di Fabio Massimo Nicosia
1. Premessa: gli anarchici e la presa del potere.
Il 15 settembre 1872, gli anarchici della Federazione del Giura convocarono un'assemblea a Saint Imier (regione della Giura bernese in Svizzera), inteso come un Congresso straordinario dell'Internazionale operaia, e si dedicarono ad organizzare, secondo la formula di Kropotkin, “la rivolta permanente mediante la parola, lo scritto, il pugnale, il fucile, la dinamite”. Furono presenti i delegati del Giura, dell'Italia, degli Stati Uniti, e anche alcuni delegati francesi e spagnoli, mentre non si presentarono i tedeschi, gli inglesi, i belgi. La riunione sconfessò il Congresso dell'Aja dell’Internazionale, che aveva sancito l'espulsione degli anarchici, giudicandolo invalido, in quanto manipolato dai marxisti e di conseguenza ne convocarono un altro a Ginevra, che si tenne dall’1 al 6 settembre 1873.
Il Congresso di Saint
Imier fissò i punti cardine della strategia anarchica, che vengono meglio
compresi in quanto li si inquadri come proposte alternative a quelle proprie
della strategia marxiana e marxista. A parte le polemiche relative
all’organizzazione interna, che gli anarchici volevano antiautoritaria e federale,
fondata su principi volontaristici e autonomistici, la proposta principale
riguarda l’atteggiamento nei confronti degli Stati e della politica; ebbene, in
base agli enunciati di Saint Imier, “la distruzione d'ogni potere
politico è il primo dovere del proletariato”, mentre, in
polemica con i marxisti, veniva sostenuto che “l’organizzazione d'un potere politico
provvisorio sedicente rivoluzionario e capace d'accelerare la distruzione dello
Stato, non può essere che un inganno di più e sarebbe tanto pericolosa come i
governi oggi esistenti”;
e quindi, “respingendo ogni compromesso al fine di attuare la rivoluzione sociale, i
proletari d'ogni paese devono stabilire, al di fuori di ogni politica borghese,
la solidarietà dell'azione rivoluzionaria”.
Ciò in quanto “All'organismo privilegiato e autoritario
dello Stato si dovrà sostituire l'organizzazione libera e spontanea del lavoro,
che sarà una garanzia permanente del mantenimento dell'organismo economico
contro quello politico. Lasciando alla pratica della rivoluzione sociale i
dettagli dell'organizzazione positiva, noi intendiamo perciò organizzare
solidamente la resistenza su larga scala”. Lo strumento di tale resistenza è lo sciopero politico, più che non economico, perché le lotte
economiche sono in realtà strumentali alla rivoluzione politica: “Lo sciopero sarà per noi un mezzo prezioso
di lotta, benché non ci facciamo illusioni sul suoi risultati economici. Noi
l'accettiamo come un prodotto dell'antagonismo fra lavoro e capitale. In questo
antagonismo gli operai diventeranno sempre più coscienti dell'abisso che esiste
fra la borghesia e il proletariato. Attraverso le piccole lotte economiche il
proletariato si prepara alla grande lotta rivoluzionaria che distruggerà tutti
i privilegi e le classi e darà all'operaio il diritto di godere del prodotto
integrale del suo lavoro e con questo gli procurerà i mezzi di sviluppare tutta
la sua forza materiale e intellettuale e morale”.
Da quanto abbiamo
visto, emerge subito una considerazione: a differenza del marxista, che crede
nel primato dell’economico, in apparente paradosso l’anarchico crede nel primato della politica e dello Stato. Vale a
dire che, in un ordinamento lessicografico, la
forza viene prima della produzione, ne è presupposto e antecedente, e
quindi, in termini marxiani, la forza, e non l’”economia” è la reale struttura, dato che la produzione
dipende dalla forza e non la regge, dato che per rendere produttivo un suolo
bisogna prima occuparlo. Ma si noti
che gli stessi marxisti finiscono con il condividere, senza ammetterlo, la
stessa idea, nel momento in cui propongono come soluzione la conquista,
rivoluzionaria o riformista a seconda delle correnti, dello Stato per
realizzare il rivolgimento economico che hanno in mente.
Del resto, lo Stato
possiede il capitale preliminare, il demanio, sul quale tutte le altre attività
si insediano, ed è capitale detenuto con la forza e sottratto ai cittadini, una
volta che si ammetta, con la dottrina costituzionalistica, che il demanio è dei
cittadini in quanto “popolo sovrano”, e non di proprietà dello Stato persona.
Dato il primato della
forza, che lo Stato incarna, l’anarchico classico di Saint Imier, che è
fondamentalmente un seguace di Bakunin, ha quindi questa proposta: distruggere lo Stato attraverso la
rivoluzione, che è atto di forza a propria volta, quindi una forza che si
contrappone a una forza che si vuole superiore, e quindi deve trattarsi di una
forza tale da poter distruggere qualcosa che, a tutta prima, parrebbe non
scalfibile.
Senonché lo Stato non
è solo concentrazione di forza, ma anche idea
che vive nella mente delle persone, la quale funziona come sua formula di legittimazione, l’idea cioè che
quella concentrazione di forza sia indispensabile
al vivere civile e associato, “indispensabile” alla realizzazione del “bene
pubblico”, per la quale si ritiene quindi occorra esercizio di forza e
autorità; e quell’idea viene diffusa tra la popolazione attraverso
un’incessante propaganda, che conduce alla sua diffusa accettazione: sicché
l’atto di forza rivoluzionario deve essere in grado di distruggere, insieme a
un apparato, anche una concezione ideale, ovvero confidando nel fatto che la
maggior parte delle persone sia semplicemente acquiescente, e sarebbe
acquiescente nei confronti di qualsiasi sistema, e quindi nemmeno si pone il
problema, con la conseguenza che sarebbe perfettamente in condizione di
accettare anche la nuova proposta.
Però le cose non
paiono in realtà così semplici. Gli anarchici si vogliono antiautoritari, e tuttavia fu Lenin a richiamare la loro
attenzione, nel volumetto Stato e
rivoluzione, nel quale il leader bolscevico espose la dottrina marxista
dello Stato e dell’estinzione dello Stato, sul fatto che la rivoluzione è un atto estremamente autoritario, il che non la
delegittima sul piano morale, dato che può essere intesa come atto di legittima
difesa, ma la rende problematica dal punto di vista della critica di Saint
Imier all’esercizio stesso del potere, dato che la rivoluzione è un atto di esercizio del potere (sia pure in stato
di legittima difesa o di necessità).
Discutendo con
interlocutori anarchici classici, in particolare con il collettivo del sito Anarcopedia, il Wikipedia
dell’anarchismo, ho posto la domanda cruciale, ossia come intendano loro
arrivare alla “società anarchica”, qualsiasi cosa ciò significhi, una volta
realizzata la rivoluzione, qualsiasi cosa ciò significhi. Ebbene, la loro
risposta è stata che i rivoluzionari guideranno una transizione, ovviamente a
sua volta rivoluzionaria, attraverso la quale, respingendo gli attacchi
controrivoluzionari, si possa poi giungere all’agognata meta dell’anarchia.
Ora, a me non pare che
tale risposta un po’ approssimativa riesca a eludere l’idea che, in ogni caso, la rivoluzione anarchica non farà altro,
almeno in una prima fase, che a dare vita
a un governo anarchico, il quale guidi, in nome delle idee dell’anarchismo,
la transizione verso l’anarchia. Che poi tale governo sia accentrato,
decentrato o diffuso non cambia di molto lo scenario, dato che si tratta di
scelte tattiche comunque discutibili e opinabili: quello che conta è che di governo si tratta, e allora tanto
vale ammetterlo senza infingimenti e giri di parole: gli anarchici devono mirare (non possono che mirare) alla presa del
governo e del potere, per condurre un percorso di transizione verso la
società libertaria.
D’altra parte, se si
ammette che non tutti gli uomini siano dotati di inclinazione libertaria, la lotta contro gli autoritari non sarà di
breve durata, e quindi non è chiaro, dal punto di vista stesso dell’anarchico
classico, quanto quella transizione debba durare, e quindi quanto debba durare
lo stesso “governo” anarchico, pur astrattamente negato dall’anarchico
classico, ma ammesso sotto mentite spoglie.
Tutto questo spiega la scelta di
costituire un partito libertario da parte di anarchici quali
siamo io e altri che hanno concorso con me a fondare il “Partito Libertario”.
Per alcuni potrebbe trattarsi di un ossimoro, tuttavia esistono a sostegno di
questa scelta argomenti razionali. Si tratta di prendere atto delle secche in
cui si è arenato il movimento anarchico ufficiale con il suo estraniarsi dalla
politica, riconoscendo che, almeno su questo punto, hanno avuto ragione i
marxisti, ossia che per far valere le proprie idee nella società è
indispensabile fare i conti con la questione del potere, e possibilmente esercitarlo,
non essendo affatto sufficiente evocare sia pure necessari “movimenti dal
basso”. Naturalmente i marxisti hanno poi fallito, perché non
disponevano di un’adeguata dottrina dello Stato, o dell’estinzione dello
Stato, e quindi, una volta conquistatolo, non l’hanno per nulla fatto deperire,
ma, anzi, l’hanno rafforzato, e la lettura di Stato e rivoluzione di Lenin è istruttiva al riguardo, mostrando
come il mezzo non fosse adeguato all’obiettivo, pur in buona parte esattamente
individuato. Occorre allora riflettere attorno a un’ipotesi alternativa, quella
di dittatura libertaria, concetto naturalmente da prendere solo in
parte alla lettera, ma essenzialmente come metafora dell’attitudine di un
partito libertario al governo, il quale implementi scelte
libertarie, e quindi volte alla diretta e immediata, ossia senza invocare
dialettiche hegeliane per giustificare percorsi in senso opposto, dell’apparato
coercitivo.
Naturalmente, tutto ciò va apparentemente contro i principi anarchici di
Saint Imier, quelli che li opposero a marxiani e marxisti. Vediamo allora in
che cosa tale proposta somiglia e in che cosa differisce da quella delle
correnti marxiste. Somiglia sotto il profilo della presa del potere. Gli
anarchici, infatti, vedono nel potere solo una cosa cattiva, ma, come abbiamo
visto, non sono in grado di spiegare come farebbero loro a condurre un percorso
verso la realizzazione della società
da loro auspicata, attraverso quale processo di transizione. E allora si dica
chiaramente che si punta alla presa del potere, e che da lì si governi un
processo di transizione verso la società futura.
Se vi è questa analogia, vi sono però
anche profonde differenze. Marx, e soprattutto Lenin, pensavano a una presa del
potere che comportasse un rafforzamento dello Stato, mentre la
nostra proposta ne implica, per nulla paradossalmente, lo smantellamento. Si tratta infatti, sia pure dal
governo, di ampliare progressivamente e incessantemente le libertà individuali,
fino a immaginare l’estinzione dello Stato non, come in Marx e Lenin (ma anche
in Stalin e Mao) come uno strano effetto dialettico automatico di quel
rafforzamento, ma come un obiettivo da perseguire deliberatamente e
coerentemente.
Oltre a simili questioni di strategia, mi
distingue invece dagli anarco-comunisti la difesa della libera iniziativa
economica come espressione della libertà e della personalità dell’individuo, e
il rifiuto di qualsiasi forma di comunismo della scarsità, che
sarebbe una tirannia insopportabile per la dignità umana. Altra cosa sarebbe
ipotizzare un comunismo dell’abbondanza e del lusso, come ha fatto
di recente Aaron Bastani, il che presuppone però un ulteriore sviluppo della
tecnologia nella direzione della piena automazione, la quale sola consentirebbe
l’anarchica “presa nel mucchio” e di ipotizzare modelli di gratuità, non in
nome di una totalitaria “abolizione della moneta”, ma in nome del suo
ridimensionamento pratico, attraverso il percorso del libero conio, con
riferimento a beni di consumo liberamente e largamente attingibili. Propongo quindi un
“centro anarchico”, distinto sia dall’idiocrazia (potere dei privati, da idion,
privato in greco) anarco-capitalista, sia dal pauperismo anarco-comunista
tradizionale: trattandosi di un programma preciso,
si spiega come occorra una figura in grado di realizzarne l’implementazione, e
questa figura è rappresentata da quello che chiamo dittatore libertario.
2.
Sul concetto di
dittatura libertaria.
Il punto da cui partire è probabilmente
il concetto di dittatura in Kenneth Arrow. Semplificando di molto, mi limito a
dire che, per Arrow, è impossibile un governante, anche democratico, che non
imponga le proprie preferenze al resto della società. Per Arrow, infatti, sarebbe ragionevole
imporre a ogni costituzione alcune condizioni, una delle quali sarebbe proprio la
condizione di “non dittatura”: non deve
esservi alcun individuo le cui preferenze siano automaticamente le preferenze
della società indipendentemente dalle preferenze di tutti gli altri individui.
Per Arrow, tuttavia, è impossibile che una scelta collettiva soddisfi
contemporaneamente tutte le condizioni di razionalità che propone, ed è invece verosimile
che una scelta sociale incorra nel carattere di dittatorialità, dato che la
scelta stessa corrisponderà inevitabilmente alle preferenze di qualche
individuo specifico; il che, si badi, è l’opposto di un’opzione contrattuale,
nella quale la scelta finale condivisa astrae rispetto alle posizioni
originarie delle parti: al contrario, qui si impone la scelta di una delle
parti, che diviene appunto “dittatore”.
In questo senso, anche il governante libertario sarebbe inevitabilmente un dittatore,
in quanto imporrebbe le proprie preferenze libertarie alla società. Ma c’è una
differenza rispetto al governante non libertario, ossia che il “dittatore”
libertario imporrebbe alla società preferenze
libertarie, ossia meta-preferenze formali e non proprie preferenze contenutistiche.
Il dittatore libertario verrebbe cioè collocato non al livello delle sue
proprie preferenze di contenuto, ma al meta-livello della preferenza formale di consentire tutte le preferenze compossibili, per
utilizzare la dizione di Robert Nozick. Il dittatore libertario consente quindi
l’esplicazione di qualsiasi preferenza, alla sola condizione che si tratti di
preferenza non invasiva e non impeditiva nei confronti dell’esplicarsi delle
preferenze altrui, che vengono tutte ammesse,
tranne appunto quelle invasive e impeditive, che non attengono all’inclinazione
libertaria, ma all’inclinazione autoritaria.
Naturalmente la soluzione è comunque
imperfetta, dato che, in presenza di dittatore libertario “vero e proprio” e
non metaforico, la meta-norma non sarebbe meramente astratta ma personificata, quindi si tratterebbe di
una meta-norma incarnata e non pura,
come si dovrebbe intendere, ossia davvero liberamente attingibile da ciascuno,
in assenza di alcuna autorizzazione personale.
