ECC.MO CONSIGLIO DI STATO
Sezione Prima
NEL RICORSO STRAORDINARIO AL
PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
NUMERO AFFARE 01006/2020
Proposto da Avv. Fabio Massimo Nicosia (c.f. NCSFMS58M20F205K), in proprio e nella sua qualità di Presidente, Legale Rappresentante e socio dell’Associazione di cultura libertaria e di tutela del cittadino e del consumatore “Diritto e Mercato - #Aktoprosumo” (c.f. 12868580155 ), da Avv. Francesco Giunta (c.f. GNTFNC70C28F839E), e da Antonio Quarta (c.f. QRTNTN76R01G224A), domiciliati presso l’avv. Francesco Giunta, via Orazio n. 56, 80070 Bacoli (NA) e per ogni comunicazione presso
Contro
Consiglio dei Ministri, in
persona del Presidente pro tempore
Presidente del Consiglio dei Ministri, pro tempore
Ministro dell’Interno,
pro tempore
Ministro della Salute,
pro tempore
*****
MEMORIA DI REPLICA E
CONTRODEDUZIONI
*****
1. Premessa. In
data 16 settembre 2020 l’Adunanza della Sezione Prima del Consiglio di Stato ha
adottato una parere istruttorio di sospensione della pronuncia del parere
definitivo, disponendo il completamento del contraddittorio mediante invio di
copia della relazione istruttoria della Presidenza del consiglio, avvenuto solo
in data 13 novembre 2020, con
assegnazione di un termine di almeno trenta giorni dalla ricezione per la
presentazione di eventuali memorie di replica e di controdeduzioni, nonché per
disporre, sempre a cura della Presidenza, l’acquisizione di copia dello statuto
dell’Associazione ricorrente, peraltro già da noi versato in atti in allegato
al ricorso per motivi aggiunti.
Vista
la Relazione prodotta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, formuliamo
pertanto le nostre controdeduzioni, attraverso la presente memoria di replica
autorizzata, insistendo per la formulazione di un parere di accoglimento e di
una decisione conclusiva favorevole, ritenendo infondate le eccezioni
avversarie, tanto di rito, quanto di merito, così come ci apprestiamo ad
argomentare.
*****
2.
Infondatezza delle avversarie eccezioni di rito.
a) Sulla sopravvenuta inefficacia
dei provvedimenti impugnati. La Presidenza del
Consiglio evidenzia in primo luogo come i provvedimenti impugnati abbiano
cessato di avere efficacia, senza peraltro, si direbbe, trarre alcuna
conseguenza specifica sul piano processuale da tale rilievo; sicché tocca a noi
controdedurre, per scrupolo difensivo, a un’eccezione che pur non c’è, leggendo
tra le righe e cercando di comprendere l’intento di controparte, la quale
sembra alludere velatamente a un’ipotesi di improcedibilità per sopravvenuta
carenza di interesse.
In
tal caso, l’eccezione sarebbe comunque infondata per diversi motivi.
1.
Anzitutto, rileviamo la singolarità della fattispecie, caratterizzata dal
frenetico susseguirsi e rincorrersi di sempre nuovi DPCM, a volte appena
modificativi del precedente, dimodoché il cittadino verrebbe costretto a una fatica
di Sisifo, e a esborsi spropositati, per impugnarli tutti e ciascuno,
per poi sistematicamente sentirsi rispondere che i suoi ricorsi sono del tutto
inutili, essendone venuto meno l’interesse a ogni scadenza di ognuno. Il che
rappresenterebbe una chiara elusione e vanificazione, da parte
dell’Amministrazione, del sindacato giurisdizionale, al quale si sottrarrebbe per
sistema, attraverso la tecnica delle scadenze e dei rinnovi a segmenti, in
chiara violazione o elusione degli artt. 24, c. 1, e 113, cc. 1 e 2 (che non
ammette che alcuni tipi di atti siano sottratti al sindacato di legittimità), Cost.
Ne
deriva che la scadenza degli effetti di un provvedimento non fa decadere per
tale solo motivo l’interesse al ricorso, avendo il provvedimento stesso
comunque prodotto medio tempore
effetti, che vanno rimossi ex tunc,
mentre la scadenza del provvedimento opera solo ex nunc, e quindi non ha nemmeno alcuna potenzialità satisfattiva
dell’interesse sostanziale fatto valere.
2.
La dottrina (Nigro, Vipiana, Clarich) ricollega da molto tempo l’interesse al
ricorso non solo alla rimozione e alla demolizione del provvedimento impugnato,
ma anche, e a volte soprattutto, stante il carattere direttivo, precettivo e
conformativo del giudicato, a ciò che seguirà nel futuro, vale a
dire alla possibilità che l'interesse sostanziale del ricorrente trovi
soddisfazione attraverso la successiva attività amministrativa conforme alla
pronuncia (sull’efficacia conformativa del giudicato amministrativo in linea
generale, cfr. di recente Cons. Stato, VI, 11 marzo 2020, n. 1738).
Nel
nostro caso, quindi, persiste l’interesse a che
l’Amministrazione, a seguito di un’eventuale decisione di accoglimento del
ricorso, provveda in conformità alla decisione stessa, astenendosi dal
reiterare illegittimità del tipo di quelle dedotte nel ricorso stesso, nella
gestione di una crisi che non è certo conclusa.
3. Stante l’avvenuta produzione medio tempore di effetti lesivi, i
ricorrenti sono quantomeno titolari di un interesse morale (Consiglio di Stato, sez. V, 8/04/2014 n. 1663) a che sia riconosciuto il loro avere vissuto in
una situazione gravemente illegittima di compressione di situazioni giuridiche
soggettive fondamentali, anche nella prospettiva del riconoscimento del danno
esistenziale, che come è noto opera
in caso di lesione di interessi di rilevanza costituzionale (cfr. Cass. n.
25157/2008).
4. In ogni caso, nella specie l’interesse al
ricorso persiste, proprio perché il ricorso stesso è esplicitamente rivolto
anche al conseguimento del risarcimento dei danni patiti. E
invero, è principio recetto che “L’indagine
sulla sussistenza dei presupposti della pronuncia di improcedibilità del
ricorso per sopravvenuta carenza di interesse deve essere condotta dal
giudicante con il massimo rigore, per evitare che la declaratoria di
improcedibilità si risolva in una sostanziale elusione dell’obbligo di pronunciare
sulla domanda; l’interesse permane
ove la parte possa pretendere il risarcimento del pregiudizio sofferto in
conseguenza della determinazione giudicata illegittima (Consiglio di Stato, sez. III, 6 novembre 2020, n. 6827; sul principio, per il quale l’individuazione della fattispecie di
sopravvenuta carenza di interesse deve essere effettuata con criteri
rigorosi e restrittivi per evitare che la preclusione dell’esame
del merito della controversia si trasformi in un’inammissibile elusione
dell’obbligo del giudice di provvedere sulla domanda, cfr. tra le tante
Consiglio di Stato, sez. V, 8 aprile 2014 n. 1663; Cons. St., sez. III, 14
marzo 2013, n. 1534; sez. IV, 17 settembre 2013, n. 4637; sez. V, 27 marzo
2013, n. 1808).
5. Occorre infine considerare che tra i
ricorrenti è presente un’associazione, Diritto e Mercato, volta alla tutela
di interessi collettivi, sicché nel suo caso la valutazione alla
persistenza dell’interesse al ricorso deve considerare anche tale aspetto, pur
senza ridurlo a mero interesse alla legittimità degli atti amministrativi, in
quanto comprensivo dell’aspettativa della collettività a non essere lesa nelle
sue situazioni giuridiche fondamentali.
*****
b)
Sulla dedotta inammissibilità del ricorso per il preteso carattere di “alta
amministrazione” dei provvedimenti impugnati. La difesa avversaria eccepisce che, essendo i
provvedimenti impugnati atti di alta amministrazione, “frutto di attività ampiamente discrezionale ed espressione di scelte
politiche da parte del Governo”, il ricorso sarebbe inammissibile.
In realtà, così facendo, controparte ripropone
sotto altra veste la tesi dell’inimpugnabilità dell’atto politico, da noi già
confutata, con riferimento al caso di specie, in via prolettica in sede di
ricorso introduttivo, dato che nel nostro caso ci troviamo innanzi a
provvedimenti chiaramente incidenti in via diretta su situazioni
giuridiche soggettive, che vengono lese immediatamente; il che è già di
per sé bastevole a radicare un interesse e a una legittimazione a ricorrere, al
di là di qualsiasi astratta, incerta e opinabile qualificazione formale dei
provvedimenti stessi, che non può essere artatamente manipolata al solo scopo
di precludere l’accesso alla tutela degli interessi pregiudicati da parte di
provvedimenti, che, ad esempio, il TAR per il Lazio ha già in parte accostato,
quanto alla natura, alle ordinanze contingibili e urgenti, ossia a una
tipologia di atti certamente suscettibile di determinare lesioni di interessi
in concreto (TAR Lazio, Sez. Prima Quater, 13 luglio 2020, n. 8615). Tale
sentenza del Tar per il Lazio, in materia di accesso agli atti dei verbali del
CTS, peraltro nel frattempo resi noti, è stata sospesa cautelarmente con decreto
monocratico in data 31 luglio 2020 dalla Terza Sezione del Consiglio di Stato
(Presidente Franco Frattini). Tale decreto è di particolare interesse ai nostri
fini, pur non fornendo deliberatamente, data la sede sommaria, un’approfondita
valutazione sulla natura degli atti per i quali si chiede l’accesso; esso
contiene infatti affermazioni di peso,
come la considerazione che gli atti relativi all’emergenza COVID-19, “sono caratterizzati da una assoluta eccezionalità e, auspicabilmente, unicità, nel
panorama ordinamentale italiano, tanto da ritenersi impossibile… applicarvi
definizioni e regole specifiche caratterizzanti le categorie tradizionali quali
“atti amministrativi generali” ovvero “ordinanze contingibili e urgenti”, pur
avendo, di tali categorie, gli uni e gli altri alcuni elementi ma non tutti e non organicamente rinvenibili nelle
appunto citate categorie tradizionali”; e ancora, si sostiene nel decreto
che, con atti amministrativi generali, non sarebbe possibile “incidere,
in modo tanto significativo, su diritti fondamentali della persona, ciò che invece potrebbero fare ordinanze
contingibili e urgenti che, però, nella legislazione anti-COVID, sono solo
quegli atti (ad es. del Ministero della Salute) che in tal modo la legge
qualifica espressamente”; quanto ai verbali, dei quali si è chiesta
l’ostensione, essi “hanno costituito il
presupposto per l’adozione di misure
volte a comprimere fortemente diritti individuali dei cittadini,
costituzionalmente tutelati”.
Tali misure presentano carattere di “assoluta eccezionalità... rispetto alle categorie tradizionali
invocate in senso opposto dalle due parti”, vale a dire atti amministrativi
generali od ordinanze contingibili e urgenti.
In
ogni caso, a nostro avviso, come si
vedrà, il lockdown va ricostruito
nei termini del vero e proprio provvedimento amministrativo restrittivo
atipico.
In ogni caso, i vari provvedimenti, comunque classificati, in quanto
immediatamente lesivi, non possono sottrarsi all’onere di una congrua e
adeguata motivazione, così come già dedotto in sede di ricorso originario, con
loro conseguente piena sindacabilità in questa Sede.
L’Amministrazione resistente prova ad aggiornare
la propria prospettazione, sostenendo che non tanto conti la distinzione tra
atto politico e atto di alta amministrazione (per il quale non vige alcun
divieto di impugnazione in linea di principio), quanto “la sussistenza o meno di un vincolo giuridico posto all’esercizio del
potere discrezionale”, che nella specie difetterebbe.
