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sabato 26 settembre 2020

Per una lettura realistica dello Stato. Principio di precauzione, stato di eccezione, stato di emergenza, libertà, salute: il Covid19 e la risposta libertaria.

di Fabio Massimo Nicosia 

Come abbiamo visto, le teorie contrattualistiche dello Stato non riescono a sottrarsi alla censura di fallacia naturalistica, nel momento in cui pretendono che uno resti comunque vincolato al supposto contratto, quindi non possa recedere, e dato anche il fatto che il consenso, su cui si pretende di porre l’accento, è fittizio, simulato, in realtà inesistente, il che toglie le basi al concetto di “obbligo politico”; basi peraltro precarie ab origine, essendo inaccettabile un concetto di obbligo eteronomo, unilateralmente imposto da un soggetto A a un soggetto B sulla base delle sole sue parole, senza alcun effettivo coinvolgimento di B: e poiché il contratto è simulato, l’obbligazione politica è del tipo eteronomo e unilaterale; ciò a volere ammettere un contratto implicito, perché naturalmente nella realtà non è mai esistito alcun contratto sociale esplicito.

 

Occorre allora votarsi a teorie più realistiche su cosa sia lo Stato, in quanto atto e fatto di forza, le cui formule di legittimazione sono degli imbellettamenti ex post, consistenti inevitabilmente in fallacie naturalistiche, dato che dal fatto dell’affermarsi dello Stato ricavano, sforzandosi di giustificarlo, l’obbligo di sottomettersi a esso e di obbedire alle sue leggi, il cui pezzo forte, al nostro tempo, è quella, indimostrata, secondo la quale solo lo Stato sarebbe in grado di perseguire il bene pubblico, e quindi, “dovendosi” il bene pubblico realizzarsi, occorre null’altro che affidarsi a tale scopo all’assoggettamento alla particolare figura dello Stato; nell’atto in sé di forza bruta, invece, non si fa questione di fallacia naturalistica, trattandosi di mera imposizione non giustificata se non dall’interesse del soggetto forte: la giustificazione arriva successivamente, ed è essa a essere logicamente viziata, ogni qualvolta si concluda non solo con un’esortazione a obbedire al potere in atto, ma all’affermazione del relativo obbligo.

 

Teorie più realistiche ci provengono allora dall’’”approccio sociologico” alla statualità, locuzione con la quale intendo quello della descrizione brutale, sulle scaturigini in lettura non edulcorata dello Stato. Non paradossalmente, il più accanito in tale chiave è un Poeta, Friedrich Nietzsche: “Ho usato la parola ‘Stato’: va da sé a quale intendo, con ciò, alludere: - un qualsiasi branco d’animali da preda, una razza di conquistatori e di padroni che, guerrescamente organizzata e con la forza di organizzare, pianta senza esitazione i suoi terribili artigli su una popolazione forse enormemente superiore per numero, ma ancora informe, ancora errabonda. In questo modo ha inizio sulla terra lo ‘Stato’: penso che sia liquidata quella fantasticheria che lo faceva cominciare con un ‘contratto’. Colui che può comandare, che è naturalmente ‘signore’, che si fa innanzi dispotico nell’opera e nell’atteggiamento - che cosa mai ha a che fare con contratti![1]”: lo Stato nasce di violenza e vive di violenza[2]. Altrove Nietzsche definisce lo Stato “il più freddo di tutti i freddi mostri[3], e non solo arriva a preconizzare l’avvento di qualcosa di identico a quello che oggi chiamiamo anarco-capitalismo, ma ne preannuncia il superamento in chiave elitista[4] ed aristocratica[5]: in effetti, il superamento dello Stato “da destra”, in Nietzsche, consiste in ciò, che mentre la tradizione dello Stato patrimoniale dell’assolutismo vede lo Stato stesso come strumento di tutela dei ceti aristocratici, Nietzsche vede nello Stato lo strumento dell’uomo-massa e dell’inveramento delle idee “socialiste”; sicché, in un certo senso paradossalmente, per opporsi a queste, non ripropone lo Stato della tradizione, ma invoca direttamente l’oltrepassamento della fredda istituzione.

 

Se in Nietzsche la ricostruzione storico-sociologica[6] si fonde a poesia e profezia, la sua chiave di lettura prelude a quella di ricostruzioni disincantante in termini di scienza sociale e di realismo politico, quali quelle ad esempio di Ludwig Gumplowicz e Franz Oppenheimer. Secondo Gumplowicz, premesso che “lo Stato è un fenomeno sociale” (quindi di una fattispecie reale, di una vicenda effettuale, da sussumere normativamente), esso consiste in ultima analisi ”nell’assoggettamento di un gruppo sociale da parte di un altro, organizzando il potere del secondo sul primo. I fondatori di questa organizzazione sono sempre una minoranza, che controbilancia la scarsità numerica col maggior peso della disciplina militare e della superiorità intellettuale[7]”.  

 

E’ più probabile che sapere intellettuale, “religioso”, e potere militare non si concentrino invece in identiche mani, certamente però marciano di conserva, e il primo fornisce gli elementi di legittimazione al secondo, il guerriero si nutre del filosofo, e si impone al mercante, che paga entrambi, mentre lo schiavo subisce i tre, parafrasando una bagatella ciceroniana. Del resto, la metafora militare perdura tuttora, anche a voler prescindere dai meccanismi del warfare state, dato che la burocrazia dello Stato, come rilevò Max Weber, è organata per inquadramenti in qualifiche di stampo militare. E allora Gumplowicz può insistere sul dato che ciò che caratterizza lo Stato è il dominio della minoranza, organizzata, sulla maggioranza, dispersa, riecheggiando così l’antico dilemma di Etienne de La Boétie; il quale si interrogava su questo apparente mistero, di come sia mai possibile che il dominio dei pochi prevalga su quello dei più[8], sul cui consenso passivo in definitiva il dominio riesce a poggiare per insondate ragioni di passività, di introiezione del comando, di abitudine, di indifferenza per le vicende superindividuali, per rassegnazione, per comodità, per interesse, per conformismo, per ignoranza del fatto stesso che il problema sussista, o che la cosa costituisca problema da porsi.

 

I presupposti della formazione dello Stato si verificano, però, più esattamente, secondo Gumplowicz, quando un’orda, sopraffacendo un’altra, e ottenendo la disponibilità della sua forza lavoro[9], si creano i presupposti della proprietà fondiaria, che consente l’esclusione dei “sudditi” dal godimento dei beni, e il loro assoggettamento ai loro “padroni”; nasce così la proprietà immobiliare: “questa prima organizzazione del potere, però, nella quale accanto alla proprietà privata si sviluppano sempre più la famiglia, il diritto e il potere patriarcali, è il germe dello Stato[10], con la sua classe dominante, che poi si rivolgerà sempre di più verso l’esterno.

 

Un marxista volgare ricostruirebbe questa vicenda in termini “economici”, affermando che la sopraffazione ha la “finalità” di mettere al lavoro i sopraffatti, ma si tratterebbe di una tautologia, essendo ovvio che la sopraffazione ha sempre lo scopo di sfruttare l’altro, per ricavarne profitto; ma quel che conta, ai nostri fini, è che tale sfruttamento, nella ricostruzione del sociologo e giurista polacco, è stato reso possibile da un atto preliminare di forza e di violenza, che ha soggiogato lo sconfitto e lo ha reso schiavo; il fatto che Gumplowicz parli, con riferimento alla prima fase, di proprietà immobiliare, e solo con riferimento a una fase successiva, di “Stato”, non sposta la questione, dato che entrambe le situazioni, distinte quindi in pratica per il solo nomen formale, sono caratterizzate da pressoché identica situazione di sopraffazione, di controllo monopolistico sul territorio, salvo che lo Stato rappresenta un momento di crescita di consapevolezza, alla quale si accompagna l’elaborazione di criteri di legittimazione e la predisposizione di un sistema collettivo organizzato, di dimensione di scala crescente, in grado di stabilizzare ancor più la sopraffazione originaria; il tutto, però, nell’ambito di un continuum, non è del tutto chiaro quanto storico e quanto logico, ma che delinea comunque un’assenza di soluzione di continuità tra un modello di sopraffazione e l’altro, in cui a variare è sostanzialmente l’intensità e l’ampliamento degli ambiti della compressione.

