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giovedì 26 novembre 2020

MEMORIA AL CONSIGLIO DI STATO SUI DPCM COVID

 

ECC.MO CONSIGLIO DI STATO

Sezione Prima

NEL RICORSO STRAORDINARIO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

NUMERO AFFARE 01006/2020

Proposto da Avv. Fabio Massimo Nicosia (c.f. NCSFMS58M20F205K), in proprio e nella sua qualità di Presidente, Legale Rappresentante e socio dell’Associazione di cultura libertaria e di tutela del cittadino e del consumatore “Diritto e Mercato -  #Aktoprosumo” (c.f. 12868580155 ), da Avv. Francesco Giunta (c.f. GNTFNC70C28F839E), e da Antonio Quarta (c.f. QRTNTN76R01G224A), domiciliati presso l’avv. Francesco Giunta, via Orazio n. 56, 80070 Bacoli (NA) e per ogni comunicazione presso 

Contro

Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente pro tempore

Presidente del Consiglio dei Ministri, pro tempore

Ministro dell’Interno, pro tempore

Ministro della Salute, pro tempore

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MEMORIA DI REPLICA E CONTRODEDUZIONI

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1. Premessa. In data 16 settembre 2020 l’Adunanza della Sezione Prima del Consiglio di Stato ha adottato una parere istruttorio di sospensione della pronuncia del parere definitivo, disponendo il completamento del contraddittorio mediante invio di copia della relazione istruttoria della Presidenza del consiglio, avvenuto solo in data 13 novembre 2020, con assegnazione di un termine di almeno trenta giorni dalla ricezione per la presentazione di eventuali memorie di replica e di controdeduzioni, nonché per disporre, sempre a cura della Presidenza, l’acquisizione di copia dello statuto dell’Associazione ricorrente, peraltro già da noi versato in atti in allegato al ricorso per motivi aggiunti.

Vista la Relazione prodotta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, formuliamo pertanto le nostre controdeduzioni, attraverso la presente memoria di replica autorizzata, insistendo per la formulazione di un parere di accoglimento e di una decisione conclusiva favorevole, ritenendo infondate le eccezioni avversarie, tanto di rito, quanto di merito, così come ci apprestiamo ad argomentare.

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2. Infondatezza delle avversarie eccezioni di rito.

a) Sulla sopravvenuta inefficacia dei provvedimenti impugnati. La Presidenza del Consiglio evidenzia in primo luogo come i provvedimenti impugnati abbiano cessato di avere efficacia, senza peraltro, si direbbe, trarre alcuna conseguenza specifica sul piano processuale da tale rilievo; sicché tocca a noi controdedurre, per scrupolo difensivo, a un’eccezione che pur non c’è, leggendo tra le righe e cercando di comprendere l’intento di controparte, la quale sembra alludere velatamente a un’ipotesi di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse.

In tal caso, l’eccezione sarebbe comunque infondata per diversi motivi.

1. Anzitutto, rileviamo la singolarità della fattispecie, caratterizzata dal frenetico susseguirsi e rincorrersi di sempre nuovi DPCM, a volte appena modificativi del precedente, dimodoché il cittadino verrebbe costretto a una fatica di Sisifo, e a esborsi spropositati, per impugnarli tutti e ciascuno, per poi sistematicamente sentirsi rispondere che i suoi ricorsi sono del tutto inutili, essendone venuto meno l’interesse a ogni scadenza di ognuno. Il che rappresenterebbe una chiara elusione e vanificazione, da parte dell’Amministrazione, del sindacato giurisdizionale, al quale si sottrarrebbe per sistema, attraverso la tecnica delle scadenze e dei rinnovi a segmenti, in chiara violazione o elusione degli artt. 24, c. 1, e 113, cc. 1 e 2 (che non ammette che alcuni tipi di atti siano sottratti al sindacato di legittimità), Cost.

Ne deriva che la scadenza degli effetti di un provvedimento non fa decadere per tale solo motivo l’interesse al ricorso, avendo il provvedimento stesso comunque prodotto medio tempore effetti, che vanno rimossi ex tunc, mentre la scadenza del provvedimento opera solo ex nunc, e quindi non ha nemmeno alcuna potenzialità satisfattiva dell’interesse sostanziale fatto valere.

2. La dottrina (Nigro, Vipiana, Clarich) ricollega da molto tempo l’interesse al ricorso non solo alla rimozione e alla demolizione del provvedimento impugnato, ma anche, e a volte soprattutto, stante il carattere direttivo, precettivo e conformativo del giudicato, a ciò che seguirà nel futuro, vale a dire alla possibilità che l'interesse sostanziale del ricorrente trovi soddisfazione attraverso la successiva attività amministrativa conforme alla pronuncia (sull’efficacia conformativa del giudicato amministrativo in linea generale, cfr. di recente Cons. Stato, VI, 11 marzo 2020, n. 1738).

Nel nostro caso, quindi, persiste l’interesse a che l’Amministrazione, a seguito di un’eventuale decisione di accoglimento del ricorso, provveda in conformità alla decisione stessa, astenendosi dal reiterare illegittimità del tipo di quelle dedotte nel ricorso stesso, nella gestione di una crisi che non è certo conclusa.

3. Stante l’avvenuta produzione medio tempore di effetti lesivi, i ricorrenti sono quantomeno titolari di un interesse morale (Consiglio di Stato, sez. V, 8/04/2014 n. 1663) a che sia riconosciuto il loro avere vissuto in una situazione gravemente illegittima di compressione di situazioni giuridiche soggettive fondamentali, anche nella prospettiva del riconoscimento del danno esistenziale, che come è noto opera in caso di lesione di interessi di rilevanza costituzionale (cfr. Cass. n. 25157/2008).

4. In ogni caso, nella specie l’interesse al ricorso persiste, proprio perché il ricorso stesso è esplicitamente rivolto anche al conseguimento del risarcimento dei danni patiti. E invero, è principio recetto che “L’indagine sulla sussistenza dei presupposti della pronuncia di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse deve essere condotta dal giudicante con il massimo rigore, per evitare che la declaratoria di improcedibilità si risolva in una sostanziale elusione dell’obbligo di pronunciare sulla domanda; l’interesse permane ove la parte possa pretendere il risarcimento del pregiudizio sofferto in conseguenza della determinazione giudicata illegittima (Consiglio di Stato, sez. III, 6 novembre 2020, n. 6827; sul principio, per il quale l’individuazione della fattispecie di sopravvenuta carenza di interesse deve essere effettuata con criteri rigorosi e restrittivi per evitare che la preclusione dell’esame del merito della controversia si trasformi in un’inammissibile elusione dell’obbligo del giudice di provvedere sulla domanda, cfr. tra le tante Consiglio di Stato, sez. V, 8 aprile 2014 n. 1663; Cons. St., sez. III, 14 marzo 2013, n. 1534; sez. IV, 17 settembre 2013, n. 4637; sez. V, 27 marzo 2013, n. 1808).

5. Occorre infine considerare che tra i ricorrenti è presente un’associazione, Diritto e Mercato, volta alla tutela di interessi collettivi, sicché nel suo caso la valutazione alla persistenza dell’interesse al ricorso deve considerare anche tale aspetto, pur senza ridurlo a mero interesse alla legittimità degli atti amministrativi, in quanto comprensivo dell’aspettativa della collettività a non essere lesa nelle sue situazioni giuridiche fondamentali.

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b) Sulla dedotta inammissibilità del ricorso per il preteso carattere di “alta amministrazione” dei provvedimenti impugnati. La difesa avversaria eccepisce che, essendo i provvedimenti impugnati atti di alta amministrazione, “frutto di attività ampiamente discrezionale ed espressione di scelte politiche da parte del Governo”, il ricorso sarebbe inammissibile.

In realtà, così facendo, controparte ripropone sotto altra veste la tesi dell’inimpugnabilità dell’atto politico, da noi già confutata, con riferimento al caso di specie, in via prolettica in sede di ricorso introduttivo, dato che nel nostro caso ci troviamo innanzi a provvedimenti chiaramente incidenti in via diretta su situazioni giuridiche soggettive, che vengono lese immediatamente; il che è già di per sé bastevole a radicare un interesse e a una legittimazione a ricorrere, al di là di qualsiasi astratta, incerta e opinabile qualificazione formale dei provvedimenti stessi, che non può essere artatamente manipolata al solo scopo di precludere l’accesso alla tutela degli interessi pregiudicati da parte di provvedimenti, che, ad esempio, il TAR per il Lazio ha già in parte accostato, quanto alla natura, alle ordinanze contingibili e urgenti, ossia a una tipologia di atti certamente suscettibile di determinare lesioni di interessi in concreto (TAR Lazio, Sez. Prima Quater, 13 luglio 2020, n. 8615). Tale sentenza del Tar per il Lazio, in materia di accesso agli atti dei verbali del CTS, peraltro nel frattempo resi noti, è stata sospesa cautelarmente con decreto monocratico in data 31 luglio 2020 dalla Terza Sezione del Consiglio di Stato (Presidente Franco Frattini). Tale decreto è di particolare interesse ai nostri fini, pur non fornendo deliberatamente, data la sede sommaria, un’approfondita valutazione sulla natura degli atti per i quali si chiede l’accesso; esso contiene infatti affermazioni di peso, come la considerazione che gli atti relativi all’emergenza COVID-19, “sono caratterizzati da una assoluta eccezionalità e, auspicabilmente, unicità, nel panorama ordinamentale italiano, tanto da ritenersi impossibile… applicarvi definizioni e regole specifiche caratterizzanti le categorie tradizionali quali “atti amministrativi generali” ovvero “ordinanze contingibili e urgenti”, pur avendo, di tali categorie, gli uni e gli altri alcuni elementi ma non tutti e non organicamente rinvenibili nelle appunto citate categorie tradizionali”; e ancora, si sostiene nel decreto che, con atti amministrativi generali, non sarebbe possibile incidere, in modo tanto significativo, su diritti fondamentali della persona, ciò che invece potrebbero fare ordinanze contingibili e urgenti che, però, nella legislazione anti-COVID, sono solo quegli atti (ad es. del Ministero della Salute) che in tal modo la legge qualifica espressamente”; quanto ai verbali, dei quali si è chiesta l’ostensione, essi “hanno costituito il presupposto per l’adozione di misure volte a comprimere fortemente diritti individuali dei cittadini, costituzionalmente tutelati. Tali misure presentano carattere di “assoluta eccezionalità... rispetto alle categorie tradizionali invocate in senso opposto dalle due parti”, vale a dire atti amministrativi generali od ordinanze contingibili e urgenti.

In ogni caso, a nostro avviso,  come si vedrà, il lockdown va ricostruito nei termini del vero e proprio provvedimento amministrativo restrittivo atipico. In ogni caso, i vari provvedimenti, comunque classificati, in quanto immediatamente lesivi, non possono sottrarsi all’onere di una congrua e adeguata motivazione, così come già dedotto in sede di ricorso originario, con loro conseguente piena sindacabilità in questa Sede.

L’Amministrazione resistente prova ad aggiornare la propria prospettazione, sostenendo che non tanto conti la distinzione tra atto politico e atto di alta amministrazione (per il quale non vige alcun divieto di impugnazione in linea di principio), quanto “la sussistenza o meno di un vincolo giuridico posto all’esercizio del potere discrezionale”, che nella specie difetterebbe.

