di Fabio Massimo Nicosia
Se l’economico si fonda sul considerare giusto ciò che conviene, mentre l’etico indica come conveniente ciò che sia giusto, la confluenza dei due fattori o approcci avviene in nome di una superiore razionalità cooperativa, per la quale ciò che è giusto diventa anche conveniente economicamente, dato che le massimizzazioni meramente egoistiche e defettive finiscono con l’apparire, nel giudizio previsionale, come autolesionistiche e autodistruttive, sicché l’egoismo intelligente del momento economico confluisce con la necessità della considerazione dell’altro in quanto investimento a lungo o medio termine, e quindi vantaggiosa anche in senso stretto economico.
Si noti che qui l’imperialismo dell’economia si
afferma spostando l’economia fuori dall’economico e chiamando economico ciò che
non lo è, almeno tradizionalmente, in quanto diviene economica ogni sensazione
provata dal soggetto, sicché viene a determinarsi l’imperialistica equazione
tra sensazione ed economia, il che trova sempre però la scappatoia
giustificativa nel considerare suscettibile la sensazione di calcolo monetario,
il che viene agevolato a sua volta dall’estendere il concetto stesso di
monetario anche alla non-moneta (reputazione, etc.), sicche’ l’economico
diviene una vicenda puramente psichica e psicologica, estesa a qualsiasi
giudizio di favorevole e vantaggioso o sfavorevole o svantaggioso, si trattasse
pure di un giudizio estetico, oltre che etico. il giudizio altrui puo’
ritenersi sempre “moneta” e quindi il giudizio etico confluisce ipso facto
nell’economico, in quanto una nostra condotta, anche per il solo fatto di
esporsi al giudizio pubblico, diviene oggetto di un giudizio positivo/negativo,
e quindi determina sempre un vantaggio o uno svantaggio sociale, e quindi
sempre un “guadagno” o una “perdita”. si entra a vele spiegate nel mondo della metafora.
D’altra parte, lo stesso soggetto, e quindi tutto
quanto afferisce alle sue sensazioni “soggettive”, richiede un certo grado di
decostruzione, in quanto si considerino le intransitività interne al soggetto
stesso, in quanto frutto di quello che possiamo considerare il suo “molteplice
interno”, di tal che una sua “parte” si riterrà appagata da un bene, un’altra
parte se ne riterrà danneggiata, un’altra ancora se ne riterrà indifferente, e
se si vuole tale contraddizione interna può anche essere ricostruita attraverso
le categorie tradizionali dell’etico e dell’economico, per quanto si tratti di
distinzione insoddisfacente, posto che, se pur l’etico viene ricondotto
all’economico in senso ampio, si tratterà più spesso di contraddizione tra
“economico quanto ai beni materiali” ed “economico quanto ai beni immateriali”,
sicché l’etica, in questo senso, diviene una sotto-branca dell’economico, in
quanto si ammetta che questo ricomprenda tanto elementi strettamente egoistici,
quanto altri invece “altruistici” (ossia egoistici a lungo termine o non
asfittici), senza che si possa poi davvero affermare che l’altruistico
fuoriesca dall’economico, in quanto lo stesso altruismo possa rivelarsi conveniente,
sia pure non scelto in funzione immediata di tale consapevole convenienza, quanto
per la sua capacità di procurare soddisfazione in una dimensione più lata.
A questo punto occorrerebbe sviluppare un discorso
attorno all’amore, e quindi disquisire sul suo carattere di sentimento vantaggioso
o no dal punto di vista economico, o in quanto fonte di condotte apprezzate dal
punto di vista etico, ma anche del loro contrario, salvo constatare che una
quota di amore è indispensabile ai rapporti umani, tanto nella veste dell’amore
verso se stesso, il che sta alla base di notevoli imprese, o comunque dell’ambizione,
quanto nella veste di amore verso gli altri, che è ciò che almeno in parte ci
induce all’azione nel mercato, ogni qualvolta constatiamo che, se siamo dotati
di empatia, quantomeno nella sua versione fredda e cinica del comprendere l’altro
pur senza patire per esso, per guadagnare noi dobbiamo in qualche misura fare
stare bene anche l’altro in regime di reciprocità; reciprocità che non è
necessariamente frutto del volere davvero il bene dell’altro, ma anche solo
della razionale comprensione che il bene dell’altro è strumento indispensabile
a noi per potere perseguire il nostro, il che ci riconduce ancora una volta
alla categoria dell’economico, tanto in senso stretto, quanto in senso lato.