 

A considerazioni analoghe a quelle di Gumplowicz, induce Franz Oppenheimer, il quale scrive una trentina d’anni dopo e, distinguendo tra economic means e political means, sostiene che entrambi sono volti all’acquisizione di risorse (identical purpose), ma in un caso attraverso il lavoro e lo scambio, e nell’altro attraverso la rapina e la schiavitù, e lo Stato è a sua volta “an organization of the political means”, ossia uno strumento, peraltro affermatosi storicamente come il più riuscito, funzionale all’acquisizione coattiva e forzosa delle risorse[11]. In realtà, si potrebbe obiettare al linguaggio utilizzato, che propone una dicotomia eccessivamente rigida tra mezzo economico, che sarebbe pacifico, e mezzo politico, che sarebbe invece coercitivo, soprattutto per il riduzionismo alla forza della seconda, dato che potrebbe anche concepirsi una politica non coercitiva; a meno che non si intenda “forza” in un’accezione molto lata; d’altra parte, pare difficile separare con un taglio netto relazioni totalmente pacifiche da relazioni totalmente violente, perché la gamma dello scambio delle minacce negoziali conosce infinite sfumature intermedie conseguenti ai rapporti di forza tra le parti, alla loro diversa capacità di effusione normativa nel corso della contrattazione.

 

Ipotesi possibile è che, dalla tribù, sia emerso un ceto di sacerdotes, i quali abbiano acquisito quel monopolio culturale e di informazioni iniziatiche. I sacerdotes giuridici, “nel gruppo hanno il compito di enunciare la volontà degli dei”, alimentando “la credenza sulla firmitas della regola[12]; il che avveniva ancora nel mondo greco, dove non esisteva un ceto di giuristi differenziato, ma competeva agli “esegeti”, interpreti del diritto sacrale, che, in quanto “sacerdoti”, erano i depositari della detenzione della “verità”, sia pure in ambito religioso, ma con evidenti ricadute extrareligiose[13].

 

La teoria della scaturigine dello Stato dalla conquista militare esterna, in particolare, sembra aver trovato riscontro storico nelle vicende della civiltà gilanica, che visse per lunghi secoli in pace e in assenza di potere coercitivo, fin quando non venne invasa appunto dall'esterno dalle orde russe dei Kurgan. In particolare, la Gilania rappresentò un’organizzazione sociale anteriore al patriarcato, esistita in Europa tra il 7000 e il 3500 a.C. e caratterizzata dall’eguaglianza tra sessi e dalla sostanziale assenza di gerarchia e autorità centralizzata.

 

Tra il 4300 e il 2800 a.C. la Gilania sarebbe stata soppiantata da un'altra cultura neolitica, quella dei Kurgan, società viceversa androcratica e patrilineare emersa dal bacino del Volga, che praticava culti nei confronti di divinità guerriere e praticava la pastorizia e il nomadismo, era divisa in caste e vi dominava una nobilità guerriera[14]; al contrario, la Gilania era matrilineare[15], pacifica, sedentaria e dedita a sofisticato artigianato, e perì per l’invasione da parte dei primi, che venivano dall’oriente indoeuropeo, con il culto del cavallo, delle armi e della morte. Secondo tale lettura, allora, si può forse addirittura arrivare a dire che, in occidente, lo “Stato” rappresenta il dominio del maschio sulla femmina, se l’invasione patriarcale ha posto fine a un matriarcato gilanico plurimillenario pacifico[16]; le tre classi del guerriero, del sacerdote e del produttore[17] cominciarono subito a delinearsi, e allora vien da chiedersi, nella storia, chi sia destinato a prevalere; ma anche sulla base di quali alleanze, perché è lampante come il terzo appaia vittima designata del patto tra i primi due, a meno che l’evoluzione non vada nella direzione del loro deperimento dei primi due, ma ancora ce ne vuole, dato che essi hanno di che allearsi anche con altri, gl’improduttivi e i disproduttivi, per non dire i parassiti.

 

Resti archeologici importanti si trovano in ogni parte del mondo, ma noi siamo abituati a ricostruire le vicende storiche parlando prevalentemente della nostra parte, sicché anche le interpretazioni sono parziali, in quanto viziate da questo elemento; anche quando parliamo di Stato, di nascita dello Stato, o della sua “necessità”, ragioniamo in un’ottica eurocentrica, o condizionati dalla matrice indoeuropea, mentre il discorso andrebbe svolto in ottica universale, scoprendo peraltro numerose analogie tra le diverse civiltà, il che ha suggerito a molti l’idea dell’origine da un ceppo comune, argomento che esce dall’ambito della nostra attuale riflessione.

 

Ora, così come vi sono letture esogene in ordine alla scaturigine dello Stato, in quanto frutto ed esito di uno scontro bellico tribale, ve ne sono di endogene, che vedono lo Stato come esito di un processo evolutivo interno, salvo poi verificare quanto questo si intrecci con le questioni relative alle spinte provenienti dall’esterno. Il primo “Stato” della storia, ad esempio, sarebbe stato individuato nella città di Uruk, sorta nella bassa Mesopotamia del IV millennio a.C., fuoriuscita dal neolitico attraverso il ricorso alla complessità organizzata di quello che viene proposto appunto come vero e proprio Stato[18]; ora, in che cosa consisteva l’essere “Stato” di Uruk? Nella realizzazione di grandi opere pubbliche, in particolare di sistemazione idraulica, e nella conseguente urbanizzazione; orbene, l’opera pubblica va qui vista nel suo significato molteplice, che è di occupazione del territorio, elemento restrittivo, ma anche di “fornitura” alla popolazione, elemento ampliativo, a tacere dell’elemento simbolico della grande opera pubblica quale emblema della detenzione del potere, una volta che non sussistano problemi di carattere finanziario, sicché il gigantismo consente l’affermazione anche fisica, visibilissima, del monopolio; quindi è configurabile, parrebbe, anche una scaturigine endogena dello Stato attraverso la capacità “produttiva” in senso espansivo direttamente del sovrano “keynesiano” ante litteram.

 

In effetti la difesa è l’hard problem per eccellenza anche per i libertari contemporanei, dato che finché vi sono Stati, si pone il problema di una difesa, che in caso di loro assenza non si porrebbe; sicché ci troviamo innanzi a un uovo e a una gallina: la difesa è monopolio perché ci sono gli Stati, ovvero nasce lo Stato per le necessità di difendere una comunità, dalla quale deriverebbe la necessità di una tale concentrazione monopolistica in quanto soluzione ritenuta la più efficiente, rispetto ad esempio all’ipotesi della guerriglia?

 

In realtà, secondo la lettura di Gumplowicz, anche questa è edulcorazione: non nascono gli Stati dalla necessità di difesa, ma in esito bilaterale dell’attacco, che si viene a coniugare con le cellule intrinseche: famiglia proprietaria fondiaria, eredità e ancora Stato, a garanzia circolare di quanto da esso stesso costituito simultaneamente, o comunque forzosamente confermato, se dobbiamo ritenere la famiglia, con Aristotele, il fondamento dello Stato, insieme alla naturale politicità umana, di cui l’aggregazione familiare sarebbe espressione[19]; salvo poi chiedersi donde provenga la famiglia originaria, se non a propria volta da un’appropriazione, quella del maschio sulla femmina in vista del suo assoggettamento alla funzione riproduttiva e amministrativa, quale evoluzione della schiavitù originaria.

 

Si tratta quindi, nel caso dell’economia come, in generale, del “diritto”, del rapporto tra un soggetto e un oggetto –il che già in sé pone il tema della distinzione, posto che il soggetto è a propria volta oggetto osservato da parte di altro soggetto, oltre che da sé nell’introspezione-, in funzione della capacità del soggetto stesso di trarre la massima utilità dal bene oggetto della sua amministrazione; ma νόμος deriva a propria volta da νέμω, vale a dire dispensare, assegnare, aggiudicare; e allora l’evocazione immediata è quella della questione dell’assegnazione dei diritti sulla terra –la Terra-, perché porre l’azione individuale al centro dell’analisi ha significato, se però al contempo si dà atto che tale azione si colloca in un contesto, nel quale i diritti storicamente dati sono frutto di un’aggiudicazione d’autorità, come insegna una figura angolare come Carl Schmitt[20], il quale ci consente di svincolare il realismo dai giudizi di valore, oltre che a ricostruire il mondo in termini non fiabeschi, secondo i quali ciascuno si auto-aggiudicherebbe il proprio sulla base di propri supposti meriti lavorativi o creativi, come se si operasse isolatamente, e non in contesti, nei quali si situano anche gli altri, oltretutto non in posizioni equiordinate.

In questo modo, come si è notato, mi sto discostando da quella lettura, secondo la quale lo Stato sarebbe un fenomeno esclusivamente moderno ed europeo[21], dato che per me si individua “Stato” in ogni epoca e in ogni luogo del globo, ogni qualvolta vi sia stata concentrazione monopolistica del potere sul territorio, e non sua diffusione pluralistica, concorrenziale o comunitaria, e in particolare di un potere, il quale si mostri in grado di dotarsi di una formula di legittimazione laica o sacrale (sacerdotale), la quale gli garantisca l’esclusiva sul piano idale: in altri termini, “Stato” e “Stato moderno” sono due concetti distinti[22].

