di Fabio Massimo Nicosia
Si è visto a più riprese nella prima parte di questo lavoro come la conoscenza ontologica sia spesso immancabilmente anche simultanea e non disgiunta conoscenza assiologica (valoriale), perché a questo ci conduce il nostro linguaggio all’atto dell’afairesi, dell’astrazione e della sussunzione, e abbiamo spesso incontrato al riguardo l’espressione “fallacia naturalistica”; occorre quindi a questo punto riprendere il discorso, per dire delle origini e del significato più preciso di questa espressione, e allora occorre partire dalla cosiddetta “legge di Hume”.
Così scrive il grande
scozzese: “In ogni sistema morale in cui
finora mi sono imbattuto, ho sempre trovato che l'autore va avanti per un po'
ragionando nel modo più consueto, e afferma l'esistenza di un Dio, o fa delle
osservazioni sulle cose umane; poi tutto a un tratto scopro con sorpresa che al
posto delle abituali copule è o non è incontro solo proposizioni
che sono collegate con un deve o
un non deve; si tratta di
un cambiamento impercettibile, ma che ha, tuttavia, la più grande importanza.
Infatti, dato che questi deve,
o non deve, esprimono una
nuova relazione o una nuova affermazione, è necessario che siano osservati e
spiegati; e che allo stesso tempo si dia una ragione per ciò che sembra del
tutto inconcepibile ovvero che questa nuova relazione possa costituire una
deduzione da altre relazioni da essa completamente differenti”[1].
È questa la proposizione fondamentale, che ha dato
vita alla cosiddetta “legge di Hume”, detta anche “Is… Ought problem”, sul divieto di ricavare il dover essere
dall’essere, se non introducendo proposizioni diverse da quelle sull’essere,
proposizioni a loro volta da motivarsi e giustificarsi. Si tratta, come si
vede, di un’epitome libertaria, in quanto volta, da un lato, a delegittimare
grande parte delle imposizioni di obblighi e, da un altro lato, ad assoggettare
comunque la pretesa di stabilirne a una ragionata motivazione e discussione,
fondata su premesse diverse da quelle meramente dichiarative; un esempio di
violazione della legge di Hume potrebbe essere ravvisato nell’asserzione
seguente: “Siccome la vita umana nasce
dal rapporto sessuale, il rapporto sessuale deve essere considerato finalizzato
alla procreazione, e quindi sono illeciti rapporti sessuali privi di tale
finalizzazione”; laddove si tratta evidentemente di una questione
antropologica, legata a fattori culturali, per cui noi sappiamo che, nella
modernità, e molto probabilmente non solo, il piacere sessuale viene disgiunto
dallo scopo della creazione, con la conseguenza di far caducare tutta una serie
di obblighi e divieti morali, fondati su quell’obbligo o divieto fondamentale,
a sua volta radicato in una mera asserzione sull’essere, ossia che la vita
umana sorge dal rapporto sessuale (il che viene a sua volta messo in
discussione dal “progresso scientifico”).
Allo stesso modo, violerebbe la legge di Hume, oltre a
rappresentare un non sequitur, una
simile proposizione: “Siccome l’embrione
è una vita umana, l’aborto va punito dal diritto penale”, dato che dalla
prima asserzione di essere, peraltro opinata, si ricava una conseguenza sul
dover essere di una sanzione, la quale invece richiederebbe autonome e distinte
considerazioni di opportunità; in entrambi i casi assistiamo a un salto logico di genere, dato che un
modalità descrittiva di un fatto di “natura” (vero o supposto), si pretende
derivi un uso del libero arbitrio e della discrezionalità in una direzione o
nell’altra, senza che tale arbitrio sia però davvero limitato dalla natura stessa, e allora si pretende che lo
sia ab exitrinseco, utilizzando la
pretesa “natura” come formula di legittimazione di un divieto esterno.
D’altra parte, esistono libertari, o sedicenti tali,
che fondano il loro libertarismo proprio sulla sussistenza di obblighi, anche
in termini unilaterali (ad esempio l’obbligo di rispettare la proprietà
privata, giusnaturalisticamente fondata), e allora costoro non saranno in grado
di cogliere l’aspetto dirompente della “legge di Hume”, e anzi la
contesteranno.
Ora, occorre però subito, per chiarezza
dell’esposizione a venire, delimitare esattamente la portata della questione,
così come posta da Hume, ossia esattamente la questione della critica al
concetto di “obbligo” o di “dovere”, quanto ai suoi fondamenti, in quanto
l’obbligo o il dovere pretenda di imporsi, non si sa su quale base di
legittimazione, da un soggetto A a un soggetto B, quando noi già sappiamo che
il “tu devi” di A giammai può costituire fonte di obblighi, giuridici o morali,
unilaterali in capo a B[2],
e ho chiamato questo “assioma libertario”[3],
il quale funziona “negativamente”, alla stregua di una delegittimazione, più che
di una legittimazione morale, ricavandone alcune implicazioni: ad esempio che,
non solo lo Stato è moralmente illegittimo, ma anche che la proprietà privata
non può essere rivendicata unilateralmente, richiedendo consenso per
convalidarsi, con la conseguenza che, in origine, la Terra va considerata
comune.
Riconosco che tale posizione, all’apparenza, potrebbe
comportare violazione della legge di Hume quanto l’altra, e quindi fallacia
naturalistica, dato che sembra porre un divieto all’apprensione unilaterale
sulla base di un’asserzione di fatto, o forse addirittura metafisica, ma
vedremo successivamente perché ritengo che invece, in tal caso, la fallacia non
sussista; ma posso anticipare che la ragione principale, per la quale non
sussiste, è perché si tratta semplicemente di un punto di vista, in particolare il punto di vista del dotato di
inclinazione libertaria, che non si propone come “dovere” nei confronti del
dotato di inclinazione autoritaria, che può continuare a pensare come ritiene,
salvo naturalmente dare vita a uno scontro di carattere politico amico/nemico,
che però non ha nulla a che vedere con il discorso morale.
