-->

mercoledì 28 aprile 2021

Il maoismo consapevole del DDR Zan

 di Fabio Massimo Nicosia

Il disegno di legge Zan (ambiziosamente intitolato “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”) è ispirato alla stessa ideologia stalinista o maoista (del resto è prevista esplicitamente la rieducazione dell’omofobo presso le associazioni gay), che ha espresso il ministro Speranza nel suo libro, vale a dire che occorre minacciare di sanzione, in questo caso penale, quindi di carcerazione, il cittadino, affinché egli sia “educato” o “rieducato” ai corretti costumi; e, in effetti, Speranza rientra tra i promotori della legge, dato che si confà alla sua mentalità autoritaria come un vestito calzato a pennello.

Al di là di molte questioni giuridiche non irrilevanti, su cui tornerò, infatti, l’intento del DDR, più che DDL, Zan è infatti di “incidere sul costume”, e allora viene subito da interrogarsi sul fatto se sia lecito che uno Stato di diritto pretenda di incidere sul costume minacciando il carcere a chi non segue le nuove direttive su ciò che debba essere buona consuetudine. Non vi sarebbe sorpresa, quindi, se presto arrivassero proposte di sanzioni penali per il cosiddetto cat-calling, ispirate alla stessa perversa logica di educare minacciando, il che ci viene proposto da “sinistra” a dispetto di tante belle lezioni di “sinistra”, di segno esattamente contrario quanto all’uso del diritto penale, impartiteci negli anni.

Viene allora in mente il testamento spirituale di Pier Paolo Pasolini, che fu rappresentato dallo scritto, che il regista-poeta avrebbe dovuto leggere al congresso del Partito Radicale del 1975; Pasolini, con una lucidità che appare oggi fulminante, ammonì Pannella, che stimava, sul fatto che le sue battaglie sui “diritti civili”, come si diceva allora, una volta che se ne fosse impossessata la sinistra comunista, e ora post-comunista, sarebbero diventati esclusivamente misura di un nuovo conformismo, quello che oggi ci è noto come conformismo politicamente corretto della sinistra fucsia. Ma in realtà, come si è detto, si è andati addirittura oltre, per cui il nuovo conformismo, indipendentemente dalle buone intenzioni dichiarate, viene imposto a suon di minacce di violenza.

Si può dire che, in un certo palpabile senso, la minaccia della sanzione penale svolga oggi lo stesso ruolo che, negli anni post-sessantotto, svolgeva l’”educativa” misura della chiave inglese o della spranga sulla testa dei recalcitranti all’allineamento: un altro passo nella direzione di quell’”egemonia culturale” della sinistra, un’egemonia fondata sulla costrizione, della quale parla Roberto “DDR” Speranza nel suo noto libello, lo stesso personaggio che invita alla delazione dagli schermi televisivi.

Va però anche detto chiaramente che questa legge sui diritti civili della sinistra post-comunista è sì espressione di un nuovo conformismo imposto (alcuni diranno, giustamente imposto, ma si tratta di persone che non hanno alcuna dimestichezza con i principi del diritto penale liberale), ma è anche poi una fetenzia di disegno di legge dal punto di vista tecnico.

Anzitutto, all’art. 1, lett. d, si fornisce questa definizione di identità di genere: ”per identità di genere si intende l’i­dentificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dal­l’aver concluso un percorso di transizione”.

In pratica, si introduce il principio dell’autocertificazione con riferimento all’identità di genere. Ora, io, in quanto libertario, non ho nulla da eccepire a che ognuno si autoqualifichi come meglio ritiene: ad esempio, io, nella mia vita privata, potrei autodefinirmi come donna lesbica, e nessuno avrebbe titolo per obiettare.

Tuttavia un legislatore ha altri oneri, rispetto a quelli di un privato nella sua vita privata, e quindi deve farsi carico delle conseguenze di quanto stabilisce per legge. Le femministe dette radicali, che in questo caso sono femministe ragionevoli come Marina Terragni, hanno messo in guardia dalle conseguenze che si vengono a determinare in applicazione del principio dell’autocertificazione, e qualche caso l’abbiamo già visto negli Stati Uniti d’America: pugili che, affermandosi donna, affrontano vere donne sul ring riducendole in poltiglia; atleti maschi sedicenti femmine che vincono per grande distacco gare di corsa femminili; detenuti che chiedono di essere trasferiti nei reparti femminili, creando panico e terrore tra le detenute, e così via.

Ma poi, se mi autodichiaro donna, potrò anche solo entrare nei bagni e negli spogliatoi femminili, o vengo preso per maniaco? Perché se il principio è quello della non discriminazione del trans autocertificato (e nemmeno operato), potrà poi in giudizio il giudice verificare che io non sia un ciarlatano e, quindi, la mia buona fede? Nel DDR Zan nulla viene detto a tali fondamentali propositi, i promotori fanno come le tre scimmiette e non ci spiegano come tutto ciò sarà regolato in concreto: siamo quindi evidentemente di fronte a degli irresponsabili.

D’altra parte, è lo stesso concetto di “discriminazione” a rimanere alquanto indeterminato, e già l’abbiamo visto con la giurisprudenza formatasi sulla legge Mancino. Anche qui si sa e si capisce poco. Ad esempio, qualcuno che invitasse a una festa i colleghi di lavoro, escludendo (per qualsiasi ragione) il collega omosessuale, commetterebbe reato? Perché altri sarebbero i discorsi se fossero impostati in termini puramente civilistici, ma qui, come da detto popolare, “si va nel penale”.

