Nei suoi primi dieci giorni di partecipazione alla mailing-list del Comitato Nazionale di Radicali Italiani, Fabio Massimo Nicosia è intervenuto più volte con ampi interventi sulla questione della contabilizzazione del demanio, affrontando il discorso da diverse prospettive. Qui raccogliamo questi interventi a beneficio di chi voglia approfondire l'argomento.
Lettera
a Draghi sulla contabilizzazione del demanio.
Oggi volevo cominciare a proporre la
questione della contabilizzazione del demanio, mostrandovi la lettera aperta
che come Partito Libertario abbiamo inviato al presidente incaricato Draghi.
Aggiungo che, ipotizzando forme di
valorizzazione finanziaria del demanio -capitale naturale e artificiale che,
ripeto è di titolarità diretta dei cittadini- a ognuno spetterebbe una quota di
utile, non intermediato dalla burocrazia.
Per noi sarebbe una formula libertaria
di "welfare", in quanto consistente in denaro sonante da spendere sul
mercato come si vuole.
Nella vicenda Covid abbiamo visto come
il welfare sia tirannico, e come ancor più possa esserlo è mostrato dal
delirante libro di Speranza, che preconizza una sorta di 1984 orwelliano
fondato sul controllo sanitario (leggetevi l'ultima parte del libro). E'
proprio un comunista di quando si dice che uno è un comunista.
Ecco la lettera aperta a Draghi.
Chiarissimo
Professore
Mario Draghi
Presidente
del Consiglio Incaricato
ROMA
Gentile
Professore,
anche noi del
Partito Libertario intendiamo prendere parte, con questa forma, alle
consultazioni per la formazione del nuovo governo, offrendo il presente
contributo.
Anzitutto
auspichiamo che si ritorni alla normalità costituzionale, con integrale
ripristino dell’esercizio pratico dei diritti fondamentali: come ha affermato
da Presidente della Corte Costituzionale la Prof. Marta Cartabia, infatti, la
nostra Costituzione non conosce stati di eccezione di sorta con riferimento a
quei principi; e non per caso, ma per scelta deliberata dei Padri Costituenti,
tanto più alla luce delle esperienze passate, e in particolare di quella della
Costituzione di Weimar.
Per quanto
riguarda invece le questioni di carattere economico-finanziario, riteniamo di
concentrarci su di un unico punto, peraltro sufficientemente comprensivo: la
necessità di rispettare la legge, contabilizzando correttamente il demanio,
ossia i beni di cui all’art. 822 c.c., oltre all’etere, in quanto dichiarato
demanio dalla Corte Costituzionale con più sentenze.
Dispone
infatti l’art. 14 (Conto generale del patrimonio), c. 2, del Decreto
Legislativo 7 agosto 1997, n. 2799 (Legge finanziaria Ciampi): “Ai fini
della loro gestione economica i beni di cui all’art. 822 del Codice civile,
fermi restando la natura giuridica e i vincoli cui sono sottoposti dalle
vigenti legge, sono valutati in base a criteri economici ed inseriti
nel Conto generale del patrimonio dello Stato”.
Ora, ciò
avviene attualmente in modo solo simbolico e forfettario, senza alcuna
accuratezza analitica, sicché i valori indicati nel conto del patrimonio sono,
ci sia consentito dirlo, ridicoli, rispetto al carattere poderoso dei beni di
cui all’art. 822 c.c.; oltre all’etere, del quale usufruiscono emittenti
radiotelevisive e colossi del web, autentici free
rider del demanio, il che contribuisce a spiegare i loro utili
iperbolici.
In base
all’art. 822 c.c., infatti, “Appartengono allo Stato e fanno parte del
demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti; i fiumi, i
torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia;
le opere destinate alla difesa nazionale.
Fanno
parimenti parte del demanio pubblico, se appartengono allo Stato, le strade, le autostrade e le strade ferrate;
gli aerodromi; gli acquedotti; gli immobili riconosciuti di interesse storico,
archeologico e artistico a norma delle leggi in materia; le raccolte dei musei,
delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche; e infine gli altri beni
che sono dalla legge assoggettati al regime proprio del demanio pubblico”
A tutto ciò,
oltre a dovere aggiungere l’etere, va assommato anche il valore dei
grandiosi know how, di cui lo Stato dispone in tutti i settori in
cui esprime capacità e potenza in termini di beni immateriali.
Si tratta,
quindi, di un poderoso capitale naturale e artificiale, fisso e circolante,
materiale e immateriale, di valore inestimabile (al quale aggiungere quelle del
patrimonio in senso più lato, ad esempio tutte le infrastrutture, opere
pubbliche e simili), che appartiene direttamente ai cittadini.