La tesi che i DDPCM in questione sarebbero
sottratti a vincoli giuridici, e che quindi sarebbero atti legibus soluti, sconcerta, sia in linea di principio, dato che nel
nostro ordinamento non esistono atti amministrativi sottratti a vincoli giuridici
(quantomeno, opererebbe l’art. 97 Cost.), sia in concreto, dato che, come
controparte stessa, contraddicendosi, riconosce, i DDPCM trovano fonte
giuridica in decreti-legge, che quindi sono atti a circoscriverne il contenuto,
e sono del tutto inidonei ad attribuire una qualsiasi sorta di “discrezionalità
politica” a suo dire insindacabile; come se, ad esempio, i DDPCM non fossero
sindacabili in via incidentale dal Giudice Ordinario, allorché si trattasse, ad
esempio, di conoscere della validità delle sanzioni amministrative in concreto
irrogate; e come se la Costituzione non rappresentasse a propria volta, in
particolare in casi come il nostro, un potentissimo “vincolo giuridico”, per
cui i provvedimenti impugnati non sarebbero sindacabili nemmeno nel loro
eventuale contrasto con la Costituzione, il che non è certo pensabile; si
consideri che poi nel nostro caso si tratta sostanzialmente di sindacare
un sistema di illeciti e sanzioni nella loro ragionevolezza e nel loro rispetto
del principio di legalità, ossia di un vincolo giuridico di notevole
consistenza.
Tant’è che la Corte Costituzionale ha precisato
che “Gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei
principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello
costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore
predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in
ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto; nella misura in
cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo
che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche
che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità
e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate” (Corte
Cost., 81/2012; cfr. già Cons. Stato, V, n. 4502/2011 e Cons. Stato, n.
6002/2012; cfr. anche Cass., Sez. Un., ordinanza 12 luglio 2019, n. 18829; Cass. civ., sez. un., n. 21581 del 2011; n.
10416 del 2014; n. 10319 del 2016; n. 3146 del 2018). Solo l’assenza di vincoli
giuridici connota l’atto insindacabile, comunque qualificato, salvo che, anche
a volere ammettere tale figura, nel nostro caso i vincoli giuridici ci sono e
sono numerosi, anche di diritto internazionale, come si vedrà.
Aggiungasi che l’esempio proposto
dall’Amministrazione resistente, ossia il caso affrontato da Cons. Stato
2483/2019, è del tutto inconferente e lontanissimo dal nostro caso, trattandosi
di una concessione o rinnovo dell’exequatur
ai fini della nomina, d’intesa con uno Stato straniero, di alto personale
diplomatico, ossia di questione nella quale sono coinvolte relazioni con Stati
esteri, che riguardano immediatamente l’esercizio della sovranità dello Stato nei
confronti degli altri Paesi, ossia qualcosa di tutt’affatto estraneo a
provvedimenti urgenti, comunque ricostruiti, di incisione nei confronti di
sfere giuridiche individuali, diffuse e collettive; mentre si sa che l’atto di
alta nomina è difficilmente sindacabile, in quanto sovente di carattere
fiduciario, il che non ha nulla a che vedere con il nostro caso.
Si noti poi come controparte insista sul
presunto carattere “temporaneo” dei provvedimenti quale argomento a sostegno
della loro insindacabilità, il che rappresenta una riformulazione
dell’eccezione di carenza di interesse (sopravvenuta), ma tratta di una
temporaneità del tutto esteriore, dato che questa “eccezionalità” si autoalimenta
di proroghe dello “stato di emergenza” e di rinnovi dei DDPCM, fino a divenire
una “nuova normalità”, sicché l’insindacabilità diverrebbe perenne; non v’è del
resto alcuna ragione per ritenere che un provvedimento a efficacia limitata nel
tempo debba sottrarsi a una verifica di legittimità, anche alla luce del già
ricordato art. 113 Cost., c. 2.
Senonché, infine, un DPCM è del tutto inidoneo
a rappresentare atto di alta amministrazione anche dal punto di vista formale,
dato che
“la L.400 del 1988, sull’ordinamento
della Presidenza del Consiglio dei ministri, indica il Consiglio dei ministri quale organo competente a fissare l’indirizzo
generale dell’azione amministrativa, conferendo
al Presidente del Consiglio dei ministri il potere di impartire le relative
direttive” (Federica Teoli, Gli
atti di alta amministrazione, in Diritto
amministrativo.it); sicché al Presidente del Consiglio spetta di attuare e
non deliberare quegli indirizzi, fermo restando che i DDPCM impugnati, lungi
dal fissare “indirizzi generali dell’azione amministrativa” di sorta, sono
costituiti, ripetesi, com’è palese, da disposizioni specificamente precettive e
immediatamente lesive, il che ne consentirebbe l’impugnazione diretta persino
nel caso in cui se ne volesse individuare una natura regolamentare (Cons. Stato, Sez. V, 24 marzo 2014, n. 1448; cfr. anche
C.d.S., Sez. VI, 27 dicembre 2010, n. 9406; 6 settembre 2010, n. 6463).
*****
c) Sulla dedotta inammissibilità
del ricorso per carenza di effettivo interesse a ricorrere da parte dei
ricorrenti. Secondo controparte, il ricorso
introduttivo non avrebbe adeguatamente dimostrato l’interesse specifico dei
ricorrenti e la concreta lesione dagli stessi subita.
Tale
asserzione è priva di fondamento, dato che i ricorrenti si sono qualificati “cittadini e contribuenti italiani”, il
che non viene contestato, e in quanto tali essi subiscono le medesime lesioni
di diritti e interessi di qualsiasi altro cittadino, a parte lesioni più
particolari, in conseguenza di atti precettivi che si atteggiano alla stregua
di atti generali (sia pure invocanti
forma regolamentare esteriore), e quindi incidenti sulle situazioni giuridiche
soggettive di tutti i cittadini (e contribuenti), e quindi ivi compresi i
ricorrenti.
Non
si tratta, si badi, di farsi indebitamente esponenti di interessi diffusi, ma
di proporsi per come si è, ovvero per portatori di veri e propri interessi
individuali specifici e concreti, posto che i nuovi “ordinamenti di vita” hanno
inciso su di loro non meno che su altri, conformando e modellando, in modo a
nostro avviso illegittimo, la loro esistenza, dato che a quei provvedimenti i
ricorrenti si sono attenuti, fino a prova contraria, in pregiudizio delle proprie libertà, esattamente in quanto
costretti dalla forza cogente di quegli atti, sicché hanno sopportato tutte le
restrizioni previste dai Decreti, nessuna esclusa.
Nondimeno,
i
ricorrenti sono portatori altresì di situazioni di interesse differenziate, che
ne rinforzano la legittimazione a proporre ricorso: l’Avv. Nicosia,
ad esempio, è affetto da diabete mellito, il che comporta la prescrizione di
praticare molto moto per prevenire l’obesità, laddove ha dovuto rinunciare alle
lunghe camminate (cfr. certificato allegato), alle quali era solito dedicarsi,
e quindi è evidente il danno alla salute da lui subito in conseguenza dei
limiti posti alla circolazione. L’Avv. Francesco Giunta, a sua volta, a causa
delle statuizioni governative relative all’emergenza Covid, non ha potuto
incontrare le figlie minori, attualmente presso i nonni materni, per un lungo
periodo (cfr. provvedimento del Tribunale di Napoli allegato). Il Signor
Antonio Quarta, a sua volta, ha subito un crollo psicologico in conseguenza
della mancata partecipazione a un minimo di vita sociale, e lamenta altresì una
forte contrazione dei suoi affari, dato il venir meno dei contatti col
pubblico, nella sua attività di programmatore informatico.
A ciò si aggiunga che tra i ricorrenti
si pone l’Associazione Diritto e Mercato, la cui posizione è qualificata dal
suo statuto, questa volta sì a
tutela di interessi collettivi, che non possono essere estromessi dal giudizio,
stante il carattere, come detto, generale dei provvedimenti impugnati,
i quali evidenziano l’attitudine a ledere tanto interessi individuali, quanto
interessi collettivi e generali, posta la loro universalità.
E
invero, così recita l’art. 2, c. 2 del richiamato statuto: “L’associazione
si propone, inoltre, di tutelare i diritti e gli interessi dei
soci, nella loro veste di cittadini e consumatori, nei confronti della
Pubblica Amministrazione e dei fornitori di beni e servizi di interesse
generale, attraverso l’attivazione
di campagne di opinione, la partecipazione
a procedimenti amministrativi e la proposizione di azioni giudiziali; a
tal fine, l’associazione fornisce ai soci, entro i limiti stabiliti dalla
vigente legislazione, la protezione richiesta, nonché attraverso l’opera di singoli professionisti garantisce assistenza e
consulenza legale in materia amministrativa, civile, tributaria,
contabile e finanziaria”: il che è esattamente quanto si verifica nella
specie, posto che gli odierni ricorrenti persone fisiche sono tutti soci di
“Diritto e Mercato”, e unitamente all’Associazione ricorrono; in particolare,
dall’atto costitutivo allegato risulta il ruolo di socio fondatore e di presidente
dell’associazione del ricorrente Avv. Nicosia, il quale ha agito anche indossando
tali vesti formali.
*****
3. Infondatezza delle avversarie
eccezioni di merito.
a) Sul nostro primo motivo di
ricorso: strumento del DPCM, limitazione delle libertà costituzionali e difetto
di motivazione tecnico-scientifica. Con il nostro primo
motivo di ricorso (punto 2), al quale interamente ci riportiamo, abbiamo
dedotto la violazione per elusione dell’art. 77 Cost. e dell’art. 32 della
legge 833/1978 e dei limiti intrinseci all’ordinanza contingibile e urgente,
con conseguente falsa applicazione della legge 400/1988, che comporta
l’atipicità dell’istituto del DPCM, così come configurato dalla decretazione
d’urgenza, che ha così introdotto “riforme di sistema” in elusione della
Costituzione e della giurisprudenza della Corte Costituzionale. Sempre con il
primo motivo, abbiamo dedotto il vizio di eccesso di potere legislativo per
carenza di motivazione sotto i profili tecnico-scientifici delle scelte
effettuate.
A
tale proposito, va pur detto che, su questi punti, la replica avversaria, o tace, o
è sviluppata allegando ragioni politiche, più che non ragioni strettamente giuridiche,
giungendo addirittura ad ammettere che, nella specie, si sia finito con il “limitare…
alcune libertà dell’individuo tutelate dalla Costituzione”, a detta di controparte “temporaneamente”, il che è confutato alla prova dei fatti,
dato che sono passati dieci mesi e siamo ancora immersi nell’”emergenza”
costituzionale, sicché siffatta temporaneità poi in realtà non si ravvisa
affatto, essendosi l’emergenza cristallizzata e consolidata, come
si è detto, in “nuova normalità”.
E
si noti come il fatto che il Costituente non abbia previsto alcuna tipologia di
stato di eccezione, se non per lo stato di guerra (art. 78, ma sempre passando
dal Parlamento!), non rappresenta un caso, ma una scelta deliberata, per
evitare di ripercorrere le vicende infauste della Repubblica di Weimar, nel
corso della quale dell’istituto ampiamente si abusò, finché a esso non fece
ricorso il Cancelliere del Reich Adolf Hitler.
