-->

mercoledì 23 febbraio 2022

Alcuni spunti sui rapporti tra economico, etico e uso della forza

 di Fabio Massimo Nicosia

Se l’economico si fonda sul considerare giusto ciò che conviene, mentre l’etico indica come conveniente ciò che sia giusto, la confluenza dei due fattori o approcci avviene in nome di una superiore razionalità cooperativa, per la quale ciò che è giusto diventa anche conveniente economicamente, dato che le massimizzazioni meramente egoistiche e defettive finiscono con l’apparire, nel giudizio previsionale, come autolesionistiche e autodistruttive, sicché l’egoismo intelligente del momento economico confluisce con la necessità della considerazione dell’altro in quanto investimento a lungo o medio termine, e quindi vantaggiosa anche in senso stretto economico.

Si noti che qui l’imperialismo dell’economia si afferma spostando l’economia fuori dall’economico e chiamando economico ciò che non lo è, almeno tradizionalmente, in quanto diviene economica ogni sensazione provata dal soggetto, sicché viene a determinarsi l’imperialistica equazione tra sensazione ed economia, il che trova sempre però la scappatoia giustificativa nel considerare suscettibile la sensazione di calcolo monetario, il che viene agevolato a sua volta dall’estendere il concetto stesso di monetario anche alla non-moneta (reputazione, etc.), sicche’ l’economico diviene una vicenda puramente psichica e psicologica, estesa a qualsiasi giudizio di favorevole e vantaggioso o sfavorevole o svantaggioso, si trattasse pure di un giudizio estetico, oltre che etico. il giudizio altrui puo’ ritenersi sempre “moneta” e quindi il giudizio etico confluisce ipso facto nell’economico, in quanto una nostra condotta, anche per il solo fatto di esporsi al giudizio pubblico, diviene oggetto di un giudizio positivo/negativo, e quindi determina sempre un vantaggio o uno svantaggio sociale, e quindi sempre un “guadagno” o una “perdita”. si entra a vele spiegate nel mondo della metafora.

D’altra parte, lo stesso soggetto, e quindi tutto quanto afferisce alle sue sensazioni “soggettive”, richiede un certo grado di decostruzione, in quanto si considerino le intransitività interne al soggetto stesso, in quanto frutto di quello che possiamo considerare il suo “molteplice interno”, di tal che una sua “parte” si riterrà appagata da un bene, un’altra parte se ne riterrà danneggiata, un’altra ancora se ne riterrà indifferente, e se si vuole tale contraddizione interna può anche essere ricostruita attraverso le categorie tradizionali dell’etico e dell’economico, per quanto si tratti di distinzione insoddisfacente, posto che, se pur l’etico viene ricondotto all’economico in senso ampio, si tratterà più spesso di contraddizione tra “economico quanto ai beni materiali” ed “economico quanto ai beni immateriali”, sicché l’etica, in questo senso, diviene una sotto-branca dell’economico, in quanto si ammetta che questo ricomprenda tanto elementi strettamente egoistici, quanto altri invece “altruistici” (ossia egoistici a lungo termine o non asfittici), senza che si possa poi davvero affermare che l’altruistico fuoriesca dall’economico, in quanto lo stesso altruismo possa rivelarsi conveniente, sia pure non scelto in funzione immediata di tale consapevole convenienza, quanto per la sua capacità di procurare soddisfazione in una dimensione più lata.

A questo punto occorrerebbe sviluppare un discorso attorno all’amore, e quindi disquisire sul suo carattere di sentimento vantaggioso o no dal punto di vista economico, o in quanto fonte di condotte apprezzate dal punto di vista etico, ma anche del loro contrario, salvo constatare che una quota di amore è indispensabile ai rapporti umani, tanto nella veste dell’amore verso se stesso, il che sta alla base di notevoli imprese, o comunque dell’ambizione, quanto nella veste di amore verso gli altri, che è ciò che almeno in parte ci induce all’azione nel mercato, ogni qualvolta constatiamo che, se siamo dotati di empatia, quantomeno nella sua versione fredda e cinica del comprendere l’altro pur senza patire per esso, per guadagnare noi dobbiamo in qualche misura fare stare bene anche l’altro in regime di reciprocità; reciprocità che non è necessariamente frutto del volere davvero il bene dell’altro, ma anche solo della razionale comprensione che il bene dell’altro è strumento indispensabile a noi per potere perseguire il nostro, il che ci riconduce ancora una volta alla categoria dell’economico, tanto in senso stretto, quanto in senso lato.