 

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Visto quindi che lo Stato reale nasce dalla forza e non da un contratto, per quanto in qualche epoca, come nel medioevo, si siano adottate formule di legittimazione delle gerarchie in chiave contrattuale, viene allora da chiedersi, una volta che la tensione militare si sia ridotta o acquietata, come poi avvenga che, di fatto, la grande parte delle persone obbedisca davvero, cercando di rispondere all’eterna domanda di Étienne de La Boétie, a proposito del perché i pochi organizzati riescano a comandare sui molti dispersi.

Huemer fornisce un gruppo di risposte a fondamento psicologico (la “psicologia dell’autorità”), quali l’esperimento di Milgram, il quale dimostrerebbe la propensione dell’uomo a obbedire fino ad estreme conseguenze (il che spiegherebbe anche la “banalità del male” nazista), la capacità del potere di dotarsi di simboli e rituali a forte efficacia persuasiva, l’uso funzionalmente imperativo del linguaggio, il quale promanando dall’”autorità legittima” presenterebbe a sua volta efficacia persuasiva e di rinforzo dell’autorità stessa, in quanto linguaggio “autorevole”, la sindrome di Stoccolma, per cui ci si lega psicologicamente al proprio “sequestratore”[23]; ma io aggiungerei di buon grado i mass-media di oggi, che rappresentano una sistematica propaganda, non solo di legittimazione del sistema, ma della sua ineluttabilità, inevitabilità e, direi, banalità, per il quale ognuno viene indotto a ritenere che questo è lo stato di cose normale, e non viene fatto nemmeno appena intravedere che possano sussistere alternative, dimodoché si determina un’afairesi di massa, costitutiva e persistenemente riproduttiva dello Stato e della sua legittimazione in quanto dato direi quasi “naturale” della nostra esistenza: sicché le lamentele dell’opinione pubblica saranno sempre nei confronti di questo o quel governo, di questa o quella modalità dello Stato, ma mai nei confronti dello Stato in quanto tale.

Al di là delle sottigliezze psicologiche, tuttavia, io ritengo che alla base dell’acquiescenza –concetto ben diverso da quello di “consenso”- si ponga in grande parte, con un ritorno alle origine, puramente e semplicemente la paura, dato che l’acquiescenza è soprattutto forzata, prima ancora che indotta attraverso qualche trucchetto esteriore[24]. Il fenomeno che si viene a determinare, il che spiega in che senso acquiescenza e consenso siano due concetti ben distinti, è quindi una scissione schizofrenica, una “dissonanza” appunto, tra ciò che si pensa a livello personale, e la condotta pubblica di accettazione (per paura della punizione, della sanzione)[25], per cui lo Stato ti chiede anche di essere ipocrita, più di quanto un sistema sociale non così preotentemente istituzionalizzato ti chiederebbe: sotto lo Stato, sei sempre sotto minaccia per la non acquiescenza[26], anche se poi i descritti meccanismi psicologici mirano a stabilizzare questa acquiescenza, conferendole la parvenza di un consenso, anche confidando nella propensione di molti (che io annovero tra i portatori di inclinazione autoritaria) a sottomottersi spontaneamente e di buon grado all’autorità[27] –che poi finiscono con l’essere sempre quelli della “banalità del male” e della delazione-, o anche solo nella capacità di adattamento acritico a qualsiasi situazione.

Il paradigma hobbeseano si riaffaccia comunque costantemente, perché l’uomo nello stato di natura, descritto come ferino, incerto e precario, ha paura –si noti, tanto per riprendere tematiche trattate nella seconda parte del libro, che la paura ha sede nel sé profondo dell’amigdala- e, diciamo pure, paura dei rischi della libertà[28], per cui la sottomissione inizialmente non si sceglie consapevolmente, ma la si subisce, salvo che poi la si subisce senza obiettare.

Che cosa comporta, poi, nella sostanza, questo dato? Che di questa paura il potere continua ad alimentarsi, e quindi a crescere in intensità, sicché il potere dell’autorità diventa interessato a individuare sempre più sofisticate formule della riproduzione della propria legittimazione, che non siano la volgare invocazione diretta della paura, come fanno certe destre ritardate, ma rappresentino qualcosa di molto più evoluto: questa formula è stata negli anni recenti individuata nel cosiddetto principio di precauzione, ossia, detto brutalmente, il principio per il quale, dato uno stato di profonda incertezza, è meglio un danno certo alla libertà che un danno incerto alla vita, variando fortemente il grado di incertezza del secondo, ma rimanendo ferma la completa certezza del primo; e, in effetti, anche il Leviatano si fonda su una sorta di principio di precauzione così inteso, dato che, dice Hobbes, gli uomini finiscono con il preferire la rinuncia alla libertà piena ai rischi di danno connessi con il suo esercizio da parte di tutti, sottovalutando però l’altro rischio, ossia che poi, in nome di ciò il Leviatano abusi in modo crescente del potere così conferitogli.

Siamo di fronte a un moderno ribaltamento dell’ordinamento lessicografico, fondato quindi, secondo tradizione, sulla paura, ossia dalla valutazione, in un crescente novero di casi, che ci porta a sopravvalutare, in nome della “sicurezza” (e quindi siamo sempre di fronte a un public good argument, in specie di stampo hobbeseano)  i pericoli a cui andiamo incontro, al di là di alcuna seria ponderazione statistica[29], sicché poi va a finire che un governo si sente pienamente legittimato a ledere libertà, in nome di un qualche altro valore, connesso alla salvaguardia della vita e della salute, però in termini puramente probabilistici, in modo tale che lo scambio è ineguale, perché ciò che si perde è chiaro, mentre ciò che si guadagna è del tutto indeterminato, il che non fa che aumentare la discrezionalità del potere autoritario, dato che, come in ogni caso di public good argument, l’effetto non è solo di stabilizzare il “potere legittimo”, ma di rialimentarlo e riprodurne la legittimazione.

Secondo il costituzionalista americano Cass R. Sunstein, il principio di precauzione è intrinsecamente incoerente[30], perché esso andrebbe applicato alle misure stesse, in quanto a loro volta comportanti rischi; e paralizzante[31], in quanto la sua ipotetica applicazione nella storia avrebbe impedito numerose scoperte e invenzioni, inducendo a un attacco di cautela preventivo nei loro confronti, basti pensare ai raggi X e all’aeroplano, oltre a varie scoperte mediche[32].

Sul piano pratico, il principio di precauzione si realizza in un’inversione dell’onere della prova[33], in forza della quale è chi intraprende un’attività a dover dimostrare la completa assenza di connessi pericoli –probatio diabolica-, laddove la controparte ideale, politica, o processuale in senso stretto, può rimanere inerte, semplicemente adombrando la mancanza di certezze scientifiche quanto all’assenza del danno: tutto ciò riceve spesso l’appoggio dell’opinione pubblica, data la sua tendenza a sovrastimare determinati rischi e la sua abitudine a non ragionare in termini statistici e probabilistici, e alla sua scarsa propensione a operare confronti costi/benefici, al che l’autorità politica agevolmente si accoda[34], imponendo costi certi per benefici incerti[35].

Ora, si noti che, mentre tutto questo dovrebbe comportare il sacrificio di meri interessi “economici”[36], la realtà recente ci ha mostrato come il principio di precauzione sia divenuto un chiaro elemento legittimante la compressione altresì delle libertà civili e dei diritti fondamentali[37]. Con queste parole, si badi, non intendo affatto sminuire l’importanza del valore della salute, che anzi tendo a ricondurre al valore stesso della libertà; diceva infatti Isaiah Berlin che non esiste il solo valore della libertà, ma anche altri[38], salvo scoprire che poi questi presuppongono la libertà, e alla stessa vanno in ultima analisi ricondotti: lo stesso vale invero per la salute.

Amartya Sen pone lo “stare bene” tra quelli che lui chiama “funzionamenti”[39], elementi costitutivi, che si situano a monte delle “capacità”, ivi compresa quella di agire liberamente, in questo senso la salute sarebbe un presupposto rispetto al bene della libertà. Tuttavia, a ben vedere, il rapporto tra salute e liberà è in realtà ancora più stretto, forse non sempre e sistematicamente, ma certo molto spesso. Ad esempio, quando noi diciamo che un atto di aggressione rappresenta un atto coercitivo, lesivo della libertà empirica di una persona, stiamo anche parlando di un atto, quello aggressivo, che altresì lede la salute di quella persona, ad esempio ferendola a livello fisico o psichico-esistenziale; anzi, noi tanto più diremo che l’atto aggressivo ha leso la libertà del soggetto, quanto più ne ha leso la salute, per cui ridurre in fin di vita una persona è atto lesivo di libertà più grave che dargli un pugno e procurargli un’ecchimosi e una frattura al setto nasale.