Controparte
invoca, a tale proposito, l’avvenuta deliberazione, da parte del Governo, dello
“stato di emergenza nazionale ai sensi del D.lgs n. 1/2018”, ma siffatta
deliberazione è del tutto inidonea a innescare meccanismi “eccezionali” di
sorta, dato che tutto quello che prevede, ai nostri fini, è l’adozione di
ordinanze di protezione civile (art. 25), che si aggiungono a quelle del
Ministro della Salute in base alla legge 833/1978, null’altro, quindi entro i
dedotti limiti intrinseci alle ordinanze contingibili e urgenti, come fissati
dalla Corte Costituzionale con le sentenze n. 8
del 1956, n. 26 del 1961, n. 100 e 201 del 1987 e n. 4 del 1997, da cui si
evincono i connotati propri di tale tipologia di provvedimento, rappresentati
da “efficacia
limitata nel tempo in relazione ai dettami della necessità e dell’urgenza;
adeguata motivazione; efficacia pubblicazione nei casi in cui non abbia
carattere individuale; conformità ai principi dell’ordinamento giuridico”
(cfr. Daniele Atanasio Sisca, Natura
delle ordinanze di protezione civile e profili giurisdizionali controversi,
in Salvisjuribus.it, 22 ottobre
2018).
Nella
vicenda di cui ci occupiamo, viceversa, si è determinata subito una strana anomalia,
che perdura, ossia il fatto di fondare l’adozione di atti di rango legislativo,
i decreti-legge, su un atto di semplice rango amministrativo, che pretende di
reggerli, ossia la deliberazione dello stato di emergenza in base al codice
della protezione civile, il quale avrebbe determinato, secondo il governo e
controparte, questa sorta di “grande spazio” giuridico, nel quale tutto sarebbe
consentito, alternando atti di rango legislativo ad atti amministrativi, quasi
fossero intercambiabili; il tutto, come possiamo constatare, ormai a tempo
indeterminato, stante l’avvenuta proroga del detto “stato di emergenza”, che
non esclude affatto nel futuro ulteriori proroghe, stanti le notizie che
giungono a proposito dell’andamento mondiale e locale della pandemia,
determinando la sempre più minuziosa regolazione e “procedimentalizzazione”
delle condotte umane in via amministrativa, in omaggio a quello che un
autorevole osservatore come il Prof. Massimo Cacciari ha pubblicamente definito
“delirio normativistico”.
Per
cui è vero che i decreti legge in oggetto possono vivere anche di vita propria,
ma non può essere trascurato che essi scaturiscono, anche testualmente, da
questa più ampia situazione, che ne determinerebbe poi di fatto
l’”ordinarietà”, indipendentemente dall’effettiva sussistenza di ragioni specifiche di necessità e urgenza.
Tanto
il governo tratta la decretazione d’urgenza da strumento ordinario, quale per
Costituzione non è, da avere adottato, come si è dedotto in ricorso, questa,
non consentita in un decreto-legge, “riforma di sistema”, tale da snaturare i
caratteri dell’istituto del DPCM; o, forse, per meglio dire, avere introdotto un
nuovo istituto di “decretazione amministrativa d’urgenza”, più
“libero”, nel sentire del governo, rispetto alle ordinanze contingibili e
urgenti tradizionali, e avergli sviatamente assegnato il mero nomen di DPCM, determinando un uso
atipico e anomalo dell’istituto, rispetto a quanto previsto dalla legge
400/1988, alla quale pure si afferma, esteriormente e di parvenza, di attenersi
(si badi che, come si è già sottolineato in sede di ricorso, il fatto che i DD.LL
siano stati convertiti in legge non è in grado di sanare tale radicale vizio sostanziale
e di contenuto).
Il
che risulta del resto confermato dalla stessa difesa avversaria, allorché
attribuisce all’istituto del DPCM, così come ex novo conformato, il carattere della “rapidità”, quando noi di
già disponevamo di un istituto “rapido”, ossia l’ordinanza contingibile e
urgente, sicché la scelta di accantonarlo si spiega solo, come da noi dedotto
in ricorso e qui ribadito, con l’esigenza di sottrarsi alle garanzie, che
l’istituto dell’ordinanza contingibile e urgente comunque offre –ad esempio,
l’ordinanza contingibile e urgente, oltre a dover essere congruamente motivata
ed effettivamente
temporanea, non può “limitare”, comunque non fino a tal punto penetrante e
generalizzato, diritti costituzionali, data la necessaria conformità ai
principi dell’ordinamento-, salvo che si tratta di un’”esigenza” censurabile,
sviata e del tutto invalida dal punto di vista della nostra legalità.
*****
Non
può sfuggire che la difesa avversaria nulla oppone alla nostra censura di
eccesso di potere anche legislativo, dato che il vizio inficia gli stessi
DD.LL, oltre che i DDPCM, sotto il profilo della totale carenza di motivazione
scientifica, materia sulla quale torneremo, in ordine alle concrete
scelte adottate, che vengono prese sulla base di una continua e tacita petizione
di principio, ossia che esse fossero le uniche possibili e necessarie, senza
controindicazioni, in assenza di alcuna valutazione di possibili alternative.
Né
può integrare adeguato onere di motivazione il mero richiamo rituale e non
argomentato ai verbali del Comitato Tecnico Scientifico, posto poi che nemmeno
questi forniscono lumi significativi da quel punto di vista. A tale proposito,
proponiamo due considerazioni:
a)
I membri del CTS, consapevoli della loro condizione precaria e oggettivamente,
ossia non per responsabilità loro, inadeguata, sono giunti addirittura a
richiedere una sorta di scudo penale a propria tutela: “Il
CTS ravvisa l’esigenza di una norma giuridica che salvaguardi l’operato dei
membri del comitato medesimo nell’esercizio delle proprie funzioni nelle
condizioni di estrema urgenza ed incertezza tecnico-scientifica con cui
sono tenuti a opera, anche per i pareri tecnici che vengono richiesti”
(Verbale n. 23 del 10 marzo 2020);
b)
Non
risponde a verità che il governo si sia rigorosamente e sistematicamente
attenuto alle indicazioni del CTS; un esempio di grande rilevanza è
fornito dal Verbale n. 21 del 7 marzo 2020, nel quale il CTS si esprimeva per
un regime differenziato, con misure “più
rigorose” in Regione Lombardia e nelle Province di Parma, Piacenza, Rimini,
Reggio Emilia e Modena, Pesaro Urbino, Venezia, Padova, Treviso, Alessandria e
Asti, e altre misure più tenui per il resto del territorio nazionale: in altri
termini, il CTS non si era dimostrato favorevole a un lockdown nazionale,
dal che le misure governative si sono discostate; e ciò in teoria
legittimamente, salvo però che tale discostamento non è stato sostenuto
da alcuna motivazione, né di tipo scientifico, dato che non viene
adombrato alcun ragionamento di tal genere, né portato alcun dato specifico;
sicché deve ritenersi che si sia trattato di ragioni squisitamente politiche e
partitiche, che però impongono misure- manifesto di carattere
simbolico-espressivo di acquietamento dell’opinione pubblica, più che non scelte
tecnicamente adeguate; il che però è sintomo di illegittimità in un simile
contesto, nel quale l’obiettivo dichiarato è uno solo, ed è combattere, nel
rispetto dei principi di proporzionalità e adeguatezza, la pandemia: il
che conferma il dedotto vizio di difetto di motivazione sotto il profilo
tecnico-scientifico delle scelte operate.
*****
Che
il lockdown nazionale abbia rappresentato una scelta
simbolico-espressiva, e non fondata su considerazioni, del resto non
esplicitate dai provvedimenti impugnati, squisitamente scientifiche, è tesi
fortemente corroborata dall’intervista
rilasciata al quotidiano “La Verità”
in data 15 novembre 2020 dal Prof. Roberto Bernabei, geriatra di grande
prestigio e, si badi bene, membro del CTS, significativamente
intitolata “Il lockdown fa più danni del coronavirus”, nel corso della
quale l’autorevole docente spiega tutte le controindicazioni e i danni
“collaterali” alla salute di una simile misura, danni tanto di carattere
fisico, quanto psicologico, e tanto più per i più fragili, a tacere
evidentemente dei danni all’economia nazionale, che pure avrebbero dovuto
essere a loro volta ponderati in sede di adozione dei provvedimenti impugnati:
in altri termini, la rivendicata tutela del diritto alla salute è andata a discapito
dello stesso diritto alla salute sotto altri profili, in assenza di
alcuna comparazione tra i due prevedibili eventi.
Del
resto, il che assume un chiaro valore confessorio, sullo stesso sito del
Ministero della Salute può leggersi quanto segue a proposito delle conseguenze
del lockdown: “Conseguenze
psicologiche - L’isolamento a casa durante l’emergenza da nuovo
coronavirus ha causato l’insorgenza di problematiche comportamentali e sintomi
di regressione nel 65% di bambini di età minore di 6 anni e nel 71% di quelli
di età maggiore di 6 anni (fino a 18). È quanto emerge da un’indagine sull’impatto
psicologico e comportamentale del lockdown nei bambini e negli
adolescenti in Italia, condotta dall’ospedale pediatrico Gaslini di Genova. Tra
i disturbi più frequentemente evidenziati vi sono: l’aumento dell’irritabilità,
disturbi del sonno e disturbi d’ansia”
(cfr. salute.gov.it).
La
conseguenza paradossale è che l’interesse della collettività alla salute, di
cui all’art. 32 Cost., finisce non solo con il prevalere sul diritto
individuale alla salute, di cui alla stessa norma, e non è possibile che un
interesse prevalga su di un diritto; ma con l’andare in concreto danno di quel
diritto individuale con effettivi e riscontrabili danni alla salute di concrete
persone reali, in assenza di alcuna presa in
considerazione di tale elemento da parte dei provvedimenti impugnati.
E
altrettanto vale per gli adulti, se, come già deducemmo in sede di ricorso, a
seguito del lockdown si sono
registrati aumenti dei tentativi di suicidi, aumento delle crisi psichiatriche
e dei trattamenti sanitari obbligatori e delle violenze domestiche, ma si
tratta di dati notori, in quanto notizie ripetutamente riportate dalla stampa
(cfr. comunque i riferimento contenuti in sede di ricorso).
Di
tutto ciò torneremo a parlare, allorché si tratterà di discutere di come è in
nome di simili misure con siffatte conseguenze -misure dalle quali è
totalmente assente una qualsiasi ponderazione dei costi e dei benefici, anche
dallo stesso punto di vista sanitario- che si è ritenuto di
comprimere diritti di rango costituzionale, in nome di una pretesa dominanza
del “diritto alla salute”, come se il diritto alla salute bastasse enunciarlo
in una petizione di principio, e non andasse tutelato effettivamente e non solo
assertivamente con misure davvero adeguate allo scopo e rispettose del
principio di proporzionalità.
*****
b) Sul secondo e terzo motivo di
ricorso: lesione delle “libertà fondamentali” (artt. 13, 16, 17, 19 e 21 Cost.)
e rapporto con l’art. 32 Cost. Seguendo la traccia di
controparte, trattiamo insieme il secondo e il terzo motivo di ricorso. Con il
secondo motivo, abbiamo dedotto la lesione di varie disposizioni di rango
costituzionale, afferenti la libertà personale (art. 13), la libertà di
circolazione (art. 16), la libertà di riunione (art. 17) e di manifestazione
pubblica del pensiero (art. 21), nonché la libertà di culto (art. 19). Con il
terzo motivo, abbiamo dedotto che l’ipotetica invocazione dell’art. 32
sull’interesse della collettività alla salute, ammesso e non concesso che una
siffatta ponderazione fosse consentita, andasse quantomeno bilanciata con
rigore con le predette libertà costituzionali, bilanciamento che è totalmente
omesso dai provvedimenti oggetto di ricorso.