Resta il tema se possa definirsi “economico” il sacrificio di una madre per il figlio, sol perché tale sacrificio rappresenta per la madre stessa, in certi casi, il più alto appagamento che ella possa conseguire, e noi abbiamo risolto la questione invocando la categoria del neo-utilitarismo dell’”asso pigliatutto”, che consente di allegare come criterio del “piacere” qualsivoglia categoria immaginabile, posto altresì che l’”utilitarismo” è già comunemente intesa come categoria a un tempo etica ed economica, e così si parla di utilitarismo in ambedue le accezioni, salvo la possibilità di ricondurle a unità in nome appunto del costituire siffatto neo-utilitarismo un “asso pigliatutto”, dimodoché vi si possa ricomprendere qualsiasi sfumatura intermedia, intermedia appunto tra i due poli presunti opposti dell’economico e dell’etico.

L’asso pigliatutto del neo-utilitarismo, che ho più volte proposto, ci conduce poi nei fatti a una sorta di tautologia, per la quale ognuno sceglie il meglio per sé e non il peggio, ma se ciò è banale, cessa di esserlo nel momento in cui un tale naturalistico vitalismo, per il quale l’agente naturale -dal micro-organismo, alle piante, agli animali superiori e all’uomo- vive del proprio conato di vivere, porta poi di volta in volta a dovere scegliere se, per sopravvivere, vivere e conseguire il meglio per sé, ciò induca a condotte di mera massimizzazione immediata unilaterale, il che può rivelarsi miope e addirittura autolesionistico, o se invece piuttosto a scelte cooperative, le quali sappiano tenere conto anche dell’interesse dell’altro: tant’è che né la tradizione dell’utilitarismo economico, né quella dell’utilitarismo etico, parlano di mero “egoismo” o “egotismo”, ma sempre prevedono, come del resto la teoria classica del mercato, forme di cooperazione e di considerazione dell’altro; di tal che utilitarismo ed edonismo egoistico finiscono con il confluire, una volta constatato che difficilmente si può perseguire il proprio piacere in forma esclusivamente egoistica, se è vero che, ad esempio, in un rapporto sessuale, il proprio godimento è di norma maggiore quando gode anche il partner. Se tale coincidenza non si verifica, ciò è dovuto, o a difetti di razionalità e al prevalere delle “azioni non logiche”, o al timore che cooperando noi defezioni l’altro, profittando della nostra ingenuità (“bastona il cane che affoga”), o perché ciò è di natura, dato che in natura i comportamenti non sono spesso cooperativi, dato che la leonessa divora la gazzella e non dialoga con essa, o la pianta estende i propri rami pensando solo a se stessa, sicché se v’è armonia nel creato essa è sovente o non di rado armonia conflittuale, polemica e non irenica.

Emergono così due elementi: da un lato, quello che ho chiamato “dilemma di Stirner”, il dilemma dell’egoista se soggiacere alla soddisfazione immediata e di corto respiro, o se non piuttosto sapere attendere, al fine di poter constatare se la cooperazione altrui possa appagare ancor più la nostra auto-soddisfazione in reciprocità, però, con l’altro; e, d’altra parte, il fatto che esistono varie situazioni necessitate, nelle quali le esigenze della nostra autotutela prevalgono su quelle dell’armonia con l’altro, di tal che si rende necessario un esercizio egoistico del potere e la “guerra” può rivelarsi efficace in determinati casi, ma questo allora prevede il ricorso alla dissimulazione e all’inganno, ricorrendo a tal fine anche ad astuzie di tipo giuridico, e quindi si rinuncia a priori al gioco a somma positiva, per puntare tutto sulla vittoria nella contesa in un gioco a somma zero; ora, il fatto è che il mercato reale, e non quello ideale descritto da economisti liberali ottimisti come Bastiat (le famose “armonie economiche”), somiglia sovente più a una somma di giochi a somma zero escludenti che non alla somma di cooperazioni che sarebbe auspicabile, tanto in senso orizzontale, ossia rispetto ai competitor, quanto in senso verticale, ossia rispetto ai cittadini-consumatori, per non parlare dei rapporti di lavoro.

Basti pensare, che, nella bruta realtà, le Mafie, o bande criminali come quella del Brenta, la Banda della Magliana, e simili, finiscono con l’atteggiarsi alla stregua di vie di mezzo tra l’impresa di mercato e la configurazione tipica di uno Stato, in quanto fanno ricorso come metodo alla coercizione, ma possono anche essere considerate manifestazioni alquanto genuine del sistema capitalistico, una volta che si abbandoni l’idea angelicata e ingenua, per la quale il mercato concorrenziale sarebbe pacifico e volto alla coesistenza pacifica tra le imprese concorrenti, e non produca anche COMPETIZIONI ESCLUDENTI; il che si verifica, una volta posto che le mafie e le bande criminali SONO ASPIRANTI MONOPOLISTI, che quindi tendono a “farsi Stato”, mantenendo però al contempo l’efficienza produttiva dell’impresa. Salvo che il successo della competizione escludente, così come insegna proprio la storia degli Stati, richiede l’uso della violenza nei confronti dei competitor, senza che si possa moralisticamente affermare che l’uso della violenza da parte dell’impresa comporti fuoriuscita dal capitalismo, dato che ciò comporterebbe una definizione dell’impresa capitalistica nel senso del suo carattere non violento, il che deve ritenersi poco realistico. Sicché l’impresa introietta la forza che il modello standard assegna in monopolio allo Stato e, in conformità al modello anarco-capitalistico, si arma direttamente (non molto diversamente dall’impresa mafiosa, salvo che questa formalizza, ufficializza e dichiara esplicitamente il carattere aggressivo e non solo difensivo dell’armamento), laddove il modello standard si riespande nell’ipotesi dello “Stato privato”, la quale peraltro segna il fallimento del modello anarco-capitalistico, o ne segna l’evoluzione o l’involuzione in senso monopolistico a sua volta.