Tuttavia, questo carattere spurio deriva
dal carattere transitorio della
dittatura personificata, in quanto si tratta di condurre il percorso a partire da qui, ossia in una situazione, nella
quale un governo personificato già esiste, salvo spostarlo nelle scelte al
meta-livello della compossibilità universale, e non al livello delle scelte di
contenuto da parte del governo stesso: le uniche opzioni di contenuto ammesse
sono quindi quelle in grado di condurre la transizione, eliminando gli ostacoli
alla compossibilità, sicché l’attività di eliminazione degli ostacoli è
inevitabilmente contenutistica, e non solo formale, anche se in negativo.
Ora, posto che il governo
libertario sia nelle mani di dotati di inclinazione libertaria, ossia di
individui concretamente interessati a compiere quel percorso, si darebbe
effettivamente una coincidenza tra le loro preferenze soggettive e i contenuti
della scelta collettiva imposta a tutta la società, anche ai privi di
inclinazione libertaria. Tuttavia, tale circostanza non sarebbe sufficiente,
giacché non troverebbe purtroppo altra garanzia, ipotizzando l’assenza di
adeguati contrappesi, se non la loro forza di convinzione e buona volontà:
sicché una co-condizione per l’efficacia del governo libertario rispetto ai suoi
propri obiettivi dichiarati è rappresentata dalla diffusa presenza di un vasto
movimento di consapevoli, che costituisca appunto contrappeso sostanziale alle
tentazioni del potere, alle quali non è detto che il governante libertario
saprebbe sottrarsi, dato l’individualismo autointeressato, al pari di qualunque
altro governante.
Le preferenze
“dittatoriali” fatte valere da D.L. sono quini meta-preferenze, dato che il loro
contenuto è puramente formale, e consiste esattamente nel consentire la libera
espressione di tutte le preferenze contenutisticamente compossibili,
rendendole, ove necessario, dinamicamente tali. La meta-preferenza di D.L.
coincide in realtà con tutte queste preferenze, sicché, correggendo Arrow, essa
è socialmente preferibile: ciò che essa preferenza esclude, collocandosi al
meta-livello, sono solo le preferenze escludenti, quel che impedisce sono
esclusivamente le preferenze impedienti, violente o meramente emulative, le
pretese invasive, che per loro natura non sono universalizzabili (se si dessero
solo preferenze impedienti, non si darebbe alcuna preferenza in positivo), e
così la dittatura libertaria implica l’eliminazione dal campo di preferenze non
invasive.
Qualcuno obietterà che,
opponendoci alle pretese impeditive, si finirebbe comunque per eliminare
dall’orizzonte osservato talune tra le preferenze, ma si tratterebbe di un
abbaglio: in effetti, proprio perché la posizione libertaria consiste nel non
escludere alcuna preferenza, le preferenze escludenti si collocano al di sotto del
meta-livello e si escludono da sé dalla prospettiva libertaria, semplicemente
in quanto tese a escludere preferenze, dato che una preferenza che escluda
preferenze non sarebbe libertaria (conforme all’inclinazione libertaria)!
Le preferenze
impedienti ed escludenti semplicemente non sono libertarie, sicché impedirle ed
escluderle a nostra volta è puramente difensivo e del tutto coerente, non solo
con noi stessi, ma con la vocazione, di violenta pretesa all’autosufficienza,
propria di quelle preferenze che si auto-parcellizzano, e che si vorrebbero
proporre come sottratte al vaglio critico sul loro costituire forzosa fonte di
costi, prospettati dai percettori del loro riflesso in termini di rendita come
sottratti all’indennizzo.
Intendendo invece le preferenze
personali ammesse come compossibili, il “tipo” relativismo e il “tipo”
assolutismo finiscono con il confluire, o almeno col convivere, nel senso che
ognuno si colloca al proprio distinto livello logico; e ognuno, e non solo un
leader o un élite, nel momento in cui
accetta, per quanto gli compete, tale compossibilità, la autorizza, e diviene a
sua volta D.L., sicché tutti siano, per così dire, dittatori libertari in
concorrenza. Solo ove detta ipotesi di compossibilità tra tutte le preferenze si
realizzi, solo allora potrà dirsi realizzata l’esistenza della meta-norma che
esprime il puro diritto oggettivo, corrispondente al dato di fatto che tutti i
“diritti soggettivi”, ossia tutte le pretese individuali siano ammesse, in
quanto si tollerino, si rispettino e si rivelino pertanto tra loro compatibili nei fatti.
Il “paradosso libertario”
consiste dunque in ciò, che in una “situazione” nella quale nessun valore
particolare risultasse imposto, ci troveremmo esattamente in uno “stato” che
avesse viceversa fatto interamente propri esattamente i valori libertari;
sicché al momento culminante del relativismo apparente, nutrito dal
contraddittorio tra le diverse opzioni culturali, corrisponderebbe in realtà
paradossalmente una precisa forma di assolutismo: l’unico concepibile, quello
situato al meta-livello, un ”assolutismo” che può fare a meno
dell’intermediazione statuale, perché non incorre nella contraddizione
“relativistica” di fondarsi su una propria verità parziale, particolare, senza
la bizzarra pretesa che sia poi lo strumento dello Stato a farla propria
direttamente e immediatamente, ad assorbirla senza mediazioni, per imporla
anche ai consociati con la condividessero. Un “assolutismo” che si realizza
interamente nella piena convivenza e contestualità delle verità parziali e
“relative”, in quanto queste siano poste in condizione di convivere senza
sopraffarsi, o anche solo senza cercare di farlo.
I titolari delle preferenze
personali compossibili, per quanto queste siano diversissime tra loro,
condividono quindi l’identica meta-preferenza. Sicché ogni verità relativa convive in un assoluto: quello che consente
alle verità relative di convivere. Un’altra annotazione: la migliore dottrina
sulla revisione costituzionale (e in particolare la migliore dottrina sulla
revisione costituzionale della norma sulla revisione costituzionale) rende
superata la distinzione schmittiana tra dittatura commissaria e dittatura
sovrana, dato che, se il decisore democratico è comunque “dittatore” nel senso
di Arrow, esso è sempre virtualmente anche dittatore sovrano, essendo nella sua
facoltà di modificare, sia pure attraverso determinate procedure e nonostante
le opinioni contrarie, la stessa Costituzione, anche interamente.
Occorre infatti considerare che,
in dottrina, sono state espresse posizioni volte a negare la possibilità di
revisione di norme come l’art. 138 della nostra Costituzione, o l’88 di quella
danese (Alf Ross) , in nome del preteso carattere autoreferenziale di una norma
che modificasse l’art. 138 attraverso (inevitabilmente) le procedure dello
stesso 138. Tuttavia si tratta di una prospettazione erronea, dato che in un
tal caso non si darebbe alcuna autoreferenzialità, posto che non sarebbe
direttamente lo stesso art. 138 a modificare o ad abrogare se stesso, giacché tale
compito verrebbe piuttosto affidato a una diversa e ulteriore norma di rango
costituzionale, approvata sì attraverso il procedimento previsto dall’art. 138,
ma che sarebbe ovviamente altro dallo stesso art. 138, la quale norma di rango
costituzionale approvata riverberebbe a sua volta effetti sull’art. 138
medesimo, a sua volta modificandolo o abrogandolo.
Non sarebbe dunque, ripeto per
maggior chiarezza, l’art. 138 ad abrogare il 138, ma una norma-passaggio
intermedio, posta in essere attraverso la procedura prevista dallo stesso art.
138. Non c’è dunque limite a quanto lo stesso D.L. possa realizzare, persino
nel rispetto della legittimità procedurale “vigente”, il che potrebbe anche
esser garanzia che tutto ciò avvenga col massimo consenso possibile (ad esempio
attraverso il referendum previsto dallo stesso art. 138). D’altra parte, non è
nemmeno detto che per conseguire tale obiettivo sia necessaria una revisione
costituzionale, dato che sono già vigenti innumerevoli principi, anche e
soprattutto di rango internazionale, in grado di neutralizzare l’idea della
vigenza del monopolio collettivo della forza, insito nella configurazione degli
odierni ordinamenti statuali e delle altre istituzioni coercitive nei termini
dell’abuso di posizione dominante, al cui istituto risultano letteralmente
riconducibili, per non parlare dell’art. 416 bis c.p., con conseguente
invalidazione dello Stato persino dal suo
stesso punto di vista, ossia dal punto di vista del suo stesso ordinamento,
quantomeno formale o teorico.
Una seconda riflessione a sostegno della
proposta di dittatura libertaria, dittatura nel senso tecnico di Arrow, deriva
dall’analisi del teorema di Amartya Sen sulla presunta impossibilità del
liberale, o libertario, paretiano. Anche qui semplifico molto il ragionamento
di Sen, attraverso una sua riduzione, che sia utile ai nostri fini: secondo
l’economista indiano, dati un lascivo, il quale voglia leggere un libro
all’indice, e un pudico che voglia impedirglielo, sarebbe impossibile
contemperare le due pretese, è l’esito sarebbe quindi inefficiente in termini
paretiani, ma anche “illiberale”, in quanto uno dei due interessi verrebbe totalmente
sacrificato. A mio avviso Sen incorre qui in un grave abbaglio, derivante dalla
sua scarsa sensibilità libertaria, anche se in uno scritto successivo –di
solito trascurato nei resoconti- riconosce che la soluzione può trovarsi al
livello delle meta-preferenze.
Il fatto è però che trasferendo la
soluzione al meta-livello, si ammette che la situazione originariamente
delineata non era affatto “liberale”, perché uno dei due soggetti, il
pudico, voleva impedire all’altro di leggere un libro, e la soluzione
finalmente proposta come “liberale” è semplicemente quella di sacrificare
l’interesse del pudico. Vale a dire che Sen ragiona come se il lascivo,
leggendo il libro, ledesse qualche diritto tutelato dal punto di vista liberale
del pudico: ossia leggere violerebbe
diritti, in particolare il diritto di chi non vuole che io legga, come se
questa “bella pretesa” fosse rilevante per un liberale o un libertario, e non
andasse invece puramente e semplicemente ignorata, non meritando alcuna
considerazione!
In altri termini, non ha senso
denunciare come inefficiente e illiberale una situazione nella quale la preferenza autoritaria sia sacrificata,
dato che scopo della proposta liberale o libertaria è esattamente sacrificare la preferenza rispondente
all’inclinazione autoritaria: non è “liberale” tollerare la preferenza
autoritaria, per cui non tollerarla sarebbe illiberale (!), lo è contestarla attivamente
e negarla, impedirne puramente e semplicemente l’esercizio. Sicché delle due
l’una: o il pudico cambia scala delle preferenze, facendo propria quella
corrispondente all’inclinazione libertaria, ovvero il lascivo deve poter
imporsi per poter leggere il libro: in questo senso egli si farebbe dittatore
libertario, per ripristinare la libertà, intesa non solo come autonoma
espressione del potere individuale, ma come spazio
comune indivisibile, come ho proposto di intenderla nei miei scritti,
prendendo le mosse dagli spunti forniti da Bakunin.
Il fatto è che Sen confonde la mera
opinione del pudico sull’inopportunità di leggere il libro, che dal punto di
vista libertario viene ammessa, e quindi considerata nel calcolo di utilità e
di efficienza, con l’agire attivamente
del pudico per impedire che il libro sia letto, il che dal punto di vista
libertario semplicemente non può essere consentito, in quanto, per alludere al
linguaggio di John Harsanyi, preferenza esterna malevola, il cui esercizio va impedito, in quanto
non meritevole di essere inserito in alcun calcolo, naturalmente sempre
ragionando dal punto di vista dell’inclinazione libertaria.
Il dittatore libertario è quindi innanzi
tutto una figura metaforica: chiunque di noi può essere “dittatore libertario”,
imponendosi e impedendo gl’impedimenti agli illiberali. Tuttavia vi è un
problema. E cioè che, nel mondo moderno, non risulta che l’inclinazione
libertaria sia particolarmente diffusa. Dato il sistema democratico, rischiano
cioè di prevalere costantemente le pulsioni illiberali, per quanto si possa
sempre confidare nell’evoluzione del costume. Le battaglie sui diritti civili
lo dimostrano. Esse hanno accompagnato per molti anni questa evoluzione,
qualche volta l’hanno anticipata (droghe), altre volte (si pensi alla chiusura
dei manicomi) si sono imposte con un successo ancora troppo parziale a
un’opinione pubblica recalcitrante, e tuttora protesa a invocare il TSO come
soluzione di problemi o per tacitare il dissidente.
Sic stantibus rebus, la proposta
tradizionale degli anarchici di puramente e semplicemente demolire lo Stato non
ci garantisce che ne emergerebbe una società libertaria, se l’inclinazione
libertaria nella società è ancora minoritaria. Che cosa devono fare allora i
libertari? A nostro avviso è loro compito andare al governo e imporre
la loro dittatura (meta-dittatura) alla società, mettendo gl’illiberali in
condizione di non nuocere, superando così la classica dicotomia
riformismo/rivoluzione e, con riferimento alla seconda, la contrapposizione tra
rivoluzione distruttiva del potere (cara agli anarchici classici: ricordate
Bakunin? “Non può esistere rivoluzione senza distruzione vasta e appassionata”)
e rivoluzione volta alla conquista di un potere statuale, propria della
tradizione marxista e leninista.
La prima ipotesi pecca di
ingenuità, perché sembra considerare “il potere” come qualcosa di
esclusivamente fisico, che si possa sbriciolare aggredendolo direttamente,
trascurando il suo carattere di costruzione della mente, di “credenza
costitutiva”, per usare l’espressione di Hayek, che trova sì estrinsecazioni
fisiche - l’apparato burocratico-militare e i suoi pretenziosi “palazzi” - ma
che non possono essere demolite, se non una volta che quelle credenze,
fondamento del consenso nei confronti delle istituzioni del dominio e della
“legittimità” di questo, siano state intaccate. Credenza che consiste
fondamentalmente in ciò, nella speranza o nell’autoillusione, nell’autoinganno,
che qualcuno si occupi delle cose che noi trascuriamo, o che non abbiamo voglia
di fare, anche per l’alto costo, in tutti i sensi, delle operazioni.
L’ipotesi
rivoluzionaria della conquista del potere è poi a sua volta, a ben vedere, una
variante massimale del riformismo, o comunque del gradualismo, fatta salva
l’intenzione di non “mollare” il potere una volta conquistato, dato che tale
conquista prelude all’adozione e all’implementazione di determinate riforme che
non possono non essere realizzate con norme calate dall’alto, per quanto le si
vogliano radicali, plasmando così, anche in tal caso, pur dopo un processo, che
si vorrebbe rivoluzionario, gradualmente la nuova legittimità: il problema
della transizione è quindi quello della trasformazione delle credenze, ma anche
del governo.
3. Il percorso della transizione dallo
Stato ai common trust
Compito dunque del Dittatore Libertario è di liquidare lo Stato, il che affermo, si
badi, in senso letterale. Occorre
puntare, letteralmente, alla “liquidazione dello Stato”, nel senso di trasformare
lo Stato in moneta sonante a vantaggio di
tutti i cittadini, estinguendo così lo Stato stesso nel suo apparato
burocratico e di welfare autoritario,
che diventa fonte di indennizzo per i cittadini stessi per il danno subito in
conseguenza dell’avere subito la coercizione, prima manifestazione del nuovo
paradigma, che propongo, per il quale ci
si associa per guadagnare, e non per rimetterci, rivoluzionario rispetto al
vecchio paradigma della filosofia politica, si pensi a Hobbes, per il quale ci
si associa in nome di una scarsità da ripartire autoritativamente.