Se questi sono i limiti, che ritengo di ravvisare
nell’ambito di operatività della legge di Hume –nella buona sostanza,
delegittimare le imposizioni unilaterali, quantomeno quelle prive di adeguata
argomentazione: ad esempio, un’imposizione naturale in nome della legittima
difesa, quindi della reciprocità, sarebbe bene argomentata-, si tratta allora di
vedere se gli stessi siano rispettati dalla prospettazione della stessa nei
termini della “fallacia naturalistica” ad opera del filosofo meta-etico George
Edward Moore. A mio avviso, con Moore si assiste a uno slittamento di
prospettiva, gravido di conseguenze, dato che all’attenzione viene posto,
almeno primariamente, non già il concetto di “obbligo” o di “dovere”, ma il
concetto di “buono” o di “bene” (good),
sicché diviene questa la nozione cardine della configurabilità di quella che
Moore chiama appunto “fallacia naturalistica”, che, in tale quadro, diviene il
divieto di ricavare da elementi naturalistici lo stesso giudizio di “good”[4].
L’impressione, dunque, è che lo spazio coperto dalla
fallacia naturalistica di Moore sia più esteso rispetto allo spazio coperto
dall’”Is…Ought” di Hume, il che però forse
comporta che, ai margini, la nuova differente nozione assuma caratteri
autoritari e non libertari, dato che rischia di vietare troppo, o almeno questo
ci proponiamo di verificare.
Per
Moore, in effetti, anche solo ricavare da alcune proprietà di un oggetto che
esso sarebbe “buono” comporterebbe naturalistic
fallacy[5],
salvo che in tal caso si tratterebbe di fallacia del tutto innocua, almeno fin
quando da siffatta qualificazione di buono non si pretenda di ricavarne vincoli
di operatività nei confronti di terzi. Il punto critico è rappresentato
anzitutto dalla definizione del
termine “good”, che in realtà è un termine ultimo, che quindi più che essere
definito si propone come strumento per
definire; sicché più che a un problema di definizione ci troviamo di fronte
a un problema di sussunzione, dato che occorre comprendere quali proprietà deve
possedere un oggetto per essere definito “buono”, con la conseguenza di
innescare un’apparente circolarità, dato
che è poi da quelle proprietà che possiamo ricavare induttivamente, oltre che
intuitivamente, ossia a tentoni; accompagnando però l’induzione e l’intuizione
con un ragionamento su perché si ritenga che un oggetto sia buono, ossia
esplicitando il criterio di giudizio su perché un dato oggetto sia da lodarsi o
desiderarsi, insinuandosi cosi una definizione, anche tacita o
implicita, di “buono”, nel momento stesso in cui utilizziamo il termine, e
allora si tratterà di argomentare e di motivare persuasivamente, riempiendo
quel termine formale, quel meta-concetto, di contenuti specifici e particolari,
mutevoli di volta in volta, dato che, in ogni settore, “buono” possiede la sua
accezione particolare, individuando la quale, magari aiutandoci con i sinonimi,
compiamo un passo in direzione dell’accezione generale.
Moore instaura dunque una polemica nei confronti
dell’utilitarismo classico, che viene ricondotto a mero edonismo, pur con
alcune precisazioni, criticando l’asserzione per la quale il bene, o il solo
bene, sarebbe il piacere, indentificato con ciò che sarebbe desiderato, o –qui
risiederebbe la fallacia- desiderabile[6].
Ma, a parte le imperfezioni di linguaggio che possano ravvisarsi in Bentham e
in Mill, corrette in parte dalla meticolosità di Sidgwick, in fondo ciò che
Moore imputa all’utilitarismo classico è di avere ricavato dall’affermazione
che l’uomo cerca il piacere il fatto che lo debba cercare[7]
–sottinteso fallace: perché sarebbe “naturale” farlo[8]-,
e che lo debba cercare indivisibilmente fra tutti e da parte di tutti in nome
della felicità generale[9];
ma a ben vedere, pur con questo vizio linguistico, legato al “dovere” agire in
un certo modo, il danno pare modesto, ai limiti della tautologia, per cui
ognuno preferirebbe stare meglio, piuttosto che stare peggio, e da ciò si
ricava una regola abbastanza poco deontologica!
Semmai Moore disquisisce sulla nozione di “piacere”,
della quale però fornisce una visione riduttiva, che invece già Bentham
rigettava -intendendo “piacere” a sua volta come meta-nozione formale in grado
di incorporare qualsiasi bene della vita, o valore, potesse costituire
preferenza e ragione di soddisfazione, sicché agevolmente l’utilitarismo
diviene asso pigliatutto[10]-
dimodoché poi Moore propone un suo proprio “utilitarismo” perfezionista ed
estetico[11] –da
considerarsi uno sviluppo dell’utilitarismo qualitativo di Mill[12]-
che non si comprende perché mai dovrebbe sottrarsi alle stesse critiche di
fallacia, sul fronte del nesso essere-dovere, nel momento in cui l’autore
comunque lo propone come modello.
Più fondata appare invece la critica al kantismo, là
dove questo propone addirittura come imperativo[13] l’opzione etica da preferire in ordine
a un valore intrinseco, ma anche in tal caso la questione è, almeno in parte,
più linguistica che di sostanza, se la sostanza è più indicata che non imposta, giacché ognuno l’imperativo lo deve poter
sentire in sé, nella propria autonomia; con la conseguenza che, con riferimento
a Kant, altre sono le questioni più rilevanti.
Salvo che Moore, se da un lato vieta troppo,
dall’altro vieta troppo poco, dato che non è sua intenzione contestare o negare
l’etica in quanto tale, il suo non è un discorso di tipo scettico come in Hume,
né tantomeno nichilista; e però ritiene e ammette che l’etica si occupa di ciò
che dovremmo fare, “what we really ought
to do”[14], il
che poi non sarebbe altro che un altro modo per riempire di contenuti specifici
il concetto formale di “good”.
Ma se così stanno le cose, se compito dell’etica, di
una qualsiasi etica, è di saperci indicare degli obblighi o degli atti dovuti
in funzione del perseguimento del bene[15],
in una qualsiasi accezione, allora non è affetta da fallacia naturalistica
questa o quella etica, ma tutta l’etica e tutte le etiche, in quanto tutte
violerebbero la legge di Hume, sempre che la nozione di fallacia naturalistica
sia da sovrapporsi a quella di legge di Hume; salvo appunto argomentazioni
particolari, e introduzione di fattori linguistici adeguati, come ammette Hume
concessivamente, salvo che non si è mai chiarito bene quali poi questi possano
essere in concreto.
