di Fabio Massimo Nicosia
Il disegno di legge Zan (ambiziosamente intitolato “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”) è ispirato alla stessa ideologia stalinista o maoista (del resto è prevista esplicitamente la rieducazione dell’omofobo presso le associazioni gay), che ha espresso il ministro Speranza nel suo libro, vale a dire che occorre minacciare di sanzione, in questo caso penale, quindi di carcerazione, il cittadino, affinché egli sia “educato” o “rieducato” ai corretti costumi; e, in effetti, Speranza rientra tra i promotori della legge, dato che si confà alla sua mentalità autoritaria come un vestito calzato a pennello.
Al di là di molte
questioni giuridiche non irrilevanti, su cui tornerò, infatti, l’intento del
DDR, più che DDL, Zan è infatti di “incidere sul costume”, e allora viene
subito da interrogarsi sul fatto se sia lecito che uno Stato di diritto pretenda
di incidere sul costume minacciando il carcere a chi non segue le nuove
direttive su ciò che debba essere buona consuetudine. Non vi sarebbe sorpresa,
quindi, se presto arrivassero proposte di sanzioni penali per il cosiddetto cat-calling, ispirate alla stessa
perversa logica di educare minacciando, il che ci viene proposto da “sinistra”
a dispetto di tante belle lezioni di “sinistra”, di segno esattamente contrario
quanto all’uso del diritto penale, impartiteci negli anni.
Viene allora in mente
il testamento spirituale di Pier Paolo Pasolini, che fu rappresentato dallo
scritto, che il regista-poeta avrebbe dovuto leggere al congresso del Partito
Radicale del 1975; Pasolini, con una lucidità che appare oggi fulminante,
ammonì Pannella, che stimava, sul fatto che le sue battaglie sui “diritti
civili”, come si diceva allora, una volta che se ne fosse impossessata la
sinistra comunista, e ora post-comunista, sarebbero diventati esclusivamente
misura di un nuovo conformismo, quello che oggi ci è noto come conformismo
politicamente corretto della sinistra fucsia. Ma in realtà, come si è detto, si
è andati addirittura oltre, per cui il nuovo conformismo, indipendentemente dalle
buone intenzioni dichiarate, viene imposto a suon di minacce di violenza.
Si può dire che, in un
certo palpabile senso, la minaccia della sanzione penale svolga oggi lo stesso
ruolo che, negli anni post-sessantotto, svolgeva l’”educativa” misura della
chiave inglese o della spranga sulla testa dei recalcitranti all’allineamento:
un altro passo nella direzione di quell’”egemonia culturale” della sinistra,
un’egemonia fondata sulla costrizione, della quale parla Roberto “DDR” Speranza
nel suo noto libello, lo stesso personaggio che invita alla delazione dagli
schermi televisivi.
Va però anche detto chiaramente
che questa legge sui diritti civili della sinistra post-comunista è sì
espressione di un nuovo conformismo imposto (alcuni diranno, giustamente
imposto, ma si tratta di persone che non hanno alcuna dimestichezza con i
principi del diritto penale liberale), ma è anche poi una fetenzia di disegno
di legge dal punto di vista tecnico.
Anzitutto, all’art. 1,
lett. d, si fornisce questa definizione di identità di genere: ”per identità di genere si intende l’identificazione
percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non
corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di
transizione”.
In pratica, si
introduce il principio dell’autocertificazione
con riferimento all’identità di genere. Ora, io, in quanto libertario, non
ho nulla da eccepire a che ognuno si autoqualifichi come meglio ritiene: ad
esempio, io, nella mia vita privata, potrei autodefinirmi come donna lesbica, e
nessuno avrebbe titolo per obiettare.
Tuttavia un legislatore
ha altri oneri, rispetto a quelli di un privato nella sua vita privata, e
quindi deve farsi carico delle conseguenze
di quanto stabilisce per legge. Le femministe dette radicali, che in questo
caso sono femministe ragionevoli come Marina Terragni, hanno messo in guardia
dalle conseguenze che si vengono a determinare in applicazione del principio
dell’autocertificazione, e qualche caso l’abbiamo già visto negli Stati Uniti
d’America: pugili che, affermandosi donna, affrontano vere donne sul ring
riducendole in poltiglia; atleti maschi sedicenti femmine che vincono per
grande distacco gare di corsa femminili; detenuti che chiedono di essere
trasferiti nei reparti femminili, creando panico e terrore tra le detenute, e
così via.
Ma poi, se mi
autodichiaro donna, potrò anche solo entrare nei bagni e negli spogliatoi
femminili, o vengo preso per maniaco? Perché se il principio è quello della non
discriminazione del trans autocertificato (e nemmeno operato), potrà poi in
giudizio il giudice verificare che io non sia un ciarlatano e, quindi, la mia buona
fede? Nel DDR Zan nulla viene detto a tali fondamentali propositi, i promotori
fanno come le tre scimmiette e non ci spiegano come tutto ciò sarà regolato in
concreto: siamo quindi evidentemente di fronte a degli irresponsabili.
D’altra parte, è lo
stesso concetto di “discriminazione” a rimanere alquanto indeterminato, e già
l’abbiamo visto con la giurisprudenza formatasi sulla legge Mancino. Anche qui
si sa e si capisce poco. Ad esempio, qualcuno che invitasse a una festa i
colleghi di lavoro, escludendo (per qualsiasi ragione) il collega omosessuale,
commetterebbe reato? Perché altri sarebbero i discorsi se fossero impostati in
termini puramente civilistici, ma qui, come da detto popolare, “si va nel
penale”.