Il primo passo in questa direzione
consiste nell’ingaggiare una bella squadra di periti esperti di estimo, e di
adibirli alla contabilizzazione del demanio, in modo da fare emergere le
ricchezze comuni, comprese quelle immateriali (know how di diritto pubblico)
attribuendo loro un valore in base ai vari criteri noti alla disciplina
dell’estimo (rimando alla lettura di qualche manuale), ad esempio come il fair value, che prevede
un’individuazione di valore vicina a quello di mercato, e di fissare quei beni come retrostante monetario; e ciò a opera
di una banca demaniale di titolarità
di tutti i cittadini, la cui emissione andrà suddivisa tra i cittadini stessi a
titolo di indennizzo, il che consente appunto di accompagnare la distribuzione
monetaria con lo smantellamento dell’apparato burocratico.
In effetti, se si scorrono le carte
internazionali dei cosiddetti diritti umani, con particolare riferimento a
quelli detti “sociali” di seconda generazione, noi ravvisiamo diritti di
pretesa positiva, volti al conseguimento di prestazioni attive da parte dello
Stato, quali il diritto all’abitazione, il diritto al cibo, il diritto al
vestiario, il diritto all’istruzione, il diritto alle prestazioni sanitarie, e
così via, ma non mai il diritto al denaro,
che sarebbe la prestazione di un medium
di carattere universale a impiego libero.
E si comprende bene il perché, dato che
quei diritti di prestazione presuppongono
l’intermediazione dello Stato del welfare,
laddove il diritto al denaro, puramente e semplicemente, non richiede alcun
apparato, e semmai impatterebbe in modo rivoluzionario sul sistema bancario, in
una “dialettica del denaro”, il cui possesso, da privilegio degli assegnatari
diretti della moneta fiat
monopolistica, diviene diritto universale, ottenendo migliori risultati, in
quanto fondati sulla libera scelta, rispetto al sistema di welfare, bypassando
quell’intermediazione burocratica, e conducendo diritti alla pratica del libero conio, conciliando in sintesi il
diritto di libertà con quello di prestazione, che diviene atto di libertà esso
stesso, e non di mera “pretesa” all’altrui
prestazione positiva, ossia alla prestazione da parte dello Stato; ecco
quindi perché la “monetizzazione” dello Stato condurrebbe all’estinzione di
questo, pur consentendo a ciascuno di
perseguire a proprio modo obiettivi di cosiddetto carattere sociale, dato
che l’importo assegnato, o liberamente emesso, sarebbe sufficiente a coprire
anche le spese per le prestazioni sociali stesse, fermo restando sempre la
possibilità di dar vita a organizzazioni di carattere comunitario spontaneo no profit.
Vediamo allora quali sono le premesse
teoriche di una tale proposta, che formulerò in termini più succinti rispetto
ad articolazioni estese, già fornite in miei precedenti testi gius-politici.
Dal punto di vista dell’assioma
libertario, secondo il quale nessuno è legittimato a imporre unilateralmente
obblighi giuridici o morali all’altro, la Terra va considerata res communis omnium, il che ben si
comprende, dato che quell’assioma invalida ogni pretesa unilateralmente
imposta, e quindi tanto lo Stato quanto la stessa proprietà privata, quando non
supportata dal consenso degli altri, salvo poi precisare, come ho fatto nei
miei scritti, in quali forme possa essere manifestato questo consenso e come
esso possa essere “acquistato” dall’interessato, ad esempio corrispondendo un
canone di natura indennitaria rispetto alla violazione di libertà negativa,
conseguente all’impedimento opposto attraverso l’insediamento, non essendo
giustificazione sufficiente la regola “chi prima arriva meglio alloggia”, che è
priva di valenza morale.
Tuttavia, v’è una “Terra” che è già res
communis per lo stesso attuale diritto positivo, e si tratta del demanio. Anzi, forse la Terra tutta
andrebbe considerata oggi demanio in senso lato, dato che essa è interamente
divisa in Stati, e quindi tutta la Terra è “territorio”, una volta che il
territorio assoggettato dallo Stato viene fatto appunto rientrare in questa
categoria del demanio in senso lato: del resto, sul territorio (anche quando
non si tratta di demanio in senso stretto) lo Stato esercita la propria
sovranità, che è qualcosa di più, e non di meno, della proprietà.
Ora, un importante risvolto materiale,
patrimoniale e finanziario della cosiddetta “sovranità popolare” è
rappresentato dalla titolarità da parte del popolo, vale a dire di ciascun
singolo cittadino pro quota, di quel
possente capitale comune che è rappresentato dal demanio. Ciò comporta uno
slittamento di paradigma, perché l’implicazione che occorre trarne è che
l’individuo, in quanto compartecipe della sovranità, è non solo titolare di
potestà “sovrane”, oltre che di libertà personali fondamentali, ma anche ricco, e non certo solo metaforicamente,
come lo era del resto il sovrano assoluto nello Stato patrimoniale per
l’identica ragione, salvo che questa ricchezza non solo non viene
esplicitamente riconosciuta, ma anzi è occultata e lasciata deliberatamente
improduttiva, sicché quanto dovrebbe essere di res communis viene trattato da res
nullius, il che ne consente per altro verso la depredazione, oltre allo
spreco.
Non
è un caso che il demanio non sia contabilizzato adeguatamente, lo è solo
fittiziamente, nello stato patrimoniale del bilancio dello Stato, dato che se
lo fosse si ribalterebbero molti luoghi comuni sullo stato della finanza
pubblica, con evidenti ricadute sulla condizione delle persone reali. La
contitolarità del demanio conferisce quindi materialità e nuova concretezza al
concetto di sovranità popolare, munendo l’individuo-cittadino, al di là di ogni
pur importante sentimento di appartenenza, di ulteriore substrato empirico,
sulla base del quale, in quanto tecnicamente capitale (potenzialmente)
produttivo e restrostante, potere emettere addirittura moneta; o nei termini
della valuta nazionale, garantendo a tutti qualche forma di basic income, ovvero, per fare un passo
libertario in più, del libero conio, se appunto il demanio è di titolarità pro quota di ognuno, e ognuno possa
attingerne la propria quota di retrostante monetario.
Constatiamo in tal modo come, così come
la mia proposta geo-comunista presenta un input
individualista –l’immunità di ognuno dall’essere destinatario di obblighi
esterni-, a sua volta il geo-comunismo offre un output individualista, vale a dire il libero conio, offrendo a
ognuno quale retrostante monetario la propria quota di titolarità della Terra.
Lo Stato avanza la pretesa della concentrazione del diritto
in chiave monopolistica, il che si esprime nel controllo materiale e di fatto
del territorio, vietando (attraverso la minaccia della coazione) la
concorrenza, rivendicando il monopolio, oltre che di quella risorsa primaria e
preliminare che è la legittimazione, di una serie di servizi strettamente
economici sul territorio stesso, primi tra tutti i servizi di protezione e di
giustizia, che finanzia attraverso lo strumento primario della tassazione
–oltre che dell’indebitamento-, ossia della riscossione coattiva delle risorse
tra gli individui insediati sul territorio, sul quale rivendica l’esercizio della propria
supremazia.
Lo Stato, concentrato della minaccia della coercizione, è il
trionfatore nel mercato della forza e della legittimazione (banda vincente), ma lo è per proporsi
come impresa dominante nella produzione di una serie di servizi –la produzione
del diritto, della protezione, della giustizia, della sicurezza sociale, etc.-,
i quali tutti, in quanto considerati “beni pubblici”, giustificherebbero il
loro finanziamento tramite imposizione fiscale; e si è sottolineato come lo
Stato elabori la propria (auto)giustificazione ricorrendo a propria volta in un
concetto economico quale quello di “bene pubblico” (public goods argument for the State), e si propone come impresa di
realizzazione esattamente di quel bene o tipo di bene, astratto o concreto che
sia.
Gli stessi processi di autoriproduzione della legittimazione
garantiscono un servizio, il servizio di
legittimazione appunto, dato lo Stato non si limita a garantire se stesso,
ma offre assicurazione e tutela a una serie di soggetti, i quali pagano delle
imposte in cambio, ma è tutto da verificare se queste imposte siano
proporzionate al servizio fornito. Ad esempio, lo Stato fornisce il servizio di
legittimazione al grande capitalista, o al banchiere, ma costoro riescono in
grande parte a scaricare sulla collettività i costi della propria
legittimazione e protezione, sicché l’imposizione fiscale crea distorsioni
anche da questo punto di vista, in quanto non frutto di una contrattazione
aperta, ma di negoziazioni opache, in cui è sempre il più capace ad accedere
alle leve della coercizione a prevalere.
E’ quindi impossibile, nello Stato, distinguere l’economico
dal non economico, non solo se i servizi che fornisce hanno chiaramente
carattere economico, ma se assume rilevanza finanziaria persino il bene
astratto della legittimità, e quindi lo Stato è impresa anche sotto tale
particolare profilo; ma poiché è costitutivo dell’essere impresa il fatto di
possedere un patrimonio, occorre interrogarsi su quale sia il patrimonio di cui lo Stato dispone, e di cui
usufruisce, nello svolgimento della sua attività “imprenditoriale” di fornitore
del servizio pubblico fondamentale: questo patrimonio è rappresentato proprio
dal suo territorio, elemento
costitutivo, per il diritto costituzionale, dello Stato stesso, e allora si
propone l’interrogativo se si possa conciliare detto carattere costitutivo con
il fatto di essere oggetto di proprietà in quanto risorsa e ricchezza.
Infatti, la scienza economica, nel momento in cui studia il
fenomeno del capitale, riconduce a tale nozione anzitutto la terra, capitale preliminare, sul quale
poi tutte le attività di produzione necessariamente si insediano. O, per meglio
dire, la Terra, perché anche
sottosuolo e soprasuolo rappresentano capitale economicamente rilevante: si
pensi alle miniere, per il sottosuolo, e all’etere, per il soprasuolo, fino
all’atmosfera.
Ora questo capitale, nel momento in cui diviene di proprietà
dello Stato, acquisisce la denominazione di demanio;
in senso lato, l’intero territorio, sul quale lo Stato esercita la propria
supremazia, va considerato demanio: lo dimostra una disciplina, il diritto
urbanistico, che tratta di fatto l’intero territorio come se fosse di proprietà
dello Stato, perché è sempre lo Stato a stabilire quali attività, e con quali
modalità concessorie, possano insediarsi sul territorio, e attraverso quali
corresponsioni di costi (costo di costruzione, oneri di urbanizzazione, etc.) i
diversi interesse possano schierarsi sul territorio stesso. In fondo, a ben
vedere, vale ancora la norma regale, per la quale il territorio è di proprietà
del sovrano, e i proprietari ne sono dei meri concessionari o usuari, dato che
non v’è attività insediata, la quale, non solo non sia soggetta ad abilitazione
e comporti costi, ma anche sia sistematicamente soggetta all’eventualità
dell’ablazione.
V’è poi il demanio in senso stretto, e sia sufficiente
leggere l’art. 822 del codice civile per rendersi conto della sua rilevanza. Se
il demanio naturale non è che una declinazione speciale del territorio di cui
si è detto, e può farsi rientrare nella categoria del capitale naturale, il
demanio artificiale assume i chiari connotati del capitale fisso e fisico, destinato
alla produzione, in particolare alla produzione di servizi (si pensi alle
autostrade), o comunque alla fruizione da parte del pubblico, come il
patrimonio artistico (che è capitale circolante),
monumentale e culturale.
A questo punto va spiegato per quale ragione mai tutte queste
ricchezze, che consentono di sussumere lo Stato quale categoria immediata, ex se, del capitale (e non
“sovrastrutturalmente”, come riteneva invece Marx) non rilevano quanto
potrebbero e dovrebbero, e sono insignificanti contabilmente: v’è infatti una
ragione storica che spiega tale sottovalutazione, ossia che il demanio, in
quanto espressione diretta della sovranità dello Stato, veniva considerato extra commercium, e quindi sottratto
alla contabilizzazione nello stato patrimoniale del bilancio pubblico.
Tale irrilevanza finanziaria ha favorito la mala gestione e
la non valorizzazione di questo capitale, il quale, da res communis ai cittadini quale è, ha finito con l’essere trattato
da res nullius invece che da fonte di
ricchezza per i cittadini stessi, i quali, invece di ricavarne beneficio
finanziario, ne risultano oppressi attraverso la tassazione.
In tale ricostruzione, per la quale la sovranità sarebbe extra commercium, si esprime l’infondata
pretesa della categoria del politico di sottrarsi all’economico, il che è
irrealistico, come dimostra quella disciplina, derivata dalla scienza delle
finanze italiana (come ha riconosciuto James Buchanan, e penso in particolare
ad Antonio de Viti de Marco), nota con il nome di public choice, che studia esattamente le dinamiche economiche del
politico. Senonché non si è trattato solo di un astratto fraintendimento
scientifico, ma di una vera e propria opera di depauperamento dei cittadini, ai
quali è stato occultata (Amilcare Puviani) la circostanza di essere possessori
di sterminate ricchezze.
Occorre infatti considerare che, così come sotto lo Stato
patrimoniale il demanio era di proprietà diretta del re in quanto sovrano, in
regime viceversa di sovranità popolare, il demanio, in quanto capitale inerente
la sovranità, va considerato di proprietà (sovrana) del popolo, vale a dire, in
omaggio a un banale individualismo metodologico, di proprietà di ciascun
singolo cittadino. Intendo qui la sovranità come una sorta di super-diritto
reale, al quale tutti i diritti reali civilistici sono subordinati, in quanto
soggetti sistematicamente a disciplina concessoria da parte del sovrano.
Lo Stato si rivela quindi prigioniero della propria
inefficienza anche sotto tale particolare profilo, e la mancata valorizzazione
del suo patrimonio (lo Stato non applica a sé l’art, 2424 del codice civile in
materia di bilancio) finisce con l’affidare, a differenza proprio di quanto
avveniva ai tempi dello Stato patrimoniale, in cui il patrimonio era redditizio
per il suo titolare, esclusivamente alla coercizione dell’imposizione fiscale
il proprio finanziamento.
Ciò fa dello Stato un’impresa consustanzialmente
inefficiente, dato che ricorre alla coartazione e non alla valorizzazione del
patrimonio per il proprio sostentamento, il che lo rende, da impresa di
servizi, una vera e propria controimpresa, e lo qualifica, alla luce del
moderno diritto della concorrenza, un abuso di posizione dominante per inefficienza deliberata (ad esempio per
la mancata contabilizzazione e valorizzazione finanziaria del demanio); ma
anche connaturata al fatto stesso di
pretendere di concentrare una risorsa fisiologicamente diffusa come la forza, e
di utilizzare questa come strumento di “soddisfazione dei consumatori”, il che
rappresenta un evidente controsenso; tutto ciò rende lo Stato, una volta operata
quella sussunzione normativa della sua fattispecie reale, un soggetto illecito (void per il diritto comunitario europeo, fonte principale del
diritto della concorrenza); un illecito che, contrariamente a quanto
imporrebbero i principi generali del diritto, non comporta risarcimento per i
danneggiati, ma imposizione ulteriore, e costantemente riprodotta, di carattere
economico-finanziario.