Se tutto ciò è piuttosto evidente, noi però possiamo fare un passo in più e, constatato che la mancanza di salute, e quindi una malattia, opprime il corpo, essa rappresenta anche una compressione di libertà, in quanto vissuta come oppressione dalla persona: si pensi a chi sia costretto a lungo a letto da una patologia; ora, noi incontriamo una difficoltà a riconoscere ciò agevolmente, perché la nostra tradizione –da ultimo Ian Carter- assegna non senza ragioni la vicenda della lesione di libertà a una condotta umana: solo un atto aggressivo, che sia imputabile a una figura umana, potrebbe essere definito coercitivo e lesivo di libertà.

Non sono però più molto convinto di questa visione esclusivamente antropocentrica, che in realtà è tale perché moralizzata e non rigorosamente empirica, dato che imputiamo all’aggressore umano un illecito morale, e ciò renderebbe il suo atto condannabile in quanto coercitivo; senonché, se abbandoniamo la prospettiva moralizzata, e ci atteniamo ai dati squisitamente empirici, possiamo anche giungere all’asserzione che anche un virus può ledere la mia libertà nel suo conatus naturale a esistere, anche se non posso fargli causa, e così se un cane mi morde e mi costringe a riposo forzato, non diversamente da quando a mordermi e a costringermi all’immobilità è un uomo, salvo che condanniamo moralmente l’uomo e non il cane –anche se nel medioevo gli animali aggressori venivano processati-, né tampoco il virus, anche se lo malediciamo, ma in termini consequenziali empirici non cambia nulla.

Se ancora la mia proposta pare bizzarra, si provi con un esperimento mentale di confine, collocando al posto del virus o del cane una scimmia antropomorfa, alla quale riconosciamo un’intelligenza e una sensibilità più simile alla nostra; immaginiamo quindi che la scimmia, ad esempio un meraviglioso orango, mi tenga per un braccio e non mi lasci andare via, o che, magari per difendere il suo habitat, riesca a legarmi a un ramo: in tal caso appare più credibile che negli altri esempi sostenere che l’orango stia esercitando coercizione nei miei confronti, con ciò confutandosi che solo l’essere umano può coartarmi o intralciare la mia libertà: e forse riusciremmo, in taluni casi, a esprimerci moralmente anche sull’atto dell’orango (e in verità anche su quello del cane).

Ecco comunque che si amplia il novero dei casi in cui la mancanza di salute, la malattia, può essere considerata abbastanza agevolmente privazione di libertà; senonché emergono subito tre rilievi: a) libertà è anche potere scegliere come curare la propria salute, anzi, si tratta di una delle prime libertà, riguardando il proprio corpo, con la conseguenza che imporre un modello di salute e di sanità rappresenta una lesione della libertà duplice, una volta in quanto si impone dall’esterno la gestione diretta del nostro corpo, l’altra in quanto si priva della libertà ciascuno di darsi il proprio modello; b) che l’avere ricondotto in diversi casi le questioni di salute a questioni di libertà non legittima privazioni della libertà in nome della salute, il che rappresenterebbe un ossimoro, tanto più asserendo al contempo che ti viene in qualche modo imposta una determinata visione della salute e della sua tutela, quale asserito presupposto per una migliore libertà a venire, quasi che, tanto salute, quanto libertà, rappresentassero il frutto di una graziosa concessione; c) per la stessa ragione per cui non sono valide, anzi sono illogiche, privazioni di libertà in nome della salute, non è possibile che la salute, in quanto forma particolare della libertà, diventi obbligo alla salute, per la stessa ragione per cui sarebbe privo di senso parlare di “obbligo alla libertà”.

Orbene, se tutte queste sono considerazioni suggerite dallo spunto offertoci dal principio di precauzione, inteso quale formula “public good” di legittimazione dell’intervento crescente politico-amministrativo, noi però dovremmo pur sempre contare sull’ordinamento lessicografico, che, nei nostri sistemi liberal-democratici costituzionali, dovrebbe vedere al primo posto della gerarchia delle fonti normative i diritti fondamentali di libertà; un punto che viene in emersione, tuttavia, è che siffatti diritti fondamentali sempre più spesso non vengono intesi, come dovrebbero, quali elementi costituzionali rigidi e preclusivi –perché se così fosse, verrebbe a invalidarsi grande parte della vigente legislazione-, ma come elementi, i quali devono costituire oggetto di mera ponderazione con “altri” valori, oltre che tra di loro.

Il “neocostituzionalismo”, corrente virtuale peraltro eterogenea[40], avrebbe dovuto rappresentare una sorta di rivincita giusnaturalistica, nel momento in cui, specialmente attraverso il richiamo alle carte dei diritti umani fondamentali, giunge a “positivizzare” certi valori comunemente ricondotti alla storia del pensiero giusnaturalistico; e  a tale proposito, ha poco senso lamentare l’irruzione di elementi “morali” nel diritto positivo, dato che questi non mancano mai, dato che sempre il diritto positivo riflette una determinata filosofia politica, salvo poi stabilire quale.

Siamo qui di fronte a una sorta di “giusnaturalismo politico”, il quale, proponendosi come contraltare rispetto al diritto naturale del più forte, quello di Trasimaco, incarnato dallo Stato monopolista, non giunge per lo più a negare questo, ma si propone come contrappeso, anche nei rapporti tra individui, dimodoché il diritto privato, erede del diritto romano e, quindi, in senso molto lato, “naturale”, ambisce direttamente a farsi rule of law come nella tradizione di common law, e quindi a limitare direttamente il potere politico in quanto sistema di diritti (privati), i quali, assurgendo a diritti umani, volgono in vincolo costituzionale supremo e invalidante l’atto gerarchicamente inferiore difforme.

Senonché, questi diritti, che il singolo mette in comune per formare il “popolo”, non sono eteree astrazioni, ma dati di forza, oppositivi, pretensivi e normativi[41]; perché se al vertice della gerarchia delle fonti poniamo i principi e le libertà fondamentali sub specie di diritto umano[42], occorre però riconoscere che tra i diritti umani esistono non solo quelli corrispondenti alla libertà negativa, ma anche quelli corrispondenti alle libertà positive –istituti che, analiticamente, intendo come di natura risarcitoria rispetto alle violazioni di libertà negative-, in ultima analisi i diritti sociali i quali, a oggi,  richiedono, l’attivo intervento statuale.

 

Secondo Habermas, ad esempio, sovranità popolare –che il filosofo intende come foriera di implicazioni procedurali- e diritti umani, aventi invece valore intrinseco, concorrono nel fungere da fondamento morale di legittimazione nel diritto contemporaneo[43]. Emerge qui l’estrema difficoltà di fondare moralmente la coercizione da parte del soggetto monopolista, che è “sovrano” nel classico senso di esercitare supremazia sui sottoposti; ora, la proposta di conferire, attraverso la tecnologia dei diritti umani, legittimazione a questo soggetto e a questa attività, sia pure nel rispetto di quei vincoli, rischia di divenire mera formula politica della routine legittimante; laddove al contrario i diritti umani esplicano una propria effettiva valenza solo, all’opposto, da una prospettiva, non già di legittimazione, ma di delegittimazione del potere reale, il quale si nutre consustanzialmente di violazione, non di rispetto, e men che meno di attivo perseguimento –o di risarcimento delle relative lesioni-, di quegli stessi diritti umani, che, secondo Habermas, o in genere gli ottimisti, dovrebbero fondarlo.

Ma questo è solo l’inizio del dato di realtà, che prosegue, attraverso l’insidioso meccanismo della “ponderazione degli interessi”, a intaccare la stessa gerarchica costituzionale, introducendo a avallando nella politica forme di discrezionalità “sopracostituzionale”, che rimandano immediatamente alla questione dello stato di emergenza e dello stato di eccezione, temi che si ripropongo con la crescente intensità di siffatti interventi discrezionali di ponderazione sopracostituzionale, giungendo alla vera e propria vanificazione dei diritti fondamentali di matrice latamente “giusnaturalista”, ma comunque formalmente di diritto positivo, interno e internazionale, pur essendo questo diritto positivo debitore di quella cultura: ebbene, questi “diritti” cessano di stagliarsi al culmine della gerarchia delle fonti, per divenire mera norma tra norme, nell’ambito di una gerarchia del tutto fluida, sia quanto alle forme, sia quanto alle sostanze.