La tesi che i DDPCM in questione sarebbero sottratti a vincoli giuridici, e che quindi sarebbero atti legibus soluti, sconcerta, sia in linea di principio, dato che nel nostro ordinamento non esistono atti amministrativi sottratti a vincoli giuridici (quantomeno, opererebbe l’art. 97 Cost.), sia in concreto, dato che, come controparte stessa, contraddicendosi, riconosce, i DDPCM trovano fonte giuridica in decreti-legge, che quindi sono atti a circoscriverne il contenuto, e sono del tutto inidonei ad attribuire una qualsiasi sorta di “discrezionalità politica” a suo dire insindacabile; come se, ad esempio, i DDPCM non fossero sindacabili in via incidentale dal Giudice Ordinario, allorché si trattasse, ad esempio, di conoscere della validità delle sanzioni amministrative in concreto irrogate; e come se la Costituzione non rappresentasse a propria volta, in particolare in casi come il nostro, un potentissimo “vincolo giuridico”, per cui i provvedimenti impugnati non sarebbero sindacabili nemmeno nel loro eventuale contrasto con la Costituzione, il che non è certo pensabile; si consideri che poi nel nostro caso si tratta sostanzialmente di sindacare un sistema di illeciti e sanzioni nella loro ragionevolezza e nel loro rispetto del principio di legalità, ossia di un vincolo giuridico di notevole consistenza.

Tant’è che la Corte Costituzionale ha precisato che Gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto; nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate” (Corte Cost., 81/2012; cfr. già Cons. Stato, V, n. 4502/2011 e Cons. Stato, n. 6002/2012; cfr. anche Cass., Sez. Un., ordinanza 12 luglio 2019, n. 18829;  Cass. civ., sez. un., n. 21581 del 2011; n. 10416 del 2014; n. 10319 del 2016; n. 3146 del 2018). Solo l’assenza di vincoli giuridici connota l’atto insindacabile, comunque qualificato, salvo che, anche a volere ammettere tale figura, nel nostro caso i vincoli giuridici ci sono e sono numerosi, anche di diritto internazionale, come si vedrà.

Aggiungasi che l’esempio proposto dall’Amministrazione resistente, ossia il caso affrontato da Cons. Stato 2483/2019, è del tutto inconferente e lontanissimo dal nostro caso, trattandosi di una concessione o rinnovo dell’exequatur ai fini della nomina, d’intesa con uno Stato straniero, di alto personale diplomatico, ossia di questione nella quale sono coinvolte relazioni con Stati esteri, che riguardano immediatamente l’esercizio della sovranità dello Stato nei confronti degli altri Paesi, ossia qualcosa di tutt’affatto estraneo a provvedimenti urgenti, comunque ricostruiti, di incisione nei confronti di sfere giuridiche individuali, diffuse e collettive; mentre si sa che l’atto di alta nomina è difficilmente sindacabile, in quanto sovente di carattere fiduciario, il che non ha nulla a che vedere con il nostro caso.

Si noti poi come controparte insista sul presunto carattere “temporaneo” dei provvedimenti quale argomento a sostegno della loro insindacabilità, il che rappresenta una riformulazione dell’eccezione di carenza di interesse (sopravvenuta), ma tratta di una temporaneità del tutto esteriore, dato che questa “eccezionalità” si autoalimenta di proroghe dello “stato di emergenza” e di rinnovi dei DDPCM, fino a divenire una “nuova normalità”, sicché l’insindacabilità diverrebbe perenne; non v’è del resto alcuna ragione per ritenere che un provvedimento a efficacia limitata nel tempo debba sottrarsi a una verifica di legittimità, anche alla luce del già ricordato art. 113 Cost., c. 2.

Senonché, infine, un DPCM è del tutto inidoneo a rappresentare atto di alta amministrazione anche dal punto di vista formale, dato chela L.400 del 1988, sull’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri, indica il Consiglio dei ministri quale organo competente a fissare l’indirizzo generale dell’azione amministrativa, conferendo al Presidente del Consiglio dei ministri il potere di impartire le relative direttive” (Federica Teoli, Gli atti di alta amministrazione, in Diritto amministrativo.it); sicché al Presidente del Consiglio spetta di attuare e non deliberare quegli indirizzi, fermo restando che i DDPCM impugnati, lungi dal fissare “indirizzi generali dell’azione amministrativa” di sorta, sono costituiti, ripetesi, com’è palese, da disposizioni specificamente precettive e immediatamente lesive, il che ne consentirebbe l’impugnazione diretta persino nel caso in cui se ne volesse individuare una natura regolamentare (Cons. Stato, Sez. V, 24 marzo 2014, n. 1448; cfr. anche C.d.S., Sez. VI, 27 dicembre 2010, n. 9406; 6 settembre 2010, n. 6463).

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c) Sulla dedotta inammissibilità del ricorso per carenza di effettivo interesse a ricorrere da parte dei ricorrenti. Secondo controparte, il ricorso introduttivo non avrebbe adeguatamente dimostrato l’interesse specifico dei ricorrenti e la concreta lesione dagli stessi subita.

Tale asserzione è priva di fondamento, dato che i ricorrenti si sono qualificati “cittadini e contribuenti italiani”, il che non viene contestato, e in quanto tali essi subiscono le medesime lesioni di diritti e interessi di qualsiasi altro cittadino, a parte lesioni più particolari, in conseguenza di atti precettivi che si atteggiano alla stregua di atti generali (sia pure invocanti forma regolamentare esteriore), e quindi incidenti sulle situazioni giuridiche soggettive di tutti i cittadini (e contribuenti), e quindi ivi compresi i ricorrenti.

Non si tratta, si badi, di farsi indebitamente esponenti di interessi diffusi, ma di proporsi per come si è, ovvero per portatori di veri e propri interessi individuali specifici e concreti, posto che i nuovi “ordinamenti di vita” hanno inciso su di loro non meno che su altri, conformando e modellando, in modo a nostro avviso illegittimo, la loro esistenza, dato che a quei provvedimenti i ricorrenti si sono attenuti, fino a prova contraria, in pregiudizio delle proprie libertà, esattamente in quanto costretti dalla forza cogente di quegli atti, sicché hanno sopportato tutte le restrizioni previste dai Decreti, nessuna esclusa.

Nondimeno, i ricorrenti sono portatori altresì di situazioni di interesse differenziate, che ne rinforzano la legittimazione a proporre ricorso: l’Avv. Nicosia, ad esempio, è affetto da diabete mellito, il che comporta la prescrizione di praticare molto moto per prevenire l’obesità, laddove ha dovuto rinunciare alle lunghe camminate (cfr. certificato allegato), alle quali era solito dedicarsi, e quindi è evidente il danno alla salute da lui subito in conseguenza dei limiti posti alla circolazione. L’Avv. Francesco Giunta, a sua volta, a causa delle statuizioni governative relative all’emergenza Covid, non ha potuto incontrare le figlie minori, attualmente presso i nonni materni, per un lungo periodo (cfr. provvedimento del Tribunale di Napoli allegato). Il Signor Antonio Quarta, a sua volta, ha subito un crollo psicologico in conseguenza della mancata partecipazione a un minimo di vita sociale, e lamenta altresì una forte contrazione dei suoi affari, dato il venir meno dei contatti col pubblico, nella sua attività di programmatore informatico.

A ciò si aggiunga che tra i ricorrenti si pone l’Associazione Diritto e Mercato, la cui posizione è qualificata dal suo statuto, questa volta sì a tutela di interessi collettivi, che non possono essere estromessi dal giudizio, stante il carattere, come detto, generale dei provvedimenti impugnati, i quali evidenziano l’attitudine a ledere tanto interessi individuali, quanto interessi collettivi e generali, posta la loro universalità.

E invero, così recita l’art. 2, c. 2 del richiamato statuto: “L’associazione si propone, inoltre, di tutelare i diritti e gli interessi dei soci, nella loro veste di cittadini e consumatori, nei confronti della Pubblica Amministrazione e dei fornitori di beni e servizi di interesse generale, attraverso l’attivazione di campagne di opinione, la partecipazione a procedimenti amministrativi e la proposizione di azioni giudiziali; a tal fine, l’associazione fornisce ai soci, entro i limiti stabiliti dalla vigente legislazione, la protezione richiesta, nonché attraverso l’opera di singoli professionisti garantisce assistenza e consulenza legale in materia amministrativa, civile, tributaria, contabile e finanziaria”: il che è esattamente quanto si verifica nella specie, posto che gli odierni ricorrenti persone fisiche sono tutti soci di “Diritto e Mercato”, e unitamente all’Associazione ricorrono; in particolare, dall’atto costitutivo allegato risulta il ruolo di socio fondatore e di presidente dell’associazione del ricorrente Avv. Nicosia, il quale ha agito anche indossando tali vesti formali.

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3. Infondatezza delle avversarie eccezioni di merito.

a) Sul nostro primo motivo di ricorso: strumento del DPCM, limitazione delle libertà costituzionali e difetto di motivazione tecnico-scientifica. Con il nostro primo motivo di ricorso (punto 2), al quale interamente ci riportiamo, abbiamo dedotto la violazione per elusione dell’art. 77 Cost. e dell’art. 32 della legge 833/1978 e dei limiti intrinseci all’ordinanza contingibile e urgente, con conseguente falsa applicazione della legge 400/1988, che comporta l’atipicità dell’istituto del DPCM, così come configurato dalla decretazione d’urgenza, che ha così introdotto “riforme di sistema” in elusione della Costituzione e della giurisprudenza della Corte Costituzionale. Sempre con il primo motivo, abbiamo dedotto il vizio di eccesso di potere legislativo per carenza di motivazione sotto i profili tecnico-scientifici delle scelte effettuate.

A tale proposito, va pur detto che, su questi punti, la replica avversaria, o tace, o è sviluppata allegando ragioni politiche, più che non ragioni strettamente giuridiche, giungendo addirittura ad ammettere che, nella specie, si sia finito con il “limitarealcune libertà dell’individuo tutelate dalla Costituzione, a detta di controparte “temporaneamente”, il che è confutato alla prova dei fatti, dato che sono passati dieci mesi e siamo ancora immersi nell’”emergenza” costituzionale, sicché siffatta temporaneità poi in realtà non si ravvisa affatto, essendosi l’emergenza cristallizzata e consolidata, come si è detto, in “nuova normalità.

E si noti come il fatto che il Costituente non abbia previsto alcuna tipologia di stato di eccezione, se non per lo stato di guerra (art. 78, ma sempre passando dal Parlamento!), non rappresenta un caso, ma una scelta deliberata, per evitare di ripercorrere le vicende infauste della Repubblica di Weimar, nel corso della quale dell’istituto ampiamente si abusò, finché a esso non fece ricorso il Cancelliere del Reich Adolf Hitler.

