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venerdì 2 luglio 2021

A proposito di Recovery Fund

di Fabio Massimo Nicosia

Ho iniziato ad avvicinarmi al diritto comunitario europeo alla fine degli anni '80, perché il professore di diritto amministrativo presso cui ero procuratore legale (figura ora non più esistente) avviò con i suoi assistenti una ricerca sul tema, che poi uscì con Giuffré, e lui mi faceva leggere quello che andava scrivendo, peraltro confessandomi che non era troppo soddisfatto: si parlava allora del regime giuridico degli atti e delle leggi, e sul rapporto tra gli ordinamenti, dato che all'epoca c'era chi diceva che si trattasse di due ordinamenti distinti, ma integrati, ovvero di un solo ordinamento "italo-comunitario", o, come diceva il presidente del Tar Lombardia Mangione, comun-italiano.
Dopo di che ho spesso usato il diritto comunitario nei ricorsi, ma non mi sono più soffermato su questo tema teorico, fin quando non ho scritto "Popolo contrappeso", in cui ho trattato anche un po' di Unione europea.
Ho concluso, non tanto sulla base di riflessioni astratte, dato che in tal caso l'una tesi può valere quanto l'altra nell'ambito di un discorso puramente razionalistico, ma sulla base dell'osservazione empirica e dei fatti concreti politico-giuridici -sicché l'approccio realistico si fa dottrinario- che la tesi giusta sia quella della distinzione degli ordinamenti, nel senso che l'uno è in posizione di supremazia sull'altro, che è in situazione di soggezione, e da questo rapporto di supremazia/soggezione deriva il fatto che un atto dell'uno ordinamento può invalidare l'altro, per cui, più che di una questione di gerarchia delle fonti, si tratta di una questione di gerarchia tra ordinamenti.
Se fin qui, ancora, una tesi può valere l'altra, abbiamo però assistito a una serie di eventi, che hanno confermato che l'effettivo andamento in concreto dei rapporti tra i due ordinamenti sia di tipo gerarchico: caso eclatante, la "letterina" di Trichet e Draghi al governo italiano del 2011, quella dei famosi "compiti a casa" di Monti, sicché il vincolo esterno diventava vincolo non solo esterno ma verticale.
Io all'epoca ebbi la sensazione che il rapporto tra Ue e Rep. It. fosse analogo a quello tra una holding e una sua controllata, anche nelle forme, dato che la Ue predilige il linguaggio aziendalista e manageriale, per cui utilizza queste forme informali (la letterina via fax, faccio per dire), per impartire "direttive" alla subordinata controllata, il che non è per nulla rispettoso per uno Stato che finge di essere ancora sovrano, con un popolo sovrano, che però deve agire strutturalmente in base alle direttive inviate a stretto giro di posta dall'altro e superiore ufficio. Tra l'altro, come s'usa tra aziende, queste lettere in genere arrivano scritte in inglese, tal per cui io le manderei indietro dicendo di non averle capite, perché la lingua della Rep. It. è l'italiano.
Un altro modo di intendere questo rapporto tra ordinamenti è quello di tipo feudale.
In popolo contrappeso ho detto qualcosa in generale sul carattere di "impero" della Ue, e in questo quadro la Repubblica potrebbe esserne un fedele vassallo con qualche beneficium, come capita ai migliori feudatari, salvo che i baroni ogni tanto si ribellano e fanno la Magna Charta, mentre qui non si ribella nessuno. In tal senso la dottrina costituzionale dei "controlimiti" è solo un piccolo segnale, che non cambia la struttura gerarchica, imperiale o simil-privatistica, del rapporto.
Ora, se possibile, questi caratteri sono assai marcati e rimarcati dal Recovery Fund. Il problema di “salute pubblica”, trasformatosi “rapidamente nella crisi economica più grave della sua storia”, consente quindi all’”Europa” di cogliere la palla al balzo, per imporre la sua agenda neo-ordoliberale, attraverso una stretta istituzionale senza precedenti. Viene così introdotto il potere eccezionale dell’Unione di assumere prestiti sui mercati finanziari, in modo tale che la UE, attraverso la Commissione, si indebiterà con gli investitori, ai quali dovrà restituire il valore iniziale delle obbligazioni più gli interessi maturati; ma, d’altro lato, la UE diventerà creditrice nei confronti degli Stati membri che avranno ottenuto i prestiti finanziati dal Next Generation EU.