Vediamo allora brevemente un esempio, ossia come per
John Searle si potrebbe ricavare ought da
is, ricavando in particolare l’”obbligo” di mantenere una promessa
dal fatto di avere fatto una promessa a qualcuno. Il punto, afferma Searle, è
che nella definizione di promessa è insito
il fatto che la si “debba” mantenere, e quindi “promettere” significherebbe
null’altro che assumersi l’impegno, l’obbligo, di mantenerla[16].
In realtà ciò è semplicemente falso dal punto di vista
della definizione, dato che ne viene fornita una di tipo sintetico, in cui si
aggiunge l’elemento dell’obbligo del mantenere la promessa, quando il fatto del
mantenerla consiste in un atto di volontà autonomo, che non è affatto implicato
o necessario rispetto all’atto del promette, ma richiede una distinta
espressione di discrerzionalità, dato che è proprio di una promessa il fatto di
potere essere revocata in qualsiasi momento in quanto atto unilaterale; dato
che, se pure si trattasse dell’assunzione spontanea e unilaterale di un dovere,
chi ha il potere di assumerselo possiede
anche quello di sciogliersene in assenza di un’altrui consideration, la quale rinforzi l’impegno, rendendolo davvero
“doveroso”, dato che in assenza di sinallagma non v’è reciprocità, e quindi non
può configurarsi “obbligo” di sorta: ad esempio, di fronte a un’ingratitudine
altrui, o a un comportamento ritenuto immeritevole, o di fronte a una qualsiasi
circostanza sopravvenuta che faccia modificare l’intento del promittente;
quindi affermare che la promessa, in quanto tale, debba essere mantenuta è solo
una petizione di principio, volta a imporre un obbligo, in sè insussistente, in
chi la compie, in quanto vicenda estrinseca
rispetto al fatto di avere pronunciato una promessa; sicché si potrà lodare o
biasimare chi non la mantiene a seconda della casistica, ma mai si potrà
affermare in termini assoluti che un obbligo sia stato violato per principio e
definizione, dato che il giudizio sulla reputazione di chi non mantiene una
promessa sarà diversificato e frastagliato anche per il senso comune, dove
opererà al riguardo una pluralità di opinioni diversificate.
Affermare che una promessa debba essere mantenuta
sulla base dell’affermazione apodittica che “le promesse si mantengono”, sarebbe
come imporre l’obbligo di guidare un’automobile, ricavandolo dalla definizione
di automobile come qualcosa che è fatta per essere guidata; sicché Searle, in
definitiva, confonde il giudizio con il dovere, tanto più che, come si è visto,
il giudizio sul mancato mantenimento di una promessa non è necessariamente
un’univoca riprovazione, ma può anche costituire, a date condizioni, ragione di
approvazione (ad esempio, il mancato mantenimento della promessa nei confronti
dell’ingrato), o anche semplicemente, in molti casi, ragione di diffusa
indifferenza: ad esempio, pochi credono che le promesse di un candidato
politico saranno davvero mantenute, benché si sia pronti a lodarlo, ove lo
facesse, però anche a biasimarlo, nel caso in cui la promessa fosse pessima.
E allora proviamo ad affrontare la questione da una
prospettiva meta-etica più spiccatamente di filosofia e logica generale del
linguaggio, facendo riferimento al noto contributo di Richard M. Hare[17],
il quale tratta ex professo del modo
imperativo e del linguaggio prescrittivo[18]:
ebbene, secondo Hare, “il linguaggio
della morale è una sorta di linguaggio prescrittivo”[19],
e allora vien da chiedersi se questa rappresenti a propria volta una
prescrizione, in forza della quale io non potrei, ad esempio, proporre una morale non prescrittiva ma meramente indicativa[20],
o meramente orientativa, affermandosi che così come alle
promesse “si deve obbedire per definizione”, allo stesso modo un’etica sarebbe
“prescrittiva per definizione”, il che peraltro non è suffragato
dall’etimologia; e allora, in tal caso, il meta-etico Hare incorrerebbe egli
stesso direttamente in fallacia naturalistica, dato che ricaverebbe dal fatto
che l’etica è normalmente prescrittiva il fatto che sia vietato proporne di
diverso tipo, in nome dell’idea che un’etica, anche se non autoritaria nel
contenuto, sarebbe comunque tenuta a seguire un metodo autoritativo, come se la
sua pretesa fosse sempre necessariamente quella di informare di sé l’intera
società, con la conseguenza poi inevitabile di fare appello a tal fine
all’intervento dello Stato; a meno di non dare vita a un qualche gioco delle
tre carte, per il quale anche la mera indicazione orientativa sarebbe
prescrizione, salvo non essere in grado di ravvisare le conseguenze della
trasgressione della meta-prescrizione, dato che nessuno mi biasimerebbe per
essere stato indicativo e non prescrittivo!
E infatti Hare propone di rappresentare il linguaggio
prescrittivo, diramandone, da una parte, “imperativi”, a loro volta suddivisi
in “singolari” e “universali” e, dall’altra parte, “giudizi valutativi”,
suddivisi tra “non morali” e “morali”[21];
ne consegue che qualsiasi giudizio, il quale contenga un qualsiasi tipo di
“valutazione”, sarebbe da intendersi come una “prescrizione”, ma questo non può
essere accettato, proprio alla luce del significato del verbo “prescrivere”,
che, per il Dizionario Treccani, corrisponde a “stabilire, ordinare, in base a norme precedentemente fissate, ciò che
si deve fare, il comportamento da tenere”, se pure è vero che sono
considerate anche le ipotesi, più deboli, del “raccomandare formalmente, consigliare come necessario, utile e simili”,
le quali comunque sono per noi ancora troppo forti, riconducibili al “dare
regole” o “istruzioni”, salvo e comunque Hare avrebbe dovuto essere più preciso
su che cosa debba intendersi per “prescrizioni”, dato che, ribadito il loro carattere
non vincolante, posto che il loro
destinatario è sempre sovrano nel decidere se seguirle o non seguirle,
resterebbe da precisare ulteriormente l’elemento
soggettivo di chi le pronuncia, se il suo intento sia di vincolare o
semplicemente raccomandare o consigliare, o anche solo di esprimere una propria
opinione, sulla base di una propria libera sussunzione onto-assiologica, destinata
a valere solo per sé, o per chi eventualmente la condividesse spontaneamente.