Controparte invoca, a tale proposito, l’avvenuta deliberazione, da parte del Governo, dello “stato di emergenza nazionale ai sensi del D.lgs n. 1/2018”, ma siffatta deliberazione è del tutto inidonea a innescare meccanismi “eccezionali” di sorta, dato che tutto quello che prevede, ai nostri fini, è l’adozione di ordinanze di protezione civile (art. 25), che si aggiungono a quelle del Ministro della Salute in base alla legge 833/1978, null’altro, quindi entro i dedotti limiti intrinseci alle ordinanze contingibili e urgenti, come fissati dalla Corte Costituzionale con le sentenze n. 8 del 1956, n. 26 del 1961, n. 100 e 201 del 1987 e n. 4 del 1997, da cui si evincono i connotati propri di tale tipologia di provvedimento, rappresentati da “efficacia limitata nel tempo in relazione ai dettami della necessità e dell’urgenza; adeguata motivazione; efficacia pubblicazione nei casi in cui non abbia carattere individuale; conformità ai principi dell’ordinamento giuridico” (cfr. Daniele Atanasio Sisca, Natura delle ordinanze di protezione civile e profili giurisdizionali controversi, in Salvisjuribus.it, 22 ottobre 2018).

Nella vicenda di cui ci occupiamo, viceversa, si è determinata subito una strana anomalia, che perdura, ossia il fatto di fondare l’adozione di atti di rango legislativo, i decreti-legge, su un atto di semplice rango amministrativo, che pretende di reggerli, ossia la deliberazione dello stato di emergenza in base al codice della protezione civile, il quale avrebbe determinato, secondo il governo e controparte, questa sorta di “grande spazio” giuridico, nel quale tutto sarebbe consentito, alternando atti di rango legislativo ad atti amministrativi, quasi fossero intercambiabili; il tutto, come possiamo constatare, ormai a tempo indeterminato, stante l’avvenuta proroga del detto “stato di emergenza”, che non esclude affatto nel futuro ulteriori proroghe, stanti le notizie che giungono a proposito dell’andamento mondiale e locale della pandemia, determinando la sempre più minuziosa regolazione e “procedimentalizzazione” delle condotte umane in via amministrativa, in omaggio a quello che un autorevole osservatore come il Prof. Massimo Cacciari ha pubblicamente definito “delirio normativistico”.

Per cui è vero che i decreti legge in oggetto possono vivere anche di vita propria, ma non può essere trascurato che essi scaturiscono, anche testualmente, da questa più ampia situazione, che ne determinerebbe poi di fatto l’”ordinarietà”, indipendentemente dall’effettiva sussistenza di ragioni specifiche di necessità e urgenza.

Tanto il governo tratta la decretazione d’urgenza da strumento ordinario, quale per Costituzione non è, da avere adottato, come si è dedotto in ricorso, questa, non consentita in un decreto-legge, “riforma  di sistema”, tale da snaturare i caratteri dell’istituto del DPCM; o, forse, per meglio dire, avere introdotto un nuovo istituto di “decretazione amministrativa d’urgenza”, più “libero”, nel sentire del governo, rispetto alle ordinanze contingibili e urgenti tradizionali, e avergli sviatamente assegnato il mero nomen di DPCM, determinando un uso atipico e anomalo dell’istituto, rispetto a quanto previsto dalla legge 400/1988, alla quale pure si afferma, esteriormente e di parvenza, di attenersi (si badi che, come si è già sottolineato in sede di ricorso, il fatto che i DD.LL siano stati convertiti in legge non è in grado di sanare tale radicale vizio sostanziale e di contenuto).

Il che risulta del resto confermato dalla stessa difesa avversaria, allorché attribuisce all’istituto del DPCM, così come ex novo conformato, il carattere della “rapidità”, quando noi di già disponevamo di un istituto “rapido”, ossia l’ordinanza contingibile e urgente, sicché la scelta di accantonarlo si spiega solo, come da noi dedotto in ricorso e qui ribadito, con l’esigenza di sottrarsi alle garanzie, che l’istituto dell’ordinanza contingibile e urgente comunque offre –ad esempio, l’ordinanza contingibile e urgente, oltre a dover essere congruamente motivata ed effettivamente temporanea, non può “limitare”, comunque non fino a tal punto penetrante e generalizzato, diritti costituzionali, data la necessaria conformità ai principi dell’ordinamento-, salvo che si tratta di un’”esigenza” censurabile, sviata e del tutto invalida dal punto di vista della nostra legalità.

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Non può sfuggire che la difesa avversaria nulla oppone alla nostra censura di eccesso di potere anche legislativo, dato che il vizio inficia gli stessi DD.LL, oltre che i DDPCM, sotto il profilo della totale carenza di motivazione scientifica, materia sulla quale torneremo, in ordine alle concrete scelte adottate, che vengono prese sulla base di una continua e tacita petizione di principio, ossia che esse fossero le uniche possibili e necessarie, senza controindicazioni, in assenza di alcuna valutazione di possibili alternative.

Né può integrare adeguato onere di motivazione il mero richiamo rituale e non argomentato ai verbali del Comitato Tecnico Scientifico, posto poi che nemmeno questi forniscono lumi significativi da quel punto di vista. A tale proposito, proponiamo due considerazioni:

a) I membri del CTS, consapevoli della loro condizione precaria e oggettivamente, ossia non per responsabilità loro, inadeguata, sono giunti addirittura a richiedere una sorta di scudo penale a propria tutela: “Il CTS ravvisa l’esigenza di una norma giuridica che salvaguardi l’operato dei membri del comitato medesimo nell’esercizio delle proprie funzioni nelle condizioni di estrema urgenza ed incertezza tecnico-scientifica con cui sono tenuti a opera, anche per i pareri tecnici che vengono richiesti” (Verbale n. 23 del 10 marzo 2020);

b) Non risponde a verità che il governo si sia rigorosamente e sistematicamente attenuto alle indicazioni del CTS; un esempio di grande rilevanza è fornito dal Verbale n. 21 del 7 marzo 2020, nel quale il CTS si esprimeva per un regime differenziato, con misure “più rigorose” in Regione Lombardia e nelle Province di Parma, Piacenza, Rimini, Reggio Emilia e Modena, Pesaro Urbino, Venezia, Padova, Treviso, Alessandria e Asti, e altre misure più tenui per il resto del territorio nazionale: in altri termini, il CTS non si era dimostrato favorevole a un lockdown nazionale, dal che le misure governative si sono discostate; e ciò in teoria legittimamente, salvo però che tale discostamento non è stato sostenuto da alcuna motivazione, né di tipo scientifico, dato che non viene adombrato alcun ragionamento di tal genere, né portato alcun dato specifico; sicché deve ritenersi che si sia trattato di ragioni squisitamente politiche e partitiche, che però impongono misure- manifesto di carattere simbolico-espressivo di acquietamento dell’opinione pubblica, più che non scelte tecnicamente adeguate; il che però è sintomo di illegittimità in un simile contesto, nel quale l’obiettivo dichiarato è uno solo, ed è combattere, nel rispetto dei principi di proporzionalità e adeguatezza, la pandemia: il che conferma il dedotto vizio di difetto di motivazione sotto il profilo tecnico-scientifico delle scelte operate.

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Che il lockdown nazionale abbia rappresentato una scelta simbolico-espressiva, e non fondata su considerazioni, del resto non esplicitate dai provvedimenti impugnati, squisitamente scientifiche, è tesi fortemente corroborata dall’intervista rilasciata al quotidiano “La Verità” in data 15 novembre 2020 dal Prof. Roberto Bernabei, geriatra di grande prestigio e, si badi bene, membro del CTS, significativamente intitolata Il lockdown fa più danni del coronavirus, nel corso della quale l’autorevole docente spiega tutte le controindicazioni e i danni “collaterali” alla salute di una simile misura, danni tanto di carattere fisico, quanto psicologico, e tanto più per i più fragili, a tacere evidentemente dei danni all’economia nazionale, che pure avrebbero dovuto essere a loro volta ponderati in sede di adozione dei provvedimenti impugnati: in altri termini, la rivendicata tutela del diritto alla salute è andata a discapito dello stesso diritto alla salute sotto altri profili, in assenza di alcuna comparazione tra i due prevedibili eventi.

Del resto, il che assume un chiaro valore confessorio, sullo stesso sito del Ministero della Salute può leggersi quanto segue a proposito delle conseguenze del lockdown: “Conseguenze psicologiche - L’isolamento a casa durante l’emergenza da nuovo coronavirus ha causato l’insorgenza di problematiche comportamentali e sintomi di regressione nel 65% di bambini di età minore di 6 anni e nel 71% di quelli di età maggiore di 6 anni (fino a 18). È quanto emerge da un’indagine sull’impatto psicologico e comportamentale del lockdown nei bambini e negli adolescenti in Italia, condotta dall’ospedale pediatrico Gaslini di Genova. Tra i disturbi più frequentemente evidenziati vi sono: l’aumento dell’irritabilità, disturbi del sonno e disturbi d’ansia(cfr. salute.gov.it).

La conseguenza paradossale è che l’interesse della collettività alla salute, di cui all’art. 32 Cost., finisce non solo con il prevalere sul diritto individuale alla salute, di cui alla stessa norma, e non è possibile che un interesse prevalga su di un diritto; ma con l’andare in concreto danno di quel diritto individuale con effettivi e riscontrabili danni alla salute di concrete persone reali, in assenza di alcuna presa in considerazione di tale elemento da parte dei provvedimenti impugnati.

E altrettanto vale per gli adulti, se, come già deducemmo in sede di ricorso, a seguito del lockdown si sono registrati aumenti dei tentativi di suicidi, aumento delle crisi psichiatriche e dei trattamenti sanitari obbligatori e delle violenze domestiche, ma si tratta di dati notori, in quanto notizie ripetutamente riportate dalla stampa (cfr. comunque i riferimento contenuti in sede di ricorso).

Di tutto ciò torneremo a parlare, allorché si tratterà di discutere di come è in nome di simili misure con siffatte conseguenze -misure dalle quali è totalmente assente una qualsiasi ponderazione dei costi e dei benefici, anche dallo stesso punto di vista sanitario- che si è ritenuto di comprimere diritti di rango costituzionale, in nome di una pretesa dominanza del “diritto alla salute”, come se il diritto alla salute bastasse enunciarlo in una petizione di principio, e non andasse tutelato effettivamente e non solo assertivamente con misure davvero adeguate allo scopo e rispettose del principio di proporzionalità.

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b) Sul secondo e terzo motivo di ricorso: lesione delle “libertà fondamentali” (artt. 13, 16, 17, 19 e 21 Cost.) e rapporto con l’art. 32 Cost. Seguendo la traccia di controparte, trattiamo insieme il secondo e il terzo motivo di ricorso. Con il secondo motivo, abbiamo dedotto la lesione di varie disposizioni di rango costituzionale, afferenti la libertà personale (art. 13), la libertà di circolazione (art. 16), la libertà di riunione (art. 17) e di manifestazione pubblica del pensiero (art. 21), nonché la libertà di culto (art. 19). Con il terzo motivo, abbiamo dedotto che l’ipotetica invocazione dell’art. 32 sull’interesse della collettività alla salute, ammesso e non concesso che una siffatta ponderazione fosse consentita, andasse quantomeno bilanciata con rigore con le predette libertà costituzionali, bilanciamento che è totalmente omesso dai provvedimenti oggetto di ricorso.