*****

Siffatto esito derogatorio è ciò a cui abbiamo assistito con riferimento ai “precauzionali” interventi, normativi e amministrativi, operati da noi in materia di Covid-19. In effetti, pareva che il “public good argument” del momento, il quale, sulla base del principio di precauzione, avrebbe legittimato e giustificato i più intrusivi interventi statuali nella vita delle persone, sarebbe stato, sulla scorta dell’operazione costruita sul pupazzo “Greta”, quello del global warming; invece, ha vinto sul filo di lana il bene pubblico “salute”, data una tempesta Covid, che, se non ci fosse stata, qualcuno avrebbe ben pensato di inventarla, data la sua dimostrata efficacia a condurci a un mutamento globale di sistema: “Se i poteri che governano il mondo hanno deciso di cogliere il pretesto di una pandemia –a questo punto non importa se vera o simulata- per trasformare da cima a fondo i paradigmi del loro governo degli uomini e delle cose, ciò significa che quei modelli erano ai loro occhi in progressivo, inesorabile declino e non erano ormai più adeguati alle nuove esigenze[44], ivi compresa l’imposizione di un modello inumano e asociale, fondato sul distanziamento sociale: e intanto si autorizza da parte della UE un incremento a dismisura del debito, in vista di “investimenti strutturali”, che evidentemente corrispondono all’interesse di qualcuno tra quei poteri.

Un siffatto cambio di sistema[45] comporta[46] non marginali vulnera a livello costituzionale e istituzionale, anzi, di tale profondità, da consentire di portare il discorso al livello stesso dei fondamenti della sovranità, perché, schmittianamente parlando, tecnicamente siamo già in “dittatura”, salvo poi cercare di comprendere se “commissaria” o “sovrana”[47], ossia se volta a salvaguardare questo sistema politico-giuridico, o a traghettarci verso un altro, di cui già si delineano i preoccupanti contorni, stante l’inerzia delle nostre decorative figure di garanzia.

Quando Carl Schmitt fissa la sua epitome in “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione[48], il grande giurista tedesco apre un vaso di Pandora, tanto sul fronte soggettivo, quanto su quello oggettivo, ma stiamo ai fatti: nel gennaio 2020 il governo italiano delibera formalmente uno “stato di emergenza” ai sensi della legislazione sulla protezione civile e, dopo invero un certo periodo di inerzia e di contraddizioni, ivi comprese le apericene eque e solidali sul Naviglio dell’on. Zingaretti in nome dell’antirazzismo, vengono adottati, sulla scorta di un decreto legge, poi duplicato, alcuni provvedimenti del tutto atipici rispetto a quella legislazione, vale a dire dei “DPCM” (decreti del presidente del consiglio dei ministri), ossia degli atti amministrativi, profondamente incidenti su diritti fondamentali costituzionalmente garantiti: libertà personale, libertà di circolazione, libertà di riunione e manifestazione, libertà religiosa e di culto; inoltre, venivano sovvertiti i principi fondamentali in tema di illeciti e sanzioni, ossia tutti elementi di garanzia delle libertà dei cittadini, i quali si collocano al rango più alto della gerarchia formale-materiale della gerarchia delle fonti, quindi dei caposaldi, come detto, che ci si attenderebbe rigidi e preclusivi, ossia intangibili a livello di ordinamento lessicografico. In pratica, il proclamato stato emergenziale è divenuto uno stato di eccezione a formazione progressiva, attraverso una pluralità di successivi vulnera alla Costituzione, salvo comprendere se sia stato superato il punto di non ritorno, considerando che la distinzione tra stato di emergenza e stato di eccezione è questione di sfumature (si pensi all’art. 2 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza originario), così come di grado è la distinzione tra dittatura commissaria e dittatura sovrana[49].

Si noti che Giorgio Agamben sostiene non da oggi che lo stato di eccezione sarebbe diventato da molto tempo uno strumento ordinario di governo, ricomprendendo in tale sua nozione gli stessi decreti-legge, i quali, da strumenti teoricamente eccezionali di attribuzione del potere legislativo all’esecutivo, sono diventati strumenti paradigmatici del tutto normali, sovvertendo il principio della separazione dei poteri[50]; ma nella nostra vicenda succede dell’altro, dato che le norme vengono adottate attraverso provvedimento amministrativo, e questo provvedimento amministrativo pretende di comprimere direttamente diritti fondamentali di rango costituzionale, i quali non potrebbero venire compressi nemmeno a livello legislativo; sicché lo “Stato legislativo” si fa “Stato amministrativo” e procede per provvedimenti[51] anche con riferimento ai livelli supremi delle garanzie dello Stato di diritto, sicché il modello fascista dell’art. 2 del TULPS continua a fare scuola anche in regime di costituzione rigida.

E si badi che stiamo sempre ragionando nell’ambito della richiamaata questione del principio di precauzione, il quale disvela sempre di più il suo carattere autoritario ed emergenziale, dato che precauzionali, e pretesamente fondate dal punto di vista tecnico-scientifico, erano le ragioni di questi provvedimenti (evitare il propagarsi del virus); il che la dice lunga su dove il principio di precauzione, con i suoi portati materialmente amministrativi e di inversione dell’onere della prova, può condurre sul piano delle ripercussioni costituzionali e istituzionali, ad esempio a fare prevalere, nella “ponderazione” e nel “bilanciamento”, un obbligo o dovere alla salute non presente in Costituzione su diritti fondamentali che invece vi sono fissati e consacrati.

Possiamo sintetizzare quanto accaduto, rilevando che ci troviamo di fronte a un’ipotesi di attivistica negazione della negazione, ossia di negazione dei limiti posti al potere dai principi dello stato di diritto, in nome di una valutazione soggettiva della “necessità”, e di quelle che sarebbero le sue ineludibili implicazioni, dimodochè, con atto unilaterale di imperio, si trasforma di fatto la Costituzione da rigida a flessibile, svelando il carattere unilaterale e ottriato di quel carattere rigido, negandosene così il preteso valore di patto sociale, con sua revoca fattuale altrettanto unilaterale e contra legem in nome di un principio analogo a quello del si volo, si voluero, sicché il “sovrano” rivendica mano libera, il che conferma che si tratta di dittatore sovrano.

Naturalmente, non manca la formula politica di legittimazione –anche se latitano le specifiche motivazioni tecniche all’interno dei provvedimenti adottati-, che è qui rappresentata, letteralmente, dalla salus publica, per cui come detto la salute, da declinazione della libertà del corpo, diviene obbligo di Stato; ma la cosa rilevante è che siffatta formula di public good si accompagna ai rituali magici legittimanti di una nuova categoria sacrale di sacerdotes, quella del ceto-casta degli scienziati[52], con una regressione culturale in senso paleo-positivistico, che può trovare idonea illustrazione critica in certe posizioni di Feyerabend sul rapporto tra scienza e potere e, quindi, in considerazioni disincantate di sociologia della scienza; ciò in quanto abbiamo tutti constatato come questi sacerdotes, in realtà, dal punto di vista squisitamente tecnico, non sapessero praticamente nulla del virus, essendo anche divisi tra di loro, smentendo la vulgata semicoltista, in realtà profondamente ignorante, di stampo burioniano, sulla scienza, secondo la quale questa sarebbe sempre esatta e oggettiva come se si trattasse di aritmetica, sicché non sopporterebbe democrazia e dissensi (il famoso “2+2=4 e non 5”).

D’altra parte, in questa vicenda è successo un fatto particolare, ossia che la consulenza tecnico-scientifica (non sempre) è stata impiegata per introdurre illeciti e sanzioni, ma ciò rappresenta un non sequitur, e quindi una violazione della Legge di Hume, perché si sono ricavati doveri e obblighi da asserzioni sull’essere, quanto se ne sarebbero potute ricavare semplici raccomandazioni, o consigli, o suggerimenti, peraltro sempre da ritenersi opinabili e suscettibili di discussione: invece divenivano de plano imperativi, con i corifei degli univoci mass-media a farsi a loro volta celebratori H24, senza peraltro assurgere al rango di sacerdotes veri e propri, essendo in genere privi del necessario spessore: diciamo che fanno da diaconi.

E allora possiamo tornare a Schmitt, anche attraverso il prisma della lettura di Agamben, per meglio inquadrare il fenomeno nelle categorie gius-politiche note, e cercare di comprendere se ci troviamo di fronte a qualcosa di semplicemente sussumibile nella categoria dell’illegittimo e dell’illecito, ovvero a qualcosa che richiede un inquadramento paradigmatico nuovo, da collocarsi al limite dello snodo tra fatto e diritto, come allo snodo tra fatto e diritto si colloca il concetto stesso di sovranità, e con esso quello di fondazione costituzionale, di rivoluzione, o magari anche di diritto di resistenza.