Quanto precede evidenzia pertanto che lo Stato è un soggetto
economico, imprenditoriale e capitalista, e che lo è in modo fortemente
inefficiente: tanto basta a renderlo invalido per il diritto della concorrenza,
in quanto preteso monopolio che abusa della propria posizione dominante proprio
attraverso l’inefficienza, ed è proprio il fatto di essere dominante (e abusante),
che gli consente di essere inefficiente senza pagare dazio: del resto, solo
un’”impresa” inefficiente usa la forza nei confronti dei suoi “clienti”. Quel
che emerge, però, è che tale inefficienza non è rimediabile, se non al prezzo
di cessare di essere uno “Stato” nell’accezione storicamente acquisita, dato
che dovrebbe rinunciare a troppi elementi di sé, che a oggi sono considerati
costitutivi dell’essenza della statutalità.
Lo Stato pretende di avere risolto il nodo gordiano della
convivenza politica attraverso il rimedio dell’appartenenza necessaria a un
presunto monopolio in nome del “bene pubblico”, e per garantirla è costretto a
ricorrere alla coercizione. Senonché la coercizione è consustanzialmente
inefficiente, dato che non valorizza le potenzialità del coartato, ma, come si
è visto, nemmeno quelle del coartatore, almeno non quelle
economico-finanziarie, sovrastate dall’uso della forza quale strumento, non di
negoziazione, ma di inefficiente imposizione unilaterale.
E’ questo un difetto intrinseco delle dottrine del contratto
sociale, che fanno di tale “contratto” un gioco a somma negativa (ci si associa
rinunciando a propri diritti in cambio di una coercizione inefficiente), e non
a somma positiva, ossia associarsi per garantire a sé dei benefici, attraverso
la costituzione di istituzioni efficienti anche dal punto di vista
economico-finanziario. Si tratta quindi di un ben strano “contratto”, dato che,
a differenza di quanto avviene con un normale scambio di mercato, non si
migliora, almeno tendenzialmente, la condizione degli scambisti, ma la si
peggiora, rinunciando a qualcosa, non in nome di un beneficio più ampio, ma di
un’ulteriore restrizione.
L’avere però ricostruito lo Stato come soggetto economico ed
impresa, sia pure con connotati che la rendono un’inefficiente controimpresa,
ci suggerisce la via di fuga, consistente nell’eliminazione di quegli elementi
di inefficienza che abbiamo descritto; il che però, e questo è il punto,
determina la cessazione dello Stato come storicamente lo conosciamo,
dissolvendo quel preteso “monopolista di tutto” (Chamberlin) in un più ampio
mercato concorrenziale, in cui finalmente gli individui si associno per trarre
vantaggi, e non per ricavarne danni, dalla stessa gestione del territorio, che
è il proprium di questo tipo di
istituzioni.
Tra i filosofi politici classici, l’unico che si è mosso
parzialmente in tale direzione è stato John Locke, configurando il suo istituto
politico come un Trust. Occorre
infatti considerare che il Trust,
istituto di common law sorto dalla
giurisdizione di equity, di cui Locke
era funzionario, è intrinsecamente volto a beneficiare determinati soggetti (beneficiary) anche dal punto di vista finanziario, o comunque può agevolmente
essere piegato a questi fini.
E noi abbiamo visto come lo Stato dispone di imponenti
capitali, che trascura, e che non valorizza a vantaggio dei cittadini sul piano
finanziario. Tuttavia, non v’è alcuna ragione che tale attività sia svolta in
forma monopolistica. Del resto, il monopolio della forza può vivere solo
attraverso la forza (il suo fine è il suo mezzo, il “provvedimento” schmittiano),
dato che il fatto che la forza si concentri in un monopolio, trattandosi come
detto di risorsa pandespota, non fa di quel monopolio un monopolio naturale, ma
artificiale (artificioso), e quindi non vive spontaneamente, ma solo
auto-imponendosi, vietando la concorrenza attraverso la minaccia della
coazione.
Anche in politica, la condizione fisiologica è la
concorrenza, non il monopolio, che si viene a instaurare attraverso una
altrettanto artificiosa connessione tra la nozione di “bene pubblico” e quella
della sua implementazione in chiave monopolistica. Senonché v’è un problema,
ossia che la concorrenza si svolge sul territorio, e il territorio esprime una
forte valenza in chiave monopolistica, dato che l’insediamento delle persone su
di esso trasforma in indivisibili tra loro alcune scelte riguardanti il
territorio stesso, pur quando gli individui intendessero vivere ognuno secondo
uno stile di vita differenziato: il territorio a tutti indivisibilmente si
impone, e quindi è res communis alle
parti. E questa res communis, come si
è visto, è capitale, e come capitale va fatto fruttare a vantaggio di tutti i
comunisti.
Salvo che ora tale capitale è di proprietà formale dello
Stato -solo in virtù della dottrina è dei cittadini-, il quale, come pure si è
visto, è, in parte deliberatamente, in parte connaturatamente, inidoneo a farlo
fruttare, dato che vive per la coazione e non per la produzione di ricchezza
(se non dei politici e dei loro manutengoli). E allora si tratta di individuare
delle istituzioni, alternative allo Stato
come lo conosciamo, in grado di fare fruttare a vantaggio dei cittadini quel
capitale comune che è il demanio. Il
quale, a questo punto, perderebbe la propria denominazione (demanio viene da dominium), per essere riconosciuto come capitale comune di rilevanza politica,
che propongo quale nozione di public
choice, per intendere il nesso che intendo proporre tra il vivere associati
e il fatto di ricavare guadagno, e non perdite, dal fatto di vivere associati.
Il capitale comune già demanio rimarrebbe appunto di
titolarità comune, ma verrebbe affidato in gestione di valorizzazione a
istituzioni, che, riecheggiando Locke, denomino Common Trust, quale sede della partecipazione, ben sì anche
politicamente rilevante, ma anche e soprattutto della valorizzazione
finanziaria. Il Trust che propongo è
“common” in una duplice accezione: da un lato, si tratta di espressione di un nuovo diritto comune, derivazione del
diritto della concorrenza, che già oggi si applica tanto ai soggetti privati,
quanto a quelli di diritto pubblico, quale superamento e confluenza degli
storici diritto pubblico e diritto privato, che prenda da quest’ultimo la
contrattualità e il connesso principio di buona fede, e dal primo i principi di
garanzia propri del diritto amministrativo, quale ad esempio la sindacabilità
dei soggetti forti, anche di “diritto privato”, sotto il profilo dell’eccesso
di potere, quale sintomo di situazione, e non solo di sistema, dell’istituto
dell’abuso di posizione dominante; dall’altro lato, common significa che il Trust
si occupa esattamente di valorizzare beni, anzi capitali, per definizione
comuni.
Nell’istituto del Trust
si è soliti distinguere il Disponente (Settlor), vale a dire il soggetto che costituisce il Trust e ne
determina la regolamentazione; il Trustee,
la persona o le persone alle quali il Settlor
trasferisce i beni con l’obbligo di amministrarli; i “Beni in Trust” (Trust Fund), l’insieme dei beni costituiti in Trust e i beneficiari (Beneficiaries), ossia coloro i quali
vengono indicati nel Trust quali
destinatari della distribuzione dei beni; il Guardiano (Protector), colui che ha il compito di vigilare e controllare che
il Trustee persegua in modo corretto.
Ora, nel Common Trust il Settlor è rappresentato dai cittadini, i quali costituiscono il Trust a beneficio di se stessi, e sempre
essi stessi fanno da guardiano a un Trustee
sempre revocabile nelle proprie funzioni. Si tratta di un ribaltamento di
paradigma, rispetto a quello a cui fa riferimento lo Stato, dato che la dimensione della valorizzazione economica
del bene comune diventa una categoria della politica dei liberi individui,
e chiamo questo capital-comunismo, dato che ci si associa non (solo) per
distribuire costi, ma (soprattutto) per ripartire utili; il tutto sulla base
dell’immanenza di un principio di unanimità de
facto e per facta concludentia nel
fatto stesso di volere aderire per uno scopo comune, dato che tutti sono
comproprietari di quei beni, e non si configurano divergenze sul fatto di
volerli mettere a profitto –un consenso sul fatto di guadagnare si può anche
presumere-, non sono ammesse modifiche alla destinazione (redditizia) dei beni
e sulla loro titolarità, e ci si divide (eventualmente) solo sulle scelte di
carattere tecnico, la cui implementazione viene affidata a Trustee, che, come detto, sono sempre revocabili.
Il rimedio all’inefficienza dello Stato nel trarre utili dal
capitale comune non è trasformare il capitale comune in capitale privato, il
che dovrebbe quantomeno comportare risarcimento per il cittadino deprivato
della sua quota di capitale comune, ma di assegnare al cittadino un utile
derivante dalla gestione del capitale di cui è contitolare. La
“privatizzazione” sarebbe una beffa per il cittadino vessato, un colpo di coda
dello Stato declinante, il quale, dopo una grande epoca storica in cui ha
fallito nel proprio compito di mettere a frutto il capitale comune, non sa fare
altro, per porre rimedio al suo fallimento, che far cessare, non già la mancata
valorizzazione, ma il carattere comune del capitale da valorizzare. E semmai,
proprio l’ipotesi della privatizzazione del demanio dimostra come si tratti di assets in grado di produrre utili: ma
per chi?
Ora, come si inserisce il demanio da valorizzare in tale
quadro dottrinario? Il demanio, o “capitale comune di rilevanza politica”, non
è che una particolare declinazione dell’idea della Terra come res communis, con la differenza che esso
è capitale comune già oggi anche per
il diritto positivo vigente.
In effetti, tutto il capitale naturale mondiale andrebbe a
rigore definito, oggi, demanio, una volta assuntane la definizione lata che
abbiamo accolto, alla luce del fatto che tutto il Globo è statualizzato. Salvo
che gli Stati trattano da res nullius la
res communis, e ne consentono la
depredazione individuale senza indennizzo, creando i presupposti per lo sfruttamento
in assenza di risarcimento.
Tuttavia, se noi ci atteniamo alla lettera dell’art. 822 del
codice civile, siamo in grado di distinguere, come anticipato, il demanio
naturale da quello artificiale. In realtà la distinzione è sfumata, dato che
anche quello naturale è soggetto all’opera umana, e quindi rappresenta in una
qualche misura un artificio della tecnica. Se lido del mare, spiagge, fiumi,
torrenti, laghi, rade, boschi rientrano nel capitale naturale, strade,
autostrade, monumenti, opere necessarie alla difesa, strade ferrate, aeroporti,
opere d’arte, musei, pinacoteche, archivi e biblioteche sono veri e propri investimenti direttamente, come lo sono
tutte le opere pubbliche, salvo che, con l’attuale contabilità, rappresentano
solo un costo e non se ne vedono né le entrate, né il loro rilievo finanziario.
E poi c’è l’etere, ma anche le riserve auree, che, da noi, sono poderose e sono
di proprietà della Banca d’Italia; non demanio in senso stretto, ma ai nostri
fini assimilabili per regime (e se non lo fossero andrebbero comunque
espropriate in quanto capitale intrinsecamente comune al “popolo”).
Poi ci sono tutti i beni immateriali. Occorre una
ricostruzione teorica del bene
immateriale dello Stato, che è strettamente connesso all’esercizio delle
sue potestà, che propongo di riassumere nel già richiamato concetto, analogo a
quanto rappresenta il know how nel
diritto privato, di rilevanza politica,
bene immateriale che non viene meno con il venir meno dello Stato, dato che la
politica continuerebbe a vivere con sembianze diverse: come detto, ci si
assocerebbe per guadagnare e non per rimetterci, e allora cambia anche il senso
dell’invocata partecipazione popolare, dato che lo stesso agire politico
diventa partecipazione volta alla produzione e distribuzione di utili, oltre
che alla ripartizione degli eventuali costi: il nuovo paradigma non comporta
quindi la
“fine della politica”, ma la sua trasformazione in modalità d’azione redditizia
per tutti.
E allora emerge il problema di come individuare i soggetti
attivi della partecipazione al Common
Trust, incaricato di valorizzare beni o quote di beni o di panieri di beni.
Partiamo dal punto zero rappresentato dalla situazione
attuale: i cittadini appartengono necessariamente allo Stato, non sono liberi
di scegliere se aderirvi o no, e in ciò consiste l’essere (preteso, perché i
concorrenti esistono anche se illegali) monopolio della forza; una volta
sciolto lo Stato, ed emersa in tutta la sua chiarezza la proprietà diretta del
demanio da parte dei cittadini, emerge la necessità di definire la loro
partecipazione ai Common Trust in
termini di libera adesione.
Tuttavia si è precisato anche che, in regime di sovranità
popolare, i cittadini sono tutti contitolari
del demanio; ma questo non può comportare che essi debbano necessariamente
aderire ai Common Trust, dato che la
premessa da cui abbiamo preso le mosse è libertaria. E allora si può
rinunciare, dato che ubi commoda, ibi
incommoda, e partecipare alla gestione di un capitale comporta una certa
dose di rischio, perché aderire al Common
Trust significa che sei disposto a farti carico dei costi relativi alla
gestione e alla manutenzione del bene nella prospettiva di trarne un guadagno.
Però il fatto di essere stato “comunista” del bene demaniale lascia delle
tracce: uno può scegliere se aderire o non aderire, ma in caso di non adesione
deve essergli liquidato il valore della sua quota.
E’ a questo punto che emerge il problema teorico forse più
delicato, dal punto di vista della coerenza del sistema che propongo. Vale a
dire, se, come ho detto, la Terra, stante l’assioma libertario (nessuno è
legittimato a imporre obblighi giuridici o morali agli altri), va considerata res communis omnium, forse che anche il
Colosseo è di proprietà di un brasiliano o di un sudafricano? In linea di
astratta dottrina la risposta propenderebbe per un sì (patrimonio comune
dell’umanità), ma c’è un problema, che deriva da una differenziazione storica:
ossia che il cittadino italiano, per la manutenzione del Colosseo fino a oggi,
ha pagato delle imposte (non invoco quindi nemmeno un senso di appartenenza
“patriottico” e culturale di comunità, che pure potrebbe avere un suo spazio,
con riferimento non al demanio naturale, ma a quello artificiale, monumentale e
storico-artistico), e quindi, in un certo senso, attraverso l’appartenenza
coatta allo Stato e l’imposizione fiscale, il cittadino italiano ha esercitato
una sorta di homesteading differenziato
sul Colosseo (e sulla Valle dei Templi, etc.), il che suggerisce di limitare a
lui il diritto di liquidazione della quota in caso di non adesione al relativo Common Trust.
