di tutte le opere e di tutti i servizi.
In realtà, a ben vedere, Marx manifesta una certa ingenuità nel trattare il tema dello Stato, il che lo porta a conclusioni tutto sommato superficiali e imperfette, per quanto ciò possa essere in parte scusato dal fatto che, a quel tempo, lo Stato stesso non aveva ancora assunto quella piena fisionomia di fornitore tendenzialmente generalizzato di “servizi” quale poi si è dimostrato, il che ne occultava ai suoi occhi tanto il suo carattere di autentico giocatore autonomo -da Marx notato solo in parte, e in modo insufficiente-, quanto il suo essere soggetto squisitamente “economico”, sfuggendo a Marx tale elemento sotto il duplice profilo del suo essere gestore del demanio, capitale fondamentale ed essenziale ad ogni ulteriore insediamento infrastrutturale, produttivo e urbanistico, e del suo essere appunto fornitore di beni e servizi “pubblici”.
E così risulta sorprendente l’aggressività liberal-libertaria, che Marx utilizza ne La guerra civile in Francia, per demolire ai nostri occhi l’immagine dello Stato, salvo che tali parole, per molti versi perfette, rappresentano strali rivolti non già allo “Stato” in quanto tale, ma allo Stato come storicamente determinatosi nel percorso sopra indicato, e culminato nello Stato napoleonico e, dunque, “borghese”; per cui parrebbe che “lo Stato borghese” presenti tutti i difetti tipici dello Stato, ma, forse, lo “Stato proletario”, che pure sarebbe di mera transizione al comunismo della fase suprema e, quindi, della società senza Stato, non è mai chiaro perché non dovrebbe presentare i medesimi difetti.
E così, scrive Marx, quell’”apparato statale centralizzato, con i suoi organi militari, burocratici, clericali e giudiziari, onnipresenti e macchinosi che rinserrano (avvolgono) il corpo vivo della società civile come un boa conscrictor, fu dapprima forgiato ai tempi della monarchia assoluta come arma della nascente società moderna nella sua lotta per emanciparsi dal feudalesimo. I privilegi feudali dei signori, delle città e del clero dell’epoca medioevale furono trasformati in attributi di un potere statale unificato. Quest’ultimo sostituì i dignitari feudali con dei funzionari statali stipendiati; tolse le armi ai servitori medioevali dei proprietari fondiari e delle corporazioni di città per darle ad un esercito permanente; sostituì all’anarchia variopina (eterogenea) delle potenze medioevali in conflitto la struttura ordinata di un potere statale, con una sistematica e gerarchica divisione del lavoro. La prima Rivoluzione francese, che aveva per compito di fondare l’unità nazionale (creare una nazione) dovette spezzare tutte le autonomie locali, territoriali, urbane e provinciali. Proseguendo l’opera della monarchia assoluta, fu dunque costretta a sviluppare la centralizzazione e l’organizzazione del potere statale, ad allargarne l’ambito e le funzioni, ad aumentare il numero dei suoi strumenti, ad accrescere la sua indipendenza e il suo ascendente soprannaturale sulla società reale…
Questa (escrescenza) parassitaria trapiantata sulla società civile, di cui pretendeva di essere la riproduzione ideale, raggiunse il suo pieno sviluppo sotto il regno del primo Bonaparte. La Restaurazione e la Monarchia di Luglio vi aggiunsero solo una più grande divisione del lavoro: questa cresceva nella misura in cui la divisione del lavoro nella società civile creava nuovi gruppi di interessi e, di conseguenza, nuovi pretesti all’intervento dello Stato… Tutte le rivoluzioni ebbero dunque come unica conseguenza di perfezionare l’apparato statale, invece di respingere questo incubo soffocante… La sua funzione essenziale consisteva nel creare immensi eserciti permanenti, un brulichio di canagliume di Stato e enormi debiti pubblici”.