Il punto è che il diritto, non solo quello dello Stato, non è concepibile se non in relazione a una fattispecie reale nella quale incardinarsi, al fine di acquisire effettività, e la “costituzione” è il modo, la forma del conseguire effettività di un sistema giuridico, con la conseguenza che qualsiasi innovazione al rango costituzionale rappresenta anche un diverso modo di relazionarsi, per quell’ordinamento, con il mondo dei fatti, un diverso modo di costruire e intendere quelle fondamenta, che, in quanto tali, sono a un tempo interne ed esterne all’edificio, dato che lo fondano dall’esterno, ma sono a esso saldate (come la kelseniana Grundnorm): schmittianamente, però, il sovrano è chi decide di questo modo, al di là di qualsiasi preclusione di carattere formale e nominalistico -con la conseguenza che per stabilire “chi” è il “Sovrano d’Italia” dovremmo capire chi davvero ha voluto quei DPCM di eccezione, e nel farlo dovremmo bypassare il velo degli incarichi formali, per capire se il sovrano-dittatore, nella specie, sia palese od occulto.

Schmitt iniziò il suo lavoro sulla sovranità partendo, come detto, dal concetto di dittatura, ma poi preferì mettere sotto la lente di ingrandimento un rapporto concettuale configurato diversamente, quello appunto tra sovranità e stato di eccezione, intesi entrambi come concetti limite. Senonché lo stato di eccezione si atteggia diversamente a seconda che si tratti di un’ipotesi normativamente prevista da una costituzione o no[53], posto che, nel secondo caso, esso si fonderebbe esclusivamente sul fatto normativo della necessità, in base al principio necessitas legem non habet, che, con Graziano, rappresenta l’altra faccia della medaglia del brocardo necessitas facit licitum[54].

Si noti che alcuni giuristi hanno proposto, quasi si trattasse di una forma di sanatoria virtuale rispetto alle illegittimità perpetrate, di introdurre esplicitamente in Costituzione una norma autorizzatoria di tal fatta, salvo che si tratterebbe un rimedio peggiore del male, dato che ben conosciamo la sorte di simili norme, alla luce dell’esperienza della Repubblica di Weimar, nel corso della cui vicenda il noto art. 48 della relativa Costituzione è stato applicato in più di 250 occasioni, fin quanto non fu Hitler a giovarsene[55]. Da un punto di vista opportunistico, quindi, sembra il caso che simili interventi, ai nostri tempi e da noi, restino platealmente “illegittimi”, in modo da poter sollecitare quel tanto di stato di diritto che resta, a livello interno (tribunali) e internazionale (corti dei diritti), al fine di fare invalidare quei provvedimenti, o anche al fine di giustificare forme di diritto di resistenza[56].

Il discorso di Schmitt, per il quale il sovrano, ossia colui il quale decida se sussista il caso estremo dell’emergenza, e che cosa si debba fare per fronteggiarlo[57], nel momento in cui colloca siffatto sovrano a un tempo fuori dall’ordinamento giuridico normalmente vigente, ma al contempo lo considera appartenente allo stesso, toccando a lui la competenza a decidere[58], va inserito nell’ambito della sua polemica con Kelsen e Krabbe, i quali, soprattutto il secondo, molto meno statalista di Kelsen, tendevano a considerare sovrano, non alcun essere umano, ma il diritto stesso, configurandosi l’ordinamento giuridico come del tutto spersonalizzato, il che, a ben vedere, si avvicina a un’ipotesi di utopia libertaria (il governo del mero diritto e non il governo dell’uomo sull’uomo), e però allora si trattava, soprattutto nel caso di Krabbe, di un dover essere, ma non di una visione realistica delle cose e delle situazioni reali[59]. Va però detto che Schmitt non sembra sufficiente chiaro nel delineare il fatto che la persona-sovrano non va individuata a priori, ma sul campo e a posteriori, per cui, nel mondo dei fatti, non può esservi il titolare di una competenza formale a emettere decisioni di tal fatta, sicché chi sia il titolare della relativa competenza rappresenta un riscontro fattuale e non formale, tanto più che qui la competenza è un’autoattribuzione di competenza, e quindi una Kompetenz-kompetenz, ossia la decisione attorno a chi sia il soggetto competente a deliberare lo stato di eccezione, sia pure per molti versi implicita.

Schmitt introduce, a tale proposito, una rilevante distinzione tra “diritto”, da un lato, e “Stato”, dall’altro, giacché, attraverso la proclamazione del stato di eccezione, “lo Stato continua a sussistere, mentre il diritto viene meno[60]; a mio avviso tale affermazione è imprecisa, anche se mi è chiaro il senso del distinguere lo Stato come istituzione, organizzazione materiale e persona giuridica ideale, dal diritto inteso come il rule of law della sua limitazione. Tuttavia, la decisione, in quanto intesa come fatto normativo e non come applicazione del diritto vigente, non comporta fuoriuscita dal diritto, ma, semmai, dallo stato di diritto –reso eventualmente precario dalla presenza di una norma sullo stato di eccezione-, salvo appunto che si tratta di diritto di eccezione, al quale si perviene mediante un atto-fatto di rottura costituzionale, o di sua derogazione in caso di presenza della predetta norma, che comporta, non un passaggio dal diritto al fatto, ma, attraverso il fatto-diritto, da un sistema di diritto a un altro, in omaggio al principio ex facto oritur iusche esprimerebbe a sua volta una fallacia naturalistica, se non fosse che il fatto normativo costitutivo rappresenta ab origine un fatto istituzionale; salvo però che la parvenza di supposto consenso del cittadino era rivolta allo stato di diritto, non a un “diritto” di Stato purchessia.

In questo senso, hobbeseanamente, ci troviamo di fronte a una sorta di “liberi tutti” –lo stato di natura è uno stato di eccezione[61] permanente-, sicché, così come in Hobbes la rottura del patto sociale da parte del sovrano comporta il ritorno allo stato di natura, non potendosi più ritenersi vincolati al rispetto i sudditi, anche nel nostro caso si rompe il patto, e si legittima l’esercizio del diritto di resistenza[62], che è fatto normativo a sua volta, in quanto non sia previsto come diritto o come dovere, come nel caso della nostra Costituzione: così come soggettivo è il giudizio del sovrano sulla ricorrenza delle circostanze, che lo inducono alla decisione sullo stato di eccezione, del pari puramente soggettivo è il giudizio del suddito-cittadino in ordine alla sussistenza delle circostanze che lo legittimino all’esercizio del diritto di resistenza –si immagini però un tribunale, il quale debba decidere del corretto esercizio dei due fatti normativi decisori!

Dottrina dello Stato a parte, va comunque evidenziato come sia in corso una sorta di esperimento sociale, perché è evidente come tutta questa vicenda poggi su alcuni pilastri fondamentali dell'autoritarismo, con forti elementi hobbeseani: anzitutto la paura, ci mettono paura e vogliono che ci comportiamo di conseguenza; poi paternalismo e moralismo: questo si fa, questo è consentito, questo non si fa, perché ti diverti troppo –si noti il ribaltamento del principio dello stato di diritto, per cui un atto è illecito in quanto vietato, mentre qui, ossia nella logica dei DPCM, all’opposto, un atto è lecito in quanto esplicitamente consentito, e tutto il resto si intende vietato: e allora potevi vedere solo “congiunti”, si è fatta sofisticata casuistica sugli “affetti stabili” meritevoli di essere incontrati (insomma, niente sesso, magari sì ma con la mascherina-preservativo); niente attività sportiva (si pensi alla grottesca vicenda della persecuzione poliziesca dei runner), ma solo sana attività motoria sotto casa (al parco no perché ti diverti troppo). Niente festini in casa, niente compleanni dei bambini con gli amichetti, divieto di ballo (perché la sala da ballo può anche aprire, ma il ballo in sé è vietto, un po’ come vietare di dare da mangiare ai piccioni), e così via, verso il mondo del 1984 e della sua psico-polizia.

*****

Come si vede, non ho detto una parola su quanto possa essere grave tale “pandemia”, non trattandosi di argomento di mia competenza, anche se la sensazione è che questa gravità sia stata e sia enfatizzata per ragioni di comodo politico; in ogni caso, quale che sia tale gravità, ciò non pone in ombra il fatto che si sia smantellato lo stato di diritto, il che non è avvenuto in altri casi del passato, il che fa emergere come rilevanti i rilievi poco sopra svolti.