Ciò vale solo, però, per la liquidazione della quota al non
aderente, dato che il principio di non territorialità dell’ordinamento del Common Trust, ulteriore elemento di
differenziazione rispetto allo Stato, fa sì che il brasiliano e il sudafricano
possano autoselezionarsi quali soggetti interessati a farsi carico degli oneri
di manutenzione del bene, nella prospettiva di ricavarne un utile. Ho chiamato
tale elemento, normalmente detto panarchico, ossia il fatto di proporre
ordinamenti giuridici dei quali il territorio non costituisca elemento
essenziale, agearchia, ed esprimo un favor nei suoi confronti, per la ragione
che il territorio, se è considerato elemento costitutivo di un ordinamento
giuridico, ne favorisce il carattere monopolistico sul territorio stesso; ne
consegue il fatto di guardare positivamente al coinvolgimento di soggetti
esterni al territorio, ove autoselezionati come interessati, sempre che siano
disponibili a farsi carico degli oneri, nello stesso momento in cui aspirino a
condividerne gli utili.
Occorre quindi poter individuare un percorso di transizione,
che conduca dallo Stato preteso monopolista di pressoché “tutto” (sicuramente
di tutti i giudizi di legittimità, anche se alcuni possono essere trasferiti a
livello sovranazionale, ma che non cessano per questo di essere “statalisti”)
ai Common Trust concorrenziali nella
gestione del capitale comune. La premessa è che il demanio appartenga
direttamente ai cittadini, non solo per “sovranità popolare”, ma anche per
usucapione ab immemoriale, istituto che si applica esattamente al demanio, in
quanto bene in linea di principio non usucapibile; ma i cittadini occupano e
vivono il demanio da sempre, e quindi se ne sono impadroniti anche formalmente.
Tuttavia tale circostanza non risulta dall’esteriorità delle forme stesse, dato
che quei beni sono sempre imputati allo Stato.
Allora si tratta di trovare (naturalmente qui la questione
diventa politica, perché presuppone un governo intenzionato a perseguire questo
percorso) degli strumenti di auto-espropriazione
formale del demanio da parte dello Stato a vantaggio dei cittadini, in modo
da consentire loro poi di aderire ai Common
Trust concorrenziali.
Un’ipotesi potrebbe essere quella di iniziare, conferendo
tutto il demanio, dopo averlo contabilizzato -e quindi assegnatogli attraverso
perizie di estimo un fair value-, a
una public company, avente per soci
tutti i cittadini, ognuno dei quali ne fosse titolare di una quota. L’andamento
di questa società suggerirebbe, con l’esperienza, quale sia la dimensione di
scala ottimale della gestione di ciascun bene demaniale. Ad esempio, la
valorizzazione del Colosseo andrebbe in sinergia, faccio per dire, coi Fori
Imperiali: oppure no, se il marchio del Colosseo si dimostra autosufficiente
sul mercato finanziario. Si possono anche prevedere varie combinazioni di
marchi: Roma, ma anche Colosseo, Fori Imperiali, e così via. Oppure ancora si
può istituire il Trust del Fiume Po,
o quello del Lago di Como, che possiamo definire capitali in quanto
infrastruttura del servizio di navigazione, così come lo Stadio di San Siro è
capitale fisso dell’attività imprenditoriale “partita di calcio”, con tutto
quel che ne consegue (diritti sportivi televisivi, sponsorizzazioni, etc.). E
ancora il Trust di Venezia o di
ciascun suo monumento, o quello dell’Autostrada del Sole, e così via.
Ovviamente, ciascun cittadino sarebbe libero di aderire a tutti i Trust che preferisce, dato che l’opzione
iniziale, per come l’abbiamo descritta, è aperta.
Tutto ciò per dire che la dimensione ottimale del Common Trust non può essere definita a
priori, ma è un frutto dell’esperienza. Può essere bene per bene, o anche
rappresentare un pacchetto di beni, o un paniere di quote immateriali di
diversi beni: tutto ciò emergerà dall’esperienza. Saranno i cittadini stessi a
proporre, insieme ai tecnici, le soluzioni migliori.
Occorre però considerare un’altra circostanza, che deriva
direttamente dal carattere di capitale assegnato al demanio: ossia il suo
costituire in quanto tale retrostante
monetario. Considero la moneta, quando non è moneta-merce direttamente,
sempre comunque un “titolo rappresentativo di merci”, nozione di diritto civile
che agevola i trasferimenti, incorporando un bene in un documento, e quindi
consentendo di scambiare il bene virtualmente, senza doverlo portare con sé.
Non è nemmeno vero, peraltro, che la stessa fiat
money non conosca retrostante: essa si fonda sulla fiducia, ma sulla
fiducia in che cosa? Nella forza dello Stato (o di un Unione di Stati, come nel
caso della BCE -concepita come autorità indipendente e contrappeso, ma
realizzatasi come potere autoreferenziale e primario-, ma questa forza ha un
fondamento nel dominio che lo Stato esercita sul suo territorio, vale a dire,
in senso lato ma non troppo, sul suo demanio, riserve auree comprese, che
rappresenta tutto insieme la garanzia sottostante l’emissione monetaria. Tant’è
che la BCE rivendica il proprio ruolo di creditore della Repubblica Italiana in
conseguenza del Quantitative Easing, e che garanzia può concederle, la
Repubblica, se non il proprio demanio (oro compreso)? Così come del resto è
avvenuto con la crisi greca, che ha visto il conferimento in un fondo di
garanzia del Pireo e del Partenone.
In questo senso, anche la moneta fiat è, indirettamente, un titolo rappresentativo di un’entità
retrostante, come lo è la moneta avente al contrario un chiaro, diretto ed
esplicito retrostante in capitali. Ma se, ripeto, il demanio deve essere
considerato di proprietà di ciascun singolo cittadino, esso rappresenta un
capitale, potenziale retrostante monetario, a vantaggio di ciascuno, e allora
ognuno avrebbe diritto già oggi a una
propria quota di basic income,
fondata appunto sul demanio come capitale comune, quale fotografia in negativo
del (divieto di) libero conio.
Ciò sarebbe già possibile in regime di statualità, ma con i Common Trust il meccanismo sarebbe più diretto
e di più agevole applicazione. Prendiamo ancora l’ipotesi del Trust del Colosseo; anzitutto,
realizzerebbe il marchio del monumento e lo quoterebbe in borsa, magari
costituendo una società apposita, alla quale conferire il marchio, da concedere
in sfruttamento, merchandising, e
simili.
Dopo di che potrebbe costituire una banca demaniale, la quale
considererebbe come riserva la quota di demanio che ha in gestione, emettendo
moneta a vantaggio dei cittadini beneficiaries
del Common Trust. Dopo di che la
banca opererebbe come una normale banca, i cui azionisti sarebbero i cittadini
aderenti al Trust, tra i quali
andrebbero ripartiti gli utili; si noti che, stante il principio di riserva
frazionaria, vigente anche quando la moneta era basata sull’oro (Samuelson), la
moneta emessa sarebbe di prassi sovrabbondante rispetto allo stesso valore di
mercato del bene: ai nostri fini, basterebbe, come vedremo nel prossimo
capitolo, contabilizzare la moneta emessa come capitale (della comunità) e non
come debito.
Il tutto anche al fine di finanziare le opere pubbliche,
ossia quei beni “indivisibili”, che si suppone che, in assenza dello Stato,
capace di grande indebitamento, oltre che di tassazione, il mercato non sarebbe
in grado di realizzare, il che è vero, a mio avviso, solo nei termini della
difficoltà del finanziamento; sicché invece, con la presente proposta, il
capitale comune si autoriproduce, dato che, evidentemente, l’opera realizzata
rappresenta nuovo capitale fisso, suscettibile a propria volta di contabilizzazione
e di costituzione in retrostante monetario a sua volta: anche pro futuro, nelle more della materiale
realizzazione, sicché si viene a realizzare un’anticipazione, che comporta di
fatto che l’opera possa finanziarsi da sé. Il che però andrebbe integrato con
la mia ipotesi di “voto monetario”, di cui ho parlato ne “L’abusiva
legittimità”, misuratore delle preferenze effettive e non meramente dichiarate,
reso finalmente plausibile dall’accesso diffuso alla moneta, e che quindi non
sconterebbe il peso delle disparità di reddito all’atto della deliberazione.
Un forte freno alla transizione “dallo Stato ai Common Trust” sembra rappresentato dal
fatto che lo Stato di oggi sia fortemente indebitato. Come verrebbe trattato
questo indebitamento, nel processo di transizione, che libererebbe ampie
risorse di capitali, di assets, ai
fini di una produzione e di una ricchezza diffusa?
Va subito detto che il debito, come lo concepiamo oggi, è
frutto di un falso in bilancio: quegli assets
non sono infatti indicati nello stato patrimoniale dello Stato. Se allo
Stato si applicasse analogicamente, mutatis
mutandis, l’art. 2424 del codice civile, la situazione sarebbe ben diversa,
dato che il valore del patrimonio compenserebbe il debito. Di tale mancata
contabilizzazione sono responsabili ovviamente gli uomini politici, i quali,
con la loro inerzia, hanno reso lo Stato ancora più inefficiente ed esposto ai
mercati finanziari di quanto esso non sia per propria intrinseca natura.
Ma c’è una questione ancora più di fondo, che consente di
ritenere il debito “detestabile”, e quindi in buona parte ripudiabile. Vale a
dire che l’impresa Stato non valorizza il proprio patrimonio di capitali non
rendendolo retrostante monetario, e quindi si auto-costringe, per
autofinanziarsi, a incrementare tassazione e debito. Lo Stato, il quale, al
pari di qualsiasi capitalista, ben potrebbe emettere moneta (Schumpeter), per
ragioni storiche che non mette conto qui di indagare, non lo fa e acquista la
moneta di cui ha bisogno sui mercati finanziari e, in particolare, dalle
banche.
Nei paesi in cui la banca centrale funziona da prestatore di
ultima istanza, in pratica, il debito è rappresentato in buona parte da una
partita di giro, in quanto debito dello Stato con se stesso. Là dove ciò non
accade, come da noi, si accumulano interessi sul debito, e la finanza pubblica
è sottomessa al sistema bancario. Dopo di che lo Stato è costretto a
incrementare la tassazione per pagare debito e interessi sul debito, quando,
almeno teoricamente, in presenza di cosiddetta “sovranità monetaria”
l’imposizione fiscale potrebbe tendere addirittura allo zero, dato che lo Stato
potrebbe auto-dotarsi del proprio fabbisogno di moneta, metterla in circolo, e
combinarsi nel mercato con la moneta di derivazione bancaria.
Ne deriva che l’attuale debito pubblico non è connaturato al
sistema, ma rappresenta il frutto di ben precise scelte politiche, per quanto
evidentemente condizionate dal sistema bancario e finanziario, e quindi non può
essere usato come un’arma contro chi volesse transitare a un sistema
economico-finanziario più evoluto. Per quanto riguarda i comuni cittadini, il
riconoscimento della dotazione di una quota di capitale comune sarà sufficiente
a compensare il loro “investimento” in titoli di Stato, mentre per il debito
detenuto da grandi istituzioni, in primo luogo, da noi, la BCE, la quale si è
auto-costituita in creditore dello Stato, emettendo moneta per dare vita al
Quantitative Easing, esse vedranno puramente e semplicemente cassato il loro
credito, essendo da considerare odioso e detestabile il debito nei loro
confronti.
Detenere il monopolio della moneta, come capita in questo Stato finanziario in perpetuo fieri che è rappresentato dalla UE,
significa poi in realtà detenere il monopolio dell'economia, dato che assegnare
moneta è fare la prima delle politiche economiche, politica economica
discrezionale, come è discrezionale l'assegnazione di moneta. Solo riconoscendo
a tutti una quota di moneta di base, può aversi poi un libero mercato che non
sia in realtà il mercato distorto dei privilegiati.
Del resto, con il sistema della riserva frazionaria com’è
oggi, le banche emettono di fatto tutta la moneta che vogliono, tendenzialmente
all’infinito, salvo che contabilizzano i mutui che erogano al passivo, come se
si trattasse di una pura intermediazione del credito, occultando il fatto che
si tratta di moneta nuova, consistente quindi in un chiaro attivo per chi la
emette; dato che, quando il prestito verrà restituito con gli interessi, la
banca si locupleterà non solo degli interessi, ma anche del capitale
fondamentale da essa stessa emesso e prestato. Se il credito va in sofferenza,
quindi, non si tratta di una perdita, ma solo di un mancato guadagno, anche se
contabilmente il mancato guadagno risulta come perdita. Tale opzione contabile
deriva da una duplice ragione: da un lato, occultare agli occhi dell’opinione
pubblica il dato di fatto che la banca emetta moneta, benché ciò sia ormai
notorio; e, dall’altro lato, non pagare imposte su questi utili, con la conseguenza
che, quando una banca compra titoli di Stato, impiega risorse nette e non
tassate: motivo di più, dunque, per ritenere detestabile il debito nei loro
confronti.
Finora ho argomentato con riferimento soprattutto al demanio
in senso stretto; ma che dire del capitale naturale, rappresentato dalle
risorse naturali? Esse sono, lo si è detto, res
communis omnium, quindi non valgono, in linea di principio, limitazioni di
carattere locale. Pertanto si possono prevedere Trust per risorsa, o panieri o pacchetti di risorse e materie prime
(minerali, prodotti della terra) senza limitazioni di ambito operativo. Ma si
potrebbe prevedere anche, per dire, il Common
Trust dell’oceano, che guadagni dalla navigazione, per fare un esempio.
Compito di simili Trust
sarebbe di contrattare il prezzo delle risorse naturali impiegate nei
processi produttivi -ovvero, come nel caso di internet, periziarne la sua rilevanza economica quale capitale base
di un’impresa (si pensi ad Amazon)- dai singoli operatori economici, in modo da
rendere possibile la realizzazione dell’utile universale a vantaggio di ciascun
cittadino del mondo, che viene computato a partire dai prezzi di mercato delle
risorse naturali e delle materie prime.
Anche in tal caso l’adesione sarebbe volontaria, dato che
nessuno verrebbe costretto a ottenere la propria quota di utile; ad esempio, un
primitivista alla Zerzan, ovvero un aborigeno che volesse continuare a vivere
secondo tradizione, non vengono costretti ad ottenere una carta di credito,
tuttavia v’è anche facoltà di ottenerla e di non farvi uso, se non
eccezionalmente. Allo stesso modo, un soggetto potrebbe anche sottrarsi al
versamento del canone indennitario dovuto, se il suo consumo di risorse
naturali nel processo produttivo è molto limitato, al prezzo però di rinunciare
all’eventuale surplus a suo vantaggio
in termini di quota spettante di utile universale.