Per altro verso, molte di queste regole e istruzioni
sono, nella vita reale, mere norme tecniche, il cui carattere di vincolatività
è subordinato alla volontà libera del soggetto di compiere una certa azione: in
tal caso, il cosiddetto “dovere”[22]
va inteso semplicemente come onere
costitutivo della cosa che vuoi fare, nel senso che tu resti il sovrano che
decide di farla, salvo che per poterla fare devi necessariamente attraversare
(è indispensabile e inevitabile che tu attraversi) alcuni passaggi: ad esempio,
se voglio lavare la biancheria con la lavatrice, dovrò per forza seguire le
istruzioni di funzionamento della lavatrice stessa, ma non si tratta di un
vincolo impostomi, ma, semmai, autoimpostomi, in quanto funzionale all’azione
che desidero effettivamente compiere: naturalmente, qui siamo nell’ambito
dell’indicazione non morale, tuttavia il
suo modello potrebbe estendersi, quale esito liberale, anche alle indicazioni
morali.
Ma il fatto che Hare intenda, al contrario, il
carattere vincolante dell’intento di chi si esprima attraverso il linguaggio
prescrittivo parrebbe dimostrato dal fatto che egli consideri, come detto, gli
“imperativi” una forma di linguaggio prescrittivo[23],
per cui, in quanto l’imperativo sia una species
del genus prescrizione, o si ritiene
che esso sia l’unica species con
pretese di vincolatività, ovvero siffatte pretese vanno imputate all’intero genus; quindi una parola di chiarezza
comunque si pretenderebbe: e allora Hare ci dice che “un enunciato indicativo è usato per dire a qualcuno che accade
qualcosa; non così un imperativo, che è usato per dire a qualcuno di far sì che
qualcosa accada”[24],
ma respinge l’idea che l’imperativo possa essere ridotto a indicativo, nel
senso cioè della manifestazione di un desiderio o di un’approvazione, perché un
imperativo non riguarda lo stato mentale di chi lo pronuncia, ma un determinato
stato di cose[25];
invece ritengo che lo stato mentale di chi lo pronuncia sia la parte più
importante dell’imperativo, dato che lo stato di cose può essere espresso in
qualsiasi altra forma, e da quello stato mentale possono derivare delle
conseguenze gravi: ad esempio, che subirai violenza se non ottempererai, dato
che quello stato mentale si ricollega a quello del destinatario con spirito
sanzionatorio, altrimenti non si sarebbe fatto ricorso alla forma imperativa,
ma ad altre, come ad esempio quella meramente esortativa, in cui l’intento di
causazione[26]
rispetto alla condotta altrui è più debole, dato che quell’intento non è accompagnato
da alcuna forma di minaccia, sia questa esplicita, o presupposta da un dato
contesto noto alle parti, giacché il ricorso all’imperativo ha spesso bisogno
di un contorno di convenzioni condivise, in grado di attribuire un senso sia
all’enunciato imperativo, sia al fatto che quell’enunciato sia stato
pronunciato in forma imperativa.
Secondo Hare, si noti, un enunciato indicativo non è
mai un tentativo di persuasione nei confronti dell’altro a proposito di uno
stato di cose[27], ma
si tratta di obiezione formalistica, dato che la vita reale conosce moltissimi
casi, con riferimento ai quali, ad esempio una moglie, utilizza nei confronti
del marito un linguaggio ovattato meramente indicativo per ottenere qualcosa,
senza ricorrere al brusco imperativo, per cui funzione e forma non sempre
collimano, come invece sembra credere Hare. A ben vedere, la forma imperativa è
spesso espressione di arroganza e maleducazione (ad esempio, arroganza e
maleducazione del potere), attraverso la quale su comunicano informazioni sui
propri desiderata, vestendo l’informazione con abiti minacciosi, il che fa
pensare che la forma imperativa, in fondo, nemmeno sia indispensabile nei
rapporti umani.
Hare, senza citare la legge di Hume, mostra di volerne
affrontare la sfida allorché sostiene che “Non
si può trarre nessuna valida conclusione imperativa da un insieme di premesse
che non contenga almeno un enunciato imperativo”[28]:
in tal modo, infatti, l’autore ritiene di sottrarsi al vizio dell’inferenza del
dovere dall’essere. E tuttavia il tentativo mi sembra circolare e
autoreferenziale, diciamo sul modello del Barone di
Münchhausen, il quale uscì incolume dalle sabbie mobili, tirandosi per i
capelli; e infatti, se si vuole fondare l’imperativo su altro imperativo
collocato nelle premesse di contesto, resta da stabilire donde tragga
nutrimento e fondamento il primo imperativo, che si assume invece fondamentale,
e così con regresso all’infinito: alla base non può che collocarsi un atto, o
di consenso, o di forza, che sia in grado di fondare il fatto che, sulla sua
base, siano assunti imperativi accettati dalla convenzione, ed è trasparente il
riferimento alla questione dell’autorità politica (Grundnorm).
Altro discorso vale per il cosiddetto imperativo
ipotetico, che ha valore puramente descrittivo: “Se vuoi andare dal più grande droghiere di Oxford, vai da Grimbly
Hughes”[29], che
funziona più o meno come: “Se non vuoi
avere guai con la giustizia, non commettere reati, o comunque non farti
scoprire”, che ha il compito di comunicare un’informazione, e comunque ha il
difetto di non considerare che si possono avere guai con la giustizia pur non
avendo commesso alcun reato; il che fa parte della fisiologia, e non della
patologia, del sistema, che spesso si fonda sulla figura del capro espiatorio,
sia nel senso di prendere nel mucchio un reo fra i molti, sia nel senso di
prendere tra i molti chi non sia affatto reo.
Hare ribadisce che l’imperativo, il comando, è la
forma più semplice di prescrizione[30]:
sarà forse semplice la struttura del
comando, ma non la sua giustificazione, che è argomento che sembra restare
forse fuori dall’analisi linguistica, e però è solo la giustificazione ad
attribuire autentico significato al ricorso a quella forma, e quindi a mio
avviso, per questa via, rientra nel discorso dell’analisi linguistica e del
significato, in quanto il rischio, per quest’ultimo, è puramente e
semplicemente il non esservi, in
quanto l’imperativo non giustificato si riduce a soliloquio e vaniloquio.