 

Ma appunto il mercato nella sua forma idealizzata funziona enfatizzando la cooperazione in vista degli scambi e attraverso gli scambi stessi -di forma idealizzata si tratta, dato che la realtà imbastardita che conosciamo è più spesso predatoria che davvero genuinamente cooperativa-, ma ciò che qui interessa individuare è che il presupposto logico del concetto di mercato, così come enfatizzato dagli economisti classici e liberali, è identico presupposto a quello dell’ideale socialista: vale a dire l’idea che la produzione congiunta rende di più di quella isolata (Hülsmann), salvo risultando poi diversa la modalità della congiunzione, essendo occasionale, e fondata sulla divisione del lavoro spontanea e “naturale” quella liberale, laddove la cooperazione socialista si invera nell’associazione stabile, salvo che il presupposto normativo è il medesimo, ossia la necessità di una forma o dell’altra di congiunzione e di cooperazione, e del resto tendenzialmente “socialista”, in quanto inserisce valutazioni di tipo oggettivo accanto a quelle soggettive, la legge dell’utilità marginale decrescente, che a loro volta i liberali accolgono, a partire da Menger; tant’è che un Mises ci parla di una generale comunque “legge dell’associazione”, il tutto a partire certo dalla “mano invisibile” smithiana, che è una modalità indiretta del coordinamento (spontaneo), ma anche della legge dei costi comparati di David Ricardo.

Tuttavia, occorre fare i conti con la teoria dei costi di transazione, inaugurata da Ronald Coase, per la quale ogni negozio deve fare i conti con le difficoltà del raggiungimento dell’accordo, il che però va ulteriormente esteso di due direzioni apparentemente opposte; vale a dire che, da un lato, la vita, o alcuni aspetti della vita, rischiano di essere un unico perenne “costo di transazione”, dato che non si finisce mai di combattere, di discutere, di prendere e sciogliere accordi, negoziando e rinegoziando, fino a un punto di satisfazione che non viene mai totalmente conseguito, si pensi alla lotta politica o per stare a galla nel mercato; ma, per altro verso, tutto ciò, oltre che sforzo e fatica, può risultare satisfattivo in sé, di tal che, in tal caso, il “costo” di transazione è “negativo”, nel senso che nemmeno più viene percepito come costo -così come sono soggettivi gli appagamenti, lo sono i sentimenti a proposito di ciò che è da considerarsi, per sé, costo-, ma come premio costante che la vita ci offre: si pensi all’esempio banale di qualcuno che deve acquistare un immobile, il quale provi piacere dal fatto di fare il giro delle case da visitare, in quanto attività per lui immediatamente gradevole.

Ora, che cosa hanno in ogni caso in comune, però, quei due presunti poli opposti dell’economico e dell’etico, tale per cui l’asso possa essere davvero pigliatutto, in quanto sempre viene in rilievo un momento psichico del soggetto -e che però abbiamo appena visto che sempre comporta inevitabilmente una qualche forma di intersoggettività, oltre che di intrasoggettività- che l’utilitarismo classico chiamò “piacere”, che poi via via fu denominato “felicità”, “autorealizzazione” o altro? Hanno in comune una teoria del valore, ossia quella per la quale il valore è un concetto immateriale, che pertiene, per dir così, allo spirito e non alla materia bruta, il che vale tanto per i beni immateriali in senso stretto (ad esempio, un marchio o un diritto di autore), i quali pure presentano un “supporto” materiale, che però non è in alcun modo fonte del valore, quanto per quelli materiali, con riferimento ai quali il valore dipende sempre e comunque da una loro utilità, che trascende l’elemento fisico, che è mezzo e non fine in sé. In tal modo, ricondotta a unità la teoria del valore, essa non consente più di distinguere, sul piano della struttura, tra sentimento del valore economico e sentimento del valore etico, fermo restando il giudizio altrui, in termini di reputazione, sulle azioni che uno possa compiere al fine di conseguire quell’appagamento psichico.

Nessun commento:

Posta un commento