Il fatto è che nella forma mentis comunista, come in quella fascista, il cittadino è considerato una sorta di organo dello Stato, sicché si applicano a lui le stesse leggi e gli stessi principi che si applicano allo Stato. Infatti, lo Stato deve garantire il principio di parità di trattamento, e quindi, per esempio, non può escludere un omosessuale dall’insegnamento. Il cittadino, invece, dovrebbe essere soggetto al solo principio di libertà nei limiti del neminem laedere, e quindi dovrebbe essere liberissimo di non ingaggiare un omosessuale come precettore del figlio: sarà pure una discriminazione stupida, e può anche rivelarsi controproducente e autolesionista, ma non si può pretendere che assurga a violazione di precetto penale e a ragione di incarcerazione!

E allora vediamo al punto forse più delicato e più rilevante dal punto di vista pratico: quello della libertà di manifestazione del pensiero. Già, perché l’on. Zan ha già dichiarato che anche a tale proposito si tratta di “educare” e “rieducare”, ad esempio guai a chi esprimesse opinioni “discriminatorie” sull’utero in affitto per i gay (va pur riconosciuto che il Movimento LGBT eccetera ha pagato uno scotto di impopolarità proprio per la vicenda Vendola, ossia quella di un sedicente comunista che compra al mercato un bambino da una donna povera).

Ebbene, su questa questione della libertà di espressione pare abbia molto insistito in particolare la destra, ma non pare che gli esiti della mediazione siano meravigliosi, e quindi nemmeno la destra fa una grande figura in questa vicenda: anzi, quegli esiti peggiorano il quadro normativo rispetto a quanto non sarebbe in assenza proprio dell’art. 4, ossia la disposizione che intenderebbe assicurare “Pluralismo delle idee e libertà delle scelte”.

Conviene riportare per intero questo abominio giuridico: “Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime ri­conducibili al pluralismo delle idee o alla li­bertà delle scelte, purché non idonee a de­terminare il concreto pericolo del compi­mento di atti discriminatori o violenti”.

Dal che si ricava, anzitutto, che il legislatore di “sinistra” fatica a usare la normale locuzione “libertà di manifestazione del pensiero”, dato che non giova ai suoi fini, e allora parla in modo poco tecnico di “libera espressione di convincimenti e opinioni”, e va bene. E le fa salve, insieme alle condotte “legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte”, ma, come dirò subito, con dei limiti piuttosto stravaganti. Si noti intanto che il premuroso (aspirante) legislatore, fa salve condotte “legittime”. In termini tecnici, si tratta di una circolarità, dato che è del tutto ovvio che se una condotta è “legittima” è fatta salva, ma lo è a livello costituzionale, non per concessione graziosa del legislatore, e quindi si tratta di un mero e superfluo rinvio al principio costituzionale di cui all’art. 21.

Ma, si badi bene, qui l’aspirante legislatore ordinario pretende di imporre una deroga al principio costituzionale da esso stesso invocato, precisando che alcune “legittime” condotte (“purché”, infatti, dice la norma) sono escluse da quelle che l’art. 21 Cost. ammetterebbe! Vale a dire quelle “idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”; si introduce così quindi, il concetto alquanto stalinista o maoista, o anche fascista, di “opinione pericolosa”, che non è chiaro in quale modo determinerebbe il pericolo di compimento di atti discriminatori o violenti: del resto, nemmeno è richiesto che tali atti discriminatori o violenti si verifichino, né viene precisato in che modo vi sia nesso tra “opinione” e “atto discriminatorio o violento”, dato che non si richiede nesso di causalità, né infine viene chiarito se si debba trattare di atti propri o altrui; quindi, come ha notato Giandomenico Barcellona, ci troveremmo innanzi a un caso di responsabilità (oggettiva) per atto altrui, in presenza di un nesso logico con la nostra espressione di opinione del tutto evanescente, e nemmeno di causa/effetto.

Con tale limitazione, la norma pretende di disapplicare direttamente l’art. 21 della Costituzione, e quindi rappresenta qualcosa di più di una semplice norma incostituzionale, per rivelarsi una norma radicalmente nulla, data la sua pretesa di derogare, in pratica esplicitamente, alla Costituzione stessa: si tratta perciò a mio avviso di norma disapplicabile direttamente dal giudice in quanto giuridicamente inesistente.

Anche qui siamo di fronte a una tendenza generale della sinistra odierna, ossia quella di trattare la nostra Costituzione rigida da Costituzione flessibile: e si badi che, alle basi della dittatura fascista, sul piano formale, si è posto proprio l’approfittare, da parte di Mussolini, del fatto che lo Statuto Albertino fosse una costituzione flessibile e non rigida, e da qui i famosi decreti del 1925-1926.

Infatti, il solito ministro Speranza, nel suo libro ritirato dal commercio (e si capisce bene perché), riconosce esplicitamente che il governo ha leso diritti di rango costituzionale (pag. 153), ma fa questa affermazione con nonchalance, come se fosse nei suoi poteri farlo a propria discrezione, trattando la Costituzione come un elastico, per cui oggi vi si deroga e un domani vi si ritorna come se niente fosse.

In definitiva, a ben vedere, il DDR Zan non è nemmeno poi così tanto preoccupante, se destinato in grande parte a rimanere disapplicato; esso è invece molto pericoloso per la “cultura” che pretende di esprimere, una cultura che mira a essere “egemonica”, ma a farlo con la minaccia della violenza. In effetti, visto il dibattito in corso, non è tanto il progetto Zan che mi preoccupa, ma, come direbbe Woody Allen, il suo fan club.

Avv. Fabio Massimo Nicosia – Presidente del Partito Libertario

 

 

 

 

 

Nessun commento:

Posta un commento