Già i grandi
giuristi bolognesi del medioevo, infatti, ritenevano che questi “beni della
corona”, inalienabili da parte del sovrano, pena la violazione del giuramento
di incoronazione, fossero in ultima analisi riconducibili al “popolo”,
anche perché, in base alle Sacre Scritture, “Dio ha donato la Terra in comune
agli uomini”.
Venendo a
tempi più vicini a noi, è almeno dal XIX secolo che la dottrina
costituzionalistica è unanime nel ritenere il demanio, in quanto afferente alla
sovranità, di diretta e immediata proprietà del popolo sovrano.
Siffatta
contabilizzazione non avrebbe certo un valore solo formale.
Intanto si
tratterebbe di una grande operazione di trasparenza, dato
che i cittadini conoscerebbero finalmente il valore delle ricchezze di cui
dispongono, laddove evidentemente esistono interessi che premono, come avrebbe
detto Amilcare Puviani, per l’occultamento di tali valori
economico-finanziari.
Inoltre,
sarebbe garanzia che eventuali dismissioni avvengano a valore di mercato e non
si riducano a svendite, come inevitabilmente avviene quando si cede un bene di
cui non si conosce il valore.
La contabilizzazione
in base a criteri economici, così come previsto dalla legge, consente poi di
considerare tali beni come produttivi: di utili, di rendite,
di royalties (si pensi agli innumerevoli marchi di cui dispone
lo Stato, non riconosciuti come tali), e così via, i quali, a nostro avviso,
non devono andare a cadere nel “calderone” statale, ma, sulla base del
principio costituzionale che il demanio è dei cittadini,
devono andare direttamente ai cittadini, il che consente
anche di trovare una copertura finanziaria alle prospettate ipotesi di reddito
universale.
In
definitiva, si tratta di prendere esempio dal modello Alaska, ove un fondo
raccoglie gli introiti derivanti dal petrolio, per distribuirli direttamente ai
cittadini e non alla burocrazia.
Ora, tutto
ciò assume in prospettiva particolare rilevanza, dato che si parla di
realizzazione, a carico della spesa pubblica e del debito pubblico, quindi di
denaro dei cittadini, di grandi realizzazioni infrastrutturali, materiali e
digitali, e allora sarebbe ottima cosa che anche di tali prospettati
interventi vi fosse adeguata indicazione nel Conto
generale del patrimonio, di tal che per i cittadini non si tratti solo di una
spesa, ma di investimenti in conto capitale, i cui esisti risultino chiaramente
dalle scritture contabili.
Augurando
successo alla Sua iniziativa, Le porgo i saluti più cordiali.
Avv. Fabio
Massimo Nicosia
Presidente
del Partito Libertario
Presupposti
filosofico-politici della valorizzazione e contabilizzazione del demanio
Cari compagni
(uso questa espressione perché questo è un intervento di sinistra), oggi vorrei
inquadrare la questione del demanio in un più ampio contesto
filosofico-politico.
Io ebbi
la prima volta l’intuizione della contabilizzazione del demanio nel 2005 o
2006, allorché mi trovavo a scrivere il mio libro “Il dittatore libertario –
Anarchia analitica tra comunismo di mercato, rendita di esistenza e sovranity
share”, che poi uscì solo nel 2011 con Giappichelli, mentre mi trovavo in
comunità psichiatrica, mercé il provvido intervento del Prof. Guido Corso, il
quale, consapevole della mia situazione, volle assolutamente che fosse
pubblicato.
L’intuizione
nacque da questo interrogativo: “Perché se una spa è proprietaria di un
terreno, quel terreno risulta dal suo bilancio o stato patrimoniale, ai sensi
dell’art. 2224 c.c., mentre se il comune gli espropria quel terreno il valore
di questo asset si volatilizza, dato che non se ne trova traccia nel bilancio o
stato patrimoniale del comune?”.
Allora
mi misi a leggere manuali di contabilità dello Stato, relativamente recenti o
anche antichi, dai quali trassi l’argomento che il demanio non poteva essere
contabilizzato, per il fatto di essere afferente alla sovranità, e la
sovranità, in quanto extra commercium, non si contabilizza.
Io
trovai puzza di truffa in questo argomento, che era comunque arcaico alla luce
degli studi di Public Choice di James Buchanan e di Gordon
Tullock, i quali proponevano esattamente un’analisi economica della politica e
dello Stato, peraltro dichiaratamente sulla scorta degli studi di scienza delle
finanze italiani, in particolare di quelli del radicale Antonio
de Viti de Marco, idolo di James Buchanan.
