-->

domenica 23 maggio 2021

Interventi sulla contabilizzazione del demanio

 Nei suoi primi dieci giorni di partecipazione alla mailing-list del Comitato Nazionale di Radicali Italiani, Fabio Massimo Nicosia è intervenuto più volte con ampi interventi sulla questione della contabilizzazione del demanio, affrontando il discorso da diverse prospettive. Qui raccogliamo questi interventi a beneficio di chi voglia approfondire l'argomento.

Lettera a Draghi sulla contabilizzazione del demanio.

 

Oggi volevo cominciare a proporre la questione della contabilizzazione del demanio, mostrandovi la lettera aperta che come Partito Libertario abbiamo inviato al presidente incaricato Draghi.

Aggiungo che, ipotizzando forme di valorizzazione finanziaria del demanio -capitale naturale e artificiale che, ripeto è di titolarità diretta dei cittadini- a ognuno spetterebbe una quota di utile, non intermediato dalla burocrazia.

Per noi sarebbe una formula libertaria di "welfare", in quanto consistente in denaro sonante da spendere sul mercato come si vuole.

Nella vicenda Covid abbiamo visto come il welfare sia tirannico, e come ancor più possa esserlo è mostrato dal delirante libro di Speranza, che preconizza una sorta di 1984 orwelliano fondato sul controllo sanitario (leggetevi l'ultima parte del libro). E' proprio un comunista di quando si dice che uno è un comunista. 

 

Ecco la lettera aperta a Draghi.

 

Chiarissimo Professore

Mario Draghi

Presidente del Consiglio Incaricato

ROMA

 

Gentile Professore,

anche noi del Partito Libertario intendiamo prendere parte, con questa forma, alle consultazioni per la formazione del nuovo governo, offrendo il presente contributo.

Anzitutto auspichiamo che si ritorni alla normalità costituzionale, con integrale ripristino dell’esercizio pratico dei diritti fondamentali: come ha affermato da Presidente della Corte Costituzionale la Prof. Marta Cartabia, infatti, la nostra Costituzione non conosce stati di eccezione di sorta con riferimento a quei principi; e non per caso, ma per scelta deliberata dei Padri Costituenti, tanto più alla luce delle esperienze passate, e in particolare di quella della Costituzione di Weimar.

Per quanto riguarda invece le questioni di carattere economico-finanziario, riteniamo di concentrarci su di un unico punto, peraltro sufficientemente comprensivo: la necessità di rispettare la legge, contabilizzando correttamente il demanio, ossia i beni di cui all’art. 822 c.c., oltre all’etere, in quanto dichiarato demanio dalla Corte Costituzionale con più sentenze.

Dispone infatti l’art. 14 (Conto generale del patrimonio), c. 2, del Decreto Legislativo 7 agosto 1997, n. 2799 (Legge finanziaria Ciampi): “Ai fini della loro gestione economica i beni di cui all’art. 822 del Codice civile, fermi restando la natura giuridica e i vincoli cui sono sottoposti dalle vigenti legge, sono valutati in base a criteri economici ed inseriti nel Conto generale del patrimonio dello Stato”.

Ora, ciò avviene attualmente in modo solo simbolico e forfettario, senza alcuna accuratezza analitica, sicché i valori indicati nel conto del patrimonio sono, ci sia consentito dirlo, ridicoli, rispetto al carattere poderoso dei beni di cui all’art. 822 c.c.; oltre all’etere, del quale usufruiscono emittenti radiotelevisive e colossi del web, autentici free rider del demanio, il che contribuisce a spiegare i loro utili iperbolici.

In base all’art. 822 c.c., infatti, “Appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti; i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia; le opere destinate alla difesa nazionale.

Fanno parimenti parte del demanio pubblico, se appartengono allo Stato, le strade, le autostrade e le strade ferrate; gli aerodromi; gli acquedotti; gli immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia; le raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche; e infine gli altri beni che sono dalla legge assoggettati al regime proprio del demanio pubblico

 

A tutto ciò, oltre a dovere aggiungere l’etere, va assommato anche il valore dei grandiosi know how, di cui lo Stato dispone in tutti i settori in cui esprime capacità e potenza in termini di beni immateriali.

Si tratta, quindi, di un poderoso capitale naturale e artificiale, fisso e circolante, materiale e immateriale, di valore inestimabile (al quale aggiungere quelle del patrimonio in senso più lato, ad esempio tutte le infrastrutture, opere pubbliche e simili), che appartiene direttamente ai cittadini.