Immagino, a questo punto, che ciascuno dei Trust incaricati di amministrare una o
più risorse naturali effettui i
conteggi dei relativi consumi e prezzi, in modo poi da ripartire i
proventi tra tutti i cittadini del mondo, che, in base all’impostazione
dichiarata, sono comunisti del capitale naturale. Agli imprenditori viene
richiesto di corrispondere esclusivamente un canone pari al valore di mercato delle risorse naturali impiegate
nel processo produttivo, e nessuna imposta ulteriore, per le ragioni già
illustrate. Anche per le risorse naturali, si può ipotizzare che uno o più Trust collegati costituiscano delle
istituzioni bancarie, che prevedano come retrostante e riserva quote di stock di materie prime e vari panieri di
beni quotizzati.
Tutto ciò comporta che vi sia una qualche forma di
interazione tra i molti Common Trust,
che potrebbero confluire anche in una o, meglio, più confederazioni fino al
livello mondiale, le quali, come si vede, non avrebbero carattere territoriale
come capita allo Stato, ma carattere funzionale e a fini produttivi,
continuando a operare in concorrenza, dato che l’adesione sarebbe sempre
libera.
Resta da dire qualcosa su come siano da designare i
responsabili dei Trust, i quali
verrebbero incaricati dalle comunità volontarie di valorizzare i loro patrimoni
di riferimento. Si tratterebbe di una grande occasione di partecipazione
popolare, in una politica non rappresentata da astratte discussioni ideologiche
o demagogiche, ma volte a uno scopo preciso: arricchire la comunità. Sarebbe un
modo nuovo di intendere la politica, un nuovo “contratto sociale”, quindi un
nuovo paradigma, in forza del quale, come ho già rimarcato, non ci si aggrega
per rinunciare a diritti in nome della scarsità di quello che ho definito lo
Stato “bad company” della filosofia
politica classica, ma ci si associa per esplorare le potenzialità economiche e
finanziarie del capitale comune, in un gioco a somma estremamente positiva,
dato che al guadagno dell’uno corrisponde quello dell’altro, e quindi una
politica a minore conflittualità. Idee diverse su come valorizzare il bene
comune potranno comunque esserci; e allora prevedo comunque che siano presentate
liste diverse di candidati a gestire i Trust,
ma con un accorgimento: introdurre quello che ne “L’abusiva legittimità” ho
battezzato panachage cardinalista.
Vale a dire che la lista elettorale non vincola il voto, ma
si potranno votare anche candidati di liste diverse, attribuendo loro, come
modalità di voto, un punteggio, ad esempio da zero a dieci, come in un voto
scolastico.
L’elettore può esprimere tutte le preferenze che vuole a
vantaggio dei diversi candidati, anche di liste contrapposte, formulando un
giudizio numerico, sicché verrà eletto chi otterrà il punteggio più alto. Il
termine “cardinalista” esprime proprio questo, ossia che, attraverso il
giudizio numerico, l’elettore esprime non solo l’ordine delle preferenze, ma
anche la loro intensità, per utilizzare il modo di ragionare dell’economista
coreano Ng.
Come si concilia tale opzione elettorale con il fatto che in
altra occasione ho definito il voto un atto di coercizione? In realtà è
evidente la differenza: qui non si vota su programmi elettorali a pacchetto un
po’ su tutto, con la conseguenza che un po’ su tutto la maggioranza schiaccerà
la minoranza.
Nei Common Trust si
vota esclusivamente per selezionare persone, che si presume siano dotate non
solo di qualità politiche, ma soprattutto di caratura tecnica, per un compito
ben chiaro e delimitato, per quanto molto importante, ossia valorizzare il
capitale comune. D’altra parte, il Trust rappresenta
una comunità volontaria, e un meccanismo di selezione dovrà pur esserci, e
allora meglio farne un’occasione di partecipazione, di discussione pubblica, di
condivisione di sempre nuove e aggiornate modalità tecnico-finanziarie a
vantaggio di tutti: non c’è un programma di governo ad adesione obbligata che
opprime chi la pensa diversamente, ma una tendenziale convergenza su quali
siano le opzioni migliori, in un campo che non discrimina nessuno. E allora il
voto serve soprattutto come occasione di discussione per fare emergere quali
siano davvero le scelte migliori, di tal che anche l’eventualità delle liste
contrapposte è solo teorica, in omaggio al principio, per il quale anche le
questioni di carattere tecnico possono offrire soluzioni diverse (se poi ci
sarà unanimità tanto di guadagnato); e naturalmente, l’eletto sarà soggetto a
permanente recall, per il caso in cui
non svolga al meglio la propria funzione; oppure altri si proporranno
introducendo l’ipotesi concorrenziale di istituire un Trust alternativo con riferimento allo stesso bene, cercando di
portare via i “clienti” al Trust in
essere.
Val la pena di ribadire che non sto proponendo un sistema onnicomprensivo, i Common Trust non rappresenteranno l’alfa e l’omega delle istituzioni sociali, ma saranno istituzioni specifiche dedicate a uno specifico scopo: creare risorse finanziarie a vantaggio della comunità, affinché sia reso poi possibile un mercato libero su base paritaria con riferimento a ogni servizio, compresi quelli di welfare, devolvendo la responsabilità delle relative scelte alla libertà dell’individuo, anche attraverso associazioni di libero mutuo soccorso, munendolo di outputs di certezza alle più varie dimensioni di scala, evitando di ricadere nella soluzione monopolistica della statualità, con il vantaggio che determinati servizi, ad esempio la sanità, non v’è bisogno mirino al profitto, venendo forniti a prezzo di costo con copertura assicurativa. Per tutto il resto vale ovviamente il principio di libera associazione e sperimentazione, fino a quando gli stessi Trust diverranno pleonastici, una volta che la tecnologia consentirà il diffondersi pieno del libero conio e, quindi, modalità associative sempre più informali, fermo restando che già oggi l’economia si fonda in significativa parte su scambi non monetari, basati sulla convivenza, l’amicizia, la condivisione e la reputazione, per cui l’elemento soggettivo, tecnicamente l’intuitu personae, viene ad assumere rilevanza primaria nella stessa economia dello scambio, che sempre di più è reciprocamente tra servizi, e sempre meno tra bene e denaro, non solo, come è sempre stato, ai livelli “domestici”, ma anche ai livelli più alti del mondo degli affari.
È questo dunque il primo dei due fronti fondamentali di
iniziativa immediata e indefettibile
del Dittatore Libertario (l’altro, come vedremo subito, riguarda il codice libertario):
sul fronte economico-finanziario, abbiamo quindi appena visto come si tratti di
partire dalla contabilizzazione del demanio, come primissimo passo di un
processo di transizione verso il superamento dell’istituzione, a un tempo
antica e moderna, dello Stato monopolistico e coercitivo, per procedere nella
direzione di una sua dissoluzione finanziaria e del suo rimpiazzo con
istituzioni volontarie come i common
trust, improntate al ben diverso paradigma del guadagno comune, ferma restando la libertà del guadagno individuale
sul libero mercato, a condizione del versamento di un canone indennitario in
proporzione alle risorse naturali impiegate nel processo produttivo, in quanto capitale comune, che andranno a nutrire
la quota di utile universale di ciascuno; peraltro, può ammettersi che un
piccolo utilizzatore di risorse, un piccolo occupatore di porzioni di terra,
possa essere esentato dal pagamento, a patto che rinunci all’eventuale surplus a suo favore, derivante dalla
sua quota di utile universale di astratta spettanza, e naturalmente a patto che
la sua attività riceva consenso dalla sua riconosciuta utilità da parte del
mercato; si pensi a un piccolo panificatore, che proprio in considerazione
della sua riconosciuta utilità potrebbe sottrarsi al pagamento, ma, appunto,
ripeto, in tal caso starebbe confidando esclusivamente sui suoi utili
individuali, e verrebbe a rinunciare a quella sorta di “assicurazione”, che
sarebbe costituita dalla quota di utile universale di sua spettanza; l’assicurazione
sarebbe in un duplice senso, dato che versando il canone indennitario la sua
proprietà sarebbe anche convalidata dal consenso sociale acquisito attraverso il
pagamento.
Qualcuno potrebbe obiettare che, nei confronti dei soggetti
di maggiore dimensione di scala, viceversa comunque tenuti al versamento del
canone, vi sarebbe un rapporto di coercizione nei loro confronti da parte della
comunità, che ad esempio si esprimerebbe sotto forma di Common Trust; ma l’obiezione è infondata, data che la coercizione,
al contrario, va imputata al proprietario, il quale pretenda di imporsi
unilateralmente e senza consenso, sicché l’imposizione del canone –in attesa
che il suo versamento divenga una consuetudine rispettata spontaneamente- vale
a ripristinare una reciprocità, e non ad assoggettare a un’imposizione
unilaterale, questa volta da parte della comunità: quantomeno, la costrizione è reciproca, come tutte
le volte in cui ci si trova di fronte a una relazione di tipo contrattuale o tacitamente
convenzionale, e a costrizione reciproca corrisponde vantaggio reciproco, dato
che il proprietario ottiene la legittimazione, la convalidazione e l’assicurazione
del suo possesso, mentre la comunità consegue il relativo canone indennitario.
4.
La realizzazione del codice libertario.
Non ignoro che un punto forse ancora più fondamentale tra i
compiti del Dittatore Libertario, nel senso di preliminare secondo una logica
elementare, è di introdurre e implementare un vero e proprio codice libertario, vale a dire una
rivoluzione riguardo ai principi giuridici oggi vigenti. Occorre a tale proposito
un’illustrazione molto generale a proposito di quali siano i principi di quello
che reputo il “diritto libertario”, precisando che non mi ispiro a ipotesi di
stampo giusnaturalista, pur tenendo ferma la barra dell’ispirazione fornitami
da quella che definisco inclinazione
libertaria, pur consapevole che essa non è di tutti, ed è proprio per
questo che una fase di transizione di imposizione “dittatoriale”, se vogliamo
in senso romano, si rende necessaria.
Certo, l’ipotesi più
radicale e divertente sarebbe quella che, sopraggiungendo il dittatore libertario,
egli abrogasse tutte le leggi vigenti e si limitasse a emanare un comunicato,
con il quale invitasse tutti a fare da soli, ad arrangiarsi. Tuttavia, è difficile che da questo caos possa
immediatamente sorgere un ordine spontaneo libertario –semmai forse in tempi
molto lunghi, storici-, quindi l’esito più probabile che si otterrebbe sarebbe
il crearsi di sommovimenti popolari, per… riottenere lo Stato com’era, o
comunque per invocare leggi per organizzarsi e sapere come agire, data la
disabitudine all’autogestione. Al che, sempre per rimanere nell’ambito del
divertimento, il dittatore libertario potrebbe mandare l’esercito contro i
rivoltosi per imporre loro di… fare da soli, costringendoli con la forza! Qui
lo scherzo consiste nel giocare sui possibili paradossi linguistici connessi
alla lettura ossimorica dell’espressione “dittatore libertario”, obbligare a essere liberi, il che mostra
come ciò sia, a mio avviso, concepibile, ma attraverso un percorso di
transizione di profonda riforma, e sia pure rivoluzione, della legislazione
vigente, e non semplicemente creando un vuoto di potere, che potrebbe essere
malamente riempito da malintenzionati.
Vediamo quindi quali sono, grosso modo, a mio avviso, i principi fondanti
dell’ipotetico e auspicato diritto libertario: a) anzitutto, occorre muovere
dall’assioma che ognuno è legittimato a porre individualmente un proprio
criterio di condotta, in buona sostanza ognuno
pone il suo diritto: v’è evidentemente un elemento “naturalistico” in
questo, dato che il monopolio della forza preteso dallo Stato è artificiale,
anzi, artificioso, perché quando il filosofo del diritto afferma che il diritto
è un fatto umano, sottintende che ciascuno
è fisiologicamente fonte di diritto, ciascuno è in grado di fissare propri
criteri di condotta e seguirli razionalmente, e quei criteri sono il suo proprio
diritto positivo individuale, che è
l’opposto del diritto, o privilegio, “concesso” dallo Stato. Il principio
giuridico libertario riconosce tale facoltà individuale di porre diritto,
assegnando all’individuo la più ampia sfera riservata di decisione, da
confrontarsi poi con quella degli altri, al fine di pervenire al migliore
equilibrio delle forze, dimodoché la convenzione fondamentale consiste in una
rinuncia reciproca all’uso della forza bruta, per cui di fatto ognuno acquista
dall’altro la sua astensione dall’uso della forza, e questo è il senso ultimo
di un contratto e di un libero scambio nel mercato: io mi astengo dal sottrarti
forzosamente il pane, senza darti il denaro, e tu ti astieni dal sottrarmi
forzosamente il denaro necessario ad acquistare il pane, senza però darmi il
pane, e queste rinunce avvengono in nome di un chiaro principio di reciprocità.
b) Opera poi, tra i principi del diritto libertario, il modello, che è
strettamente connesso al punto precedente, che nella storia del pensiero
giuridico fu detto giusliberista,
ossia l’atteggiamento di rinvenire la soluzione di un caso giuridico “ovunque”,
vale a dire attingendo da qualsiasi fonte, indipendentemente dal suo rango
formale, dalla sua localizzazione geografica o dalla sua scaturigine storica,
da qualsiasi prassi o consuetudine, ogni qualvolta in tali fonti, anche
informali, si rinvenga una risposta adeguata al caso, in nome di quella che
chiamo gerarchia funzionale delle
fonti: naturalmente, in ambito libertario, residua un elemento fondante di
gerarchia formale, che è
rappresentato dall’assioma libertario e dai principi connessi all’inclinazione
libertaria, che si collocano al vertice della gerarchia formale, in particolare
a livello meta-normativo. Dal punto di vista della condotta individuale, il
giusliberismo comporta che ognuno possa attingere liberamente da istituti noti o altri standards sociali, o innovando rispetto
a essi, in una libera ricerca del diritto, per cui qualsiasi fonte normativa
sia utile alla bisogna e conforme al principio di libertà, liberamente cogliendo,
indipendentemente dalla collocazione dello standard
invocato in un qualsiasi gerarchia formale, dal diritto particolare o locale,
internazionale, straniero, la disposizione o l’istituto più conforme, rispetto a
un altro concorrente, alla meta-norma libertaria: uno standard si realizza del resto nel mondo dei fatti sociali e non
richiede alcuna formalizzazione esplicita, ma vive e prospera nel suo effettivo
uso.
c) Il diritto libertario oltrepassa le distinzioni tradizionali tra diritto
privato, diritto pubblico e persino diritto costituzionale, in nome di un nuovo
diritto comune, che attinge da ognuno
di essi, riassorbendone in sintesi i principi, in quanto valevoli in qualsiasi
tipo di interazione e relazione intersoggettiva, per il caso del conflitto e
della lite, sicché il diritto comune diviene l’altra faccia del diritto libero,
ossia del giusliberismo allorché questo non si preclude alcun riferimento
normativo e dottrinario in sede di soluzioni dei casi. In particolare, il nuovo
diritto comune contempla principi ora appartenenti a branche diverse del
diritto, o almeno all’apparenza, dovuta al fatto che ogni branca accademica e
giurisprudenziale coltiva gelosamente il proprio orticello, e così principio di
buona fede, interpretatio contra
stipulatorem nei confronti del soggetto più forte, assoggetamento di questo
al vizio di eccesso di potere, configurazione del vizio di abuso di posizione
dominante come vizio di relazione e situazione e non solo di sistema,
applicabilità dei principi fondamentali del diritto costituzionale sul rispetto
dei diritti umani, tanto più con riferimento ai soggetti forti, sono principi
che possono e devono coesistere in unico corpus
giuridico, prevalendo il principio materiale-sostanziale nell’inquadrare e
nel sussumere una data relazione reale, indipendentemente dalla forma esteriore
“pubblica” o “privata”, dato che la tutela nei confronti di un soggetto
dominante deve essere la stessa.