Come si è già accennato, i DDPCM impugnati, rispetto a una classica ordinanza contingibile e urgente, comportano una compressione pervasiva, penetrante e orizzontalmente estesa di diritti protetti a livello costituzionale, il che rappresenta una non pregevole novità nel nostro ordinamento, ad esempio rispetto allo stesso antico art. 2 del TULPS, il quale pure fu ampiamente corretto dalla Corte Costituzionale.

A tale proposito, la dottrina, che meglio si è occupata in tempi recenti dello scottante tema del lockdown, ha colto con precisione la portata innovativa, ovviamente in termini negativi, di tale determinazione, nei termini che seguono, che meritano di essere ampiamente riportati: “…il lockdown non soltanto è un provvedimento non tipizzato ma addirittura incide su una libertà non tipizzata. Non inficia invero solo una parziale seppur fondamentale libertà, quale quella di riunione, di impresa, di culto od altre ancora. E neanche è identificabile con la libertà di movimento o di circolazione; dato che questa pure è una libertà parziale, consistente nella libertà di spostarsi liberamente all’interno di un territorio e la cui ‘limitazione’ significa appunto inibire un ‘qualche’ accesso o spostamento. Le inficia tutte insieme. In modo radicale. Si impone alle persone di stare chiuse dentro casa salvo i pochi motivi per cui è permesso uscire. Una disposizione così penetrante ha decisa influenza sulla libertà individuale tout-court, nella sua eccezione più generale, ed è quindi molto più assimilabile ad una violazione della libertà personale, la principale di tutte le libertà” (Giandomenico Barcellona, Lockdown e misure sanitarie emergenziali di sanità pubblica: la tutela dei diritti fondamentali nella global health law, in Dir. San. Mod., 3/2020, 95).

L’Autore individua quindi nel lockdown un vero e proprio provvedimento autonomo di portata generale, da valutarsi unitariamente, e non segmentandolo nelle sue specifiche disposizioni particolari, dato che la “libertà” su cui impatta, quella “non tipizzata”, è esattamente la libertà in senso filosofico nel senso più ampio, autentica Grundnorm di uno Stato costituzionale di diritto: salvo però che, proprio per tale ragione, si tratta di provvedimento ignoto all’ordinamento, e quindi atipico, dunque illegittimo nel nostro sistema, proprio per il suo carattere onnipervasivo non consentito, non consentito ad esempio nemmeno a un’ordinanza contingibile e urgente, come si è ripetuto, che è un provvedimento atipico nei casi particolari, ma tipicizzato nella sua dimensione generale, e sempre circoscritto negli effetti, nel tempo, nello spazio, nei destinatari; laddove all’atipicità formale dello strumento del DPCM, così come innovativamente configurato, corrisponde anche un’atipicità sostanziale e materiale con riferimento al suo inverarsi nella fattispecie (atipica) del lockdown generalizzato in lesione di svariati interessi primari di rango costituzionale, fino a colpire la “libertà” nella sua totalità.

Invero, controparte stessa riconosce ancora, e ripetutamente, a nostro avviso in termini confessori, che i provvedimenti impugnati vanno “a scapito” di diritti costituzionalmente tutelati, con effetto “restrittore” di libertà costituzionali e con “contrazionedelle medesime. Il leit motiv della difesa avversaria è però che tutto ciò sarebbe consentito da un supposto prevalere dell’art. 32 Cost. su ogni altra previsione costituzionale relativa a diritti e libertà, stante una pretesa “tutela rafforzata al diritto alla salute, nella sua dimensione sovraindividuale”.

Rileviamo anzitutto che, in tal caso, posto che ci troviamo in un giudizio sull’atto e non sul rapporto, e di certo non di fronte a provvedimenti vincolati, ci troviamo innanzi a un’ipotesi non consentita di integrazione successiva e in sede giudiziale della motivazione degli atti, dato che i provvedimenti impugnati non mostrano alcuna effettiva originaria attività di ponderazione nel senso indicato da controparte, non risulta proposta alcuna argomentazione, idonea a supportare la tesi, per la quale, in linea di principio, l’art. 32 Cost., così inteso –interpretazione che contestiamo- sarebbe in grado di proporsi come norma assolutamente prevalente nell’ambito del contesto costituzionale, al punto di potere sacrificare ogni diritto di libertà, il che non può essere accettato, proprio alla luce di tale delicata e gravissima conseguenza; in altri termini, non può essere accettato che i provvedimenti impugnati abbiano, per così dire, data per scontata questa interpretazione, senza né prospettarla, né tampoco persuasivamente argomentarla, visto che i DDPCM impugnati non presentano alcun ragionamento, nemmeno in abbozzo, che persuasivamente illustri le ragioni di questa “prevalenza”, né, di conseguenza, si ravvisa negli atti alcun bilanciamento degli interessi e dei diritti costituzionalmente rilevanti coinvolti e pregiudicati.

Sicché vale anche nella specie il principio recetto, per il quale “nel processo amministrativo l’integrazione in sede giudiziale della motivazione dell’atto amministrativo è ammissibile soltanto se effettuata mediante gli atti del procedimento ‒ nella misura in cui i documenti dell’istruttoria offrano elementi sufficienti ed univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni della determinazione assunta ‒ oppure per mezzo dell’emanazione di un autonomo provvedimento di convalida (art. 21-nonies, secondo comma, della legge n. 241 del 1990). È viceversa inammissibile l’integrazione postuma operata in sede di giudizio, mediante atti processuali, o comunque scritti difensivi. La motivazione costituisce infatti il contenuto infungibile della decisione amministrativa, anche in ipotesi di attività vincolata e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non invalidanti” (Cons. Stato, sez. VI, 11 maggio 2018 n. 2843; Consiglio di Stato, sezione III, 7 aprile 2014, n. 1629; Corte Costituzionale, ordinanza n. 92 del 2015).

Quanto alla rilevanza degli atti istruttori, va sottolineato come Nemmeno i verbali del CTS valgano, come è agevole rilevare, all’uopo, dato che essi non trattano mai del rilevante aspetto giuridico indicato, ossia il rapporto tra diritto, o interesse della collettività, alla salute ai sensi dell’art. 32 Cost. e diritti di libertà, evidentemente, dato che non si tratta di materia di competenza di un comitato tecnico e scientifico, e quindi non si vi si ravvisa alcuna traccia, che possa valere nel senso argomentato da controparte.

Per altro verso, la difesa avversaria richiama la stessa sentenza della Corte Costituzionale da noi indicata in sede di ricorso, n. 85 del 2013 sul caso ILVA, la quale, nel passo stesso citato ex adverso, afferma l’esatto contrario di quanto controparte vorrebbe farle dire, dato che sottolinea come i “valori dell’ambiente e della salute” non siano affatto posti “alla sommità di un ordine gerarchico assoluto”: e si badi che, in quel caso, la Corte nemmeno si occupava di rapportare il diritto alla salute ai diritti di libertà, ma semmai ai diritti della produzione e del lavoro, tutti postergati rispetto ai primari diritti di libertà, che sicuramente prevalgono in un ordinamento lessicografico; vale a dire che questi assumono carattere preclusivo, pena il trasformare la nostra Costituzione rigida in una Costituzione flessibile, in uno Statuto Albertino, che, come la Storia ha dimostrato è facilmente aggredibile ed eludibile da parte di aspirazioni dittatoriali e totalitarie.

Non v’è traccia, dunque, di “una tutela rafforzata al diritto alla salute”, come afferma controparte, nella Costituzione, nemmeno inteso come lesione diretta alla salute (cfr. l’appena citata pronuncia della Corte Costituzionale), quando qui ci troviamo poi in un campo del tutto diverso, dato che si tratta piuttosto di una sorta di dovere alla salute, non presente in Costituzione, in nome di un supposto principio di precauzione, finalizzato a una tutela alla salute altrui del tutto aleatorio, come meglio si vedrà innanzi. Del resto, in tempi più sereni e non sospetti, un costituzionalista come Alessandro Pace così poteva esprimersi: “Va subito affermato che non sembra che l’art. 13 possa cedere all’art. 32; pertanto tutte le restrizioni coattive per motivi di sanità devono di necessità seguire la via giurisdizionale prevista da quell’articolo” (Alessandro Pace, Libertà personale (dir. cost.), Enciclopedia del Diritto, vol. XXIV, Milano, Giuffrè, 1974, 298). Ed ancora: “D’altro canto mai potrebbe, dall’autorità pubblica, essere invocato l’art. 32 Cost. per derogare, per motivi di salute, alla portata e alle garanzie dell’art. 13” (296).

Sicché, l’idea che in nome della tutela della salute tutto sia possibile e lecito da parte dell’autorità rappresenta una non commendevole novità (se vogliamo, anche tenendo conto della collocazione lessicografica delle due norme in Costituzione); e francamente di sapore eversivo, dato che se oggi può essere invocata la “salute” per ribaltare le libertà costituzionali, un domani si potrà invocare qualche altro “valore” in nome di una qualche nuova “emergenza” in altri settori: ad esempio l’”ambiente”, l’”ordine pubblico”, la crisi economica e occupazionale, o, più verosimilmente, come del resto paventato dalla Ministra Lamorgese, l’ordine pubblico messo a repentaglio dalla crisi economica e occupazionale.

L’art. 13, quindi, prevede una chiara riserva di giurisdizione, dimodoché, non solo nessun provvedimento amministrativo, ma nemmeno alcuna legge può scalfire la libertà personale, così come protetta da quell’articolo, imponendo la norma che sia sempre un provvedimento del giudice a limitarla, ovviamente sulla base di una qualche puntuale previsione di legge.

Soccorre a tale proposito la pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo  25 gennaio 2005, application no. 56529/00, sulla portata dell'articolo 5, comma 1, lettera e), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali - CEDU. L’articolo 5, sul “Diritto alla libertà e alla sicurezza”, prevede al comma 1 che “Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza” e che “Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge” tra cui, secondo la lettera e), rientra “la detenzione regolare di una persona suscettibile di propagare una malattia contagiosa -si noti che nel nostro caso la limitazione di libertà colpisce anche i non infetti, che però vengono trattati tutti da potenziali untori (n.d.a.)-, di un alienato, di un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo”.

Naturalmente stiamo presupponendo che lo “stare in casa” imposto dal lockdown sia rapportabile a una qualche forma di detenzione domiciliare, e che comunque si tratti di una forma di privazione di libertà personale (cfr. infra, lett. c), che, come si è esposto in ricorso, avviene sulla base di presupposti troppo indeterminati e non sufficientemente specifici nelle statuizioni, quindi non in conformità al principio di legalità e di certezza del diritto.

La Corte ha a tale proposito evidenziato che “per quanto riguarda la privazione della libertà, è particolarmente importante che sia soddisfatto il principio generale della certezza del diritto. È quindi essenziale che le condizioni per la privazione della libertà ai sensi del diritto interno siano chiaramente definite e che la legge stessa sia prevedibile nella sua applicazione, in modo che soddisfi lo standard di “legalità” stabilito dalla Convenzione, uno standard che richiede che tutta la legge sia sufficientemente accessibile e precisa per consentire alla persona - se necessario con un consiglio appropriato - di prevedere, in misura ragionevole date le circostanze, le conseguenze che una determinata azione può comportare”.