Già i grandi giuristi bolognesi del medioevo, infatti, ritenevano che questi “beni della corona”, inalienabili da parte del sovrano, pena la violazione del giuramento di incoronazione, fossero in ultima analisi riconducibili al “popolo”, anche perché, in base alle Sacre Scritture, “Dio ha donato la Terra in comune agli uomini”.

Venendo a tempi più vicini a noi, è almeno dal XIX secolo che la dottrina costituzionalistica è unanime nel ritenere il demanio, in quanto afferente alla sovranità, di diretta e immediata proprietà del popolo sovrano.

Siffatta contabilizzazione non avrebbe certo un valore solo formale.

Intanto si tratterebbe di una grande operazione di trasparenza, dato che i cittadini conoscerebbero finalmente il valore delle ricchezze di cui dispongono, laddove evidentemente esistono interessi che premono, come avrebbe detto Amilcare Puviani, per l’occultamento di tali valori economico-finanziari.

Inoltre, sarebbe garanzia che eventuali dismissioni avvengano a valore di mercato e non si riducano a svendite, come inevitabilmente avviene quando si cede un bene di cui non si conosce il valore.

La contabilizzazione in base a criteri economici, così come previsto dalla legge, consente poi di considerare tali beni come produttivi: di utili, di rendite, di royalties (si pensi agli innumerevoli marchi di cui dispone lo Stato, non riconosciuti come tali), e così via, i quali, a nostro avviso, non devono andare a cadere nel “calderone” statale, ma, sulla base del principio costituzionale che il demanio è dei cittadini, devono andare direttamente ai cittadini, il che consente anche di trovare una copertura finanziaria alle prospettate ipotesi di reddito universale.

In definitiva, si tratta di prendere esempio dal modello Alaska, ove un fondo raccoglie gli introiti derivanti dal petrolio, per distribuirli direttamente ai cittadini e non alla burocrazia.

Ora, tutto ciò assume in prospettiva particolare rilevanza, dato che si parla di realizzazione, a carico della spesa pubblica e del debito pubblico, quindi di denaro dei cittadini, di grandi realizzazioni infrastrutturali, materiali e digitali, e allora sarebbe ottima cosa che anche di tali prospettati interventi vi fosse adeguata indicazione nel Conto generale del patrimonio, di tal che per i cittadini non si tratti solo di una spesa, ma di investimenti in conto capitale, i cui esisti risultino chiaramente dalle scritture contabili.

Augurando successo alla Sua iniziativa, Le porgo i saluti più cordiali.

Avv. Fabio Massimo Nicosia

Presidente del Partito Libertario

 

Presupposti filosofico-politici della valorizzazione e contabilizzazione del demanio

Cari compagni (uso questa espressione perché questo è un intervento di sinistra), oggi vorrei inquadrare la questione del demanio in un più ampio contesto filosofico-politico.

 Io ebbi la prima volta l’intuizione della contabilizzazione del demanio nel 2005 o 2006, allorché mi trovavo a scrivere il mio libro “Il dittatore libertario – Anarchia analitica tra comunismo di mercato, rendita di esistenza e sovranity share”, che poi uscì solo nel 2011 con Giappichelli, mentre mi trovavo in comunità psichiatrica, mercé il provvido intervento del Prof. Guido Corso, il quale, consapevole della mia situazione, volle assolutamente che fosse pubblicato.

 L’intuizione nacque da questo interrogativo: “Perché se una spa è proprietaria di un terreno, quel terreno risulta dal suo bilancio o stato patrimoniale, ai sensi dell’art. 2224 c.c., mentre se il comune gli espropria quel terreno il valore di questo asset si volatilizza, dato che non se ne trova traccia nel bilancio o stato patrimoniale del comune?”.

 Allora mi misi a leggere manuali di contabilità dello Stato, relativamente recenti o anche antichi, dai quali trassi l’argomento che il demanio non poteva essere contabilizzato, per il fatto di essere afferente alla sovranità, e la sovranità, in quanto extra commercium, non si contabilizza.

 Io trovai puzza di truffa in questo argomento, che era comunque arcaico alla luce degli studi di Public Choice di James Buchanan e di Gordon Tullock, i quali proponevano esattamente un’analisi economica della politica e dello Stato, peraltro dichiaratamente sulla scorta degli studi di scienza delle finanze italiani, in particolare di quelli del radicale Antonio de Viti de Marco, idolo di James Buchanan.