Ad esempio, Facebook rivendica il suo essere soggetto “privato” per
giustificare le proprie censure, e quindi agire come se si trovasse “a casa
propria”, ma si tratta di un abuso dato che Facebook, da un lato esercita un
servizio pubblico de facto, ossia la
gestione del “servizio di espressione della libertà di opinione”, sicché vale
nei suoi confronti il principio costituzionale di libertà di manifestazione del
pensiero, valendo almeno in questo caso il principio della dottrina del Drittwirkung, in base alla quale, quantomeno in alcuni casi fondamentali, i principi
del diritto costituzionale operano anche nei rapporti privati; e, dall’altro
lato, essendo noi legati a Facebook da un contratto, valgono i principi di
buona fede e di interpretatio contra
stipulatorem, che vale nel caso di contratti unilateralmente predisposti,
con tutto quel che ne consegue in termini di diritto del consumo, come ad
esempio l’obbligo di contraddittorio in caso di ban e censura, tutti principi che Facebook viola, laddove si tratta
di superare le distinzioni nel diritto antitrust tra tutela consumeristica e
principio della libera concorrenza, colpendo gli abusi dei grandi soggetti, sia
in quanto lesivi della libera concorrenza, sia in quanto lesivi dei diritti del
consumatore; o, meglio, deve intendersi operativo il principio del diritto antitrust, ogni qualvolta il consumatore
sia danneggiato.
Per la verità, il Dittatore Libertario agirebbe in modo ancora più drastico,
puramente e semplicemente vietando ai social
network la censura, rendendole vere e proprie piattaforme della libertà di
opinione, bypassando totalmente la
questione che si tratti di soggetti di diritto privato, dato che l’essere
soggetto di diritto privato non deve diventare ragione e giustificazione di
abusi (per cui poi uno paradossalmente finisce con il rimpiangere il pubblico).
d) L’avere rigettato l’approccio giusnaturalistico ai diritti (rimando a
miei lavori precedenti, come L’eguaglianza
libertaria – Contraddizione, conciliazione, massimizzazione, Aracne, e L’asso
pigliatutto – Il caso dell’utilitarismo libertario, De Ferrari), in favore
di uno più utilitaristico fondato sugli interessi legittimi, porta a
individuare le situazioni giuridiche soggettive come raramente intangibili, e
più spesso compenetrate, dimodoché i diritti pretesi, salvo quelli assoluti
inerenti la self-ownership riferita
al corpo, spesso richiedono bilanciamento e ponderazione; salvo però che nella
teorica attuale di diritto amministrativo riferita alla figura dell’interesse
legittimo, la sua sacrificabilità è gratuita, il che comporta compressione
unilaterale di un diritto a vantaggio di un altro, il che non è ammissibile in
una prospettiva in senso lato contrattualistica e convenzionalistica, in cui
nessuna pretesa si colloca gerarchicamente al di sopra di un’altra: ne deriva
la necessità di universalizzare l’istituto dell’indennizzo, secondo quello noto come principio di efficienza di
Kaldor-Hicks, in modo tale che l’interesse, o diritto, eventualmente
sacrificato, costituisca sempre oggetto di un ristoro, di una compensazione, in
modo da ristabilire l’equilibrio di mercato ogni qualvolta questo sia alterato
da determinate esigenze, che sono in genere esigenze di carattere pratico: ad
esempio, la realizzazione di una grande opera ritenuta utile dalla comunità,
l’eventuale sacrificio di interessi particolari non può gravare esclusivamente
sui relativi portatori, e quindi costoro andranno compensati e indennizzati a
carico dei favorevoli a una determinata opera pubblica, come invece non fu nel
noto caso, portato da Ronald Coase, sugli agricoltori che vedevano infiammate
le proprie messi dall’insorgente linea ferroviaria: essi dovettero sacrificarsi
e cedere innanzi al “superiore interesse” rappresentato dalla realizzazione
della ferrovia: con la nostra proposta, invece, gli agricoltori sarebbero stati
pienamente indennizzati per i danni subiti; il che, si badi, comporta anche
che, se il costo degli indennizzi è eccessivo, si può anche decidere di
rinunciare a realizzare la grande opera, sicché il principio di indennizzo
funziona anche da contrappeso ecologista.
Se dunque questi sono i principi fondamentali, che individuo nella mia
proposta di “diritto libertario” da implementarsi ad opera del Dittatore
Libertario, al quale dunque competerà di predisporre una codificazione in tal senso, vien da chiedersi chi poi in concreto
applicherà ai casi pratici tali principi in caso di conflitto e di lite, nella
consapevolezza, però, che le liti sono un’eccezione nella vita pratica normale,
dato che non passiamo la vita in tribunale, e in genere attingiamo agli
istituti giuridici consuetudinariamente e anche inconsapevolmente: non riflettiamo, ad esempio, sui principi che
regolano il contratto di compravendita ogni qualvolta acquistiamo del pane dal
panettiere, facciamo la cosa nei termini di un’incombenza banale e normale
della nostra vita, come sottolineò già molto tempo fa il grande sociologo del
diritto Eugen Ehrlich.
A mio avviso, il diritto libertario dei casi sarà, non di fonte
legislativa, ma dottrinaria e giurisprudenziale, conciliando le due diverse
tradizioni di diritto comune e di common
law, il che meglio si attaglia ai principi della libera ricerca del diritto,
del diritto libero e del giusliberismo, per impiegare le diverse dizioni d’uso
al riguardo. Il giudice dovrà essere una figura del tutto informale, liberamente scelta dalle parti al di là di qualsiasi
formalismo, senza formule sacramentali e cerimonie ridotte al minimo, salvo
che, mano mano che il caso sarà più impegnativo e rilevante, il giudice sarà
ben sì informale, ma anche sempre più qualificato;
sicché importante sarà il ruolo dei giuristi, il cui onere sarà di
de-statalizzare la propria cultura, e favorire le transazioni, gli accordi, i
contratti ex post facto quale
soluzione alle liti, in modo da ricondurre l’extra-contrattuale al contrattuale,
sicché il bilanciamento degli interessi possa rappresentare un esito bilaterale
e volontario e non imposto, svolgendo il giudice un ruolo di pacificatore e
arbitratore il più possibile secondo equità.
Vien da chiedersi se, in un tale quadro sostanzialmente anarchico, data
l’assenza di un legislatore che si occupi di casi particolari come avviene
oggi, lasciato alla libera iniziativa di giudici-arbitri, i quali si
autoselezionino imprenditorialmente quali solutori delle controversie, sempre
sulla base dei generalissimi principi supremi della meta-norma libertaria di
divieto della coercizione unilaterale, vi sia uno spazio di garante ultimo, in
prospettiva, per il Dittatore Libertario, il quale, oltre a guidare la
transizione nei termini di cui al capitolo precedente (ossia passare dallo
Stato alla costituzione dei Common Trust), opererebbe anche come giudice di
ultima istanza.
Vale a dire, vien da chiedersi se, in una fase più avanzata della
transizione, fondata sull’anarchia giuridica e giudiziaria, il Dittatore
Libertario possa proporsi come organo di garanzia
del codice libertario, al quale appellarsi in occasione dei casi più
controversi e di maggiore rilevanza pratica, magari con l’ausilio di un software programmato sui “principi
libertari”, ma sempre con la vigilanza dell’intuito umano, fermo restando che
d’ordinario tutto si svolge in base al principio di volontarietà.
In tal caso, il Dittatore Libertario si trasformerebbe in una sorta di
figura regale, in una “Corte Suprema”, pronta a controllare che da parte delle
agenzie locali non si procurino abusi, favorendo il formarsi di consuetudini
gradualmente sempre più conformi ai principi meta-normativi libertari, evitando
altresì il formarsi di posizioni dominanti nel mercato del diritto e della
produzione giuridica; sicché opererebbe anche come antitrust preventivo sull’uso della forza, nei confronti di ipotesi
di ricostituzioni della statualità, in una situazione in cui tutti sono potenzialmente poliziotti e giudici,
non essendovene di specialisti o di autorizzati in via privilegiata ed
esclusiva, essendo tutti liberi di armarsi, il che rappresenta a sua volta una
garanzia dal basso nei confronti del formarsi del monopolio della forza, di
situazioni di abuso di posizione dominante, ovvero di cartelli tra agenzie
dominanti.
Si può auspicare che, con il tempo, i casi portati al cospetto di D.L siano
sempre meno fino a estinguersi, dimodoché egli si trasformi in un Re che regna,
ma non governa, ossia, con Lao-Tsu, che non faccia nulla e non abbia proprio assolutamente
nulla da fare, rimanendo magari come figura puramente simbolica dell’unità del
meta-ordinamento libertario, pronto a essere oggetto di tirannicidio per il
caso in cui fosse invece lui a sgarrare!
Per altro verso, siffatta figura regale sarebbe
anche garante della conservazione della comunione della terra, dato che la
dottrina di Giacomo I, concentrando tutto il territorio in mano del re, volge
dialetticamente nel proprio opposto, dissolvendo l’impossibile, in termini realistici,
proprietario unico del paese, in una proprietà geo-comunista, sicché avremmo il
paradosso del Re repubblicano, quale
garante simbolico di un’anarchia fondata sulla combinazione tra Terra comune e
libera impresa, accompagnata quest’ultima dal pagamento di canoni indennitari
nei confronti della comunità in funzione del quanto di risorse naturali, e
quindi di capitale comune, impiegato nel processo produttivo.
5. Il Partito Libertario tra programma massimo
e programma minimo.
Il 18 ottobre 2020 si
è costituito in Roma il nuovo Partito Libertario, del quale sono stato
promotore in nome di principi e valori che vado elaborando da oltre venti anni.
Il Partito si è formato sulla base di un Manifesto Costitutivo, il quale
riafferma molti dei principi sopra ricordati; anzitutto una scelta di campo,
attraverso l’assunzione di un ethos libertario in favore degli svantaggiati, il che segna la distanza della posizione del Partito
dall’anarco-capitalismo, facendo propria l’opzione di fondo di sentirsi dalla
parte degli svantaggiati, dei poveri e degli emarginati, che sono coloro i
quali hanno patito e pagato di più dal sistema Stato-capitalista, sulla base
della convinzione che la questione della povertà, nella storia, sia quasi
sempre stata questione di libertà, per meglio dire di mancanza di libertà.
I postulati teorici del Partito sono coerenti con questa
premessa, ad esempio intendendo la Terra come res communis e non res
nullius, quindi sottratta ad appropriazioni unilaterali, in cui di fatto
oggi chi “primo arriva” sono multinazionali che si appropriano con il land
grabbing del territorio nei Paesi poveri con l’ausilio dei governanti
locali corrotti.
Conseguentemente, vale la regola della proprietà privata fondata
sul consenso e non sull'appropriazione unilaterale, che ai nostri occhi
rappresenta un atto di coercizione, una ratifica del potere del più forte,
sostituendolo con il principio georgista, in forza del quale la proprietà non
investe perciò il suolo, ma solo l’edificazione sul suolo, come nell’istituto
del diritto di superficie; connessa con questo, opera la compensazione degli
spossessati attraverso la corresponsione di una rendita di esistenza o utile
universale; perché, se l’ipotesi migliore per ottenere il consenso altrui sulla
rivendicazione di una propria proprietà è che, nel rispetto del
cosiddetto proviso di Locke, anche gli altri dispongano di
altrettanta proprietà e altrettanto buona, in
mancanza di questo , il non proprietario potrà prestare il proprio
consenso esclusivamente se compensato; dice a tale proposito il “Manifesto”: “noi proponiamo a tale proposito che ognuno
sia assegnatario di una quota di utile
universale, calcolata sulla quota di Terra di sua spettanza, e, quindi,
sul quantum di
risorse naturali impiegate nel processo produttivo, sicché ognuno corrisponda
agli altri un adeguato canone commisurato
appunto sulle risorse naturali impiegate. Funzione di un cospicuo utile
universale è anche di poter acquistare liberamente la propria quota di bene
pubblico, consentendo così l’abbandono dello Stato sociale burocratico, ma
anche di potere contrattare da posizione non svantaggiata la propria condizione
nel mercato del lavoro, favorendo la libera iniziativa economica, il che
comporta anche l’abolizione di albi, registri, ordini e altri orpelli
burocratici. Per le stesse ragioni, l'utile universale favorirebbe il libero
associazionismo per la soluzione di qualsiasi esigenza di interesse e bene pubblico
in chiave non burocratica e autoritaria ma di auto-organizzazione spontanea e
autogestione”.
Il Partito Libertario è favorevole alla libertà di
iniziativa economica, sulla scia dei grandi anarchici individualisti americani
del XIX secolo (Tucker, Warren, Spooner), e come loro propone un “mercato
liberato” –i left-libertarians
americani parlano di freed market-,
opposto a quello improntato al “capitalismo monopolistico”: quindi abolizione
dei diritti di proprietà intellettuale (brevetti, copyright e marchi) e tutela del consumatore (che in realtà è un
consumatore-produttore, prosumer): “Il
capitalismo reale è capitalismo monopolistico, e tali monopoli sono costituiti
attraverso l’attivistico intervento dello Stato, che li concede attraverso, in
buona parte, i cosiddetti diritti di proprietà intellettuale. Il grande
capitale dell’immateriale riesce a monopolizzare e a privatizzare ciò che, per
“natura della cosa”, sarebbe comune, proprio in quanto immateriale, e quindi
riproducibile all’infinito gratuitamente, proprio perché lo Stato concede
esclusive attraverso i diritti di proprietà intellettuale”. Si salvaguarda invece
la tutela morale piena dell'inventore e
dell’autore, i cui diritti sono oggi espropriati dalle multinazionali, che
accumulano a migliaia ciascuno brevetti e copyright, frutto della creatività
dei propri dipendenti. E ancora: “L’abolizione
dei diritti di proprietà intellettuali comporterebbe evidentemente un deciso
ampliamento della libera concorrenza. A questo proposito, la nostra attenzione
andrà alle connessioni tra diritto della concorrenza e tutela del consumatore,
che oggi è sempre più anche produttore di servizi non compensati
(prosumerismo), il che pone anche il problema della sostenibilità della grande
distribuzione da questo punto di vista, dato che a un controllo monopolistico
del settore corrisponde la pretesa di sempre crescenti prestazioni da parte del
consumatore”.