Come
si è già accennato, i DDPCM impugnati, rispetto a una classica ordinanza
contingibile e urgente, comportano una compressione pervasiva, penetrante e
orizzontalmente estesa di diritti protetti a livello costituzionale, il che
rappresenta una non pregevole novità nel nostro ordinamento, ad esempio
rispetto allo stesso antico art. 2 del TULPS, il quale pure fu ampiamente
corretto dalla Corte Costituzionale.
A
tale proposito, la dottrina, che meglio si è occupata in tempi recenti dello
scottante tema del lockdown, ha colto
con precisione la portata innovativa, ovviamente in termini negativi, di tale
determinazione, nei termini che seguono, che meritano di essere ampiamente
riportati: “…il lockdown non soltanto è un
provvedimento non tipizzato ma addirittura incide su una libertà non tipizzata.
Non inficia invero solo una parziale seppur fondamentale libertà, quale quella
di riunione, di impresa, di culto od altre ancora. E neanche è identificabile
con la libertà di movimento o di circolazione; dato che questa pure è una
libertà parziale, consistente nella libertà di spostarsi liberamente
all’interno di un territorio e la cui ‘limitazione’ significa appunto inibire
un ‘qualche’ accesso o spostamento. Le inficia tutte insieme. In modo
radicale. Si impone alle persone di stare chiuse
dentro casa salvo i pochi motivi per cui è permesso uscire. Una disposizione
così penetrante ha decisa influenza sulla libertà individuale tout-court, nella sua eccezione più generale, ed è quindi molto più assimilabile
ad una violazione della libertà personale, la principale di tutte le libertà”
(Giandomenico Barcellona, Lockdown e
misure sanitarie emergenziali di sanità pubblica: la tutela dei diritti
fondamentali nella global health law, in Dir. San. Mod., 3/2020, 95).
L’Autore
individua quindi nel lockdown un vero
e proprio provvedimento autonomo di
portata generale, da valutarsi unitariamente, e non segmentandolo nelle sue
specifiche disposizioni particolari, dato che la “libertà” su cui impatta,
quella “non tipizzata”, è esattamente la libertà in senso filosofico nel senso più ampio, autentica Grundnorm di uno Stato costituzionale di
diritto: salvo però che, proprio per
tale ragione, si tratta di provvedimento ignoto all’ordinamento, e quindi atipico,
dunque illegittimo nel nostro sistema, proprio per il suo carattere
onnipervasivo non consentito, non consentito ad esempio nemmeno a un’ordinanza
contingibile e urgente, come si è ripetuto, che è un provvedimento atipico nei
casi particolari, ma tipicizzato nella sua dimensione generale, e sempre
circoscritto negli effetti, nel tempo, nello spazio, nei destinatari; laddove
all’atipicità formale dello strumento del DPCM, così come innovativamente configurato,
corrisponde anche un’atipicità sostanziale e materiale con riferimento al suo
inverarsi nella fattispecie (atipica) del lockdown
generalizzato in lesione di svariati interessi primari di rango
costituzionale, fino a colpire la “libertà” nella sua totalità.
Invero,
controparte stessa riconosce ancora, e ripetutamente, a nostro avviso in
termini confessori, che i provvedimenti impugnati vanno “a scapito” di diritti
costituzionalmente tutelati, con effetto “restrittore” di libertà
costituzionali e con “contrazione” delle medesime. Il leit motiv della difesa avversaria è però
che tutto ciò sarebbe consentito da un supposto prevalere dell’art. 32 Cost. su ogni
altra previsione costituzionale relativa a diritti e libertà, stante
una pretesa “tutela rafforzata al diritto
alla salute, nella sua dimensione sovraindividuale”.
Rileviamo
anzitutto che, in tal caso, posto che ci troviamo in un giudizio sull’atto e non
sul rapporto, e di certo non di fronte a provvedimenti vincolati, ci troviamo
innanzi a un’ipotesi non consentita di integrazione successiva e in sede
giudiziale della motivazione degli atti, dato che i provvedimenti impugnati
non mostrano alcuna effettiva originaria attività di ponderazione nel senso
indicato da controparte, non risulta proposta alcuna argomentazione,
idonea a supportare la tesi, per la quale, in linea di principio, l’art. 32
Cost., così inteso –interpretazione che contestiamo- sarebbe in grado di
proporsi come norma assolutamente prevalente nell’ambito del contesto
costituzionale, al punto di potere sacrificare ogni diritto di libertà, il che
non può essere accettato, proprio alla luce di tale delicata e gravissima
conseguenza; in altri termini, non può essere accettato che i provvedimenti
impugnati abbiano, per così dire, data per scontata questa interpretazione,
senza né prospettarla, né tampoco persuasivamente argomentarla, visto che i
DDPCM impugnati non presentano alcun ragionamento, nemmeno in abbozzo, che
persuasivamente illustri le ragioni di questa “prevalenza”, né, di conseguenza,
si ravvisa negli atti alcun bilanciamento degli interessi e dei diritti
costituzionalmente rilevanti coinvolti e pregiudicati.
Sicché
vale anche nella specie il principio recetto, per il quale “nel processo amministrativo l’integrazione in sede giudiziale della
motivazione dell’atto amministrativo è ammissibile soltanto se effettuata mediante gli atti del procedimento ‒
nella misura in cui i documenti dell’istruttoria offrano elementi sufficienti
ed univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni della
determinazione assunta ‒ oppure per mezzo dell’emanazione di un autonomo
provvedimento di convalida
(art. 21-nonies, secondo comma, della legge n. 241 del 1990). È
viceversa inammissibile l’integrazione postuma operata in
sede di giudizio, mediante atti
processuali, o comunque scritti difensivi. La motivazione
costituisce infatti il contenuto infungibile della decisione amministrativa,
anche in ipotesi di attività vincolata e, per questo, un presidio di legalità
sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa
salvo, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del
1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non invalidanti” (Cons.
Stato, sez. VI, 11 maggio 2018 n. 2843; Consiglio di Stato, sezione III,
7 aprile 2014, n. 1629; Corte Costituzionale, ordinanza n. 92 del 2015).
Quanto
alla rilevanza degli atti istruttori, va sottolineato come Nemmeno i verbali del CTS valgano,
come è agevole rilevare, all’uopo, dato che essi non trattano mai del rilevante
aspetto giuridico indicato, ossia il rapporto tra
diritto, o interesse della collettività, alla salute ai sensi dell’art. 32 Cost.
e diritti di libertà, evidentemente, dato che non si tratta di materia di
competenza di un comitato tecnico e scientifico, e quindi non si vi si ravvisa
alcuna traccia, che possa valere nel senso argomentato da controparte.
Per
altro verso, la difesa avversaria richiama la stessa sentenza della Corte
Costituzionale da noi indicata in sede di ricorso, n. 85 del 2013 sul caso
ILVA, la quale, nel passo stesso citato ex
adverso, afferma l’esatto contrario di quanto controparte vorrebbe farle
dire, dato che sottolinea come i “valori dell’ambiente e della salute”
non siano affatto posti “alla sommità di un ordine gerarchico assoluto”:
e si badi che, in quel caso, la Corte nemmeno si occupava di rapportare il
diritto alla salute ai diritti di libertà, ma semmai ai diritti della
produzione e del lavoro, tutti postergati rispetto ai primari diritti di
libertà, che sicuramente prevalgono in un ordinamento lessicografico; vale a
dire che questi assumono carattere preclusivo, pena il trasformare la nostra
Costituzione rigida in una Costituzione flessibile, in uno Statuto Albertino,
che, come la Storia ha dimostrato è facilmente aggredibile ed eludibile da
parte di aspirazioni dittatoriali e totalitarie.
Non
v’è traccia, dunque, di “una tutela rafforzata al diritto alla salute”, come
afferma controparte, nella Costituzione, nemmeno inteso come lesione diretta
alla salute (cfr. l’appena citata pronuncia della Corte Costituzionale), quando
qui ci troviamo poi in un campo del tutto diverso, dato che si tratta piuttosto
di una sorta di dovere alla salute,
non presente in Costituzione, in nome di un supposto principio di precauzione,
finalizzato a una tutela alla salute altrui
del tutto aleatorio, come meglio si vedrà innanzi. Del resto, in tempi più sereni
e non sospetti, un costituzionalista come Alessandro Pace così poteva
esprimersi: “Va subito affermato
che non sembra che l’art. 13 possa cedere all’art. 32; pertanto tutte le
restrizioni coattive per motivi di sanità devono di necessità seguire la via
giurisdizionale prevista da quell’articolo” (Alessandro Pace, Libertà
personale (dir. cost.), Enciclopedia
del Diritto, vol. XXIV, Milano, Giuffrè, 1974, 298). Ed ancora: “D’altro canto mai potrebbe, dall’autorità
pubblica, essere invocato l’art. 32 Cost. per derogare, per motivi di salute,
alla portata e alle garanzie dell’art. 13” (296).
Sicché,
l’idea che in nome della tutela della
salute tutto sia possibile e lecito da parte dell’autorità rappresenta una non
commendevole novità (se vogliamo, anche tenendo conto della collocazione
lessicografica delle due norme in Costituzione); e francamente di sapore
eversivo, dato che se oggi può essere invocata la “salute” per ribaltare le
libertà costituzionali, un domani si potrà invocare qualche altro “valore” in
nome di una qualche nuova “emergenza” in altri settori: ad esempio
l’”ambiente”, l’”ordine pubblico”, la crisi economica e occupazionale, o, più
verosimilmente, come del resto paventato dalla Ministra Lamorgese, l’ordine
pubblico messo a repentaglio dalla crisi economica e occupazionale.
L’art.
13, quindi, prevede una chiara riserva di giurisdizione,
dimodoché, non solo nessun provvedimento amministrativo, ma nemmeno alcuna
legge può scalfire la libertà personale, così come protetta da quell’articolo,
imponendo la norma che sia sempre un provvedimento del giudice a limitarla,
ovviamente sulla base di una qualche puntuale previsione di legge.
Soccorre a tale
proposito la pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 25 gennaio 2005, application no. 56529/00, sulla portata dell'articolo 5, comma 1,
lettera e), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo
e delle libertà fondamentali - CEDU. L’articolo 5, sul “Diritto alla libertà e alla sicurezza”, prevede al comma 1 che “Ogni persona ha diritto alla libertà e alla
sicurezza” e che “Nessuno può essere
privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge”
tra cui, secondo la lettera e), rientra “la detenzione regolare di una persona
suscettibile di propagare una malattia contagiosa -si noti che nel nostro caso la limitazione di libertà
colpisce anche i non infetti, che però vengono trattati tutti da potenziali
untori (n.d.a.)-, di un alienato, di un
alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo”.
Naturalmente stiamo
presupponendo che lo “stare in casa” imposto dal lockdown sia rapportabile a una qualche forma di detenzione
domiciliare, e che comunque si tratti di una forma di privazione di libertà
personale (cfr. infra, lett. c), che,
come si è esposto in ricorso, avviene sulla base di presupposti troppo
indeterminati e non sufficientemente specifici nelle statuizioni, quindi non in
conformità al principio di legalità e di certezza del diritto.
La Corte ha a tale proposito
evidenziato che “per quanto riguarda la privazione della libertà, è particolarmente
importante che sia soddisfatto il principio generale della certezza del diritto.
È quindi essenziale che le condizioni per la privazione della libertà ai sensi
del diritto interno siano chiaramente definite e che la legge stessa sia prevedibile
nella sua applicazione, in modo che soddisfi lo standard di
“legalità” stabilito dalla Convenzione, uno standard che richiede che tutta la
legge sia sufficientemente accessibile e precisa per consentire alla persona -
se necessario con un consiglio appropriato - di prevedere, in misura
ragionevole date le circostanze, le conseguenze che una determinata azione può
comportare”.