Allora
decisi comunque di sostenere la tesi della contabilizzazione, pur essendo
all’oscuro del fatto che esistesse una legge finanziaria Ciampi, che quella
contabilizzazione prevedeva, ribaltando in poche righe un tradizione
ultra-secolare.
A mio
avviso Ciampi prevedeva ciò in una logica di vendita del demanio, al fine di
non renderla una svendita, perché non dimentichiamo che gli anni ’90 furono
dall’inizio epoca di dismissione della proprietà industriale pubblica, e Ciampi
era del giro dei Prodi, dei Draghi di allora, degli Amato, ossia dei
sostenitori e attori di quelle dismissioni, che qui non voglio giudicare, ma
solo inquadrare nel contesto (Mani Pulite, Maastricht, fine politica di Craxi).
Tuttavia,
al di là delle intenzioni, la norma esiste, e noi possiamo utilizzarla ad altri
fini, che per me sono quelli della valorizzazione del demanio a vantaggio
diretto e immediato dei cittadini, che ne sono i diretti e immediati
proprietari come da dottrina antica e moderna.
Senonché
in un secondo momento mi sono reso conto che questa proposta di valorizzazione
demaniale si sposasse perfettamente con la mia proposta di filosofia politica,
della quale rappresentava null’altro che una specificazione e un’articolazione:
ossia la tesi filosofico-politica che la Terra è comune agli uomini,
e il demanio non è altro che la Terra comune agli uomini di diritto
positivo, e non solo filosofica.
Mi sono
convinto che la Terra fosse res communis e non res
nullius verso la fine degli anni ’90, il che comportò il mio distacco
dal gruppetto anarco-capitalista di allora, che sosteneva che le Terra fosse
appunto res nullius, come resi pubblico con un mio lungo articolo
su A – Rivista Anarchica del 1999.
Ciò
comporta a mio avviso –differenza fondamentale rispetto agli
anarco-capitalisti- che, non essendo alcuno legittimato di per sé a imporre
unilateralmente vincoli morali o giuridici all’altro, l’appropriazione
proprietaria non possa essere unilaterale, ma debba essere fondata sul
consenso: salvo che un consenso va acquisito, va comprato, il che costituisce
un fondamento per un utile di base a favore del non proprietario (salvo che non
valga la regola del “tutti proprietari”).
Il
fatto è che gli anarco-capitalisti di scuola economica austriaca, come Israel
Kirzner e Murray Rothbard, ritengono che le risorse naturali non
valgano assolutamente nulla fin quanto un imprenditore non le lavori:
ho confutato questa tesi nel mio recente libello “Vademecum del dittatore
libertario – Problemi della transizione e programma del Partito Libertario”, De
Ferrari, 2021, affermando che le risorse naturali possiedono già un valore di
mercato potenziale già prima di essere apprese, altrimenti
nemmeno verrebbero apprese, altrimenti l’imprenditore non cercherebbe di
impossessarsene (tradotto: le multinazionali fanno land grabbing nei
paesi poveri corrompendo i governanti locali, che rendono res nullius quella
che dovrebbero salvaguardare come res communis dei propri
cittadini).
La tesi
che la Terra sia res communis ha probabilmente radici
religiose, dato che se ne parla nell’Antico Testamento, tesi in particolare
argomentata da Ambrogio, nato a Treviri come Marx, vescovo e patrono di Milano.
Dopo di che la tesi si trova in John Locke, padre del liberalismo, secondo il
quale gli impossessamenti individuali sono soggetti e subordinati a un proviso,
ossia alla clausola condizionante che agli altri residui altrettanta terra e
altrettanto buona, sulla base della solita premessa che Dio ha donato la Terra
in comune agli uomini.
Si noti
che gli anarco-capitalisti affermano di rifarsi a Locke, ma barano, dato che
Rothbard, ne “L’etica della libertà” censura addirittura il passo geo-comunista
di Locke nella citazione! Semmai dovrebbero rifarsi a Pufendorf, ma nemmeno del
tutto.
Oggi la tesi
della res communis è sostenuta dai left-libertarian americani
(citerò Otsuka e Vallentyne), ossia una sinistra libertaria dialettica nei
confronti dei libertarians alla Nozick, per quanto Nozick
stesso non sia chiaro su questo punto.