Riconosco, però, che la posizione di chi, come Huemer e i libertarians, sostiene che non abbiamo bisogno dell’autorità politica e dell’obbligo politico, o che comunque questi ultimi sarebbero illegittimi, è stata messa a dura prova dalla vicenda del Covid19; anche diversi libertarians hanno vacillato, o sbracato, avendo sostenuto che, non solo l’infetto, ma chiunque, in quanto potenziale infetto, circolando violerebbe il principio di non aggressione rothbardiano (NAP), quando questo riguarda solo le minacce concrete e attuali, e quindi non è per nulla pertinente al nostro caso, in cui semmai opera il ben diversamente ispirato principio di precauzione; tutto ciò, non avendo nemmeno maturato una visione ben chiara di quali possano essere le alternative al pervasivo intervento governativo in caso di epidemia o pandemia, nonostante esista una teoria libertaria della fornitura dei “beni pubblici” in regime di mercato, che però si è faticato a riferire alla nostra circostanza.

La Svezia ha dato un’indicazione, puntando poco sulla coercizione e più sull’informazione e la raccomandazione, mentre noi abbiamo seguito lo sbrigativo modello autoritario cinese; sicché occorre ritenere che il libertario vacillante sia incorso nella stessa fallacia logica di chi, da un indicazione di carattere medico ricava la necessità di un precetto assistito da sanzione, anche dura –visto che assistiamo ad atti di violenza in giro per il mondo da parte delle polizie in danno di chi, ad esempio, non porta la mascherina, dispositivo di protezione personale, sulla cui utilità o necessità si è peraltro spesso opinato in direzione diverse da parte della stessa OMS-, tralasciando l’ipotesi non autoritativa della raccomandazione e del consiglio.

Ma siamo del tutto sicuri di essere di fronte a un problema di beni pubblici in senso tecnico? Abbiamo visto, ad esempio, come, in linea di massima, si presuma che il libertario sia dotato di una maggiore propensione al rischio rispetto ad altri, sicché andrebbe giustificata la ragione, per la quale egli si debba vedere imposto un livello di precauzione e cautela uguale a quello che sia imposto agli altri, più timorosi di lui: tant’è che, presso quel mondo, è stato coniato lo slogan “la mia libertà non finisce dove inizia la tua paura”, che è un buono slogan, dato che mette a fuoco tutta la problematica dell’indivisibilità delle scelte d’autorità in materia di principio di precauzione, nonché mette in discussione lo schema hobbeseano, per il quale tutti vivrebbero in pari modo i rischi dello stato di incertezza.

 

Posto che il mercato è un sistema omnesistico, ossia in cui il tutto in emersione conta quanto le sue singole parti costitutive, ritengo perciò, sempre di massima, che una comunità (nel senso appunto di un “mercato”) abbia il diritto di scegliere i propri livelli di rischio atteso, e richiamo il concetto di mercato proprio per dare l'idea della divisibilità delle scelte: io scelgo di rischiare, e faccio la movida, tu scegli di non rischiare, e stai a casa; se dispongo di adeguate informazioni, probabilmente starò a casa per scelta, pur avendo una buona propensione al rischio, non essendo comunque un avventato: per cui il termine angolare qui è informazione, sul presupposto che noi possiamo ipotizzare, con von Hayek, che nel mercato circolino più informazioni, rispetto a quanto non ne possa fare circolare d’autorità lo Stato, che potrebbe anche avere interesse politico al segreto, dando vita così a un possibile ordine spontaneo. Non è comunque configurabile, dal punto di vista libertario, l'imperativo dall'alto “è vietato rischiare”, dato che il calcolo costi/benefici è individuale e soggettivo, e graduata quindi diviene l’applicazione del principio di precauzione.

 

Si dirà che, in tal modo, si impedisce di perseguire coerentementa il “bene comune”, ma occorre comprendere che non esiste una nozione aprioristica e univoca di bene comune, della quale debba poi farsi interprete lo Stato, imponendo quella nozione indivisibilmente a tutti: anche il bene comune, ovvero a proposito di che cosa sia da intendersi per effettivo bene comune, è soggetto ai giudizi di valore dei singoli, per cui il suo esito emerso e sopravveniente, frutto di azioni individuali divisibili, improntate a giudizi diversi tra loro, è un composto granulare, frastagliato, caleidoscopico e flessibile, il che si legittima anche sulla base della considerazione che non v’è garanzia  dell’effettiva efficacia delle scelte unilaterali imposte dallo Stato (né che sia efficace il metodo delle scelte unilaterali e indivisibili). Occorre sempre garantire la più ampia circolazione delle informazione (mentre lo Stato impone segreti), una discussione aperta e pubblica sulle soluzioni migliori

 

Semmai si potrebbe ipotizzare che, se nel corso di un’epidemia, un mio comportamento di assunzione personale del rischio possa comportare rischio effettivo anche per altri, si dia vita a un mercato dell’esternalità, per cui l’assuntore del comportamento rischioso non sia impedito nel proprio operato, ma compensi il non assuntore di rischio, ovvero il contrario, ossia che chi vieta l’assunzione di comportamenti rischiosi risarcisca chi ne venga impedito.

 

Torna quindi di attualità nel nostro percorso argomentativo il concetto di indennizzo, che viene totalmente trascurato dall’attuale dibattito, pur a fronte di un ammesso intervento di autorità da parte dello Stato. Ad esempio, oggi ci troviamo di fronte all’assurda situazione, per la quale un infetto rischia di perdere tutti i diritti di libertà personale, senza che a ciò corrisponda alcun risarcimento o indennizzo. D’altra parte, non può dirsi vigente un principio, che ci consenta di scegliere, nel gioco a somma zero, chi abbia diritto di circolare e chi no: l’infetto, ad esempio, potrebbe pretendere, dal suo punto di vista, non essendo un colpevole, di avere tutto il diritto di circolare, e che spetti agli altri di cautelarsi, senza violare i di lui diritti.

 

Peraltro, anche gli altri entrano in dialettica unisoggettiva, dato che potrebbero essere potenzialmente infetti anche loro, ma anch’essi hanno un interesse a poter circolare (l’alternativa sarebbe che, essendo tutti potenziali, infetti, tutti dovrebbero sempre vivere agli arresti domiciliari), forti di un calcolo costi benefici e di assunzione del rischio reciproco, sicché si tratta di stabilire quanto rischio una comunità è disponibile ad assumere, attraverso il composto delle scelte individuali, individuando il margine limite delle condotte reciprocamente ammesse (tanto più non essendo stato ancora chiarito il regime sanitario degli asintomatici). Ciò significa che ci muoviamo nell’ambito del discorso utilitaristico degli interessi legittimi, ma suo presupposto è che, pur in tale concetto più sfumato di self-ownership, la lesione di interessi legittimi comporti sempre indennizzo, diversamente da quanto avviene nel nostro diritto amministrativo positivo, per il quale questo principio non vige: ad esempio, non viene indennizzato il danneggiato da una scelta urbanistica, pur a fronte del beneficio procurato ad altri.

 

Che cosa avrebbe fatto quindi l’ipotetico “dittatore libertario” di fronte alla questione Covid-19? Avrebbe soprattutto diffuso e favorito la massima diffusione delle informazioni (quindi niente segreti e ampia critica alle informazioni provenienti dall'alto), sulla base delle quali ognuno avrebbe potuto prendere la propria migliore decisione individuale, anche attraverso gli incentivi derivanti dal gioco degli indennizzi[63], dalla quale sarebbe emersa, per sommatoria delle interagenti scelte individuali, una “scelta pubblica”, per fonte individuale e associata, quindi una scelta pubblica frastagliata e a caleidoscopio, prendendo semmai provvedimenti coercitivi solo in casi eccezionali, che siano davvero qualificabili “legittima difesa” o "stato di necessità", sempre però indennizzando gli interessi sacrificati: se non c’è legittima difesa o stato di necessità, per un libertario, non sono legittimi provvedimenti coercitivi in nome di un generico e strumentale principio di precauzione: il principio resta quello per il quale, se bene informata, una comunità ha tutto il diritto di scegliersi, per emersione dalle condotte individuali, il proprio livello di rischio e il proprio livello di sicurezza.



[1] Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale – Uno scritto polemico, Milano, Adelphi, VII ed., 1995 (1887),76.

[2] Vedine un’illustrazione in Roberto Escobar, Nietzsche politico, Milano, M&B Publishing, 2003, 167.

[3] “Stato si chiama il più freddo di tutti i mostri. Ed è freddo anche nel suo mentire; e dalla sua bocca striscia questa menzogna: "Io, lo Stato, sono il popolo". E’ una menzogna!” Così parlò Zarathustra, in Nietzsche, a cura di Fabrizio Desideri, Newton Compton, Edizioni Integrali, Roma, 2011 (1885), 448.