Fatta tale precisazione, la Corte ha
poi osservato che, entrando nel caso specifico “La detenzione di una persona è
una misura talmente grave che è giustificata solo quando sono state prese in
considerazione altre misure meno severe e ritenute insufficienti per
salvaguardare la persona o l’interesse pubblico che potrebbero richiedere la
detenzione della persona interessata. Ciò significa che non è
sufficiente che la privazione della libertà sia conforme al diritto nazionale,
ma deve anche essere necessaria nelle circostanze” dovendo la detenzione essere
sia esente da arbitrarietà ma al contempo anche “conforme al principio di
proporzionalità”.
I
provvedimenti impugnati, viceversa, sono, come si è dedotto in ricorso, del
tutto carenti di motivazione sotto il profilo della necessità e indispensabilità
delle scelte adottate, e quindi si sottraggono all’onere di valutare le
alternative, e di verificare se non ve ne siano di più proporzionate.
In
assenza di tale ponderazione, nemmeno vale il richiamo di controparte all’art.
15 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo, che ammette in casi
estremi di derogare, ad alcune condizioni, agli obblighi dalla stessa previsti,
dato che nemmeno è davvero dimostrata la necessità di derogarvi.
Ciò
premesso, è appena il caso di sottolineare che il nostro governo non ha
ottemperato alla previsione di cui al terzo comma dell’art. 15, che è
condizione essenziale preliminare per attivare la procedura; e infatti tale c.
3 prescrive quanto segue: “Ogni Alta
Parte contraente che eserciti tale diritto di deroga tiene informato nel modo più completo il Segretario generale del
Consiglio d’Europa sulle misure prese e sui motivi che le hanno determinate.
Deve ugualmente informare il Segretario generale del Consiglio d’Europa della
data in cui queste misure cessano d’essere in vigore e in cui le disposizioni
della Convenzione riacquistano piena applicazione”. Il che mostra come il Governo non abbia nemmeno inteso
formalizzare nei propri atti, da qui il dedotto vizio di omessa ponderazione,
il conflitto tra libertà e salute, del quale “giuridicamente” non sembra
nemmeno consapevole, tant’è che abbisogna delle integrazioni successive della
motivazione di controparte!
E
in effetti, l’assenza di una tale notifica è stata di recente ufficializzata,
come si evince dal comunicato stampa in data 17 ottobre 2020 dell'Osservatorio
permanente sulla Legalità Costituzionale: “Il Consiglio d’Europa riconosce l’omissione
dello Stato italiano . L’Ufficio del Segretario generale del Consiglio d’Europa
ha riscontrato in tempi rapidissimi l’esposto dell'Osservatorio permanente
sulla Legalità Costituzionale, riconoscendo che lo Stato Italiano ha omesso di
segnalare al Segretario Generale del Consiglio d’Europa la sospensione di
diritti fondamentali, come richiesto dall’art. 15 CEDU. L’Ufficio del
segretario Generale ha altresì indicato che le conseguenze di tale violazione
sono "la piena vigenza della CEDU in territorio Italiano",
che non è quindi in alcun modo sospesa, e che tutti i cittadini italiani possono, dunque, rivolgersi alla
Corte Europea di Strasburgo per tutelare i propri diritti violati. Fra questi,
il diritto alla libertà personale, di recarsi sul posto di lavoro, di
frequentare le scuole di ogni ordine e grado, di aver utilizzato procedure come
i Dpcm con gravi violazione della Costituzione, di aver alimentato e tollerato
un clima di terrore mediatico che ha influito profondamente sulle possibilità
economiche e sull’equilibrio psicofisico di ogni persona, con grave “danno
esistenziale” che perdura a tutt’oggi”.
Ora,
se non risulta sospesa la CEDU, che è formata da disposizioni che la Corte
Costituzionale ha qualificato come “norme interposte” (sent. n. 348/2007), ossia di rango superiore alla legge
ordinaria, ma subordinate alla Costituzione, a fortiori non possono ritenersi sospese le libertà fondamentali così
come conformate e protette in Costituzione, ossia a un livello superiore
rispetto a come protette dalla Convenzione europea.
Controparte
invoca però altresì –è appena il caso di
ribadire che siffatte argomentazioni non si rinvengono nei provvedimenti
impugnati, sicché non ne determinano la convalida a posteriori, e la discussione avviene per mero scrupolo
difensivo- l’art. 4 del Patto dei diritti civili e politici dell’ONU, in
base al quale, “In caso di pericolo
pubblico eccezionale, che minacci
l’esistenza della nazione e venga proclamato
con atto ufficiale, gli Stati parti del presente Patto possono prendere misure le quali deroghino agli obblighi imposti dal
presente Patto, nei limiti in cui la situazione strettamente lo esiga, e
purché tali misure non siano incompatibili con gli altri obblighi imposti agli
Stati medesimi dal diritto internazionale e non comportino una discriminazione
fondata unicamente sulla razza, sul colore, sul sesso, sulla lingua, sulla
religione o sull’origine sociale”.
Opponiamo
al riguardo le seguenti considerazioni.
1
Il
governo non ha mai inteso applicare tale disposizione, per cui siamo
sempre nell’ambito dell’integrazione della motivazione a posteriori, il che tanto più non è consentito in una materia
tanto grave e delicata, con la conseguenza che se il governo avesse voluto
applicare l’art. 4, cit., avrebbe dovuto
farlo espressamente. Non ha richiamato l’art. 4 in sede di
proclamazione dello stato di emergenza, che è una mera applicazione del codice
della protezione civile, né in sede di decreti-legge, né in occasione, tanto
meno, dell’adozione dei DDPCM: non esiste dunque alcun “atto ufficiale” in tal
senso, come la norma prescrive.
2.
In ogni caso, siamo sempre nell’ambito delle norme interposte, dato che l’esenzione dal Patto non comporta ancora esenzione dalla
Costituzione, dato che la Corte Costituzionale, con la citata sentenza n.
348/2007, ha qualificato “interposte” tutte le norme internazionali pattizie,
che quindi vanno intese come subordinate alla Costituzione.
3.
In termini sostanziali, sarebbe eccessivamente retorico affermare che, nella
presente vicenda, sarebbe “minacciata” l’esistenza stessa dalla Nazione (!),
dal che si ricava che l’art. 4, cit., si applica ad altre e ben più gravi
fattispecie. Se così non fosse, infatti, dovremmo ritenere che l’esistenza della
Nazione sia minacciata altresì dal traffico automobilistico, dato che le
probabilità di contrarre il coronavirus sono grosso modo equivalenti a quelle
di essere coinvolti in un incidente automobilistico (cfr. Riccardo Cesari, dell’Università di Bologna e Consigliere Ivass, Covid, quante probabilità abbiamo davvero di
ammalarci?, in Corriere della Sera, 21 ottobre 2020).
4. Sul piano procedurale, un simile “atto ufficiale” come previsto
dall’art. 4, cit., con tutte le gravissime conseguenze che comporta, di certo
non potrebbe essere rappresentato da un atto amministrativo, come la nostra
debole dichiarazione di stato di emergenza, prevista dal codice della
protezione civile, ma dovrebbe comunque essere rappresentata da un atto di
rango quantomeno legislativo,
ovviamente insussistente nella specie, ferma restando altresì la riserva di
giurisdizione (cfr. Giandomenico Barcellona, Lockdown e misure emergenziali, cit., 95, ove si richiamano anche
gli artt. 5 e 10 dello stesso Patto).
In definitiva, nella specie lo Stato di diritto nella Repubblica Italiana non è stato formalmente sospeso, né, in
assenza di stato di guerra, potrebbe esserlo; tuttavia esso risulta fortemente
minacciato dalla situazione, sulla quale stiamo controvertendo: conferma si
trae dalla recente “Risoluzione del Parlamento europeo del 13 novembre 2020 sull'impatto
delle misure connesse alla COVID-19 sulla democrazia, sullo Stato di diritto e
sui diritti fondamentali”, la quale ha evidenziato i forti rischi di abuso
di potere, connessi alla gestione dell’emergenza nei Paesi europei,
invocando altresì un maggiore collegamento tra governi e parlamenti, il che è
stato recepito dagli organi di stampa come monito allo stesso governo italiano
e all’abuso da parte sua dello strumento anomalo del DPCM.
*****
c) (segue) A proposito della
violazione dell’art. 13 Cost., così come ex
adverso negata, e sulle altre libertà violate. La
difesa avversaria afferma che, nella specie, vale a dire attraverso l’obbligo
di “stare a casa”, salvo poche eccezioni, previsto dal lockdown, non si produrrebbe alcuna violazione dell’art. 13 Cost.,
“atteso che la libertà personale in esso
prevista si tradu(rrebbe) nella libertà dagli arresti arbitrari e comunque
nella pretesa di evitare indebite coercizioni sul proprio corpo. In sostanza,
considerato che l’art. 13 riguarderebbe lo ‘stato di libertà fisica’, nella
relativa disciplina dovrebbero ricadere le sole coercizioni fisiche, le quali
di certo non sono state introdotte dalla normativa in rassegna”
L’obiezione
è infondata sia in fatto, sia in diritto.
Dal
punto di vista fattuale ed empirico, infatti, è immediata conseguenza delle disposizioni
impugnate che la persona, la quale violi il lockdown,
uscendo di casa fuori dai casi “consentiti” (abbiamo rilevato in sede di
ricorso come sia stravagante, e soprattutto contraria al principio di legalità,
una tale modalità, per la quale non si stabilisce ciò che è tassativamente
vietato, ma ciò che è graziosamente consentito dal legislatore governo), venga
avvicinata, fermata e sanzionata dalle forze di polizia, di modo che il momento
coercitivo “sul corpo” in verità sussiste, dato che la persona viene
perentoriamente invitata, dopo essere stata multata, a tornare al domicilio. E
ciò a tacere dell’esecuzione forzata per il caso di mancato pagamento della
sanzione, la quale è a sua volta un intervento fisicamente coercitivo.
Più
in generale e più profondamente, la visione giuridica che controparte esprime
del concetto di “libertà personale” è eccessivamente riduttiva, e da questo
punto di vista erronea, dato che dalla stessa emergerebbe che, in assenza di catene
ai polsi, o di vero e proprio prelievo fisico persistente, non si darebbero
questioni di libertà personale.
Vediamo
al riguardo che cosa ha affermato il Giudice di Pace di Frosinone, con sentenza
516/2020, 15-29 luglio 2020, confidando che la citazione di un tale Magistrato
della Repubblica non appaia una deminutio
capitis in questa Alta Sede.
Riferendosi
alla previsione principale, dal punto di vista che ci occupa, del lockdown, il Giudice scrive: “Tale
disposizione, stabilendo un divieto generale ed assoluto di spostamento al di
fuori della propria abitazione, con limitate e specifiche eccezioni, configura
un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare. Tuttavia, nel nostro
ordinamento giuridico penalistico, l’obbligo di permanenza domiciliare è già
noto e consiste in una sanzione penale restrittiva della libertà personale
che viene irrogata dal Giudice di Pace per alcuni reati. Sicuramente nella
giurisprudenza è indiscusso che l’obbligo di permanenza domiciliare costituisca una
misura restrittiva della libertà personale… Infatti l’art. 13 Cost.
stabilisce che le misure restrittive della libertà personale possono essere adottate
solo dall’autorità giudiziaria. Pertanto, neppure una legge potrebbe
prevedere nel nostro ordinamento l’obbligo della permanenza domiciliare,
direttamente irrogato a tutti i cittadini dal legislatore, anziché
dall’autorità giudiziaria con atto motivato, senza violare l’art. 13 Cost…
Infine, non può neppure condividersi l’estremo tentativo dei sostenitori, ad
ogni costo, della conformità a Costituzione dell’obbligo di permanenza
domiciliare sulla base della considerazione che il DPCM sarebbe conforme a
Costituzione, in quanto prevederebbe delle legittime limitazioni della libertà
di circolazione ex art. 16 Cost. e non della libertà personale.