Io ho approfondito
tutti questi temi nel mio “L’eguaglianza libertaria – Contraddizione,
conciliazione, massimizzazione”, Aracne, 2020, che ho fatto tradurre anche in
inglese, venendo recensito positivamente dal sito del principale think-tank left-libertarian,
ossia il Center for a Stateless Society, che vi suggerisco di
consultare spesso, dato che propone molti studi economici molto interessanti in
chiave di libertarismo di mercato “di sinistra”: ossia non tenero con i
capitalisti reali.
In
America, in particolare, oggi esiste un movimento geo-libertario, che quindi
vuole coniugare il libertarismo con la tesi della comunione originaria della
Terra, che si rifà in buona parte alle tesi dell’economista del XIX secolo
Henry George (per cui “geo” sta sia per Terra, sia per “georgista”).
L’inventore del termine geo-libertarian è l’economista Fred Foldvary, con il
quale sono in contatto e che ha aderito al gruppo Facebook del Partito
Libertario.
Perché
ritengo che tutto ciò debba interessare i radicali?
Perché
penso che appartenga oggi ai radicali un ethos liberal-socialista, più che non
puramente liberista come negli anni ’90, il che comporta a mio avviso una
ripresa del linguaggio socialista libertario degli anni ’70, certo, più
consapevole di Hayek e della teoria del mercato, ma con un’attenzione ai ceti
deboli che non sprofondi nello statalismo welfarista: ergo è ai
left-libertarian, che propongono un’economia di mercato che non vada a
vantaggio del grande capitale, che occorre guardare come linea ispiratrice,
quindi pregasi ridurre le dosi di Istituto Bruno Leoni (per quanto io sia stato
studioso di Bruno Leoni, ma con riferimento alla sua filosofia del diritto, non
certo a proposizioni sue quale quella di mettere fuorilegge lo sciopero).
Scusate la
lunghezza, ma tanto valeva cogliere l’occasione per dire più cose possibili.
Fabio
Critica
del capitalismo e forme contemporanee dell’accumulazione originaria.
Mr. Jeff
Bezos ha acquistato la barca a vela più lussuosa del mondo, buon per lui (cioè,
a me fregherebbe un cazzo di avere una barca a vela, quindi davvero buon per
lui).
Non sono
invidioso per natura (anche perché di solito dovrei invidiare persone inferiori
a me, il che sarebbe autocontraddittorio), e nemmeno pauperista, quindi non
contesto la ricchezza in linea di principio: anzi, la ammetto come forma del
pluralismo, dato che più sono i ricchi, più sono i centri di potere in
competizione, il che è sano e antimonopolista, almeno in teoria, sempre che non
colludano (e semmai nella realtà di oggi colludono con lo Stato).
Tuttavia
emerge un petì problèm: ossia che Bezos si arricchisce a dismisura, ossia, non
si tratta di una ricchezza qualsiasi come quella di qualche decennio fa
(daneistocrati a parte), perché fa uso da free rider della
risorsa di capitale comune più importante di oggi: il web. Lo
stesso vale per Google, Facebook, Apple e altri, ossia tutti coloro i quali si
giovano gratis delle risorse di tutti, ossia del demanio (e siamo sempre lì).
Abbiamo qui
un problema di omessa definizione dei diritti di proprietà, anzi, una duplice
omissione:
a)
Omessa definizione dei diritti di proprietà dei dati, atteso che la normativa
sulla privacy non assegna i dati in proprietà al cittadino-utente, sicché la
loro titolarità in sfruttamento viene ceduta gratis con un clic di accettazione
(wrap contracts) alla navigazione:
b)
Omessa definizione dei diritti di proprietà comune del web e
in genere del demanio, dimodoché il gigante del web fa scorrerie sulla
proprietà comune non riconosciuta, sfruttando come res nullius la res
communis, e quindi non riconoscendo compensazione ai titolari della res
communis, che siamo noi.
Siamo quindi
di fronte a una moderna forma dell’acquisizione originaria capitalista.
Come loro
sanno, Marx, al Cap. XXIV del Libro Primo del Capitale, illustra da par suo le
forme dell’accumulazione originaria dei secoli precedenti, sub specie di
appropriazione unilaterale non compensativa di terre, attraverso l’imposizione
delle cosiddette enclosures: ossia certuni, in genere nobili, recintavano senza
autorizzazione di nessuno porzioni di territorio comune,
sgomberando con la forza i contadini, i quali venivano così deprivati dei
diritti feudali, che ab antiquo competevano loro.