Fatta tale precisazione, la Corte ha poi osservato che, entrando nel caso specifico “La detenzione di una persona è una misura talmente grave che è giustificata solo quando sono state prese in considerazione altre misure meno severe e ritenute insufficienti per salvaguardare la persona o l’interesse pubblico che potrebbero richiedere la detenzione della persona interessata. Ciò significa che non è sufficiente che la privazione della libertà sia conforme al diritto nazionale, ma deve anche essere necessaria nelle circostanze” dovendo la detenzione essere sia esente da arbitrarietà ma al contempo anche “conforme al principio di proporzionalità”.

I provvedimenti impugnati, viceversa, sono, come si è dedotto in ricorso, del tutto carenti di motivazione sotto il profilo della necessità e indispensabilità delle scelte adottate, e quindi si sottraggono all’onere di valutare le alternative, e di verificare se non ve ne siano di più proporzionate.

In assenza di tale ponderazione, nemmeno vale il richiamo di controparte all’art. 15 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo, che ammette in casi estremi di derogare, ad alcune condizioni, agli obblighi dalla stessa previsti, dato che nemmeno è davvero dimostrata la necessità di derogarvi.

Ciò premesso, è appena il caso di sottolineare che il nostro governo non ha ottemperato alla previsione di cui al terzo comma dell’art. 15, che è condizione essenziale preliminare per attivare la procedura; e infatti tale c. 3 prescrive quanto segue: “Ogni Alta Parte contraente che eserciti tale diritto di deroga tiene informato nel modo più completo il Segretario generale del Consiglio d’Europa sulle misure prese e sui motivi che le hanno determinate. Deve ugualmente informare il Segretario generale del Consiglio d’Europa della data in cui queste misure cessano d’essere in vigore e in cui le disposizioni della Convenzione riacquistano piena applicazione. Il che mostra come il Governo non abbia nemmeno inteso formalizzare nei propri atti, da qui il dedotto vizio di omessa ponderazione, il conflitto tra libertà e salute, del quale “giuridicamente” non sembra nemmeno consapevole, tant’è che abbisogna delle integrazioni successive della motivazione di controparte!

E in effetti, l’assenza di una tale notifica è stata di recente ufficializzata, come si evince dal comunicato stampa in data 17 ottobre 2020 dell'Osservatorio permanente sulla Legalità Costituzionale: “Il Consiglio d’Europa riconosce l’omissione dello Stato italiano . L’Ufficio del Segretario generale del Consiglio d’Europa ha riscontrato in tempi rapidissimi l’esposto dell'Osservatorio permanente sulla Legalità Costituzionale, riconoscendo che lo Stato Italiano ha omesso di segnalare al Segretario Generale del Consiglio d’Europa la sospensione di diritti fondamentali, come richiesto dall’art. 15 CEDU. L’Ufficio del segretario Generale ha altresì indicato che le conseguenze di tale violazione sono "la piena vigenza della CEDU in territorio Italiano", che non è quindi in alcun modo sospesa, e che tutti i cittadini italiani possono, dunque, rivolgersi alla Corte Europea di Strasburgo per tutelare i propri diritti violati. Fra questi, il diritto alla libertà personale, di recarsi sul posto di lavoro, di frequentare le scuole di ogni ordine e grado, di aver utilizzato procedure come i Dpcm con gravi violazione della Costituzione, di aver alimentato e tollerato un clima di terrore mediatico che ha influito profondamente sulle possibilità economiche e sull’equilibrio psicofisico di ogni persona, con grave “danno esistenziale” che perdura a tutt’oggi.

Ora, se non risulta sospesa la CEDU, che è formata da disposizioni che la Corte Costituzionale ha qualificato come “norme interposte (sent. n. 348/2007), ossia di rango superiore alla legge ordinaria, ma subordinate alla Costituzione, a fortiori non possono ritenersi sospese le libertà fondamentali così come conformate e protette in Costituzione, ossia a un livello superiore rispetto a come protette dalla Convenzione europea.

Controparte invoca però altresì –è appena il caso di ribadire che siffatte argomentazioni non si rinvengono nei provvedimenti impugnati, sicché non ne determinano la convalida a posteriori, e la discussione avviene per mero scrupolo difensivo- l’art. 4 del Patto dei diritti civili e politici dell’ONU, in base al quale, “In caso di pericolo pubblico eccezionale, che minacci l’esistenza della nazione e venga proclamato con atto ufficiale, gli Stati parti del presente Patto possono prendere misure le quali deroghino agli obblighi imposti dal presente Patto, nei limiti in cui la situazione strettamente lo esiga, e purché tali misure non siano incompatibili con gli altri obblighi imposti agli Stati medesimi dal diritto internazionale e non comportino una discriminazione fondata unicamente sulla razza, sul colore, sul sesso, sulla lingua, sulla religione o sull’origine sociale”.

Opponiamo al riguardo le seguenti considerazioni.

1 Il governo non ha mai inteso applicare tale disposizione, per cui siamo sempre nell’ambito dell’integrazione della motivazione a posteriori, il che tanto più non è consentito in una materia tanto grave e delicata, con la conseguenza che se il governo avesse voluto applicare l’art. 4, cit.,  avrebbe dovuto farlo espressamente. Non ha richiamato l’art. 4 in sede di proclamazione dello stato di emergenza, che è una mera applicazione del codice della protezione civile, né in sede di decreti-legge, né in occasione, tanto meno, dell’adozione dei DDPCM: non esiste dunque alcun “atto ufficiale” in tal senso, come la norma prescrive.

2. In ogni caso, siamo sempre nell’ambito delle norme interposte, dato che l’esenzione dal Patto non comporta ancora esenzione dalla Costituzione, dato che la Corte Costituzionale, con la citata sentenza n. 348/2007, ha qualificato “interposte” tutte le norme internazionali pattizie, che quindi vanno intese come subordinate alla Costituzione.

3. In termini sostanziali, sarebbe eccessivamente retorico affermare che, nella presente vicenda, sarebbe “minacciata” l’esistenza stessa dalla Nazione (!), dal che si ricava che l’art. 4, cit., si applica ad altre e ben più gravi fattispecie. Se così non fosse, infatti, dovremmo ritenere che l’esistenza della Nazione sia minacciata altresì dal traffico automobilistico, dato che le probabilità di contrarre il coronavirus sono grosso modo equivalenti a quelle di essere coinvolti in un incidente automobilistico (cfr. Riccardo Cesari, dell’Università di Bologna e Consigliere Ivass, Covid, quante probabilità abbiamo davvero di ammalarci?, in Corriere della Sera, 21 ottobre 2020).

4. Sul piano procedurale, un simile “atto ufficiale” come previsto dall’art. 4, cit., con tutte le gravissime conseguenze che comporta, di certo non potrebbe essere rappresentato da un atto amministrativo, come la nostra debole dichiarazione di stato di emergenza, prevista dal codice della protezione civile, ma dovrebbe comunque essere rappresentata da un atto di rango quantomeno legislativo, ovviamente insussistente nella specie, ferma restando altresì la riserva di giurisdizione (cfr. Giandomenico Barcellona, Lockdown e misure emergenziali, cit., 95, ove si richiamano anche gli artt. 5 e 10 dello stesso Patto).

In definitiva, nella specie lo Stato di diritto nella Repubblica Italiana non è stato formalmente sospeso, né, in assenza di stato di guerra, potrebbe esserlo; tuttavia esso risulta fortemente minacciato dalla situazione, sulla quale stiamo controvertendo: conferma si trae dalla recente “Risoluzione del Parlamento europeo del 13 novembre 2020 sull'impatto delle misure connesse alla COVID-19 sulla democrazia, sullo Stato di diritto e sui diritti fondamentali”, la quale ha evidenziato i forti rischi di abuso di potere, connessi alla gestione dell’emergenza nei Paesi europei, invocando altresì un maggiore collegamento tra governi e parlamenti, il che è stato recepito dagli organi di stampa come monito allo stesso governo italiano e all’abuso da parte sua dello strumento anomalo del DPCM.

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c) (segue) A proposito della violazione dell’art. 13 Cost., così come ex adverso negata, e sulle altre libertà violate. La difesa avversaria afferma che, nella specie, vale a dire attraverso l’obbligo di “stare a casa”, salvo poche eccezioni, previsto dal lockdown, non si produrrebbe alcuna violazione dell’art. 13 Cost., “atteso che la libertà personale in esso prevista si tradu(rrebbe) nella libertà dagli arresti arbitrari e comunque nella pretesa di evitare indebite coercizioni sul proprio corpo. In sostanza, considerato che l’art. 13 riguarderebbe lo ‘stato di libertà fisica’, nella relativa disciplina dovrebbero ricadere le sole coercizioni fisiche, le quali di certo non sono state introdotte dalla normativa in rassegna

L’obiezione è infondata sia in fatto, sia in diritto.

Dal punto di vista fattuale ed empirico, infatti, è immediata conseguenza delle disposizioni impugnate che la persona, la quale violi il lockdown, uscendo di casa fuori dai casi “consentiti” (abbiamo rilevato in sede di ricorso come sia stravagante, e soprattutto contraria al principio di legalità, una tale modalità, per la quale non si stabilisce ciò che è tassativamente vietato, ma ciò che è graziosamente consentito dal legislatore governo), venga avvicinata, fermata e sanzionata dalle forze di polizia, di modo che il momento coercitivo “sul corpo” in verità sussiste, dato che la persona viene perentoriamente invitata, dopo essere stata multata, a tornare al domicilio. E ciò a tacere dell’esecuzione forzata per il caso di mancato pagamento della sanzione, la quale è a sua volta un intervento fisicamente coercitivo.

Più in generale e più profondamente, la visione giuridica che controparte esprime del concetto di “libertà personale” è eccessivamente riduttiva, e da questo punto di vista erronea, dato che dalla stessa emergerebbe che, in assenza di catene ai polsi, o di vero e proprio prelievo fisico persistente, non si darebbero questioni di libertà personale.

Vediamo al riguardo che cosa ha affermato il Giudice di Pace di Frosinone, con sentenza 516/2020, 15-29 luglio 2020, confidando che la citazione di un tale Magistrato della Repubblica non appaia una deminutio capitis in questa Alta Sede.

Riferendosi alla previsione principale, dal punto di vista che ci occupa, del lockdown, il Giudice scrive: “Tale disposizione, stabilendo un divieto generale ed assoluto di spostamento al di fuori della propria abitazione, con limitate e specifiche eccezioni, configura un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare. Tuttavia, nel nostro ordinamento giuridico penalistico, l’obbligo di permanenza domiciliare è già noto e consiste in una sanzione penale restrittiva della libertà personale che viene irrogata dal Giudice di Pace per alcuni reati. Sicuramente nella giurisprudenza è indiscusso che l’obbligo di permanenza domiciliare costituisca una misura restrittiva della libertà personale… Infatti l’art. 13 Cost. stabilisce che le misure restrittive della libertà personale possono essere adottate solo dall’autorità giudiziaria. Pertanto, neppure una legge potrebbe prevedere nel nostro ordinamento l’obbligo della permanenza domiciliare, direttamente irrogato a tutti i cittadini dal legislatore, anziché dall’autorità giudiziaria con atto motivato, senza violare l’art. 13 Cost… Infine, non può neppure condividersi l’estremo tentativo dei sostenitori, ad ogni costo, della conformità a Costituzione dell’obbligo di permanenza domiciliare sulla base della considerazione che il DPCM sarebbe conforme a Costituzione, in quanto prevederebbe delle legittime limitazioni della libertà di circolazione ex art. 16 Cost. e non della libertà personale.