Del linguaggio prescrittivo, però, fanno parte, come
sappiamo, anche tipici termini valutativi come “buono”, “giusto” e “dovere”,
che vengono usate per lodare o biasimare: “e
di solito è solo interrogando chi parla che possiamo dire se una parola è usata
in senso valutativo”[31],
dato che, sostiene Hare riprendendo Moore, ci sono teorie, come quelle
naturalistiche, che commettono l’errore di far derivare i giudizi valutativi da
asserzioni di fatto, trascurandone l’elemento prescrittivo[32],
il quale evidentemente finisce con il collocarsi nella mente del pronunciante,
inteso come esterno rispetto
all’enunciato, dato che non si comprende donde quest’ultimo possa scaturire, se
non appunto da asserzioni di fatto, il che non significa affatto, a mio avviso,
violare la legge di Hume (tornerò presto su questo), dato che usare termini
valutativi, per esercitare la funzione di lodare, approvare, o biasimare[33],
di per sé rappresenta nulla più che l’esercizio di una normale libertà di
opinione, che non si vede come possa “violare” alcunché; e allora meglio si
comprende perché sopra ho detto che Moore rischia di vietare troppo, oltre che
troppo poco, ossia comunque ammettendo etiche fondate sul dovere e sull’obbligo:
si direbbe, in ogni caso, che il sostenere che una cosa sia “buona” deve
giovarsi di un supporto sociale empirico, perché non potremmo definire “buona”
una cosa che non piaccia assolutamente a nessuno, o “giusta” una condotta che
da nessuno sia condivisa, pur se al giudizio del soggetto isolato e
ultra-minoritario vada riconosciuto un suo peso.
All’opposto, io posso benissimo dire che quella che ho
chiamato “inclinazione libertaria” è cosa “buona”, sempre che io poi riesca a
dimostrare che gli effetti che produce si rivelino desiderabili, che, in
definitiva, “mi piacciano”, perché poi io sono l’arbitro ultimo di questo
giudizio; fin quando almeno si sia nell’ambito della libertà di opinione e di prospettazione, sia pure mostrando me e i
miei prodotti all’altro, in quanto esempio e modello, per nulla vincolante, ma
aperto al consenso e al dissenso, sempre fatto salvo il contrasto politico, che
può divenire anche violento, ma ciò, ripeto, fuoriesce da un discorso sul
linguaggio della morale. E allora dovrò dimostrare che la libertà è “buona”,
come mezzo, strumento e come fine in sé[34],
come precondizione per l’autorealizzazione e la soddisfazione, e ciò avverrà in
quanto il giudizio sulla desiderabilità di ciò si estenda al di là della mia
stessa persona, senza che mi si possa imputare fallacia di sorta, né
naturalistica, né metafisica, che non intervengono a inficiare una mera azione
di argomentata persuasione. Sostiene Hare che abbiamo bisogno di disporre di un
criterio, di un principio preliminare, di una premessa maggiore, per potere
formulare tale giudizio di buono[35]
sugli esiti della mia proposta, o anche solo da essa auspicati; ma la mia “premessa
maggiore” è rappresentata da enunciati attorno alla mia propria inclinazione
libertaria, che rappresenta un essere e non dovere essere, e quindi non incorre
in fallacia in quanto premessa; e allora giudicherò “buoni” i frutti, che mi
appariranno coerenti con la mia personale premessa; sempre confidando in un
consenso esterno, che potrà sopravvenire come non sopravvenire, il che però è
indifferente e ininfluente nei confronti della validità della mia inferenza,
pur esplicando evidentemente un valore e un significato politico il fatto che
il consenso sopravvenga o no.
“Buono” serve a lodare e a informare allo stesso tempo[36],
ma ovviamente il mio sarà un giudizio soggettivo, e la fallacia è semmai degli
autori tradizionali, i quali paiono ritenere che nel momento in cui uno formuli
siffatto proprio giudizio soggettivo, al tempo stesso si stia prodigando per
imporre qualcosa agli altri, il che non è affatto implicato, anche se
naturalmente uno avrà piacere di influenzare la platea degli altri con i propri
giudizi, ma potrebbe anche esserne del
tutto indifferente, e far valere i propri giudizi esclusivamente per sé,
ammettendo e consentendo che ognuno abbia la propria concezione di “buono”, pur
con l’avvertenza che, nei fatti politici, tali giudizi sono effettivamente
volti a produrre effetti indivisibili, e a tale scopo funge l’atto della
posizione del diritto: in tal caso, l’uso di “buono” ha a un tempo valore
intrinseco e strumentale[37]:
intrinseco è il senso del nostro giudizio, sia pure orientato agli effetti;
strumentale è l’uso che se ne fa, in funzione del perseguimento di determinati
fini di carattere pubblico, e allora si adotterà la mossa strategica di
trasformare il mero giudizio di “buono” in un “dovere”, ricadente sugli altri
in quanto prescrizione e imperativo di condotta[38].
A dispetto dei sostenitori positivisti e scolastici,
come Uberto Scarpelli, della magna
divisio tra linguaggio descrittivo e linguaggio prescrittivo[39],
che risale alla distinzione dell’empirismo logico tra linguaggio scientifico e
linguaggio metafisico[40],
tra dotato di senso e carente di senso –al cui proposito sopraggiunsero i
distinguo di Popper-, il linguaggio comune e reale, anche tecnico, ci offre più
occasioni sfumate che non nette, ovvero che siano davvero riconducibili a
quella distinzione, che poi è ancora la distinzione weberiana tra fatti e
valori: ebbene, io sostengo che sia cosa del tutto normale che il linguaggio, a
conti fatti, finisca con l’ignorare una tale distinzione, senza che ciò comporti
alcuna fallacia.