Infatti,
come ha chiarito la Corte Costituzionale, la libertà di circolazione riguarda i
limiti di accesso a determinati luoghi, come ad esempio l’affermato divieto di
accedere ad alcune zone, circoscritte, che sarebbero infette, ma giammai può comportare
un obbligo di permanenza domiciliare (Corte Cost., n. 68 del 1964).
In sostanza la libertà di circolazione non può essere confusa con la libertà
personale: i limiti della libertà di circolazione attengono a luoghi specifici,
il cui accesso può essere precluso, perché, ad esempio, pericolosi; quando
invece il divieto di spostamento non riguarda i luoghi, ma le persone, allora
la limitazione si configura come limitazione della libertà personale”
Noi,
in sede di ricorso, avevamo sostenuto qualcosa di simile in modo diverso, che a
nostro avviso continua ad avere valore, ossia che, oltre una certa soglia,
la limitazione della libertà di circolazione trasmuta in limitazione
della libertà personale, perché impedire anche il semplice “attraversare la
strada”, o di fare il giro del palazzo, riguarda una circolazione talmente minimale,
rispetto allo spostarsi di città in città, di regione in regione, di Paese in
Paese, da volgere immediatamente in limitazione della libertà personale; del
resto, anche il soggetto ad arresti domiciliari può ottenere permessi, ed entro
certi limiti può spontaneamente
uscire di casa, e nonostante questo nessuno nega che a essere limitata la sua libertà
personale, pure se può attraversare il parco e arrivare al cancello in assenza
di vincoli sul corpo (Cass. n. 22118 del 10 dicembre 2015); oltre,
evidentemente, a essere limitata la sua libertà di circolazione, che ne
rappresenta una manifestazione ulteriore, tale però da presentarsi come un
diritto autonomo.
Conferma
si trae altresì dall’istituto della libertà vigilata, con divieto
di recarsi in alcuni luoghi, che è pacificamente limitazione di libertà
personale, oltre che entro certi limiti di libertà di circolazione, tant’è vero
che è soggetta a riserva di giurisdizione, oltre che di legge; orbene, nella
permanenza domiciliare del lockdown
vi sono molti più limiti al movimento della persona di quanto non ve ne
siano abitualmente in una libertà vigilata o in un obbligo di firma,
che invece sono appunto soggetti a riserva di giurisdizione, sicché si tratta
nel nostro caso limitazione vera e propria della libertà personale ex art. 13
Cost., e non solo di libertà di circolazione ex art. 16 Cost.
Se
poi noi guardiamo alla giurisprudenza estera, ma sempre di Paesi appartenenti
all’Unione Europea, noi constatiamo che “Il Tar di Strasburgo ha bocciato il decreto del prefetto che
impone di indossare 24 ore su 24 la mascherina all'aperto e le impone di
riscriverlo "entro lunedì" ma evidenziando reali necessità per
densità di folla durante certe fasce orarie o in certi comuni o quartieri. Il
provvedimento deve essere “rimodulato” e differenziato, in quanto - afferma il
TAR - quello generalizzato (mascherine sempre e ovunque per tutti) è “una
grave violazione della libertà personale e di circolazione” (Cf.
ANSA, Parigi, 3 settembre 2020).
Sicché
anche il mero obbligo di indossare dispositivi di protezione personale viene
ricondotto da questo orientamento alla categoria della (grave) violazione
della libertà personale, oltre che, addirittura, di circolazione;
figurarsi allora un obbligo di restare continuamente alla propria residenza o
domicilio, salvo alcune prestabilite eccezioni, in cui ciò viene “consentito”.
*****
Sulla violazione dell’art. 16 Cost.
A
proposito della lesione procurata alla libertà di circolazione, controparte
insiste sul carattere di “temporaneità” dei provvedimenti, carattere che però
sappiamo essere smentito dai fatti e illusorio, oltre che riproposto nelle
forme più gravi proprio nei giorni in cui scriviamo, dopo che ai “coprifuoco” è
succeduta la costituzione di zone “gialle”, “arancioni” e “rosse”, per non
parlare di prospettive di ulteriori restrizioni, sicché invochiamo anche a tale
proposito l’efficacia conformativa pro
futuro di un’eventuale decisione favorevole. Quanto alla riserva di legge
rinforzata, prevista dall’art. 16, ci riportiamo interamente al ricorso.
Sulla violazione dell’art. 19 Cost.
Controparte afferma che a essere colpita dagli interventi governativi non
sarebbe stata l’”esperienza religiosa”, ma solo “quella collettiva”. Ovviamente
è proprio quella collettiva che viene in rilievo, tutelata a sua volta
dall’art. 19, dato che quella individuale non è “per natura” comprimibile. Si
sarebbero potuto fin da subito prevedere modalità precauzionali, che non
giungessero al punto di puramente e semplicemente vietare le “forme
assembleari”, prevedendo il distanziamento, come è pur avvenuto in un secondo
momento. La messa “senza partecipazione del popolo”, come afferma la nota
richiamata da controparte, non ha alcun senso, dato che l’essenza
dell’esperienza ecclesiale consiste esattamente nella partecipazione della
comunità, la quale, ripetesi, avrebbe potuto essere prevista con gli opportuni
accorgimenti, come pure successivamente è avvenuto.
Sulla violazione dell’art. 17 (e
21).
Salvo che non ci sia sfuggito, su questo punto la difesa avversaria quasi nulla
dice, se non richiamare la facoltà di divieto, prevista dall’art. 17 Cost., per
“comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica”. Sicché sul punto ci è
sufficiente riportarci al ricorso, ove si spiega che la Costituzione prevede la
possibilità di siffatte limitazioni solo caso per caso e non in via generale.
Controparte non risponde però alla nostra domanda: avrebbero potuto i cittadini
manifestare liberamente contro i provvedimenti che vietavano loro di
manifestare liberamente? Ossia manifestare liberamente il proprio
pensiero in pubblico e in forma collettiva (art. 21)? Perché in ciò sarebbe
consistita l’essenza della democrazia.
Infine,
sia consentito di stigmatizzare ancora come un punto così fondamentale del
principio liberal-democratico sia stato colpito senza nemmeno nominarlo,
ossia, sviatamente, in modo ipocritamente indiretto attraverso il divieto di
“assembramento”.
Sulla lesione della libertà
sessuale. Proprio la risposta di controparte mostra come la
nostra prospettazione sia stata tutt’altro che “infondata e pretestuosa”, dato
che viene confermato che, in base al DPCM 26 aprile 2020, il cittadino avrebbe
inopinatamente potuto intrattenere relazioni personali solo con alcune
categorie di persone, arbitrariamente indicate dal provvedimento, laddove
nemmeno è detto che alcuni siano dotati di coniuge, di unito civilmente, o
coinvolto in relazioni durature (naturalmente in questo caso il fatto che si
potessero incontrare i parenti è irrilevante), sicché fuori di questo gli
sarebbe stata effettivamente preclusa qualsiasi attività sessuale, in omaggio
a una concezione molto grossolana dell’eticità dello Stato, al quale spetti di
decidere con chi il cittadino debba intrattenere relazioni umane. Sulle altre
questioni connesse a questo motivo, ci riportiamo interamente al nostro ricorso
per motivi aggiunti.
*****
d) (segue) Sul principio di
precauzione ex adverso invocato e
ancora sull’omessa ponderazione di interessi anche dallo stesso punto di vista
sanitario e sull’assenza di congrua motivazione. È
importante a questo punto replicare alle affermazioni, contenute nella difesa
avversaria, a proposito del principio di
precauzione, che rappresenterebbe il fondamento gnoseologico della presunta
prevalenza del “diritto alla salute” su ogni e qualsiasi diritto di libertà,
realizzando il paradosso che per realizzare un così concepito diritto alla
salute occorre imporlo; ma imporre a qualcuno un diritto mostra ancora che non
si tratta di un diritto (alla salute), ma di un dovere (alla salute), che in
Costituzione non esiste, non potendosi seriamente contrapporre il diritto
individuale alla salute all’interesse della collettività alla salute, come se
la collettività fosse un’astrazione non composta da individui, per cui
l’interesse dell’astrazione dovrebbe prevalere sul diritto delle persone
concrete e reali, con l’assurdo che un “interesse” dominerebbe un “diritto”, trasformando
questo in un’imposizione illiberale.
Si
consideri infatti, che, in base al ragionamento avversario, il
peggiore totalitarismo, ma con un servizio sanitario efficiente,
sarebbe preferibile, si badi, secondo controparte in base ai principi del nostro
stesso ordinamento, a un sistema liberal-democratico, ma con minori
servizi di welfare.
In
realtà nel nostro caso si va addirittura oltre, dato che nemmeno si
assiste a uno scambio libertà/welfare,
ma si propone l’inefficienza stessa del welfare –quindi lo scambio non avviene- quale fondamento logico, e
addirittura costituzionale, della compressione dei primari diritti di libertà;
per cui se la Repubblica Italiana disponesse di un servizio sanitario
letteralmente da Terzo Mondo, in base a tale logica non potremmo mai più per
alcun motivo uscire di casa (salvo il fatto che poi molti immunologi ci dicono
che le infezioni più frequenti avvengono in casa, il che finisce con l’irridere
il lockdown inteso come un
sistematico “stare a casa”).
Invero,
tanto si ricava da quanto controparte sostiene, facendosi forte della sentenza
del Tar Calabria n. 841/2000, secondo la quale “il rischio epidemiologico non
dipende soltanto dal valore attuale di replicazione del virus in un territorio
circoscritto quale quello della Regione Calabria, ma anche da altri elementi,
quali l’efficienza e capacità di risposta del sistema sanitario regionale”:
in altri termini, stante un sistema sanitario inefficiente, non si danno i diritti
fondamentali di libertà: il che a noi, francamente, appare insensato,
oltre che chiaramente contro lo spirito della Costituzione liberal-democratica,
che pone i diritti di libertà al primo posto di un preclusivo ordinamento
lessicografico, e non per caso, ma perché la vita libera e sociale è quella che
il Costituente ha valutato la più conforme alla nostra natura di esseri umani anche in momenti di crisi, posta
l’inesistenza costituzionale dell’istituto dello stato di eccezione.
All’opposto,
se, come è, la pretesa a un servizio sanitario efficiente rappresenta a propria
volta un diritto pretensivo del cittadino nei confronti delle Istituzioni, l’inefficienza
del servizio rappresenta a sua volta un’illegittimità diffusa, che non può
certo porsi a fondamento di un ulteriore e più grave invalidità, quale
quella di sopprimere i diritti costituzionali di libertà, assommando due illegittimità, e
non la prima sanando la seconda, più grave, illegittimità.
Il
nostro ragionamento ci pare echeggiare quello costante della Corte
Costituzionale, per la quale l’inerzia governativa, produttiva di situazioni
pur oggettive d’urgenza, non legittima il ricorso allo strumento della
decretazione d’urgenza, in quanto appunto quell’urgenza è procurata, quindi
illegittima, e dunque non in grado di sanare una decretazione d’urgenza resa a
sua volta illegittima da quell’illegittima inerzia.