Il fatto è che nella forma mentis comunista, come in quella fascista,
il cittadino è considerato una sorta di organo
dello Stato, sicché si applicano a lui le stesse leggi e gli stessi
principi che si applicano allo Stato. Infatti, lo Stato deve garantire il
principio di parità di trattamento, e quindi, per esempio, non può escludere un
omosessuale dall’insegnamento. Il cittadino, invece, dovrebbe essere soggetto
al solo principio di libertà nei limiti del neminem
laedere, e quindi dovrebbe essere liberissimo di non ingaggiare un
omosessuale come precettore del figlio: sarà pure una discriminazione stupida, e
può anche rivelarsi controproducente e autolesionista, ma non si può pretendere
che assurga a violazione di precetto penale e a ragione di incarcerazione!
E allora vediamo al
punto forse più delicato e più rilevante dal punto di vista pratico: quello
della libertà di manifestazione del pensiero. Già, perché l’on. Zan ha già
dichiarato che anche a tale proposito si tratta di “educare” e “rieducare”, ad
esempio guai a chi esprimesse opinioni “discriminatorie” sull’utero in affitto
per i gay (va pur riconosciuto che il Movimento LGBT eccetera ha pagato uno
scotto di impopolarità proprio per la vicenda Vendola, ossia quella di un
sedicente comunista che compra al mercato un bambino da una donna povera).
Ebbene, su questa
questione della libertà di espressione pare abbia molto insistito in
particolare la destra, ma non pare che gli esiti della mediazione siano
meravigliosi, e quindi nemmeno la destra fa una grande figura in questa vicenda:
anzi, quegli esiti peggiorano il quadro normativo rispetto a quanto non sarebbe
in assenza proprio dell’art. 4, ossia la disposizione che intenderebbe assicurare
“Pluralismo delle idee e libertà delle
scelte”.
Conviene riportare per
intero questo abominio giuridico: “Ai
fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di
convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al
pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare
il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”.
Dal che si ricava,
anzitutto, che il legislatore di “sinistra” fatica a usare la normale locuzione
“libertà di manifestazione del pensiero”, dato che non giova ai suoi fini, e
allora parla in modo poco tecnico di “libera
espressione di convincimenti e opinioni”, e va bene. E le fa salve, insieme
alle condotte “legittime riconducibili al
pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte”, ma, come dirò subito,
con dei limiti piuttosto stravaganti. Si noti intanto che il premuroso
(aspirante) legislatore, fa salve condotte “legittime”. In termini tecnici, si
tratta di una circolarità, dato che è del tutto ovvio che se una condotta è
“legittima” è fatta salva, ma lo è a livello costituzionale, non per
concessione graziosa del legislatore, e quindi si tratta di un mero e superfluo
rinvio al principio costituzionale di cui all’art. 21.
Ma, si badi bene, qui
l’aspirante legislatore ordinario pretende di imporre una deroga al principio
costituzionale da esso stesso invocato, precisando che alcune “legittime”
condotte (“purché”, infatti, dice la
norma) sono escluse da quelle che l’art. 21 Cost. ammetterebbe! Vale a dire
quelle “idonee a determinare il concreto
pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”; si introduce
così quindi, il concetto alquanto stalinista o maoista, o anche fascista, di “opinione pericolosa”, che non è chiaro
in quale modo determinerebbe il pericolo di compimento di atti discriminatori o
violenti: del resto, nemmeno è richiesto che tali atti discriminatori o
violenti si verifichino, né viene precisato in che modo vi sia nesso tra
“opinione” e “atto discriminatorio o violento”, dato che non si richiede nesso
di causalità, né infine viene chiarito se si debba trattare di atti propri o altrui; quindi, come ha notato
Giandomenico Barcellona, ci troveremmo innanzi a un caso di responsabilità
(oggettiva) per atto altrui, in presenza di un nesso logico con la nostra
espressione di opinione del tutto
evanescente, e nemmeno di causa/effetto.
Con tale limitazione, la
norma pretende di disapplicare direttamente l’art. 21 della Costituzione, e quindi
rappresenta qualcosa di più di una semplice norma incostituzionale, per
rivelarsi una norma radicalmente nulla, data la sua pretesa di derogare, in
pratica esplicitamente, alla Costituzione stessa: si tratta perciò a mio avviso
di norma disapplicabile direttamente dal giudice in quanto giuridicamente inesistente.
Anche qui siamo di
fronte a una tendenza generale della sinistra odierna, ossia quella di trattare
la nostra Costituzione rigida da Costituzione flessibile: e si badi che, alle
basi della dittatura fascista, sul piano formale, si è posto proprio
l’approfittare, da parte di Mussolini, del fatto che lo Statuto Albertino fosse
una costituzione flessibile e non rigida, e da qui i famosi decreti del 1925-1926.
Infatti, il solito
ministro Speranza, nel suo libro ritirato dal commercio (e si capisce bene
perché), riconosce esplicitamente che il governo ha leso diritti di rango
costituzionale (pag. 153), ma fa questa affermazione con nonchalance, come se fosse nei suoi poteri farlo a propria
discrezione, trattando la Costituzione come un elastico, per cui oggi vi si
deroga e un domani vi si ritorna come se niente fosse.
In definitiva, a ben
vedere, il DDR Zan non è nemmeno poi così tanto preoccupante, se destinato in
grande parte a rimanere disapplicato; esso è invece molto pericoloso per la “cultura”
che pretende di esprimere, una cultura che mira a essere “egemonica”, ma a
farlo con la minaccia della violenza. In effetti, visto il dibattito in corso,
non è tanto il progetto Zan che mi preoccupa, ma, come direbbe Woody Allen, il
suo fan club.
Avv. Fabio Massimo
Nicosia – Presidente del Partito Libertario
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