Ciò avviene in forza di un altro principio
epistemologico, riconducibile a Duhem, ma che abbiamo visto essere insito nel
principio, formulato da Nietzsche, secondo il quale il “fatto” è sempre in
buona parte interpretazione, anche perché, come si è visto, la ricostruzione
del fatto stesso è selettiva e arbitraria, spesso in funzione dei propri
connotati afairetici di carattere assiologico, non potendo davvero
l’osservazione contemplare il “tutto”, ma riducendosi ad alcuni elementi, giudicati
rilevanti sulla base di una propria impostazione culturale; e allora, sostiene
Duhem, tutta l’osservazione in fisica è
carica di teoria[41],
e se lo è nella scienza prima come la fisica, si può immaginare come ciò operi
ampiamente negli ambiti propri delle scienze umane e sociali, dando vita a una koiné spuria, ma perfettamente
legittima, in quanto perfettamente dotata di senso e significato, e si tratta
di significati spesso complessi e comprensivi, anche se commisti sul piano
semiotico, che non si fanno attrarre nella supposta magna divisio.
Nelle
“Ricerche filosofiche”, Wittgenstein sostiene in buona sostanza che si danno infinite
modalità linguistiche di carattere sfumato: “Ma quanti tipi di proposizioni ci
sono? Per esempio: asserzione, domanda e ordine? – Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi
differenti d’impiego di tutto ciò che chiamiamo ‘segni’, ‘parole’,
‘preposizioni’. E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una
volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giuochi linguistici, come
potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati (Un’immagine approssimativa potrebbero
darcela i mutamenti della matematica). Qui la parola ‘gioco linguistico’ è
destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di
vita”[42].
E l’attività che si esprime attraverso il linguaggio è legittimamente
costellata di giudizi, spesso di giudizi di valore, molto di più che di mere
asettiche “dichiarazioni” neutre, che a volte sembrano esistere quasi solo nei
testi di filosofia del linguaggio, oltre che nel gergo del giornalismo politico
e nei sussidiari di inglese per bambini (“The
book is on the table”, “The cat is
under the window”, che pure sono
espressioni che rimandano a molte implicazioni di carattere funzionale).
Già
anche solo un’espressione come “Sto
giocando a scacchi”, tanto per stare al leit-motiv
di Wittgenstein, possiede un rimando istituzionale, ossia al mondo delle regole
costitutive degli scacchi, al cui regno e comando mi assoggetto spontaneamente,
come nel caso delle norme tecniche sull’uso della lavatrice: è enunciato
istituzionale, eppure è indicativo, dichiarativo, nulla di prescrittivo sembra
potervisi ravvisare, eppure sta parlando di norme, esattamente di norme
prescrittive, oltre che costitutive, dato che mi vietano una serie di mosse. Certo,
qui siamo in ambito non morale, e tuttavia iniziamo ad avere un’idea, ossia che
il linguaggio indicativo e descrittivo
può incorporare il riferimento a norme, introiettandone il contenuto come
elemento dell’enunciato, norme che, nella magna
divisio, potrebbero essere ritenute come afferenti a un dato “non fisico”,
e quindi meta-fisico, in quanto entità astratta e non tangibile, come il gioco
degli scacchi.
Il
mondo delle regole, piaccia o no, nel mondo reale della nostra vita è
onnipervasivo, totalitario, e ogni atto ne risulta istituzionalizzato,
indipendentemente dalla nostra volontà: “Ma come può una regola insegnarmi che
cosa devo fare a questo punto? Qualunque
cosa io faccia, può sempre essere resa compatibile con la regola mediante una
qualche interpretazione”[43];
e ancora: “Il nostro paradosso era questo: una regola non può determinare alcun
modo d’agire, poiché qualsiasi modo d’agire può essere messo d’accordo con la
regola”[44].
In altri termini, non c’è scampo, siamo prigionieri:
qualunque cosa facciamo, c’è pronta una regola a giudicare e valutare il nostro
comportamento –pur se neghiamo la capacità di una norma di pronunciare giudizi
di disvalore sulle nostre condotte-, sicché qualsiasi cosa diciamo, qualsiasi
enunciato pronunciamo, esso è afferibile a regole: in effetti, qualsiasi
condotta può essere riferita alla regola “Chi
uccide è punito a x”, dato che lo è sia uccidere, in quanto oggetto di
diretta qualificazione di illecito da parte della norma, sia non uccidere, in quanto lecito per la norma, e osservante nei
suoi confronti: con la conseguenza che, anche quando mi cuocio due uova al
tegamino, sono coinvolto dalla norma che sanziona l’omicidio, dato che la sto
rispettando!
Non solo. Infatti, tutto, qualsiasi condotta, può
essere ricondotta a una qualche norma
implicita ipotetica, inferendola induttivamente, magari “scoprendola” per la
prima volta, il che consente anche di superare, come si vedrà, la distinzione
tra utilitarismo dell’atto e utilitarismo della norma sulla base del principio
casuistico: ad esempio, posto l’assioma libertario, o un qualche principio
liberario generale, o anche generico e da specificare, qualsiasi condotta vi è
riconducibile, dato che vi rientra come condotta ammessa o non ammessa, lecita
o illecita: la distinzione lecito-illecito è totalitaria,
l’istituzionalizzazione delle condotte è pervasiva e ubiquitaria, non v’è modo
di sfuggirvi –semmai di ignorarla ai fini della nostra autodeterminazione (disobbedienza incivile[45]),
se non fosse che che siffatte istituzionalizzazioni, nel nostro sistema, sono
sovente accompagnate dalla minaccia dell’uso della forza, e allora diventa
difficile non tenerne conto; dato che, ricondurre qualcosa alle modalità del “lecito”
o dell’“illecito”, in sé, non avrebbe nulla a che fare con il doveroso o il non
doveroso[46], ma
solo con un’attestazione di conformità a un criterio, che di per sé non è
vincolante, e tuttavia assume un qualche valore di carattere sociale, spesso
tale da “legittimare” l’uso della forza.
Del
resto, chi è urbanizzato vive immerso nei segnali stradali: “Che cosa ha da
spartire l’espressione della regola –diciamo un segnale stradale- con le mie
azioni? Che tipo di connessione esiste tra le due cose? Ebbene, forse questa:
sono stato addestrato a reagire in un determinato modo a questo segno, e ora
reagisco così”[47].