All’atto pratico, lo Stato membro destinatario del prestito, dovrà restituire, oltre alle somme ricevute, anche gli interessi pagati dalla UE sui mercati finanziari, nonché un’ulteriore interesse dovuto alla UE, la quale si propone quindi come una sorta di intermediario speculativo del prestito dai mercati finanziari agli Stati membri, il che ricorda l’attività dello strozzino che si indebita per prestare a strozzo e poi riscuotere gli interessi per sé e quelli destinati al suo prestatore.
Il tutto in nome di una relativamente nuova retorica sulla sovranità europea, in nome di una “identità europea” da valorizzare, sicché l’antisovranismo è solo quello nazionale, mentre, a quanto pare, sarebbe per il verso giusto un sovranismo continentale, senza però più il contrappeso di quello nazionale, tale per cui non è ben chiaro, innanzi a tale retorica, dove si guadagni e dove ci si rimetta.
Tanto più alla luce del fatto che, circostanza molto minimizzata dai mass-media, i prestiti del Recovery Fund sono sottoposti a una fortissima “condizionalità”, tale da ridicolizzare le polemiche dei mesi scorsi sul ricorso al MES: e infatti l’accesso, oneroso, ai fondi europei è subordinato a una serie di quelle che vengono eufemisticamente definite “riforme”; ossia riforme strutturali in vista di determinate performance, in linea con le priorità economiche comuni, sulla base, si badi, di raccomandazioni specifiche per Paese, il che significa che l’Unione Europea entra a gamba tesa nelle soluzioni tecniche, ritenute necessarie non in senso generale e meramente programmatico, ma in termini invasivi, per dir così, “popolo per popolo”, sicché agli specifici governi si viene a sostituire una proteiforme governance europea di stampo sostanzialmente commissariale, in funzione di una ristrutturazione capitalistica “verso l’alto”, anche nella redistribuzione del “reddito” (si pensi alla prescrizione di fare ricorso alle imposte indirette per ripagare il debito), attraverso l’”integrazione delle economie dell’Unione” e l’incentivazione di “creazione di posti di lavoro di alta qualità”.
Funzionale al progetto di ristrutturazione è l’invocazione del rispetto dei principi dello “Stato di diritto”, invocazione che servirà ben sì a colpire Orban per ragioni di natura arcobaleno, ma questa è solo facciata: lo “Stato di diritto”, nell’accezione ordoliberale tedesca, riguarda esattamente la costituzione di un terreno e di un framework, necessario a che la “concorrenza”, ossia il dominio, in realtà, di pochi grandi gruppi legittimati, o autorizzati nei fatti dal sistema para-mafioso, fluisca libero con la benedizione del sistema stesso. La UE, del resto, che le cose non le manda a dire, lo afferma esplicitamente: “il rispetto dello Stato di diritto è essenziale non solo per i cittadini dell’Unione, ma anche per le iniziative imprenditoriali, l’innovazione, gli investimenti, la coesione economica, sociale e territoriale e il corretto funzionamento del mercato interno, i quali prosperano al massimo se è in vigore un quadro giuridico e istituzionale solido"
Lo Stato di diritto, quindi, non è qui un generico Rule of Law, ma esattamente la struttura normativa portante di una ristrutturazione forte del sistema economico, politico-economico e giuridico-economico. E infatti, poi, la Commissione entra nel dettaglio, imponendo agli Stati membri di introdurre nei propri piani di rinascita e resilienza esattamente il progetto del Grande Reset, deprivato però di tutti i suoi annessi profili di carattere sociale così come indicati da Schwab e dal World Economic Forum, la cui funzione dovrebbe essere quella di garantire la pace sociale, se non esattamente il “compromesso keynesiano”, in corso d’opera e a opera compiuta.