Ciò
suggerisce che le difficoltà del sistema sanitario, lungi dal convalidare
lesioni ai diritti di libertà, avrebbero potuto porsi a fondamento di un
modello costituito da raccomandazioni e indicazioni, pur
pressanti, ma non cogenti, come pure per certi versi era inizialmente avvenuto:
in tal caso avrebbe avuto e avrebbe un senso invocare il dovere di solidarietà,
di cui all’art. 2, Cost., come fa controparte, tanto più che la norma stessa fa
convivere i doveri di solidarietà con i diritti inviolabili del cittadino, con
la conseguenza che questi è tenuto a rispettare quei doveri esclusivamente in
uno spazio giuridico in cui siano assicurati i suoi diritti inviolabili.
D’altra
parte, si consideri che anche negli anni scorsi, ad esempio in occasione delle
influenze del periodo 2016-2018, i pronto soccorso sono stati, come suol dirsi,
presi d’assalto e le terapie intensive messe a dura prova e intasate (cfr.
Simona Ravizza, Milano, terapie intensive
al collasso per l’influenza: già 48 malati gravi – molte operazioni rinviate,
in Corriere della Sera, 10 gennaio 2018), ma nessuno ha pensato che la soluzione al problema potesse essere
quella di limitare le libertà costituzionali; e allora vien da chiedersi quale
sarebbe la soglia, oltre la quale scatterebbe questa necessità, ma di una
tale valutazione non v’è traccia nei provvedimenti impugnati, né nei decreti
legge, che li reggono.
*****
In
ogni caso, salvo errore, nemmeno il principio di precauzione risulta invocato
dagli atti impugnati e dai decreti-legge a proprio sostegno, quindi ragioniamo
sempre nell’ambito di un’inammissibile integrazione successiva della
motivazione, dato che controparte ha la tendenza a trasformare il presente
giudizio, che ha per oggetto atti, in giudizio sul rapporto.
Ciò
chiarito, tuttavia, anche accogliendo lo spirito argomentativo avversario, nella
specie è impossibile fare questione di principio di precauzione nei termini
codificati e comunemente accettati ab
antiquo, dato che la nostra fattispecie fuoriesce decisamente da
quell’ambito.
La
difesa avversaria invoca a proprio sostegno Cons. Stato, Sez. III, 3 ottobre
2019, n. 6655, secondo la quale, a suo dire, sarebbe ammessa una qualsiasi “prevenzione anticipata rispetto al
consolidamento delle conoscenze scientifiche”, ma tale pronuncia ha per
oggetto una fornitura di vaccini –l’ambito vaccinale è peraltro ricondotto
da Corte Cost. n. 5/2018, ex adverso
citata, al ben diverso ambito della prevenzione, che invece riguarda
rischi e pericoli provati- dato che il principio di precauzione non è un
lasciapassare universale, ma riguarda sempre e solo l’esercizio di attività
economiche in sé potenzialmente pericolose per l’ambiente e la salute,
e
non mai l’esercizio di diritti di libertà, codificati e protetti,
il cui esercizio, per definizione, non comporta mai rischi e pericoli di tal
fatta, altrimenti si tratterebbe di abusi del diritto, però già codificati o
previsti come atti illeciti, senza alcuna necessità di invocare il principio di
precauzione: esiste, in altri termini, anche un principio di precauzione
democratica, che guarda con terrore, proprio in omaggio a uno spirito
fondato sulla precauzione, a gravi compressioni di diritti costituzionali,
fondate sull’illusoria pretesa che queste siano “temporanee”, quando è forte, e
lo constatiamo nei fatti, il rischio della loro cristallizzazione.
Ciò
doverosamente precisato, vediamo però come effettivamente procede il percorso
argomentativo della da ultimo citata sentenza del Consiglio di Stato: “La Comunicazione della Commissione Europea
del 2 febbraio 2000 fornisce indicazioni di indirizzo in merito alle condizioni
di applicazione del principio di precauzione, individuandole nelle due
seguenti: (i) la sussistenza di
indicazioni ricavate da una valutazione scientifica oggettiva che
consentano di dedurre ragionevolmente l'esistenza di un rischio per l'ambiente
o la salute umana; (ii) una situazione di incertezza scientifica
oggettiva che riguardi l'entità o la gestione del rischio, tale per cui non
possano determinarsene con esattezza la portata e gli effetti. Nella
prospettiva della Commissione Europea,
l’azione precauzionale è pertanto giustificata solo quando vi sia stata
l'identificazione degli effetti potenzialmente negativi (rischio) sulla base
di dati scientifici, seri, oggettivi e disponibili, nonché di un “ragionamento
rigorosamente logico” e, tuttavia, permanga un'ampia incertezza scientifica
sulla "portata" del suddetto rischio (par. 5.1.3). 4.6. Nel
conseguente bilanciamento delle più opportune iniziative di contenimento del
rischio, la scelta del c.d. “rischio zero” entra in potenziale tensione con il
principio di proporzionalità, il quale impone misure “congrue rispetto al livello prescelto di
protezione” ed una conseguente analisi dei vantaggi e degli oneri dalle stesse
derivanti: dunque, non è sempre
vero che un divieto totale od un intervento di contrasto radicale costituiscano
“una risposta proporzionale al rischio potenziale”, potendosi configurare
situazioni e contesti specifici che rendono una tale strategia inopportuna,
inutilmente dispendiosa, se non sostanzialmente improduttiva. In siffatte
ipotesi, per coniugare in modo bilanciato esigenze di precauzione e di
proporzionalità, la Commissione suggerisce di modulare l’azione cautelativa in
relazione alla evoluzione dei suoi risultati, sottoponendo le misure adottate
ad un’opera di controllo e di “revisione, alla luce dei nuovi dati scientifici”
(par. 6 e 6.3.5). 4.7. Condividendo questa linea di pensiero, anche la costante giurisprudenza ha ritenuto
che il principio di precauzione, i cui tratti giuridici si individuano lungo il
segnalato percorso esegetico fondato sul binomio analisi dei rischi — carattere
necessario delle misure adottate, presuppone l'esistenza di un rischio
specifico all'esito di una valutazione quanto più possibile completa,
condotta alla luce dei dati disponibili che risultino maggiormente affidabili e
che deve concludersi con un giudizio di stretta necessità della misura
(ex multis, Cons. Stato, sez. V, n. 6250/2013; Cons. Giust. Amm. Sicilia Sez.
Giurisd., n. 581/2015; Cons. Stato, sez. IV, n. 1240/2018).
Ora,
nulla
di tutto ciò si rinviene nei provvedimenti impugnati, né nei
decreti-legge, che li sostengono, dato che tali provvedimenti sono apoditticamente
certi di se stessi, pur in assenza di alcuna esplicita valutazione, di certo
non “completa”, dei dati disponibili, né sono in grado di motivare sulla “stretta
necessità” effettiva delle misure adottate in concreto, che non
contengono alcuna valutazione di costi e di benefici, né di commisurazione
delle misure possibili e, tra queste, di quelle necessarie: di fatto, siamo di
fronte a una sistematica petizione di principio e non sequitur, dato che non v’è mai una chiara correlazione o un
nesso logico-aziologico tra premesse e conclusione, in forza dei quali
le misure da adottarsi debbano essere necessariamente le più restrittive
possibili. E invero, rimanendo ancora nell’ambito del principio di precauzione,
così come accolto e codificato a livello comunitario, si è giudicato che “Una
misura preventiva non può essere adeguatamente giustificata da un approccio
puramente ipotetico ai rischi, fondato su mere congetture, prive di validazione
scientifica” (Caso T-70/99, Alpharma Inc. v. Consiglio, Tribunale
europeo di primo grado, 11 settembre 2002, par. 156) e, ancora, “Il
rischio deve essere adeguatamente supportato da prove scientifiche” (Caso
C-236/01, Monsanto Agricoltura Italia v. Presidenza del consiglio dei ministri,
Corte Europea di Giustizia, conclusioni dell’avvocato generale Alber, 13 marzo
2003), e la mera possibilità del pericolo non è sufficiente (Cass R.
Sunstein, Il diritto della paura – Oltre
il principio di precauzione, Bologna, Il Mulino, 2010, 37); laddove i
provvedimenti impugnati non forniscono alcuna prova di tal fatta sulla grande
parte delle condotte vietate, quantomeno quelle alle quali abbiamo fatto
riferimento con il nostro ricorso introduttivo, sicché non risulta allegata alcuna prova
sul fatto che misure drastiche e coercitive fossero le uniche possibili, senza
considerare l’eventualità di adottare misure meno pervasive, o di
raccomandazione, campagne di informazione volte alla persuasione, etc; e ciò sul
non dimostrato presupposto che la misura più restrittiva sia anche la più
efficace, il che non emerge dall’esperienza di altri Paesi.
Ad
esempio, confrontando i dati dell’Argentina, che è il Paese che ha adottato il lockdown più lungo, con quelli della
Svezia, che ha prevalentemente adottato una disciplina fondata sulla
persuasione e l’informazione con poche prescrizioni e nessun lockdown, anche per la dichiarata
attenzione a non trasgredire ai precetti costituzionali, si scopre che la
mortalità da coronavirus dell’Argentina è decisamente superiore a quella della
Svezia, essendo l’Argentina “al vertice
mondiale di vittime per milione di abitanti” (cfr. Rocco Cotroneo, Lockdown eterno e tanti morti. Il virus ha
affondato l’Argentina, in Domani,
30 ottobre 2020), dal che si ricava –il che è conforme a come la giurisprudenza
delinea, come si è visto, lo stesso principio di precauzione- che non
sussiste alcun nesso logico necessario tra intensità della restrizione e sua
efficacia, sicché il principio di precauzione non impone affatto
necessariamente la misura più restrittiva, mentre prescrive una motivazione congrua
e adeguata sulla scelta effettuata rispetto alle possibili alternative.
In
ogni caso, trattandosi di materia che trova fondamento nell’art. 191 del
Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea, si chiede, ove lo sia ritenuto
necessario al fine della decisione, di provvedere al rinvio pregiudiziale ex art. 267
TFUE alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, al fine di ottenere
un’interpretazione dell’art. 191, citato, in modo da chiarire se esso
si applichi esclusivamente ad attività economiche rischiose e pericolose per la
salute e l’ambiente, o anche a diritti di libertà, come codificati dalle
Costituzioni e dalla CEDU, per quanto a noi una simile interpretazione appaia
contraria alla lettera e allo spirito dell’art. 191, e comunque paradossale.
*****
Siffatte
considerazioni ci riconducono de plano alla
questione dell’omessa ponderazione tra opposti rischi per la salute -dato che,
come si è visto, ve ne sono di gravi anche nella stessa adozione del lockdown-, e sull’effettiva idoneità,
poi, a davvero salvaguardare il tanto invocato “diritto alla salute” da parte
dei provvedimenti impugnati, dato che al susseguirsi di DPCM non corrisponde
mai una disamina chiara e precisa degli effetti procurati da quello precedente,
per cui non risulta adempiuto un qualsiasi onere di rendiconto (né lo
fa la difesa avversaria, la quale pure avrebbe potuto cogliere l’occasione per
argomentare sull’effettiva efficacia dei provvedimenti impugnati, e così
sottrarli alle nostre censure).
In
particolare, non risulta rispettato dai provvedimenti stessi un qualsiasi
principio di proporzionalità, dato che con riferimento a essi si
fronteggiano un pregiudizio certo, arrecato ai diritti
di libertà, e un beneficio per la salute, in conseguenza delle misure adottate,
totalmente incerto, anzi, aleatorio: ad esempio, vietare la
circolazione a un chilometro da casa, in termini stretti, procura una lesione a
un diritto certa, ma quale sarebbe il beneficio, dato che non si ritiene
normalmente che si possa contagiare o essere contagiati semplicemente girando individualmente
per la strada? Non essendo valutate le alternative, del resto, non è stato
rispettato il principio di proporzionalità anche alla luce dell’art. 43 del
Regolamento Sanitario Internazionale, là dove prescrive che le “misure
non devono essere più restrittive del traffico internazionale e più
invasive o intrusive per le persone di ragionevoli alternative in grado di
raggiungere un adeguato livello di protezione sanitaria” (cfr.