 Allora decisi comunque di sostenere la tesi della contabilizzazione, pur essendo all’oscuro del fatto che esistesse una legge finanziaria Ciampi, che quella contabilizzazione prevedeva, ribaltando in poche righe un tradizione ultra-secolare.

 A mio avviso Ciampi prevedeva ciò in una logica di vendita del demanio, al fine di non renderla una svendita, perché non dimentichiamo che gli anni ’90 furono dall’inizio epoca di dismissione della proprietà industriale pubblica, e Ciampi era del giro dei Prodi, dei Draghi di allora, degli Amato, ossia dei sostenitori e attori di quelle dismissioni, che qui non voglio giudicare, ma solo inquadrare nel contesto (Mani Pulite, Maastricht, fine politica di Craxi).

 Tuttavia, al di là delle intenzioni, la norma esiste, e noi possiamo utilizzarla ad altri fini, che per me sono quelli della valorizzazione del demanio a vantaggio diretto e immediato dei cittadini, che ne sono i diretti e immediati proprietari come da dottrina antica e moderna.

 Senonché in un secondo momento mi sono reso conto che questa proposta di valorizzazione demaniale si sposasse perfettamente con la mia proposta di filosofia politica, della quale rappresentava null’altro che una specificazione e un’articolazione: ossia la tesi filosofico-politica che la Terra è comune agli uomini, e il demanio non è altro che la Terra comune agli uomini di diritto positivo, e non solo filosofica.

 Mi sono convinto che la Terra fosse res communis e non res nullius verso la fine degli anni ’90, il che comportò il mio distacco dal gruppetto anarco-capitalista di allora, che sosteneva che le Terra fosse appunto res nullius, come resi pubblico con un mio lungo articolo su A – Rivista Anarchica del 1999.

 Ciò comporta a mio avviso –differenza fondamentale rispetto agli anarco-capitalisti- che, non essendo alcuno legittimato di per sé a imporre unilateralmente vincoli morali o giuridici all’altro, l’appropriazione proprietaria non possa essere unilaterale, ma debba essere fondata sul consenso: salvo che un consenso va acquisito, va comprato, il che costituisce un fondamento per un utile di base a favore del non proprietario (salvo che non valga la regola del “tutti proprietari”).

 Il fatto è che gli anarco-capitalisti di scuola economica austriaca, come Israel Kirzner e Murray Rothbard, ritengono che le risorse naturali non valgano assolutamente nulla fin quanto un imprenditore non le lavori: ho confutato questa tesi nel mio recente libello “Vademecum del dittatore libertario – Problemi della transizione e programma del Partito Libertario”, De Ferrari, 2021, affermando che le risorse naturali possiedono già un valore di mercato potenziale già prima di essere apprese, altrimenti nemmeno verrebbero apprese, altrimenti l’imprenditore non cercherebbe di impossessarsene (tradotto: le multinazionali fanno land grabbing nei paesi poveri corrompendo i governanti locali, che rendono res nullius quella che dovrebbero salvaguardare come res communis dei propri cittadini).

 La tesi che la Terra sia res communis ha probabilmente radici religiose, dato che se ne parla nell’Antico Testamento, tesi in particolare argomentata da Ambrogio, nato a Treviri come Marx, vescovo e patrono di Milano. Dopo di che la tesi si trova in John Locke, padre del liberalismo, secondo il quale gli impossessamenti individuali sono soggetti e subordinati a un proviso, ossia alla clausola condizionante che agli altri residui altrettanta terra e altrettanto buona, sulla base della solita premessa che Dio ha donato la Terra in comune agli uomini.

 Si noti che gli anarco-capitalisti affermano di rifarsi a Locke, ma barano, dato che Rothbard, ne “L’etica della libertà” censura addirittura il passo geo-comunista di Locke nella citazione! Semmai dovrebbero rifarsi a Pufendorf, ma nemmeno del tutto.

Oggi la tesi della res communis è sostenuta dai left-libertarian americani (citerò Otsuka e Vallentyne), ossia una sinistra libertaria dialettica nei confronti dei libertarians alla Nozick, per quanto Nozick stesso non sia chiaro su questo punto.