Ora, questo “Stato parassita”, rispetto al quale, a detta di Marx, la Comune di Parigi avrebbe rappresentato una risposta alternativa, favorendo la lotta di classe nello stesso momento in cui la raffigurazione del paese nei termini di una pluralità di comunalità l’avesse eventualmente in un momento successivo radicata al livello decentrato, “spezzando via l’opera nefasta e improduttiva dei parassiti di Stato”, non è del tutto chiaro in quali termini possa lasciare poi immacolate, pur in presenza di uno Stato già allora descritto in termini così pervasivi, la cosiddetta ”azione spontanea delle leggi naturali del capitale e della proprietà spontanea”; come se il ramificarsi e il radicarsi dello Stato nella società civile, con il suo ampliamento di funzioni e di burocrazia parassitaria, non esercitasse poi una qualche influenza distorcente sul mercato, che in Marx riemerge sempre come concetto cristallizzato, pur a fronte di uno Stato in continua espansione, sfuggendogli così -e in ciò consiste l’accennata ingenuità- le interferenze e le collusioni, che inevitabilmente si vengono poi a determinare tra quello Stato ramificato e pervasivo e le forze del mercato, che Marx invece continua a vedere come intonse, anzi, strutturali e dominanti rispetto allo Stato, che resta mero “Stato borghese”, quindi esclusivamente volto alla tutela degli interessi di classe, pur quando il ragionamento di Marx aveva preso le mosse esattamente da un concetto diverso e in parte opposto, ossia che questo Stato parassitario avvolge la società civile, e quindi il mercato, come un “boa constrictor”: e allora possibile che, a fronte di tale strangolamento, poi la società civile e il mercato rimangano concettualmente imperturbati, e non meritino piuttosto una redifinizione, che tenga conto di questa integrazione verticale, per utilizzare il linguaggio del diritto della concorrenza, tra questo Stato e questa società civile?
Tant’è che poi noi invece vediamo come, da noi, fascismo prima, democrazia repubblicana di conseguenza dopo, e sistema idiocratico-privatistico in fieri abbiano realizzato e realizzino invece proprio, in vari modi, quell’integrazione tra Stato, società civile e mercato, che Marx a quel tempo non era riuscito a mettere perfettamente a fuoco.
Il che consente a Marx di continuare a illudersi che la “dittatura del proletariato” -salvo poi non avere approfondito che cosa comporti esattamente la sua versione “decentrata”, vagheggiata in occasione dell’analisi della Comune di Parigi-, che controintuitivamente sarebbe immune da questa ramificazione e da questa pervasività, possa poi comportare nella fase suprema estinzione del diritto e dello Stato -due concetti peraltro tra loro molto diversi-, come nella Critica del programma di Gotha, e quindi l’abbandono, con il superamento del conflitto di classe, del “politico” in ogni sua accezione, in nome della mera amministrazione delle cose, che peraltro in “Gotha” continua a essere mediata da un “collettivo”, da una “società”, vale a dire termini indeterminati, i quali poi, alla fine, non fanno che riproporre uno Stato sotto mentite spoglie; con la conseguenza che, a questo punto, la fuoriuscita dal “politico”, o è una menzogna o un’illusione, o è imposta d’autorità da quel “collettivo” e da quella “società” -la stessa che dovrà intermediare i “biglietti di lavoro” per la sopravvivenza, consentendo l’accesso alle risorse fondamentali necessarie a ciascuno-, i quali poi in definitiva dimostrano di non possedere alcuna attrattiva e di non essere per nulla desiderabili. Del resto, Galvano della Volpe è chiaro nel riconoscere che, in Marx, nemmeno nella società pienamente comunista viene davvero meno lo Stato, o quantomeno considera ciò molto “dubbio”.
Poiché di un autore, il quale, come Marx, era così inserito nella lotta politica e delle idee del presente, occorre tenere in considerazione anche la sua psicologia di uomo, oltre che del suo essere “uomo politico”; vale a dire che Marx si trovò a dovere mediare tra un certo lascito statalista, e quindi poi Lassalle, e gli anarchici, a cui doveva pur contendere seguaci, e però il suo stesso cuore batteva in modo contraddittorio all’interno delle due diverse e opposte pulsioni.
Nessun commento:
Posta un commento