Infatti, come ha chiarito la Corte Costituzionale, la libertà di circolazione riguarda i limiti di accesso a determinati luoghi, come ad esempio l’affermato divieto di accedere ad alcune zone, circoscritte, che sarebbero infette, ma giammai può comportare un obbligo di permanenza domiciliare (Corte Cost., n. 68 del 1964). In sostanza la libertà di circolazione non può essere confusa con la libertà personale: i limiti della libertà di circolazione attengono a luoghi specifici, il cui accesso può essere precluso, perché, ad esempio, pericolosi; quando invece il divieto di spostamento non riguarda i luoghi, ma le persone, allora la limitazione si configura come limitazione della libertà personale

Noi, in sede di ricorso, avevamo sostenuto qualcosa di simile in modo diverso, che a nostro avviso continua ad avere valore, ossia che, oltre una certa soglia, la limitazione della libertà di circolazione trasmuta in limitazione della libertà personale, perché impedire anche il semplice “attraversare la strada”, o di fare il giro del palazzo, riguarda una circolazione talmente minimale, rispetto allo spostarsi di città in città, di regione in regione, di Paese in Paese, da volgere immediatamente in limitazione della libertà personale; del resto, anche il soggetto ad arresti domiciliari può ottenere permessi, ed entro certi limiti può spontaneamente uscire di casa, e nonostante questo nessuno nega che a essere limitata la sua libertà personale, pure se può attraversare il parco e arrivare al cancello in assenza di vincoli sul corpo (Cass. n. 22118 del 10 dicembre 2015); oltre, evidentemente, a essere limitata la sua libertà di circolazione, che ne rappresenta una manifestazione ulteriore, tale però da presentarsi come un diritto autonomo.

Conferma si trae altresì dall’istituto della libertà vigilata, con divieto di recarsi in alcuni luoghi, che è pacificamente limitazione di libertà personale, oltre che entro certi limiti di libertà di circolazione, tant’è vero che è soggetta a riserva di giurisdizione, oltre che di legge; orbene, nella permanenza domiciliare del lockdown vi sono molti più limiti al movimento della persona di quanto non ve ne siano abitualmente in una libertà vigilata o in un obbligo di firma, che invece sono appunto soggetti a riserva di giurisdizione, sicché si tratta nel nostro caso limitazione vera e propria della libertà personale ex art. 13 Cost., e non solo di libertà di circolazione ex art. 16 Cost.

Se poi noi guardiamo alla giurisprudenza estera, ma sempre di Paesi appartenenti all’Unione Europea, noi constatiamo che “Il Tar di Strasburgo ha bocciato il decreto del prefetto che impone di indossare 24 ore su 24 la mascherina all'aperto e le impone di riscriverlo "entro lunedì" ma evidenziando reali necessità per densità di folla durante certe fasce orarie o in certi comuni o quartieri. Il provvedimento deve essere “rimodulato” e differenziato, in quanto - afferma il TAR - quello generalizzato (mascherine sempre e ovunque per tutti) èuna grave violazione della libertà personale e di circolazione” (Cf. ANSA, Parigi, 3 settembre 2020).

Sicché anche il mero obbligo di indossare dispositivi di protezione personale viene ricondotto da questo orientamento alla categoria della (grave) violazione della libertà personale, oltre che, addirittura, di circolazione; figurarsi allora un obbligo di restare continuamente alla propria residenza o domicilio, salvo alcune prestabilite eccezioni, in cui ciò viene “consentito”.

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Sulla violazione dell’art. 16 Cost. A proposito della lesione procurata alla libertà di circolazione, controparte insiste sul carattere di “temporaneità” dei provvedimenti, carattere che però sappiamo essere smentito dai fatti e illusorio, oltre che riproposto nelle forme più gravi proprio nei giorni in cui scriviamo, dopo che ai “coprifuoco” è succeduta la costituzione di zone “gialle”, “arancioni” e “rosse”, per non parlare di prospettive di ulteriori restrizioni, sicché invochiamo anche a tale proposito l’efficacia conformativa pro futuro di un’eventuale decisione favorevole. Quanto alla riserva di legge rinforzata, prevista dall’art. 16, ci riportiamo interamente al ricorso.

Sulla violazione dell’art. 19 Cost. Controparte afferma che a essere colpita dagli interventi governativi non sarebbe stata l’”esperienza religiosa”, ma solo “quella collettiva”. Ovviamente è proprio quella collettiva che viene in rilievo, tutelata a sua volta dall’art. 19, dato che quella individuale non è “per natura” comprimibile. Si sarebbero potuto fin da subito prevedere modalità precauzionali, che non giungessero al punto di puramente e semplicemente vietare le “forme assembleari”, prevedendo il distanziamento, come è pur avvenuto in un secondo momento. La messa “senza partecipazione del popolo”, come afferma la nota richiamata da controparte, non ha alcun senso, dato che l’essenza dell’esperienza ecclesiale consiste esattamente nella partecipazione della comunità, la quale, ripetesi, avrebbe potuto essere prevista con gli opportuni accorgimenti, come pure successivamente è avvenuto.

Sulla violazione dell’art. 17 (e 21). Salvo che non ci sia sfuggito, su questo punto la difesa avversaria quasi nulla dice, se non richiamare la facoltà di divieto, prevista dall’art. 17 Cost., per “comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica”. Sicché sul punto ci è sufficiente riportarci al ricorso, ove si spiega che la Costituzione prevede la possibilità di siffatte limitazioni solo caso per caso e non in via generale. Controparte non risponde però alla nostra domanda: avrebbero potuto i cittadini manifestare liberamente contro i provvedimenti che vietavano loro di manifestare liberamente? Ossia manifestare liberamente il proprio pensiero in pubblico e in forma collettiva (art. 21)? Perché in ciò sarebbe consistita l’essenza della democrazia.

Infine, sia consentito di stigmatizzare ancora come un punto così fondamentale del principio liberal-democratico sia stato colpito senza nemmeno nominarlo, ossia, sviatamente, in modo ipocritamente indiretto attraverso il divieto di “assembramento”.

Sulla lesione della libertà sessuale. Proprio la risposta di controparte mostra come la nostra prospettazione sia stata tutt’altro che “infondata e pretestuosa”, dato che viene confermato che, in base al DPCM 26 aprile 2020, il cittadino avrebbe inopinatamente potuto intrattenere relazioni personali solo con alcune categorie di persone, arbitrariamente indicate dal provvedimento, laddove nemmeno è detto che alcuni siano dotati di coniuge, di unito civilmente, o coinvolto in relazioni durature (naturalmente in questo caso il fatto che si potessero incontrare i parenti è irrilevante), sicché fuori di questo gli sarebbe stata effettivamente preclusa qualsiasi attività sessuale, in omaggio a una concezione molto grossolana dell’eticità dello Stato, al quale spetti di decidere con chi il cittadino debba intrattenere relazioni umane. Sulle altre questioni connesse a questo motivo, ci riportiamo interamente al nostro ricorso per motivi aggiunti.

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d) (segue) Sul principio di precauzione ex adverso invocato e ancora sull’omessa ponderazione di interessi anche dallo stesso punto di vista sanitario e sull’assenza di congrua motivazione. È importante a questo punto replicare alle affermazioni, contenute nella difesa avversaria, a proposito del principio di precauzione, che rappresenterebbe il fondamento gnoseologico della presunta prevalenza del “diritto alla salute” su ogni e qualsiasi diritto di libertà, realizzando il paradosso che per realizzare un così concepito diritto alla salute occorre imporlo; ma imporre a qualcuno un diritto mostra ancora che non si tratta di un diritto (alla salute), ma di un dovere (alla salute), che in Costituzione non esiste, non potendosi seriamente contrapporre il diritto individuale alla salute all’interesse della collettività alla salute, come se la collettività fosse un’astrazione non composta da individui, per cui l’interesse dell’astrazione dovrebbe prevalere sul diritto delle persone concrete e reali, con l’assurdo che un “interesse” dominerebbe un “diritto”, trasformando questo in un’imposizione illiberale.

Si consideri infatti, che, in base al ragionamento avversario, il peggiore totalitarismo, ma con un servizio sanitario efficiente, sarebbe preferibile, si badi, secondo controparte in base ai principi del nostro stesso ordinamento, a un sistema liberal-democratico, ma con minori servizi di welfare.

In realtà nel nostro caso si va addirittura oltre, dato che nemmeno si assiste a uno scambio libertà/welfare, ma si propone l’inefficienza stessa del welfare –quindi lo scambio non avviene- quale fondamento logico, e addirittura costituzionale, della compressione dei primari diritti di libertà; per cui se la Repubblica Italiana disponesse di un servizio sanitario letteralmente da Terzo Mondo, in base a tale logica non potremmo mai più per alcun motivo uscire di casa (salvo il fatto che poi molti immunologi ci dicono che le infezioni più frequenti avvengono in casa, il che finisce con l’irridere il lockdown inteso come un sistematico “stare a casa”).

Invero, tanto si ricava da quanto controparte sostiene, facendosi forte della sentenza del Tar Calabria n. 841/2000, secondo la quale “il rischio epidemiologico non dipende soltanto dal valore attuale di replicazione del virus in un territorio circoscritto quale quello della Regione Calabria, ma anche da altri elementi, quali l’efficienza e capacità di risposta del sistema sanitario regionale”: in altri termini, stante un sistema sanitario inefficiente, non si danno i diritti fondamentali di libertà: il che a noi, francamente, appare insensato, oltre che chiaramente contro lo spirito della Costituzione liberal-democratica, che pone i diritti di libertà al primo posto di un preclusivo ordinamento lessicografico, e non per caso, ma perché la vita libera e sociale è quella che il Costituente ha valutato la più conforme alla nostra natura di esseri umani anche in momenti di crisi, posta l’inesistenza costituzionale dell’istituto dello stato di eccezione.

All’opposto, se, come è, la pretesa a un servizio sanitario efficiente rappresenta a propria volta un diritto pretensivo del cittadino nei confronti delle Istituzioni, l’inefficienza del servizio rappresenta a sua volta un’illegittimità diffusa, che non può certo porsi a fondamento di un ulteriore e più grave invalidità, quale quella di sopprimere i diritti costituzionali di libertà, assommando due illegittimità, e non la prima sanando la seconda, più grave, illegittimità.

Il nostro ragionamento ci pare echeggiare quello costante della Corte Costituzionale, per la quale l’inerzia governativa, produttiva di situazioni pur oggettive d’urgenza, non legittima il ricorso allo strumento della decretazione d’urgenza, in quanto appunto quell’urgenza è procurata, quindi illegittima, e dunque non in grado di sanare una decretazione d’urgenza resa a sua volta illegittima da quell’illegittima inerzia.

