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domenica 27 giugno 2021

Keynes e il Laissez-Faire

 di Fabio Massimo Nicosia


Nel saggio "Fine del Laissez-Faire", Keynes parte ricostruendo con efficacia la storia del pensiero individualista moderno, passando da Locke a Hume per arrivare all'anarchismo -

(significativo il fatto che includa Godwin, il padre dell'anarchismo, tra i fautori del laissez-faire, individuandolo come punta estrema, quando però in realtà Godwin, che era figlio di un pastore nel senso di ministro di culto, immaginava un mondo di libere comunità democratiche che chiamava "parrocchie", così come Locke nella sua Lettera sulla Tolleranza individuava la Chiesa come un ente a libera adesione volontaria espressione di libertà) -

per sottolineare come alla fine, tra il 700 e l'800, tanto per merito dei filosofi politici, quanto forse soprattutto degli economisti, l'idea che la libera iniziativa finisse con il combaciare con l'interesse pubblico (la mano invisibile di Smith), si affermò al punto di diventare dogma.

Economisti e filosofi politici dicevano esplicitamente che l'uomo d'affari doveva essere lasciato libero, perché, si diceva già allora, tutto quello che fa lo Stato lo fa male, e quindi meno fa meglio è.

Keynes però è il teorico delle decisioni in stato di incertezza, e quindi sottolinea come questo laissez-faire non garantisse affatto della bontà dei propri esiti, da qui la necessità di uno Stato regolatore e moderatamente interventista -Keynes rimase sempre liberale e non sostenne mai la socializzazione o la nazionalizzazione dei mezzi di produzione- che rimediasse all'incertezza del lasciare fare ognuno come gli pare (il che però denota sfiducia sulla configurabilità degli ordini spontanei, che è il dissenso filosofico che sta alla base delle querelles tecniche con Hayek).

Ora, c'è però un errore nella ricostruzione storica di Keynes, ed è quello di sovrapporre la teoria alla realtà, come se la realtà avesse effettivamente rispecchiato la teoria dei filosofi politici individualisti. La realtà, come sottolinea Karl Polanyi nella "Grande Trasformazione", è che quel laissez-faire reale si è sempre giovato del supporto dello Stato, nel senso appunto che erano "gli uomini di affari" a pretendere di essere lasciati liberi di agire, e non già tutti gli uomini.

E' quindi un discorso di classe, dato che i riferimenti di Polanyi sono a Marx; quindi noi quei difetti del laissez-faire li riscontriamo come difetti di un laissez-faire di classe, dato che la borghesia era protetta nei propri titoli di proprietà dallo Stato, il quale ne aveva favorito la formazione storica (con le enclosures e la privazione degli spazi comuni e con la rapina, l'appropriazione predatoria, del demanio e degli usi civici collettivi), sicché in realtà noi non sappiamo come sarebbe un laissez-faire egualitario, ossi nel quale tutti gli uomini e non solo la classe privilegiata fosse messa in condizione di prendere libere iniziative, non sappiamo come funzionerebbe la "mano invisibile" in questo caso, che sarebbe allo stesso tempo libertario ed egualitario.

Ma perché ciò sia, occorre che ognuno possa disporre di moneta, di denaro, di soldi (il che è quanto comporta l'enfasi posta da Keynes sulla prevalenza della "domanda", dato che per "domandare", nel mercato, occorre disporre di denaro.

Da qui la necessità di istituti come l'utile universale e/o il libero conio.

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