Resta il tema se possa definirsi “economico” il
sacrificio di una madre per il figlio, sol perché tale sacrificio rappresenta
per la madre stessa, in certi casi, il più alto appagamento che ella possa
conseguire, e noi abbiamo risolto la questione invocando la categoria del
neo-utilitarismo dell’”asso pigliatutto”, che consente di allegare come criterio
del “piacere” qualsivoglia categoria immaginabile, posto altresì che l’”utilitarismo”
è già comunemente intesa come categoria a un tempo etica ed economica, e così
si parla di utilitarismo in ambedue le accezioni, salvo la possibilità di ricondurle
a unità in nome appunto del costituire siffatto neo-utilitarismo un “asso
pigliatutto”, dimodoché vi si possa ricomprendere qualsiasi sfumatura
intermedia, intermedia appunto tra i due poli presunti opposti dell’economico e
dell’etico.
L’asso pigliatutto del neo-utilitarismo, che ho
più volte proposto, ci conduce poi nei fatti a una sorta di tautologia,
per la quale ognuno sceglie il meglio per sé e non il peggio, ma se ciò è
banale, cessa di esserlo nel momento in cui un tale naturalistico vitalismo,
per il quale l’agente naturale -dal micro-organismo, alle piante, agli animali
superiori e all’uomo- vive del proprio conato di vivere, porta poi di volta in
volta a dovere scegliere se, per sopravvivere, vivere e conseguire il meglio
per sé, ciò induca a condotte di mera massimizzazione immediata unilaterale, il
che può rivelarsi miope e addirittura autolesionistico, o se invece piuttosto a
scelte cooperative, le quali sappiano tenere conto anche dell’interesse dell’altro:
tant’è che né la tradizione dell’utilitarismo economico, né quella dell’utilitarismo
etico, parlano di mero “egoismo” o “egotismo”, ma sempre prevedono, come del
resto la teoria classica del mercato, forme di cooperazione e di considerazione
dell’altro; di tal che utilitarismo ed edonismo egoistico finiscono con il
confluire, una volta constatato che difficilmente si può perseguire il proprio
piacere in forma esclusivamente egoistica, se è vero che, ad esempio, in un
rapporto sessuale, il proprio godimento è di norma maggiore quando gode anche
il partner. Se tale coincidenza non si verifica, ciò è dovuto, o a difetti di
razionalità e al prevalere delle “azioni non logiche”, o al timore che
cooperando noi defezioni l’altro, profittando della nostra ingenuità (“bastona
il cane che affoga”), o perché ciò è di natura, dato che in natura i
comportamenti non sono spesso cooperativi, dato che la leonessa divora la
gazzella e non dialoga con essa, o la pianta estende i propri rami pensando
solo a se stessa, sicché se v’è armonia nel creato essa è sovente o non di rado
armonia conflittuale, polemica e non irenica.
Emergono così due
elementi: da un lato, quello che ho chiamato “dilemma di Stirner”, il dilemma
dell’egoista se soggiacere alla soddisfazione immediata e di corto respiro, o
se non piuttosto sapere attendere, al fine di poter constatare se la
cooperazione altrui possa appagare ancor più la nostra auto-soddisfazione in
reciprocità, però, con l’altro; e, d’altra parte, il fatto che esistono varie
situazioni necessitate, nelle quali le esigenze della nostra autotutela
prevalgono su quelle dell’armonia con l’altro, di tal che si rende necessario
un esercizio egoistico del potere e la “guerra” può rivelarsi efficace in
determinati casi, ma questo allora prevede il ricorso alla dissimulazione e all’inganno,
ricorrendo a tal fine anche ad astuzie di tipo giuridico, e quindi si rinuncia
a priori al gioco a somma positiva, per puntare tutto sulla vittoria nella
contesa in un gioco a somma zero; ora, il fatto è che il mercato reale, e non
quello ideale descritto da economisti liberali ottimisti come Bastiat (le
famose “armonie economiche”), somiglia sovente più a una somma di giochi a
somma zero escludenti che non alla somma di cooperazioni che sarebbe
auspicabile, tanto in senso orizzontale, ossia rispetto ai competitor,
quanto in senso verticale, ossia rispetto ai cittadini-consumatori, per non
parlare dei rapporti di lavoro.
Basti pensare, che,
nella bruta realtà, le Mafie, o bande
criminali come quella del Brenta, la Banda della Magliana, e simili, finiscono
con l’atteggiarsi alla stregua di vie di mezzo tra l’impresa di mercato e la
configurazione tipica di uno Stato, in quanto fanno ricorso come metodo alla
coercizione, ma possono anche essere considerate manifestazioni alquanto
genuine del sistema capitalistico, una volta che si abbandoni l’idea angelicata
e ingenua, per la quale il mercato concorrenziale sarebbe pacifico e volto alla
coesistenza pacifica tra le imprese concorrenti, e non produca anche
COMPETIZIONI ESCLUDENTI; il che si verifica, una volta posto che le mafie e le bande
criminali SONO ASPIRANTI MONOPOLISTI, che quindi tendono a “farsi Stato”,
mantenendo però al contempo l’efficienza produttiva dell’impresa. Salvo che il
successo della competizione escludente, così come insegna proprio la storia degli
Stati, richiede l’uso della violenza nei confronti dei competitor, senza
che si possa moralisticamente affermare che l’uso della violenza da parte dell’impresa
comporti fuoriuscita dal capitalismo, dato che ciò comporterebbe una
definizione dell’impresa capitalistica nel senso del suo carattere non
violento, il che deve ritenersi poco realistico. Sicché l’impresa introietta la
forza che il modello standard assegna in monopolio allo Stato e, in conformità
al modello anarco-capitalistico, si arma direttamente (non molto diversamente
dall’impresa mafiosa, salvo che questa formalizza, ufficializza e dichiara
esplicitamente il carattere aggressivo e non solo difensivo dell’armamento),
laddove il modello standard si riespande nell’ipotesi dello “Stato privato”, la
quale peraltro segna il fallimento del modello anarco-capitalistico, o ne segna
l’evoluzione o l’involuzione in senso monopolistico a sua volta.