Ciò suggerisce che le difficoltà del sistema sanitario, lungi dal convalidare lesioni ai diritti di libertà, avrebbero potuto porsi a fondamento di un modello costituito da raccomandazioni e indicazioni, pur pressanti, ma non cogenti, come pure per certi versi era inizialmente avvenuto: in tal caso avrebbe avuto e avrebbe un senso invocare il dovere di solidarietà, di cui all’art. 2, Cost., come fa controparte, tanto più che la norma stessa fa convivere i doveri di solidarietà con i diritti inviolabili del cittadino, con la conseguenza che questi è tenuto a rispettare quei doveri esclusivamente in uno spazio giuridico in cui siano assicurati i suoi diritti inviolabili.

D’altra parte, si consideri che anche negli anni scorsi, ad esempio in occasione delle influenze del periodo 2016-2018, i pronto soccorso sono stati, come suol dirsi, presi d’assalto e le terapie intensive messe a dura prova e intasate (cfr. Simona Ravizza, Milano, terapie intensive al collasso per l’influenza: già 48 malati gravi – molte operazioni rinviate, in Corriere della Sera, 10 gennaio 2018), ma nessuno ha pensato che la soluzione al problema potesse essere quella di limitare le libertà costituzionali; e allora vien da chiedersi quale sarebbe la soglia, oltre la quale scatterebbe questa necessità, ma di una tale valutazione non v’è traccia nei provvedimenti impugnati, né nei decreti legge, che li reggono.

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In ogni caso, salvo errore, nemmeno il principio di precauzione risulta invocato dagli atti impugnati e dai decreti-legge a proprio sostegno, quindi ragioniamo sempre nell’ambito di un’inammissibile integrazione successiva della motivazione, dato che controparte ha la tendenza a trasformare il presente giudizio, che ha per oggetto atti, in giudizio sul rapporto.

Ciò chiarito, tuttavia, anche accogliendo lo spirito argomentativo avversario, nella specie è impossibile fare questione di principio di precauzione nei termini codificati e comunemente accettati ab antiquo, dato che la nostra fattispecie fuoriesce decisamente da quell’ambito.

La difesa avversaria invoca a proprio sostegno Cons. Stato, Sez. III, 3 ottobre 2019, n. 6655, secondo la quale, a suo dire, sarebbe ammessa una qualsiasi “prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche”, ma tale pronuncia ha per oggetto una fornitura di vaccini –l’ambito vaccinale è peraltro ricondotto da Corte Cost. n. 5/2018, ex adverso citata, al ben diverso ambito della prevenzione, che invece riguarda rischi e pericoli provati- dato che il principio di precauzione non è un lasciapassare universale, ma riguarda sempre e solo l’esercizio di attività economiche in sé potenzialmente pericolose per l’ambiente e la salute, e non mai l’esercizio di diritti di libertà, codificati e protetti, il cui esercizio, per definizione, non comporta mai rischi e pericoli di tal fatta, altrimenti si tratterebbe di abusi del diritto, però già codificati o previsti come atti illeciti, senza alcuna necessità di invocare il principio di precauzione: esiste, in altri termini, anche un principio di precauzione democratica, che guarda con terrore, proprio in omaggio a uno spirito fondato sulla precauzione, a gravi compressioni di diritti costituzionali, fondate sull’illusoria pretesa che queste siano “temporanee”, quando è forte, e lo constatiamo nei fatti, il rischio della loro cristallizzazione.

Ciò doverosamente precisato, vediamo però come effettivamente procede il percorso argomentativo della da ultimo citata sentenza del Consiglio di Stato: “La Comunicazione della Commissione Europea del 2 febbraio 2000 fornisce indicazioni di indirizzo in merito alle condizioni di applicazione del principio di precauzione, individuandole nelle due seguenti: (i) la sussistenza di indicazioni ricavate da una valutazione scientifica oggettiva che consentano di dedurre ragionevolmente l'esistenza di un rischio per l'ambiente o la salute umana; (ii) una situazione di incertezza scientifica oggettiva che riguardi l'entità o la gestione del rischio, tale per cui non possano determinarsene con esattezza la portata e gli effetti. Nella prospettiva della Commissione Europea, l’azione precauzionale è pertanto giustificata solo quando vi sia stata l'identificazione degli effetti potenzialmente negativi (rischio) sulla base di dati scientifici, seri, oggettivi e disponibili, nonché di un “ragionamento rigorosamente logico” e, tuttavia, permanga un'ampia incertezza scientifica sulla "portata" del suddetto rischio (par. 5.1.3). 4.6. Nel conseguente bilanciamento delle più opportune iniziative di contenimento del rischio, la scelta del c.d. “rischio zero” entra in potenziale tensione con il principio di proporzionalità, il quale impone misure “congrue rispetto al livello prescelto di protezione” ed una conseguente analisi dei vantaggi e degli oneri dalle stesse derivanti: dunque, non è sempre vero che un divieto totale od un intervento di contrasto radicale costituiscano “una risposta proporzionale al rischio potenziale”, potendosi configurare situazioni e contesti specifici che rendono una tale strategia inopportuna, inutilmente dispendiosa, se non sostanzialmente improduttiva. In siffatte ipotesi, per coniugare in modo bilanciato esigenze di precauzione e di proporzionalità, la Commissione suggerisce di modulare l’azione cautelativa in relazione alla evoluzione dei suoi risultati, sottoponendo le misure adottate ad un’opera di controllo e di “revisione, alla luce dei nuovi dati scientifici” (par. 6 e 6.3.5). 4.7. Condividendo questa linea di pensiero, anche la costante giurisprudenza ha ritenuto che il principio di precauzione, i cui tratti giuridici si individuano lungo il segnalato percorso esegetico fondato sul binomio analisi dei rischi — carattere necessario delle misure adottate, presuppone l'esistenza di un rischio specifico all'esito di una valutazione quanto più possibile completa, condotta alla luce dei dati disponibili che risultino maggiormente affidabili e che deve concludersi con un giudizio di stretta necessità della misura (ex multis, Cons. Stato, sez. V, n. 6250/2013; Cons. Giust. Amm. Sicilia Sez. Giurisd., n. 581/2015; Cons. Stato, sez. IV, n. 1240/2018).

Ora, nulla di tutto ciò si rinviene nei provvedimenti impugnati, né nei decreti-legge, che li sostengono, dato che tali provvedimenti sono apoditticamente certi di se stessi, pur in assenza di alcuna esplicita valutazione, di certo non “completa”, dei dati disponibili, né sono in grado di motivare sulla “stretta necessità” effettiva delle misure adottate in concreto, che non contengono alcuna valutazione di costi e di benefici, né di commisurazione delle misure possibili e, tra queste, di quelle necessarie: di fatto, siamo di fronte a una sistematica petizione di principio e non sequitur, dato che non v’è mai una chiara correlazione o un nesso logico-aziologico tra premesse e conclusione, in forza dei quali le misure da adottarsi debbano essere necessariamente le più restrittive possibili. E invero, rimanendo ancora nell’ambito del principio di precauzione, così come accolto e codificato a livello comunitario, si è giudicato che “Una misura preventiva non può essere adeguatamente giustificata da un approccio puramente ipotetico ai rischi, fondato su mere congetture, prive di validazione scientifica” (Caso T-70/99, Alpharma Inc. v. Consiglio, Tribunale europeo di primo grado, 11 settembre 2002, par. 156) e, ancora, “Il rischio deve essere adeguatamente supportato da prove scientifiche” (Caso C-236/01, Monsanto Agricoltura Italia v. Presidenza del consiglio dei ministri, Corte Europea di Giustizia, conclusioni dell’avvocato generale Alber, 13 marzo 2003), e la mera possibilità del pericolo non è sufficiente (Cass R. Sunstein, Il diritto della paura – Oltre il principio di precauzione, Bologna, Il Mulino, 2010, 37); laddove i provvedimenti impugnati non forniscono alcuna prova di tal fatta sulla grande parte delle condotte vietate, quantomeno quelle alle quali abbiamo fatto riferimento con il nostro ricorso introduttivo, sicché non risulta allegata alcuna prova sul fatto che misure drastiche e coercitive fossero le uniche possibili, senza considerare l’eventualità di adottare misure meno pervasive, o di raccomandazione, campagne di informazione volte alla persuasione, etc; e ciò sul non dimostrato presupposto che la misura più restrittiva sia anche la più efficace, il che non emerge dall’esperienza di altri Paesi.

Ad esempio, confrontando i dati dell’Argentina, che è il Paese che ha adottato il lockdown più lungo, con quelli della Svezia, che ha prevalentemente adottato una disciplina fondata sulla persuasione e l’informazione con poche prescrizioni e nessun lockdown, anche per la dichiarata attenzione a non trasgredire ai precetti costituzionali, si scopre che la mortalità da coronavirus dell’Argentina è decisamente superiore a quella della Svezia, essendo l’Argentina “al vertice mondiale di vittime per milione di abitanti” (cfr. Rocco Cotroneo, Lockdown eterno e tanti morti. Il virus ha affondato l’Argentina, in Domani, 30 ottobre 2020), dal che si ricava –il che è conforme a come la giurisprudenza delinea, come si è visto, lo stesso principio di precauzione- che non sussiste alcun nesso logico necessario tra intensità della restrizione e sua efficacia, sicché il principio di precauzione non impone affatto necessariamente la misura più restrittiva, mentre prescrive una motivazione congrua e adeguata sulla scelta effettuata rispetto alle possibili alternative.

In ogni caso, trattandosi di materia che trova fondamento nell’art. 191 del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea, si chiede, ove lo sia ritenuto necessario al fine della decisione, di provvedere al rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, al fine di ottenere un’interpretazione dell’art. 191, citato, in modo da chiarire se esso si applichi esclusivamente ad attività economiche rischiose e pericolose per la salute e l’ambiente, o anche a diritti di libertà, come codificati dalle Costituzioni e dalla CEDU, per quanto a noi una simile interpretazione appaia contraria alla lettera e allo spirito dell’art. 191, e comunque paradossale.

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Siffatte considerazioni ci riconducono de plano alla questione dell’omessa ponderazione tra opposti rischi per la salute -dato che, come si è visto, ve ne sono di gravi anche nella stessa adozione del lockdown-, e sull’effettiva idoneità, poi, a davvero salvaguardare il tanto invocato “diritto alla salute” da parte dei provvedimenti impugnati, dato che al susseguirsi di DPCM non corrisponde mai una disamina chiara e precisa degli effetti procurati da quello precedente, per cui non risulta adempiuto un qualsiasi onere di rendiconto (né lo fa la difesa avversaria, la quale pure avrebbe potuto cogliere l’occasione per argomentare sull’effettiva efficacia dei provvedimenti impugnati, e così sottrarli alle nostre censure).

In particolare, non risulta rispettato dai provvedimenti stessi un qualsiasi principio di proporzionalità, dato che con riferimento a essi si fronteggiano un pregiudizio certo, arrecato ai diritti di libertà, e un beneficio per la salute, in conseguenza delle misure adottate, totalmente incerto, anzi, aleatorio: ad esempio, vietare la circolazione a un chilometro da casa, in termini stretti, procura una lesione a un diritto certa, ma quale sarebbe il beneficio, dato che non si ritiene normalmente che si possa contagiare o essere contagiati semplicemente girando individualmente per la strada? Non essendo valutate le alternative, del resto, non è stato rispettato il principio di proporzionalità anche alla luce dell’art. 43 del Regolamento Sanitario Internazionale, là dove prescrive che le “misure non devono essere più restrittive del traffico internazionale e più invasive o intrusive per le persone di ragionevoli alternative in grado di raggiungere un adeguato livello di protezione sanitaria” (cfr. Giandomenico Barcellona, Lockdown e misure sanitarie emergenziali, cit., 103), salvo che tali alternative non sono mai state prese nemmeno in considerazione dai provvedimenti impugnati.