E così, ciò che viene proposto sono esclusivamente progetti di ristrutturazione capitalistica, o Stato-capitalistica, costituiti dai seguenti “sette fari”, dai quali gli Stati membri non possono in alcun modo derogare, pena la perdita dei fondi (che non è detto poi sia un male, vista la loro onerosità): a) introduzione di energie pulite e accelerazione dello sviluppo e dell’uso di energie rinnovabili; b) miglioramento dell’efficienza energetica degli edifici pubblici e privati (e lascio immaginare la portata di un simile colossale businnes a carico della spesa pubblica, e quindi in prospettiva pagato con le tasse dei cittadini); c) trasporto sostenibile e stazioni di rifornimento e ricarica; d) connettività e implementazione dei servizi rapidi della banda larga; e) digitalizzazione delle pubbliche amministrazioni (che diventano quindi strumento di potente controllo informatico molto più di quanto non riescano a essere ora); f) aumento delle capacità di cloud di dati industriali europei e lo sviluppo dei processori più potenti, all’avanguardia e sostenibili; g) riqualificazione e implementazione dell’educazione alle capacità digitali (tranne che degli anziani, si direbbe, che quindi ormai sono degli esclusi dal sistema sociale, in quanto destinati a vita all’analfabetismo digitale).
Ora, occorre rimarcare che siffatti interventi non verranno a cadere su di un terreno neutro, ma su un terreno giuridico pregiudicato dall’abitudine ai lockdown, ai distanziamenti sociali, all’imposizione per via amministrativa di obblighi in violazione dei diritti costituzionali, vale a dire un violazione dello Stato di diritto in senso genuino, dato che non ci viene per nulla al contempo garantito il pieno ripristino delle libertà costituzionali, essendo stato escluso da chi ha voce in capitolo, il ritorno alla normalità dello status quo precedente.
Combinando quindi i due elementi, il modello distopico è servito, e il tutto in un contesto in cui il bene primario che viene dichiaratamente perseguito è rappresentato dall’omologazione strutturale dei Paesi membri, il che ben si comprende se il framework della rinnovata accumulazione originaria, operata attraverso una redistribuzione di finanze dal basso verso l’alto, non può che essere di scala continentale, per essere perfettamente funzionale.
In conclusione, a prescindere dal fatto che alcune di tali scelte possano anche essere in sé buone od opportune, mentre non è buona la loro invocazione strumentale a un cambio profondo di sistema, che reca in sé i germi maturi dell’autoritarismo, pare evidente come si sia rinforzato il profilo sopra rilevato in ordine al fatto che l’ordinamento giuridico Unione Europea ormai è completamente dominante e sovrastante, sotto il profilo delle scelte di sistema, nei confronti dell’ordinamento giuridico degli Stati membri, ormai ridotti allo stato di subordinazione, se non di servitù –sempre tranne gli stipulatori del Trattato di Aquisgrana, che sono i soggetti dominanti all’interno del cartello a sua volta dominante-, seppure a quanto pare si tratta di servitù volontaria, o quantomeno mollemente acquiescente, fatto salvo qualche finto strillo da parte dei sovranisti di cartone come la Meloni, che, se notate, non dice nulla di tutto ciò.
Tant’è vero che persino la dottrina di solito moderata è arrivata a dire che, nell’ambito del Next Generation, “il sovrano sarà l’Unione europea, i sudditi gli Stati membri”, o forse più esattamente, come detto, i vassalli poco ribelli del nuovo Imperatore -oppure ancora, le controllate di una holding-, dato che alla fine i sudditi sono pur sempre quei cittadini che dovrebbero essere sovrani, e che pure hanno delle responsabilità e delle colpe, se non lo sono effettivamente.
Le informazioni sono tratte dal libro di Fiammetta Salmoni, Recovery Fund, condizionalità e debito pubblico – La grande illusione, Milano, Wolters Kluwer-Cedam, 2021.

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