[4] Troppo uomini nascono: per i superflui fu inventato lo Stato! (…) Là dove lo Stato cessa, là comincia l’uomo che non è superfluo: là comincia il canto del necessario, la melodia unica e insostituibile. Là dove lo Stato cessa– là guardate, fratelli miei! Non vedete li vedete i ponti dell'arcobaleno e del superuomo?” (F. Nietzsche, ivi, , 449-450)

[5] Sicché si rinvia ancora a Roberto Escobar, op. cit., 159 ss.

[6] Si veda anche Friedrich  Nietzsche, Lo Stato greco – Prefazione, in Idem, La filosofia nell’epoca tragica dei greci e scritti 1870-1873, Milano, Adelphi, 1991 (1872), 95 ss.

[7] Ludwig Gumplowicz, Compendio di sociologia, Milano, Unicopli, 1984 (1885), 109.

[8]  E. de La Boétie, La Servitude Volontaire, Paris, Federic Morel, 1571 trad. it. Discorso sulla servitù volontaria, Torino, La Rosa Editrice, 1995 (1548),

[9] Ludwig  Gumplowicz, op. cit., 107

[10] Ivi, 107-108.

[11] Franz Oppenheimer, The State, New York, Free Life Editions, 1975 (1914), 12-13.

[12] Widar Cesarini Sforza, Diritto soggettivo, in Enciclopedia del Diritto, vol. XII, 1964, 662.

[13] Eva Cantarella, Diritto greco – Appunti dalle lezioni, Milano, Unicopli, 2012, 14.

[14] Cfr. Marija Gimbutas, Kurgan – le origini della cultura europea, Milano, Medusa, 2010, 24, 61, 68.

[15] Cfr. Johann Jacob Bachofen, Il matriarcato. Ricerca sulla ginecocrazia nel mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici, 2 voll., a cura di Giulio Schiavoni, Torino, Einaudi, 1988.

[16] Cfr. Marija Gimbutas, Il linguaggio della dea, Roma, Venexia, XXI.

[17] Carlo Sini, Divano orientale, Prefazione a Marija Gimbutas, Kurgan, op. cit..

[18] Cfr. Mario Liverani, Uruk la prima città, Bari, Laterza, 1998.

[19] John W. Grough, Il contratto sociale, Bologna, Il Mulino, 1986 (1936), 61.

[20] Carl Schmitt, Il nomos della terra, Milano, Adelphi, 1991 (1974), 163 ss.

[21] Così Luigi Marco Bassani – Alberto Mingardi, Dalla Polis allo Stato – Introduzione alla Storia del pensiero politico, Torino, Giappichelli, 2015, 35 ss.

[22] Cfr. Francesca Giusti, I primi Stati – La nascita dei sistemi politici centralizzati tra antropologia e archeologia, Roma, Donzelli, 2002, da un lato, e Luigi Blanco, Le origini dello Stato moderno – Secoli XI-XV, Roma, Carocci, 2020, dall’altro.

[23] Cfr. Michael Huemer, op. cit., cap. 6, 181 ss.

[24] Cfr. Leon Festinger, Teoria della dissonanza cognitiva, cit., 76.

[25] Per cui si parla di “discrepanza tra il comportamento esteriore e l’opinione privata” (ivi, 78 e 80).

[26] Ivi, 91.

[27] Cfr. Roberto Segatori, L’ambiguità del potere – Necessità, ossessione, libertà, Roma, Donzelli, 1999, 139 ss.

[28] Ivi, 152.

[29] Cfr. Cass R. Sunstein, Il diritto della paura – Oltre il principio di precauzione, cit. 13.

[30] Ivi, 15.

[31] Ivi, 42 ss.

[32] Ivi, 40-41.

[33] Ivi, 30 ss.

[34] Ivi, 99.

[35] Ivi, 81.

[36] Ivi, 37.

[37] Del resto si noti che il principio di precauzione vale da tempo a sostegno del proibizionismo sulle droghe, anche leggere, ma, non si sa perché, non anche del tabacco e degli alcolici.

[38]Everything si what it is: liberty is liberty, not equality or fairness or justice or culture, or human happiness or a quiet conscience” (Isaiah Berlin, Two concepts of Liberty, in Idem, Liberty, Edited by Henry Hardy, Oxford University Press, 2017, 172).

[39] Cfr. Amartya K. Sen, La diseguaglianza, Bologna, Il Mulino, 2010 (1992), 63 ss

[40] Cfr. Mauro Barberis, Esiste il neocostituzionalismo? – Relazione tenuta presso l’Università di Girona e Tecla Mazzarese, Neocostituzionalismo e positivismo giuridico. Note a margine, in Ragion Pratica, 2/2003, Dicembre, 557 ss.

[41] “I diritti innati, intesi come attributi della personalità, non si concepivano dai giusnaturalisti astrattamente, ma come reali poteri fenomenici e pratici, che dovevano servire all’individuo a difesa della sua personalità di fronte allo Stato, alle associazioni, alla società” (Gioele Solari, Individualismo e diritto privato, Torino, Giappichelli, 1959, 11, evidenziazione nostra).

[42] Salvo poi discutere se sussista una gerarchia anche tra le diverse tipologie di diritto umano (cfr. Francescomaria Tedesco, Diritti umani e relativismo, Bari-Roma, Laterza, 2009). Una diversa strategia è quella di bilanciare i diritti sulla base di determinati principi (Cfr. Ronald Dworkin, I diritti presi sul serio, Bologna, Il Mulino, 1982 (1977)), trasmutandoli in diritti prima facie, nei fatti in interessi legittimi da ponderare. Considera questo un indebolimento dal punto di vista garantista Luigi Ferrajoli, La democrazia attraverso i diritti, Bari-Roma, Laterza, 2013, 109 ss.). In ogni caso, Dworkin mostra qualche difficoltà a inserire i principi nella gerarchia delle fonti.

[43] Jürgen Habermas, Legittimazione tramite diritti umani, in Idem, L’inclusione dell’altro– Studi di teoria politica, Milano, Feltrinelli, 2008, 216 ss.

[44] Giorgio Agamben, A che punto siamo? – L’epidemia come politica, Macerata, Quodlibet, 2020, 11-12.

[45] Per le radicali trasformazioni che la vicenda Covid comporta nel mondo dell’economia globale, nel ruolo delle istituzioni transnazionale e della vita civile per ciascuno di noi, in particolare nella direzione di un probabilmente distopico big government, cfr. Klaus Schwab – Thierry Malleret, Covid-19: The Great Reset, Cologny/Geneva, World Economic Forum, 2020.

[46] Mi attengo alla vicenda nella sua dimensione italiana, che è quella che ho seguito, anche se immagino che problemi analoghi si trovino un po’ dappertutto.

[47] Cfr. Carl Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, Bari, Laterza, 1975 (1921).

[48] Carl Schmitt, Teologia politica – Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Idem, Le categorie del ‘politico’, cit., 33.

[49] Giorgio Agamben, Stato di eccezione – Homo sacer, II, 1, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, 18.

[50] Cfr. Giorgio Agamben, Stato di eccezione, cit., 28.

[51] Cfr. Carl Schmitt, Legalità e legittimità, in Idem, Le categorie del ‘politico’, cit., 211 ss., 240.

[52] Cfr. Giorgio Agamben, La medicina come religione, in Idem, A che punto siamo, cit., 69 ss.

[53] Salvo però che l’ambivalente art. 2 del TULPS, norma eccezionale non di rango costituzionale, fu adottato in regime di costituzione flessibile, lo Statuto Albertino vigente ancora durante il fascismo, e però è rimasto in vigore anche in regime repubblicano di costituzione rigida, eppure fu ancora applicato nel 1977, durante quel periodo di contestazione, pur dopo varie sentenze ammonitrici della Corte costituzionale.

[54] Cfr. Giorgio Agamben, Stato di eccezione, cit., 34 ss.

[55] Ivi, 24 ss.

[56] In data 13 maggio 2020, la Corte Suprema del Wisconsin ha dichiarato “unlawful, invalid, and unenforceable” l’Emergency Order 28 adottato dal Department of Health Services (DHS), con cui si imponeva il lockdown. Perché "L'emergenza non crea potere": “Emergency does not create power. Emergency does not increase granted power or remove or diminish the restrictions imposed upon power granted or reserved. The Constitution was adopted in a period of grave emergency. Its grants of power to the federal government and its limitations of the power othe States were determined in the light of emergency, and they are not altered by emergency”.

[57] Carl Schmitt, Teologia politica, loc. cit., 34.

[58] Ibidem.

[59] Ivi, 48.

[60] Ivi, 39.

[61] Giorgio Agamben, Homo sacer – Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 2005, 121.

[62] Giorgio Agamben, Stato di eccezione, cit., 20 ss.

[63] Rielaboro in questi termini per me più accettabili la proposta di “paternalismo libertario” avanzata da Cass R. Sunstein, Il diritto della paura, cit., 237 ss.

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