Ma appunto il mercato nella sua forma idealizzata funziona
enfatizzando la cooperazione in vista degli scambi e attraverso gli scambi
stessi -di forma idealizzata si tratta, dato che la realtà imbastardita che
conosciamo è più spesso predatoria che davvero genuinamente cooperativa-, ma ciò
che qui interessa individuare è che il presupposto logico del concetto di
mercato, così come enfatizzato dagli economisti classici e liberali, è
identico presupposto a quello dell’ideale socialista: vale a dire l’idea
che la produzione congiunta rende di più di quella isolata (Hülsmann),
salvo risultando poi diversa la modalità della congiunzione, essendo
occasionale, e fondata sulla divisione del lavoro spontanea e “naturale” quella
liberale, laddove la cooperazione socialista si invera nell’associazione
stabile, salvo che il presupposto normativo è il medesimo, ossia la necessità
di una forma o dell’altra di congiunzione e di cooperazione, e del resto
tendenzialmente “socialista”, in quanto inserisce valutazioni di tipo oggettivo
accanto a quelle soggettive, la legge dell’utilità marginale decrescente, che a
loro volta i liberali accolgono, a partire da Menger; tant’è che un Mises ci
parla di una generale comunque “legge dell’associazione”, il tutto a partire
certo dalla “mano invisibile” smithiana, che è una modalità indiretta del
coordinamento (spontaneo), ma anche della legge dei costi comparati di David Ricardo.
Tuttavia, occorre fare i conti con la teoria dei
costi di transazione, inaugurata da Ronald Coase, per la quale ogni negozio
deve fare i conti con le difficoltà del raggiungimento dell’accordo, il che
però va ulteriormente esteso di due direzioni apparentemente opposte; vale a
dire che, da un lato, la vita, o alcuni aspetti della vita, rischiano di essere
un unico perenne “costo di transazione”, dato che non si finisce mai di
combattere, di discutere, di prendere e sciogliere accordi, negoziando e
rinegoziando, fino a un punto di satisfazione che non viene mai totalmente
conseguito, si pensi alla lotta politica o per stare a galla nel mercato; ma,
per altro verso, tutto ciò, oltre che sforzo e fatica, può risultare
satisfattivo in sé, di tal che, in tal caso, il “costo” di transazione è
“negativo”, nel senso che nemmeno più viene percepito come costo -così come
sono soggettivi gli appagamenti, lo sono i sentimenti a proposito di ciò che è
da considerarsi, per sé, costo-, ma come premio costante che la vita ci offre:
si pensi all’esempio banale di qualcuno che deve acquistare un immobile, il
quale provi piacere dal fatto di fare il giro delle case da visitare, in quanto
attività per lui immediatamente gradevole.
Ora, che cosa hanno in ogni caso in comune, però,
quei due presunti poli opposti dell’economico e dell’etico, tale per cui l’asso
possa essere davvero pigliatutto, in quanto sempre viene in rilievo un momento
psichico del soggetto -e che però abbiamo appena visto che sempre comporta
inevitabilmente una qualche forma di intersoggettività, oltre che di intrasoggettività-
che l’utilitarismo classico chiamò “piacere”, che poi via via fu denominato “felicità”,
“autorealizzazione” o altro? Hanno in comune una teoria del valore,
ossia quella per la quale il valore è un concetto immateriale,
che pertiene, per dir così, allo spirito e non alla materia bruta, il che vale
tanto per i beni immateriali in senso stretto (ad esempio, un marchio o un
diritto di autore), i quali pure presentano un “supporto” materiale, che però
non è in alcun modo fonte del valore, quanto per quelli materiali, con
riferimento ai quali il valore dipende sempre e comunque da una loro utilità,
che trascende l’elemento fisico, che è mezzo e non fine in sé. In tal modo,
ricondotta a unità la teoria del valore, essa non consente più di distinguere,
sul piano della struttura, tra sentimento del valore economico e sentimento del
valore etico, fermo restando il giudizio altrui, in termini di reputazione, sulle
azioni che uno possa compiere al fine di conseguire quell’appagamento psichico.
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