Ripetiamo che non è affatto sufficiente la mera evocazione retorica in astratto della necessità di tutelare il diritto alla salute, ma occorre anche una puntuale dimostrazione che le misure adottate lo tutelino in concreto, in mancanza della quale quella evocazione si riduce a una petizione di principio, che funge da passepartout, volto alla lesione di qualsiasi altra situazione giuridica soggettiva; laddove, viceversa, opera nella specie quantomeno una sorta di principio di reciprocità, in forza del quale i benefici derivanti dai provvedimenti devono effettivamente controbilanciare gli oneri che derivano dalla limitazione dei diritti (cfr. Giandomenico Barcellona, Lockdown e misure sanitarie emergenziali, cit., 100), per cui, per dir così, il gioco deve davvero valere la candela, il che non risulta affatto dimostrato (anzi, certi andamenti della curva epidemica lo mettono fortemente in discussione).

Ed è pacifico che l’onere di dimostrare l’efficacia dei provvedimenti adottati ricada interamente sullo Stato procedente, in mancanza di che il pregiudizio arrecato ai diritti fondamentali deve ritenersi giuridicamente nullo e tamquam non esset: e invero, l’art.12 dei Siracusa Principles, interpretativi del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici concluso a Nuova York il 16 dicembre 1966 ed entrato in vigore in Italia il 23 marzo 1976 (in argomento cfr. ancora Giandomenico Barcellona, op. cit., 99 ss.), così si esprime: “The burden of justifying a limitation upon a right guaranteed under the Covenant lies with the state”.

Et de hoc satis.

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e) Sull’illegittimo regime delle sanzioni e sull’invalidità e inefficacia dell’”autodichiarazione”.

Sul quarto, quinto e sesto motivo del nostro ricorso (punti 5, 6 e 7), ci permettiamo di riportarci interamente a quanto dedotto in quella sede, non parendoci che controparte ne sviluppi una confutazione compiuta.

Vi sono però alcuni punti, sui quali la difesa avversaria propone argomentazioni, con riferimento alle quali appare opportuno controdedurre.

a) Il linguaggio utilizzato dal D.L. 19/2020 non rispetta affatto gl’indispensabili requisiti di chiarezza, tassatività e determinatezza nell’indicazione delle condotte sanzionate, dato che non riteniamo che espressioni come limitazione della circolazione delle persone, anche prevedendo limitazioni  alla  possibilità   di   allontanarsi   dalla   propria residenza, domicilio o dimora  se  non  per  spostamenti  individuali limitati nel tempo e nello spazio o motivati da esigenze  lavorative, da situazioni di necessità o urgenza, da motivi di salute o da altre specifiche ragioni” (art.1, c. 2, lett. a) lasciano, come poi ha ben dimostrato la prassi applicativa, eccessivi ambiti di discrezionalità nell’irrogazione in concreto delle sanzioni da parte delle FF.OO.

b) Si è rilevato come siffatta vaghezza sia rimasta tale anche in sede di DPCM; ma controparte nulla oppone all’altro importantissimo profilo, afferente al rispetto del principio di stretta legalità, ossia che la precisazione di quali avrebbero dovuto essere le condotte in concreto sanzionate è stata rimessa, “delegata”, ad atti amministrativi, il che impinge nella riserva assoluta di legge, che regola, così come le sanzioni penali, anche le sanzioni amministrative, per cui il regime sanzionatorio viene spartito tra atto di rango legislativo e atto di rango amministrativo, il che non è consentito, come non è consentito che le sanzioni siano stabilite a livello legislativo, e le condotte sanzionate a livello amministrativo.

c) Quanto alla da noi dedotta inversione dell’onere della prova, controparte eccepisce che, in materia di sanzioni amministrative, opererebbe una presunzione di colpa ai sensi dell’art. 3 della legge 689/1981. L’affermazione è inesatta, dato che l’art. 3, che disciplina l’elemento soggettivo negli illeciti amministrativi, si limita a dire che il responsabile risponde indipendentemente dal fatto che versi in colpa o dolo; ma, in ogni caso, si sta parlando appunto del solo elemento soggettivo, ma l’onere di dimostrare l’effettivo accadere dell’illecito, nei suoi aspetti oggettivi e fattuali, spetta all’amministrazione, laddove nel nostro caso viene fatto gravare sul cittadino anche l’onere di “comprovare” l’evento empirico, onere che ricade invece per principio sull’organo procedente: in particolare, si fa gravare sul cittadino l’onere di dimostrare l’evento “esimente”, il che significa che il suo versare in atto illecito si presume, il che non è conforme affatto all’art. 3 l. 689/1981, il quale, ripetiamo, si occupa esclusivamente dell’elemento soggettivo e non anche di quello oggettivo dell’illecito.

d) Si noti infine che controparte non contesta che nella specie non si tratti di condotte intrinsecamente offensive, requisito indispensabile in una sanzione, penale o amministrativa che sia, ma pretende di legittimare siffatta deroga a principi fondamentali, ancora una volta, in nome dell’asserita “temporaneità” delle misure, che, a parte quanto si è ripetutamente sottolineato sull’illusorietà di siffatta temporaneità, in uno Stato di diritto è giuridicamente irrilevante, nonché invocando il principio di precauzione, con riferimento al quale abbiamo già argomentato a sufficienza.

Semmai va sottolineata che la dimostrata inidoneità giuridica dello strumento sanzionatorio, in casi di inoffensività come questi, avrebbe semmai suggerito, per non incorrere in chiare aporie rispetto ai principi generali del diritto, un esteso ricorso allo strumento della raccomandazione (sull’uscire il meno possibile, sul rispettare i distanziamenti, etc.), che fosse fondata sulla comunicazione di informazioni chiare e coerenti, il che è pure mancato.

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La questione dell’”autodichiarazione” (con riferimento alla quale rinviamo al settimo motivo di ricorso, punto 8) si rivela così un prolungamento del punto precedente, dato che, attraverso una mera circolare ministeriale, è stato invertito l’onere della prova, introdotto un “interrogatorio amministrativo” con illegittimo obbligo di accusare se stesso e di “dire la verità” in proprio danno, il che non trova spazio nel nostro ordinamento procedimentale e processuale, nonché di fatto introdotto un provvedimento atipico, che controparte riconosce essere privo di alcun fondamento normativo, dato che ammette che tale strumento è stato introdotto con la citata circolare.

Semmai va evidenziato come, all’inizio della Relazione della Presidenza del Consiglio, ossia l’atto difensivo di controparte, si affermi che le circolari impugnate sarebbero “norme interne… prive di natura provvedimentale e di efficacia lesiva all’esterno”.

Ma se così è, occorre concludere che il sottoscrivere l’autodichiarazione non sia mai stato obbligatorio per il cittadino, né lo sarebbe stato tutto quel che ne consegue in termini di obblighi di autoaccusa e di sanzioni afferenti, anche penali (!). Se così è, si chiede allora di darne atto in sede di Parere e decisione.

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f) Sulla violazione degli artt. 41 e 42 Cost., sull’eccesso di potere per difetto di motivazione sotto altro profilo e per disparità di trattamento. Sulla richiesta di risarcimento dei danni e sull’indennizzo.

Controparte rivendica la potestà del governo di distinguere tra attività considerate di utilità sociale e quali no, salvo che tale distinzione viene a colpire attività normalmente già ritenute di utilità sociale, dato che normalmente vengono svolte, rimanendo tuttora oscuro perché talune di esse siano state colpite e non altre, a parità di utilità sociale comunemente riconosciuta. Ribadiamo che stabilire quali siano le attività “essenziali” da parte del governo è mostra di paternalismo, dato che il consumatore, magari orientato da raccomandazioni e non da prescrizioni sanzionatorie, è perfettamente in grado di comprendere che cosa sia per lui “essenziale” o no, fermo restando che, per chi esercita un’attività, quell’attività è comunque “essenziale” alla sua sopravvivenza.

Emerge così la questione dell’indennizzo, che non trova soluzione, come vorrebbe controparte, nel decreto “Cura Italia” o nel decreto “Rilancio”, che sono palesemente insufficienti e inadeguati; sicché la conclusione è che il governo ha fatto il passo più lungo della gamba, nel senso che, se fosse stato da subito consapevole dell’entità dei pregiudizi economici che andava a determinare, nell’impossibilità di indennizzarli adeguatamente, o anche minimamente, non avrebbe adottato o dovuto adottare i provvedimenti di chiusura, viceversa irresponsabilmente adottati: dato che un atto ablatorio per supposta pubblica utilità deve essere sempre consapevole dei costi indennitari che comporta, con ogni conseguenza di carattere contabile, laddove nella specie tale consapevolezza si è rivelata del tutto assente, il che vale a sua volta a invalidare i provvedimenti stessi

Quanto alla richiesta di risarcimento dei danni subiti, se ne chiede una determinazione in via equitativa come da ricorso introduttivo, precisando che gli eventuali importi riconosciuti, anche quelli non direttamente spettanti all’associazione Diritto e Mercato nella sua rappresentanza di interessi collettivi e diffusi, saranno comunque devoluti alla stessa, a titolo di sostegno alle sue iniziative, sempre a tutela di interessi collettivi e generali di carattere civile e consumeristico.

Si insiste pertanto nelle già assunte

CONCLUSIONI

così come da epigrafi del ricorso originario e del ricorso per motivi aggiunti, alle quali si aggiunge la richiesta, ove occorra, del rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, al fine di ottenere un’interpretazione dell’art. 191 nei sensi indicati nell’esposizione.

Si producono i seguenti documenti: 1) Statuto e atto costitutivo dell’Associazione “Diritto e Mercato”; 2) Verbale n. 23 del Comitato Tecnico Scientifico in data 10 marzo 2020; 3) Verbale n. 21 del Comitato Tecnico Scientifico in data 7 marzo 2020; 4) Certificato dott. Scavone relativo alla situazione di salute del ricorrente Fabio Massimo Nicosia; 5) Decreto del Tribunale di Napoli in data 14 aprile 2020 relativo al ricorrente Francesco Giunta.

Milano-Napoli, 25 novembre 2020.

Avv. Fabio Massimo Nicosia

Avv. Francesco Giunta

Antonio Quarta

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Si trasmette per gli adempimenti conseguenti e per la trasmissione al Consiglio di Stato, Sezione Prima, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, presso ufficiocontenzioso@mailbox.governo.it

e per conoscenza al Consiglio di Stato, Sezione Prima, presso sezioneprimaprotocolloamm@ga-cert.it

1 commento:

  1. Eccellente ricorso contro il governo che con i suoi DPCM ha di fatto normato l'obbligo illegittimo per i cittadini di rimanere in casa, impedendogli di esercitare la sua libertà di circolazione sancita dalla Costituzione.

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