Giandomenico Barcellona, Lockdown e
misure sanitarie emergenziali, cit., 103), salvo che tali alternative non
sono mai state prese nemmeno in considerazione dai provvedimenti impugnati.
Ripetiamo
che non
è affatto sufficiente la mera evocazione retorica in astratto della necessità
di tutelare il diritto alla salute, ma occorre anche una puntuale dimostrazione
che le misure adottate lo tutelino in concreto, in mancanza della quale
quella evocazione si riduce a una petizione di principio, che funge da passepartout, volto alla lesione di
qualsiasi altra situazione giuridica soggettiva; laddove, viceversa, opera
nella specie quantomeno una sorta di principio di reciprocità, in forza
del quale i benefici derivanti dai provvedimenti devono effettivamente controbilanciare
gli oneri che derivano dalla limitazione dei diritti (cfr. Giandomenico
Barcellona, Lockdown e misure sanitarie
emergenziali, cit., 100), per cui, per dir così, il gioco deve davvero
valere la candela, il che non risulta affatto dimostrato (anzi, certi andamenti
della curva epidemica lo mettono fortemente in discussione).
Ed
è pacifico che l’onere di dimostrare l’efficacia dei provvedimenti adottati ricada
interamente sullo Stato procedente, in mancanza di che il pregiudizio
arrecato ai diritti fondamentali deve ritenersi giuridicamente nullo e tamquam non esset: e invero, l’art.12 dei Siracusa Principles,
interpretativi del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici
concluso a Nuova York il 16 dicembre 1966 ed entrato in vigore in Italia il 23
marzo 1976 (in argomento cfr. ancora Giandomenico Barcellona, op. cit., 99 ss.), così si esprime: “The
burden of justifying a limitation upon a right guaranteed under the Covenant
lies with the state”.
Et
de hoc satis.
*****
e) Sull’illegittimo regime delle
sanzioni e sull’invalidità e inefficacia dell’”autodichiarazione”.
Sul
quarto, quinto e sesto motivo del nostro ricorso (punti 5, 6 e 7), ci
permettiamo di riportarci interamente a quanto dedotto in quella sede, non
parendoci che controparte ne sviluppi una confutazione compiuta.
Vi
sono però alcuni punti, sui quali la difesa avversaria propone argomentazioni,
con riferimento alle quali appare opportuno controdedurre.
a) Il linguaggio utilizzato dal D.L. 19/2020 non rispetta affatto gl’indispensabili requisiti di chiarezza, tassatività e determinatezza nell’indicazione delle condotte sanzionate, dato che non riteniamo che espressioni come “limitazione della circolazione delle persone, anche prevedendo limitazioni alla possibilità di allontanarsi dalla propria residenza, domicilio o dimora se non per spostamenti individuali limitati nel tempo e nello spazio o motivati da esigenze lavorative, da situazioni di necessità o urgenza, da motivi di salute o da altre specifiche ragioni” (art.1, c. 2, lett. a) lasciano, come poi ha ben dimostrato la prassi applicativa, eccessivi ambiti di discrezionalità nell’irrogazione in concreto delle sanzioni da parte delle FF.OO.
b)
Si è rilevato come siffatta vaghezza sia rimasta tale anche in sede di DPCM; ma
controparte nulla oppone all’altro importantissimo profilo, afferente al
rispetto del principio di stretta legalità, ossia che la precisazione di quali
avrebbero dovuto essere le condotte in concreto sanzionate è stata rimessa,
“delegata”, ad atti amministrativi, il che impinge nella riserva assoluta di
legge, che regola, così come le sanzioni penali, anche le sanzioni
amministrative, per cui il regime sanzionatorio viene spartito tra atto di
rango legislativo e atto di rango amministrativo, il che non è consentito, come
non è consentito che le sanzioni siano stabilite a livello legislativo, e le
condotte sanzionate a livello amministrativo.
c)
Quanto alla da noi dedotta inversione dell’onere della prova, controparte
eccepisce che, in materia di sanzioni amministrative, opererebbe una
presunzione di colpa ai sensi dell’art. 3 della legge 689/1981. L’affermazione
è inesatta, dato che l’art. 3, che disciplina l’elemento soggettivo negli
illeciti amministrativi, si limita a dire che il responsabile risponde
indipendentemente dal fatto che versi in colpa o dolo; ma, in ogni caso, si sta
parlando appunto del solo elemento soggettivo, ma l’onere di dimostrare l’effettivo
accadere dell’illecito, nei suoi aspetti oggettivi e fattuali, spetta
all’amministrazione, laddove nel nostro caso viene fatto gravare sul
cittadino anche l’onere di “comprovare” l’evento empirico, onere che ricade
invece per principio sull’organo procedente: in particolare, si fa gravare sul
cittadino l’onere di dimostrare l’evento “esimente”, il che significa che il
suo versare in atto illecito si presume, il che non è conforme
affatto all’art. 3 l. 689/1981, il quale, ripetiamo, si occupa esclusivamente
dell’elemento soggettivo e non anche di quello oggettivo dell’illecito.
d)
Si noti infine che controparte non contesta che nella specie non si tratti di
condotte intrinsecamente offensive, requisito indispensabile in una sanzione,
penale o amministrativa che sia, ma pretende di legittimare siffatta deroga a
principi fondamentali, ancora una volta, in nome dell’asserita “temporaneità”
delle misure, che, a parte quanto si è ripetutamente sottolineato
sull’illusorietà di siffatta temporaneità, in uno Stato di diritto è
giuridicamente irrilevante, nonché invocando il principio di precauzione, con
riferimento al quale abbiamo già argomentato a sufficienza.
Semmai
va sottolineata che la dimostrata inidoneità giuridica dello strumento sanzionatorio,
in casi di inoffensività come questi, avrebbe semmai suggerito, per non
incorrere in chiare aporie rispetto ai principi generali del diritto, un esteso
ricorso allo strumento della raccomandazione (sull’uscire il meno
possibile, sul rispettare i distanziamenti, etc.), che fosse fondata sulla
comunicazione di informazioni chiare e coerenti, il che è pure mancato.
*****
La
questione dell’”autodichiarazione” (con riferimento alla quale rinviamo al
settimo motivo di ricorso, punto 8) si rivela così un prolungamento del punto
precedente, dato che, attraverso una mera circolare ministeriale, è stato
invertito l’onere della prova, introdotto un “interrogatorio amministrativo”
con illegittimo obbligo di accusare se stesso e di “dire la verità” in proprio
danno, il che non trova spazio nel nostro ordinamento procedimentale e
processuale, nonché di fatto introdotto un provvedimento atipico, che
controparte riconosce essere privo di alcun fondamento normativo, dato che ammette
che tale strumento è stato introdotto con la citata circolare.
Semmai
va evidenziato come, all’inizio della Relazione della Presidenza del Consiglio,
ossia l’atto difensivo di controparte, si affermi che le circolari impugnate
sarebbero “norme interne… prive di natura provvedimentale e di efficacia lesiva
all’esterno”.
Ma
se così è, occorre concludere che il sottoscrivere l’autodichiarazione non
sia mai stato obbligatorio per il cittadino, né lo sarebbe stato
tutto quel che ne consegue in termini di obblighi di autoaccusa e di sanzioni
afferenti, anche penali (!). Se così è, si chiede allora di darne atto in sede
di Parere e decisione.
*****
f)
Sulla violazione degli artt. 41 e 42 Cost., sull’eccesso di potere per difetto
di motivazione sotto altro profilo e per disparità di trattamento. Sulla
richiesta di risarcimento dei danni e sull’indennizzo.
Controparte
rivendica la potestà del governo di distinguere tra attività considerate di
utilità sociale e quali no, salvo che tale distinzione viene a colpire attività
normalmente
già ritenute di utilità sociale, dato che normalmente vengono svolte,
rimanendo tuttora oscuro perché talune di esse siano state colpite e non altre,
a parità di utilità sociale comunemente riconosciuta. Ribadiamo che stabilire
quali siano le attività “essenziali” da parte del governo è mostra di
paternalismo, dato che il consumatore, magari orientato da raccomandazioni e
non da prescrizioni sanzionatorie, è perfettamente in grado di comprendere che
cosa sia per lui “essenziale” o no, fermo restando che, per chi esercita
un’attività, quell’attività è comunque “essenziale” alla sua sopravvivenza.
Emerge
così la questione dell’indennizzo, che non trova soluzione, come vorrebbe
controparte, nel decreto “Cura Italia” o nel decreto “Rilancio”, che sono
palesemente insufficienti e inadeguati; sicché la conclusione è che il governo
ha fatto il passo più lungo della gamba, nel senso che, se fosse stato da
subito consapevole dell’entità dei pregiudizi economici che andava a
determinare, nell’impossibilità di indennizzarli adeguatamente, o anche
minimamente, non avrebbe adottato o dovuto adottare i provvedimenti di
chiusura, viceversa irresponsabilmente adottati: dato che un atto ablatorio per supposta
pubblica utilità deve essere sempre consapevole dei costi indennitari che
comporta, con ogni conseguenza di carattere contabile, laddove nella
specie tale consapevolezza si è rivelata del tutto assente, il che vale a sua
volta a invalidare i provvedimenti stessi
Quanto
alla richiesta di risarcimento dei danni subiti, se ne chiede una
determinazione in via equitativa come da ricorso introduttivo, precisando che
gli eventuali importi riconosciuti, anche quelli non direttamente spettanti
all’associazione Diritto e Mercato nella sua rappresentanza di interessi
collettivi e diffusi, saranno comunque devoluti alla stessa, a titolo di
sostegno alle sue iniziative, sempre a tutela di interessi collettivi e
generali di carattere civile e consumeristico.
Si
insiste pertanto nelle già assunte
CONCLUSIONI
così
come da epigrafi del ricorso originario e del ricorso per motivi aggiunti, alle
quali si aggiunge la richiesta, ove occorra, del rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE alla Corte di Giustizia
dell’Unione Europea, al fine di ottenere un’interpretazione dell’art. 191 nei
sensi indicati nell’esposizione.
Si
producono i seguenti documenti: 1) Statuto e atto costitutivo dell’Associazione
“Diritto e Mercato”; 2) Verbale n. 23 del Comitato Tecnico Scientifico in data
10 marzo 2020; 3) Verbale n. 21 del Comitato Tecnico Scientifico in data 7
marzo 2020; 4) Certificato dott. Scavone relativo alla situazione di salute del
ricorrente Fabio Massimo Nicosia; 5) Decreto del Tribunale di Napoli in data 14
aprile 2020 relativo al ricorrente Francesco Giunta.
Milano-Napoli,
25 novembre 2020.
Avv.
Fabio Massimo Nicosia
Avv.
Francesco Giunta
Antonio
Quarta
*****
Si
trasmette per gli adempimenti conseguenti e per la trasmissione al Consiglio di
Stato, Sezione Prima, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, presso ufficiocontenzioso@mailbox.governo.it
e per conoscenza al Consiglio di Stato,
Sezione Prima, presso sezioneprimaprotocolloamm@ga-cert.it
Eccellente ricorso contro il governo che con i suoi DPCM ha di fatto normato l'obbligo illegittimo per i cittadini di rimanere in casa, impedendogli di esercitare la sua libertà di circolazione sancita dalla Costituzione.
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