Attraverso
questo forzoso sradicamento, ad esempio ai tempi di Giacomo Primo Stuart, il
contadino era costretto all’urbanizzazione forzata, e a farsi obbligato operaio
di fabbrica, in conseguenza del fatto che le leggi di Giacomo I prevedevano
l’uccisione, la mutilazione e il marchio incandescente sul vagabondo e il mendicante.
Il fenomeno
delle enclosures fu di portata europea, si è avuto non solo in
Inghilterra, ma anche in Francia e da noi, attraverso varie normazioni
sulle chiudende, che abolivano gli usi civici sulle terre già
comuni, ossia il diritto di legnatico, di pascolo, di raccolto e simili.
In altri
termini, siffatta accumulazione originaria consistette in una rapina di terre
in danno della popolazione povera, che viveva di beni comuni: non i beni
comuni ad cazzum di Speranza, ma beni comuni veri e materiali,
risorse naturali, ossia capitale naturale.
L’accumulazione
originaria di oggi è quella del web: Bezos e gli altri se ne appropriano
unilateralmente con le sue chiudende, senza compensare la popolazione
per tale privazione forzosa di capitale comune.
In effetti, a
ben vedere, il capitalismo per il mondo agisce esattamente su tale presupposto:
trattare le risorse naturali da res nullius, il che ne consente
teoricamente l’appropriazione, invece che da res communis, il che
consentirebbe l’appropriazione solo attraverso compensazione dei depauperati:
il tutto con la complicità dei governi, i quali, omettendo di contabilizzare il
capitale comune (demanio), lo trattano da res nullius depredabile
e non da res communis, utilizzabile solo attraverso compensazione
degli spossessati.
Vedete il
discorso del demanio come porta lontano?
Contabilizzare
il capitale naturale, infatti, sarebbe una garanzia per i paesi poveri, che non
sono affatto poveri in termini di risorse naturali: solo che non sono loro, ma
altri, a godere del loro sfruttamento finanziario.
Fabio
--
Implicazioni ecologiste della teoria del demanio.
Credo che, da quanto ho detto in
precedenti interventi, le implicazioni ecologiste della contabilizzazione del
demanio, che ricomprende il capitale naturale, siano evidenti, anche solo per
il fatto che contabilizzare un bene reca con sé anche il fatto di attribuirgli
un prezzo di mercato.
Viene così smentita la tesi
anarco-capitalista o liberista austriaca, per la quale la risorsa naturale,
prima di essere appropriata dal capitalista, non varrebbe nulla, essendo per
quella dottrina politica res nullius.
Se invece la risorsa naturale ha un
valore assegnato, in quanto res communis e non nullius,
il capitalista non se ne può appropriare gratis, ma deve pagare un prezzo alla
comunità.
Si tratta in altri termini di fare
assurgere l’impronta ecologica a elemento del prezzo di mercato, laddove
viceversa il capitalista che se ne appropria gratis produce esternalità
negative non indennizzate.
Questo vale massimamente nei paesi
poveri, ad esempio in Africa, dove le comunità locali sono depredate delle loro
risorse naturali da parte delle multinazionali (ivi compresi, oggi, i soggetti
cinesi), senza ottenere nulla in cambio, se non “posti di lavoro” ad alto tasso
di sfruttamento, come nelle cave, miniere, etc.
Si veda oggi la discussione sulle
“terre rare” e preziose cinesi: teoricamente, per la teoria geolibertaria,
sarebbero di proprietà comune di tutti gli abitanti della Terra e non del
governo cinese, sicché la loro estrazione dovrebbe comportare compensazione a
tutti per le esternalità ambientali procurate, oltre che per il loro valore
potenziale di mercato, elevatissimo.
Tutto ciò implica dunque una critica
del colonialismo e dell’imperialismo, se, come vi ho già detto, molti paesi
poveri non sono affatto poveri in risorse naturali, salvo che queste vengono
appropriate da altri.
Attribuire un valore e un prezzo è
quindi azione di garanzia, per i popoli e per l’ambiente, dato che le
estrazioni avrebbero un costo per chi le fa, disincentivandole, o comunque
comportando compensazione a vantaggio dei popoli.
Seguite i gruppi georgisti e
geolibertari su Facebook per altri spunti.
Si noti che Henry George era un
sostenitore della “tassa unica”, ossia sull’uso del suolo, e ora diciamo per
l’uso e le estrazioni delle risorse naturali del suolo e del sottosuolo (e
anche del soprasuolo).
Henry George era per questo
considerato una sorta di socialista liberale, dato che era contro l’imposta sul
reddito. Io però invece di parlare di “tassa unica”, preferisco parlare di
canoni e di corrispettivi.
Fabio
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