 Io ho approfondito tutti questi temi nel mio “L’eguaglianza libertaria – Contraddizione, conciliazione, massimizzazione”, Aracne, 2020, che ho fatto tradurre anche in inglese, venendo recensito positivamente dal sito del principale think-tank left-libertarian, ossia il Center for a Stateless Society, che vi suggerisco di consultare spesso, dato che propone molti studi economici molto interessanti in chiave di libertarismo di mercato “di sinistra”: ossia non tenero con i capitalisti reali.

 In America, in particolare, oggi esiste un movimento geo-libertario, che quindi vuole coniugare il libertarismo con la tesi della comunione originaria della Terra, che si rifà in buona parte alle tesi dell’economista del XIX secolo Henry George (per cui “geo” sta sia per Terra, sia per “georgista”). L’inventore del termine geo-libertarian è l’economista Fred Foldvary, con il quale sono in contatto e che ha aderito al gruppo Facebook del Partito Libertario.

 Perché ritengo che tutto ciò debba interessare i radicali?

 Perché penso che appartenga oggi ai radicali un ethos liberal-socialista, più che non puramente liberista come negli anni ’90, il che comporta a mio avviso una ripresa del linguaggio socialista libertario degli anni ’70, certo, più consapevole di Hayek e della teoria del mercato, ma con un’attenzione ai ceti deboli che non sprofondi nello statalismo welfarista: ergo è ai left-libertarian, che propongono un’economia di mercato che non vada a vantaggio del grande capitale, che occorre guardare come linea ispiratrice, quindi pregasi ridurre le dosi di Istituto Bruno Leoni (per quanto io sia stato studioso di Bruno Leoni, ma con riferimento alla sua filosofia del diritto, non certo a proposizioni sue quale quella di mettere fuorilegge lo sciopero).

Scusate la lunghezza, ma tanto valeva cogliere l’occasione per dire più cose possibili.

Fabio

 

Critica del capitalismo e forme contemporanee dell’accumulazione originaria.

Mr. Jeff Bezos ha acquistato la barca a vela più lussuosa del mondo, buon per lui (cioè, a me fregherebbe un cazzo di avere una barca a vela, quindi davvero buon per lui).

Non sono invidioso per natura (anche perché di solito dovrei invidiare persone inferiori a me, il che sarebbe autocontraddittorio), e nemmeno pauperista, quindi non contesto la ricchezza in linea di principio: anzi, la ammetto come forma del pluralismo, dato che più sono i ricchi, più sono i centri di potere in competizione, il che è sano e antimonopolista, almeno in teoria, sempre che non colludano (e semmai nella realtà di oggi colludono con lo Stato).

Tuttavia emerge un petì problèm: ossia che Bezos si arricchisce a dismisura, ossia, non si tratta di una ricchezza qualsiasi come quella di qualche decennio fa (daneistocrati a parte), perché fa uso da free rider della risorsa di capitale comune più importante di oggi: il web. Lo stesso vale per Google, Facebook, Apple e altri, ossia tutti coloro i quali si giovano gratis delle risorse di tutti, ossia del demanio (e siamo sempre lì).

Abbiamo qui un problema di omessa definizione dei diritti di proprietà, anzi, una duplice omissione:

a)   Omessa definizione dei diritti di proprietà dei dati, atteso che la normativa sulla privacy non assegna i dati in proprietà al cittadino-utente, sicché la loro titolarità in sfruttamento viene ceduta gratis con un clic di accettazione (wrap contracts) alla navigazione:

b)   Omessa definizione dei diritti di proprietà comune del web e in genere del demanio, dimodoché il gigante del web fa scorrerie sulla proprietà comune non riconosciuta, sfruttando come res nullius la res communis, e quindi non riconoscendo compensazione ai titolari della res communis, che siamo noi.

Siamo quindi di fronte a una moderna forma dell’acquisizione originaria capitalista.

Come loro sanno, Marx, al Cap. XXIV del Libro Primo del Capitale, illustra da par suo le forme dell’accumulazione originaria dei secoli precedenti, sub specie di appropriazione unilaterale non compensativa di terre, attraverso l’imposizione delle cosiddette enclosures: ossia certuni, in genere nobili, recintavano senza autorizzazione di nessuno porzioni di territorio comune, sgomberando con la forza i contadini, i quali venivano così deprivati dei diritti feudali, che ab antiquo competevano loro.

Attraverso questo forzoso sradicamento, ad esempio ai tempi di Giacomo Primo Stuart, il contadino era costretto all’urbanizzazione forzata, e a farsi obbligato operaio di fabbrica, in conseguenza del fatto che le leggi di Giacomo I prevedevano l’uccisione, la mutilazione e il marchio incandescente sul vagabondo e il mendicante.