E allora qualsiasi enunciato riferito al nostro percorso stradale quotidiano
assorbe in sé elementi normativi e istituzionali, anche solo dicendo: “Ho preso quella strada a senso unico, e poi
ho svoltato a destra, perché a sinistra c’era un divieto di accesso”; noi
introiettiamo la validità di queste
prescrizioni, e quindi il nostro linguaggio diviene implicitamente valutativo,
anche se passivamente, in modo acquiescente, mentre lo diventa esplicitamente se
noi contestiamo queste disposizioni, dicendo: “Il segnale di divieto in quel punto è veramente assurdo” (ma anche
la prima delle due frasi è molto diversa nella funzione rispetto a “The book is on the table”).
I fatti istituzionali sono, perché il fatto è
impregnato, intriso del giudizio sociale che l’ha costituito: il punto è che
ciò non ne comporti l’obbligatorietà, ma, tolto questo, la grande divisione rischia
di claudicare, se fatichiamo a individuare fatti, i quali non siano sussumibile
in norme giuridiche e sociali (ad esempio se compro il gelato stipulo un
contratto, di conseguenza nemmeno un’operazione così banale può essere
descritta come fatto bruto); e la stessa distinzione tra discorso sui fatti e
discorso sui valori rischia di svaporare, in una situazione in cui i fatti e
gli atti si suddividono tra leciti e illeciti, legittimi e illegittimi.
L’afairesi, come si è visto nella prima parte, è
caratterizzata molto spesso da astrazioni in senso assiologico,ma il relativo
linguaggio rimane apofantico, dato che, contrariamente a quanto ritiene il
positivismo logico, se ne può discutere, pur quando involga i giudizi di valore
intrinseci all’astrazione assiologica. Del resto, dire “Oggi ho battezzato mio figlio”, nella grande divisione rientra
tanto nel mondo dei fatti, quanto in quello dei valori, dato che si tratta di
un fatto istituzionale e valoriale, ma anche fatto materiale reale, sia pure
concettualmente ricostruito rispetto all’altrimenti insensato gesto bruto di
immergere un bambino nell’acqua, o di bagnarlo a seconda dei riti.
Se dico “Mario
ha comprato una casa da Giorgio”, siamo certamente di fronte a
un’affermazione che rientra nel mondo dei fatti, e tuttavia il verbo “comprare”
non ha referenti in natura, ma solo mentali e istituzionali, riferite
all’accettazione di un sistema sociale di mercato in cui esiste il “diritto di
proprietà”, ossia un’astrazione istituzionale, che viene approvata attraverso quella proposizione; o magari anche biasimata,
e quindi presenta un giudizio di valore implicito, oltre che riferirsi a un
fatto istituzionale, per cui la fallacia naturalistica o meglio metafisica,
secondo un rigoroso approccio fisicalista da positivismo logico e suoi seguaci
nostrani come Scarpelli, sarebbe addirittura doppia! Eppure loro non se ne
renderebbero conto, perché, per pervenire a un tale risultato, dovrebbero
comprimere al minimo il mondo dei fatti, riferendolo ai soli fatti naturali,
posto che quelli umani raramente sono bruti, essendo sempre socializzati: e
quindi apparterebbero al mondo dei fatti solo frasi come “Oggi piove”, o “Il leone ha
mangiato la gazzella” –e anche su questo si possono esprimere giudizi di
valore-, ma già: “Mi sono separato da mia
moglie” o “Ho fatto resettare il mio
computer”, sono intrisi di elementi istituzionali, e quindi implicano
giudizi di valore dal punto di vista del consesso sociale[48].
Secondo Wittgenstein, “Seguire una regola è analogo a:
obbedire a un comando. Si viene addestrati a ubbidire al comando e si reagisce
ad esso in una maniera determinata”[49].
E ancora: “Quando seguo la regola non scelgo. Seguo la regola ciecamente[50]”;
ma questo non è del tutto vero, anzi, seguirò la regola “ciecamente” proprio
quando scelgo di seguirla, perché mi affido volontariamente a essa, come nel
caso di istruzioni e norme tecniche; laddove al contrario, il comando insito
nella regola, o è flatus vocis, o si
accompagna a un’imposizione e una costrizione, e allora la questione da
linguistica si trasforma in politica, dato che riguarda rapporti di forza e attitudine
all’acquiescenza[51]; del
resto, anche una “descrizione” va intesa sempre per impieghi particolari[52],
dato che una descrizione dà comunque indicazioni[53],
sicché così come abbiamo formule prescrittive, che sono solo modi ineducati per
esprimere dichiarazioni, abbiamo dichiarazione che pretendono funzionare come
imperativi (mascherati).
Qualcuno potrebbe sostenere che questa mia odierna
attenzione per le sfumature e le funzioni, per il “fatto intriso di valore”,
contraddirebbe quanto sostenuto nel mio “Sovrano occulto” a diversi propositi.
Ad esempio, contestai la dottrina dominante, secondo la quale la forma
dichiarativa, e non imperativa (“Chiunque
uccida è punito a x”, non “Si comanda
di non uccidere”) sarebbe funzionalmente irrilevante, dato che in quella
forma dichiarativa sarebbe comunque ravvisabile un imperativo implicito[54];
al che io obiettai che, al contrario, quella forma dichiarativa andasse presa
“sul serio”, quale forma laica, non eccessivamente solenne ed enfatica, del
diritto moderno[55], e
questo proprio per negare l’operatività di alcuna fallacia naturalistica, con
conseguente imposizione unilaterale di “obblighi” di sorta in capo al
cittadino, il quale rimaneva del tutto libero di intendere quella
“dichiarazione” come volesse; così come per converso è consentito volgere una
forma imperativa in funzione dichiarativa, ad esempio consentendone il
sindacato dei presupposti e dei motivi.
Semmai, ammettevo, quella forma dichiarativa è simile
alla forma della minaccia[56],
ma del pari una minaccia di un atto di forza non è fonte di obbligazioni di
sorta per chi ne è destinatario. È chiaro che qui si sta contestando, insieme
all’obbligo di carattere giuridico l’obbligo politico[57],
riconducendo entrambe le nozioni a mere costrizioni,
pur se poi il “politico” elabora una grande quantità di formule di
legittimazione a sostegno del suo potere coercitivo: “essere obbligati” nell’accezione di “essere costretti”, non nel
senso che saremmo di fronte a un obbligo morale a obbedire alle leggi –sulla
base di quelle pretese formule di legittimazione-, anche perché la forma
dichiarativa non è fatta per chiedere “obbedienza” all’enunciato, ma semmai
solo “osservanza”. Quindi in realtà confermo in toto quelle mie posizioni, in quanto “difensive” e funzionali al
negare la vincolatività, in violazione della legge di Hume, della norma
giuridica statuale, alla quale noi non prestiamo alcun consenso, ma semmai solo
acquiescenza, ossia accettiamo di
subire in base a una razionale constatazione dei rapporti di forza sfavorevoli.