E si noti come l’abolizione di simili diritti di
proprietà intellettuale, che rendono artificiosamente scarso, per intervento
statuale, ciò che in natura sarebbe abbondante e replicabile all’infinito,
indica un punto di confluenza tra libertà
ed eguaglianza, dato che, esattamente come avviene per il libero conio, l’ampliamento
della concorrenza ha un effetto redistributivo di risorse dal già monopolista ai
concorrenti subentranti.
Al contrario, i fatti ci dicono che oggi
non esiste nessunissimo “mercato” davvero “libero”, ma solo un gigantesco
sistema in cui tutti sono organati, pur quando dotati di forma esteriore
privatistica, all’interno dell’apparato pubblico, e vivono di questo, compenetrandosi
totalmente “pubblico” e “privato”: io la chiamo “idiocrazia”, come già
ricordato da idion, privato in greco,
dominio privatistico, null’affatto “mercato”. Con la logica conseguenza che più
“grosso” è il soggetto, più questo soggetto vive di apparato pubblico, di
tasse, di indebitamento, di gestione discrezionale della moneta monopolistica,
in una parola di Stato.
Prendiamo le famose multinazionali, che
sia per gli apologeti che per i critici sarebbero campionesse di “libero
mercato”. Al contrario, oltre a incidere profondamente sulla politica, fino a
determinare l’elezione, per dirne una, del presidente degli Stati Uniti, esse vivono
di: commesse belliche; opere pubbliche di ricostruzione post-bellica,
concessioni amministrative pubbliche di ricerca energetica; sovvenzioni e
sussidi pubblici al petrolio; grandi opere di ogni tipo, fiscalmente finanziate
e con l'indebitamento, brevetti su ogni cosa possibile e immaginabile, che
creano monopoli coercitivi in danno alla concorrenza; scadenti marchi, che
autorizzano i vari “Dolce & Gabbana” e “Louis Vuitton” a risparmiare sugli
avvocati e sui contributi unificati dei processi, per le cause di concorrenza
sleale, perché tanto la lotta all’”abusivismo” la fa, a spese del contribuente,
la polizia municipale; copyright che mirano a monopolizzare
il web, rallentando lo sviluppo tecnologico e l’open source, ovvero a tutelare artificiosi “diritti
televisivi” combattendo la libera concorrenza, bollata come “pirateria”;
brevetti e marchi farmaceutici, per multinazionali che vivono di spesa pubblica
sanitaria in danno di Pantalone, sicché i farmaci si moltiplicano, e paga lo
Stato, ossia il contribuente, per prodotti spesso inutili o dannosi, come nel
caso di molti psicofarmaci.
Al vertice del sistema economico e
finanziario si pongono poi le banche centrali, che non hanno nulla a che fare
con il libero mercato, visto che gestiscono autoritativamente,
discrezionalmente, unilateralmente una moneta monopolistica, governando, con la
politica monetaria tutto quello che c’è da governare, in particolare
l’assegnazione in via privilegiata del denaro.
Tra i monopoli da abbattere, forse il
più importante oggi è quindi quello monetario, affidato al sistema di diritto
feudale misto pubblico-privato delle banche centrali e del sistema bancario
tutto. Ciò è fonte di inaccettabili privilegi e di scelte unilaterali, sicché
va rilanciata quella particolare tradizione dell’anarchismo classico, da
Proudhon agli americani del XIX secolo, Warren, Tucker, Spooner, che
considerava la libera emissione monetaria un caposaldo della libertà e della
lotta allo sfruttamento: il Partito Libertario guarda perciò con simpatia al
movimento delle criptovalute, pur operando distinguo al suo interno.
Tutto ciò ci porta a un altro punto
centrale del Manifesto del Partito Libertario, vale a dire la critica dello Stato come
abuso di posizione dominante, architrave e ossatura del sistema tutto, perché
il preteso monopolio della forza e delle qualificazioni di legittimità
favorisce qualsiasi abuso, oltre al proprio diretto statuale. Tuttavia, in
questa fase storica,, a livello di second best, il Partito
Libertario intende difendere le garanzie dello Stato di diritto dagli attacchi,
che soprattutto oggi emergono prepotenti con il pretesto epidemico, fermo
restando che la scelta di fondo resta quella di superare l’istituzione
monopolistica in quanto ingiustificata, inefficiente e costosa: nessuno ha
l’obbligo di obbedire a un soggetto che si auto-proclama legittimo per propria
auto-definizione, sicché il Partito rivendica con forza il proprio anarchismo,
per il quale ognuno è fonte legittima del diritto e non vi sono pretesi
monopoli autorizzati in tal senso.
Ribadita poi la teoria della transizione
dallo Stato ai Common Trust, della
quale ho sopra parlato, che
comporta come primo passo la
contabilizzazione del demanio, in modo da fare emergere con trasparenza queste
potenti ricchezze (demanio artificiale infrastrutturale, demanio storico,
monumentale e artistico, demanio capitale naturale), in modo da valutarne il
modo di renderlo fruttuoso per i cittadini stessi sotto forma di dividendo e di
royalties, e posta la necessità di implementare un “codice libertario” a tutto
campo, il tema della libera posizione del diritto da parte di ognuno trova
espressione nel modo nuovo del Partito Libertario di intendere la questione dei
cosiddetti “diritti civili”, che viene intesa non, alla maniera dei radicali o della
sinistra fuxia, come questione di legalità statalista e penalistica, ma come
squisita questione di libertà.
Si ritiene, infatti, che in questioni
come la libertà di parola e di dare seguito al proprio pensiero, che deve
essere totale anche sui social networks con abolizione di ogni
sorta di psicoreato limitativo del free speech; se le droghe, la
sessualità, la famiglia, le scelte scientifiche e sanitarie, non rappresentano questioni
di “legalità”, ma di libertà, lo Stato deve tenersene totalmente al di fuori,
trattandosi di questioni affidate al pieno libero arbitrio e al libero
contratto.
E infatti quanto al carcere e al diritto
penale il Partito Libertario è abolizionista,
convinto com’è che il carcere verrà di fatto abolito come lo conosciamo da un
processo di ampia depenalizzazione, che passi dall’abolizione di tutti i reati
senza vittime, come quelli relativi al commercio di droghe, e dalla
dislocazione della più parte dei reati all’area del diritto civile sotto specie
di risarcimento del danno e della giustizia riparativa in generale, con vasto
ricorso alle misure alternative per i reati gravi. Il PL si esprime
poi per l’abolizione del TSO, togliendo così ai medici il potere di decidere
della vita degli altri. Quanto alle forze di polizia, si ritiene che sia loro compito,
non quello di agire da ottusi burocrati armati, per usare l’espressione di
David Graeber, ma di applicare la gerarchia delle fonti e, quindi, tutelare i
diritti umani lesi dai gruppi di potere, per quanto questo auspicio sia utopico
finché la polizia sarà un monopolio di Stato, e quindi è difficile che la
polizia manganelli l’uomo di potere che viola i diritti umani al posto dei
cittadini.
Di conseguenza, il Partito Libertario si
esprime a favore del diritto di tutti di portare armi: “Siamo per l’applicazione del principio di cui al II Emendamento alla
Costituzione USA nella sua impostazione originaria jeffersoniana, vale a dire
non per dare la caccia ai rubagalline secondo lo schema leghista, ma come
strumento di resistenza contro la stessa oppressione statale”.
Qui già si entra nella logica della strategia
dei second best, o, forse meglio, di una politica immediata per
l’oggi, dato che il Partito Libertario persegue un programma massimo, ma accetta i miglioramenti graduali, purché
siano effettivi, sicché ogni scelta politica sarà effettuata sulla base di
valutazioni di coerenza in termini di second best, vale a dire che,
tra due opzioni politiche a disposizione, ve ne sarà sempre una più coerente
con i principi libertari rispetto ad un’altra. Il Manifesto riconosce che “si tratta dell’attività forse più difficile
e divisiva, perché è relativamente semplice convergere sui principi
fondamentali, altra cosa è comprendere quale, tra le scelte concretamente sul
tappeto, sia da privilegiare alla luce di quei principi. Ad esempio, siamo
contrari a indiscriminati tagli della spesa pubblica che vadano in danno dei
soggetti svantaggiati, sempre nella prospettiva dell’introduzione di strumenti
universalistici al posto delle misure assistenziali parziali, mentre siamo
favorevoli a qualsiasi forma di taglio di imposizione fiscale, anzitutto
istituendo un’ampia no tax area,
dato che non è attraverso le tasse che si possono reperire le risorse
necessarie, ma semmai attraverso la valorizzazione del capitale comune e la
libera iniziativa e la mutua associazione. Ciò comporta però una radicale
critica del sistema di moneta-debito, così come ci viene imposto dall’Unione
Europea e da ogni sorta di daneistocrati: da qui la necessità di applicare alla
moneta il principio di sussidiarietà”.
Particolari difficoltà pone quindi la
questione della spesa pubblica, dato che se, in linea di principio, essa
dovrebbe essere osteggiata, non possono essere accettati tagli che siano
discriminatori nei confronti dei soggetti più deboli, in assenza di alcuna
altra forma di compensazione; peraltro si è visto che, in sede di transizione,
il debito pubblico potrebbe o dovrebbe anche essere puramente e semplicemente
ripudiato, anche solo per il fatto che il debito è una trappola e una truffa,
dato il divieto di emissione monetaria diretta, effettuata valorizzando i
retrostanti propri del paese nel rispetto del principio di sussidiarietà, tanto
verticale, quindi anche in sede locale, quanto orizzontale, quindi anche da
parte dei cittadini stessi.
Sempre in una logica di second best, anche se non lo si direbbe
un programma davvero “minimo”, si propone la “rettificazione” dei grandi titoli di
proprietà più marcatamente illegittimi, quindi con la loro invalidazione e
assegnazione della titolarità alla generalità dei cittadini e, per le grandi
imprese, forme di tassa georgista ed ecologica, in modo da compensare
direttamente i cittadini stessi (e non lo Stato e la sua burocrazia) per la
privazione e l’inquinamento di risorse naturali (chi inquina paga chi è
inquinato e non lo Stato), al contempo abbassando la pressione fiscale,
ampliando la No tax area per tutti
fino a 20.000 euro di reddito, e abolendo la necessità della partita iva per le
piccole attività.
Per quanto riguarda la struttura
istituzionale continentale e interna, il Manifesto precisa che “pur non nutrendo alcuna simpatia di
carattere nazionalistico, osteggiamo un percorso cieco di unificazione europea,
che non sia fondato sulla valorizzazione delle realtà locali, e quindi dando
vita semmai a una confederazione libera, fondata sul diritto di exit. Di conseguenza, favoriamo il
processo confederativo anche a livello interno, contro ogni nuovo
vagheggiamento centralistico, in
nome però di un federalismo non solo territoriale, ma anche funzionale, sociale
ed economico”.
Il programma libertario ne ha anche per
la scuola, dato che la scuola statale si rivela sempre di più come uno
strumento fondamentale di irregimentazione delle masse giovanili, come si è
constatato nella fase epidemica, in cui i ragazzi andavano a scuola a farsi
spiegare ottuse “regole”, e non per guadagnare istruzione: ”L’obiettivo libertario è di separare la
scuola dallo Stato, al fine di evitare ogni forma di indottrinamento
ministeriale, il che comporta anche abolizione del valore legale del titolo di
studio e, in prospettiva, la messa in discussione del concetto stesso di
“scuola” con insegnanti istituzionali, in favore di una pedagogia e di un
“liceo” diffusi nell’agorà. D’altra parte, riteniamo opportuno che la pedagogia
libertaria esca dalla fase della semplice sperimentazione, per entrare nel
novero dei sistemi educativi comunemente accettati. Quindi si può ammettere che
si renda necessaria una base educativa minimale comune, ma senza imposizione
sui modi e sui metodi, fermo restando che le vie dell’apprendimento sono
infinite, consentendo così la pluralità dei contenuti, anche di base. Se il
modello dell’utile universale consentirebbe a tutti di acquisire istruzione sul
mercato, o di autogestirla comunitariamente, ipotesi di basic income non sufficienti da
questo punto di vista devono poter essere integrate da voucher a favore dei
genitori per le età più basse, e direttamente ai ragazzi a partire dalle scuole
superiori, in modo da favorire la loro libera scelta”: in altri termini, anche l’istruzione e l’educazione vanno
ricondotte a un concetto di libertà e, in particolare, oggi, di libertà dallo
statalismo.
Concludo riferendomi al punto oggi forse
più difficile, quello dell’immigrazione, sul quale si intende articolare un
discorso non demagogico né in un senso, né nell’altro, ma tale da conciliare i
principi libertari con un certo realismo: “La libertà di circolazione per il mondo è una libertà fondamentale per un
libertario, il quale non riconosce fondamento di legittimità ai confini degli
Stati, in quanto questi sono del tutto arbitrari. Se i confini fossero aboliti,
e ognuno al mondo godesse dell’utile universale e/o del libero conio, non ci
sarebbero problemi di sorta alla libera circolazione, anche se una comunità
territoriale potrebbe comunque prevedere delle restrizioni ad ingressi
massicci. Il problema maggiore, oggi, è invece rappresentato dal nesso
tassazione/welfare, per cui chi paga le tasse si aspetta di ricevere
determinati servizi, e può vivere come una sopraffazione il fatto che chi venga
fuori e non abbia pagato le tasse condivida con lui i servizi stessi,
evidentemente riducendoli. Lo stesso vale in una prospettiva di second best
fondata sul basic income, dato che l’ingresso da fuori ne determinerebbe una
riduzione; per altro verso, tutti dovrebbero avere diritto di accesso al
reddito di base, il quale, peraltro, a differenza dell’utile universale, non
sostituisce interamente il welfare state. Si propone perciò, in una prospettiva
di “meno peggio”, che le frontiere siano aperte secondo la logica degli open
borders, riconoscendo il basic income all’immigrato solo dopo un certo periodo
di tempo di stabilimento, che potrebbe essere indicativamente di cinque anni,
nel quale si presume che per vivere abbia lavorato, e che, quantomeno come
consumatore, egli ha se non altro pagato imposte”.
In effetti, non è nemmeno chiaro come lo
stesso pensiero anarchico possa formulare una risposta definitiva e univoca al
riguardo, dato che, anche ammettendo una società totalmente destatalizzata,
resterebbe sempre ferma la possibilità, poniamo, per una comunità di erigere
delle mura difensive, né si potrebbe ipotizzare una sorta di “obbligo” a fare
entrare chiunque nel perimetro della comunità stessa; forse, anche a tale
proposito, bisogna lavorare sul concetto di indennizzo, che può rivolgersi
nelle due direzioni, ossia sia nel senso di pagare per non entrare, sia nel
senso di far pagare per potere entrare, in una logica volontaristica e
contrattualistica, che, a ben vedere, si pone alla base di qualsiasi punto
programmatico dal punto di vista libertario.
In conclusione, si tratta di favorire qualsiasi
iniziativa, che vada nella direzione dell’ampliamento della libertà, una
libertà non ignara delle sue implicazioni egualitarie, osteggiando tutto quanto
vada nella direzione della sua riduzione: il che rappresenta al contempo un
“programma minimo” e un “programma massimo”, vale a dire una bussola
sempiterna.
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