Il fenomeno delle enclosures fu di portata europea, si è avuto non solo in Inghilterra, ma anche in Francia e da noi, attraverso varie normazioni sulle chiudende, che abolivano gli usi civici sulle terre già comuni, ossia il diritto di legnatico, di pascolo, di raccolto e simili.

In altri termini, siffatta accumulazione originaria consistette in una rapina di terre in danno della popolazione povera, che viveva di beni comuni: non i beni comuni ad cazzum di Speranza, ma beni comuni veri e materiali, risorse naturali, ossia capitale naturale.

L’accumulazione originaria di oggi è quella del web: Bezos e gli altri se ne appropriano unilateralmente con le sue chiudende, senza compensare la popolazione per tale privazione forzosa di capitale comune.

In effetti, a ben vedere, il capitalismo per il mondo agisce esattamente su tale presupposto: trattare le risorse naturali da res nullius, il che ne consente teoricamente l’appropriazione, invece che da res communis, il che consentirebbe l’appropriazione solo attraverso compensazione dei depauperati: il tutto con la complicità dei governi, i quali, omettendo di contabilizzare il capitale comune (demanio), lo trattano da res nullius depredabile e non da res communis, utilizzabile solo attraverso compensazione degli spossessati.

Vedete il discorso del demanio come porta lontano?

Contabilizzare il capitale naturale, infatti, sarebbe una garanzia per i paesi poveri, che non sono affatto poveri in termini di risorse naturali: solo che non sono loro, ma altri, a godere del loro sfruttamento finanziario.

Fabio

--

 

Implicazioni ecologiste della teoria del demanio.

Credo che, da quanto ho detto in precedenti interventi, le implicazioni ecologiste della contabilizzazione del demanio, che ricomprende il capitale naturale, siano evidenti, anche solo per il fatto che contabilizzare un bene reca con sé anche il fatto di attribuirgli un prezzo di mercato.

Viene così smentita la tesi anarco-capitalista o liberista austriaca, per la quale la risorsa naturale, prima di essere appropriata dal capitalista, non varrebbe nulla, essendo per quella dottrina politica res nullius.

Se invece la risorsa naturale ha un valore assegnato, in quanto res communis e non nullius, il capitalista non se ne può appropriare gratis, ma deve pagare un prezzo alla comunità.

Si tratta in altri termini di fare assurgere l’impronta ecologica a elemento del prezzo di mercato, laddove viceversa il capitalista che se ne appropria gratis produce esternalità negative non indennizzate.

Questo vale massimamente nei paesi poveri, ad esempio in Africa, dove le comunità locali sono depredate delle loro risorse naturali da parte delle multinazionali (ivi compresi, oggi, i soggetti cinesi), senza ottenere nulla in cambio, se non “posti di lavoro” ad alto tasso di sfruttamento, come nelle cave, miniere, etc.

Si veda oggi la discussione sulle “terre rare” e preziose cinesi: teoricamente, per la teoria geolibertaria, sarebbero di proprietà comune di tutti gli abitanti della Terra e non del governo cinese, sicché la loro estrazione dovrebbe comportare compensazione a tutti per le esternalità ambientali procurate, oltre che per il loro valore potenziale di mercato, elevatissimo.

Tutto ciò implica dunque una critica del colonialismo e dell’imperialismo, se, come vi ho già detto, molti paesi poveri non sono affatto poveri in risorse naturali, salvo che queste vengono appropriate da altri.

Attribuire un valore e un prezzo è quindi azione di garanzia, per i popoli e per l’ambiente, dato che le estrazioni avrebbero un costo per chi le fa, disincentivandole, o comunque comportando compensazione a vantaggio dei popoli.

Seguite i gruppi georgisti e geolibertari su Facebook per altri spunti.

Si noti che Henry George era un sostenitore della “tassa unica”, ossia sull’uso del suolo, e ora diciamo per l’uso e le estrazioni delle risorse naturali del suolo e del sottosuolo (e anche del soprasuolo).

Henry George era per questo considerato una sorta di socialista liberale, dato che era contro l’imposta sul reddito. Io però invece di parlare di “tassa unica”, preferisco parlare di canoni e di corrispettivi.

Fabio

 

 

 

Nessun commento:

Posta un commento