Il
fatto è che quella visione del diritto (“imperativa”, “obbligatoria”,
impositiva di “doveri”) non è l’unica possibile, come invece riteneva Max
Stirner nel suo “antigiuridismo”[58],
giacché possiamo immaginare un sistema di diritto, non caratterizzato da
ontologia prescrittiva[59]
(nel senso forte), bensì formato esclusivamente da istituti, essere
e non dover essere[60],
meramente orientativi, da standards di
libero uso[61]
in forma meramente dichiarativa e indicativa, da giochi risolti di una ludoteca[62] a disposizione del
pubblico e a implementazione libera e diffusa nelle forme e nei contenuti;
perché una volta desacralizzata, con lo stesso Stirner, la doverosità del
diritto, vige al riguardo la stessa libertà di coscienza, che vige in ambito di
libertà religiosa da quando opera la tolleranza religiosa, se sacrali sono le
origini del diritto stesso[63], e quindi soggetto questo
stesso a processi di secolarizzazione, il che implica, in definitiva, liberalizzazione
dello scambio giuridico.
A quel punto, il diritto diffuso difficilmente si differenzierebbe[64] da una morale di senso
comune[65], almeno per la parte che
ha a che fare con gli atti esterni, non anche implicante giudizi di foro interno o sulla “bellezza della
persona” –salvo essere l’approccio giuridico più tecnico, preciso e sottile
nelle rifiniture e nelle sussunzioni-, una morale a sua volta intesa come composta
da enunciati scevri da obbligatorietà, salvo trattarsi di una morale sull’uso
della forza, se il diritto implica uso della forza per essere applicato, sicché
non solo la condotta è giudicata diffusamente, ma anche la reazione alla
condotta; ma nemmeno questo è indispensabile, dato che una diffusa
implementazione potrebbe anche essere improntata a criteri di nonviolenza, e
costituita da sanzioni di mercato, quali il biasimo, il boicottaggio e l’ostracismo
nonviolenti, e comunque da un qualche forma in grado di procurare danni alla
reputazione: il che non comporta di per sé uso della forza.
[1] David Hume, Trattato sulla natura umana, in Opere filosofiche, 1, cit., 496-497. In originale: “In every system of morality, which I have hitherto met with, I have
always remarked, that the author proceeds for some time in the ordinary way of
reasoning, and establishes the being of a God, or makes observations concerning
human affairs; when of a sudden I am surprised to find, that instead of the
usual copulations of propositions, is, and is not, I
meet with no proposition that is not connected with an ought, or
an ought not. This change is imperceptible; but is, however, of the
last consequence. For as this ought, or ought not,
expresses some new relation or affirmation, 'tis necessary that it should be
observed and explained; and at the same time that a reason should be given, for
what seems altogether inconceivable, how this new relation can be a deduction
from others, which are entirely different from it. But as authors do not
commonly use this precaution, I shall presume to recommend it to the readers;
and am persuaded, that this small attention would subvert all the vulgar
systems of morality, and let us see, that the distinction of vice and virtue is
not founded merely on the relations of objects, nor is perceived by reason”
[2] Cfr. Patrick Horace Nowell-Smith, Etica, Firenze, 1974 (1954), 211-215
[3] Cfr. il mio L’eguaglianza libertaria, cit., 30 ss.
[4] Cfr. George E. Moore, Principia Ethica, 2018 (1903), 8.
[5] Ivi, 12-13.
[6] Ivi, 53 ss.
[7] Ivi, 57.
[8] Ivi, 42.
[9] Ivi, 18.
[10] Cfr. Il mio L’asso pigliatutto – Il caso
dell’utilitarismo libertario, cit.
[11] George E. Moore, op. cit., 72 ss. e 155 ss.
[12] Ivi, 68.
[13] Ivi,109.
[14] Ivi, 14.
[15] Ivi, 64.
[16] John Searle, How to Derive 'Ought' From 'Is' in Philosophical
Review, 1964, n. 73, 43 ss.
[17] Richard M. Hare,
Il linguaggio della morale, cit.
[18] Un sinonimo
rinforzativo rispetto a “prescrittivo” può essere considerato “precettivo”,
riferito però più spesso al linguaggio giuridico che a quello morale, tant’è
che la differenza tra mos e ius si ravviserebbe nel carattere più
strettamente precettivo di questo (Aldo Schiavone, op. cit., 77). Ancora
diverso il concetto di lex, che opera
come “comando” dell’autorità, in quanto assistito da sanzione coercitiva
diretta (ivi, 90).
[19] Richard M. Hare, op.
cit., 15.
[20] Sul piano della
grammatica stiamo qui sempre parlando di enunciati indicativi, tra i quali, dal
punto di vista appunto grammaticale, Hare ricomprende anche i giudizi valutativi,
salvo precisare che la loro logica è diversa da quella del normale enunciato
indicativo (Ivi, 17).
[21] Ibidem.
[22] Ivi, 171.
[23] Ivi, 17.
[24] Ivi, 18.
[25] Ivi, 18-19.
[26] Cfr. i passi di
R. Carnap e A.J. Ayer citati ivi, 24.
[27] Ivi, 25.
[28] Ivi, 37 e 40.
[29] Ivi, 41.
[30] Ivi, 79.
[31] Ibidem.
[32] Ivi, 81.
[33] Ivi, 88.
[34] Il fine è “un bene da realizzare mediante l’azione”;
cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, 1097a,
23, 1141b, 12, cit. in Richard M. Hare, loc. cit., 94, n. 2. Qui il punto è
che, nel caso della libertà, mezzo e fine si sovrappongono, in quanto il bene
fine-libertà si realizza attraverso l’impiego del mezzo-libertà.
[35] Ivi, 104.
[36] Ivi, 109.
[37] Ivi, 125.
[38] Ivi, 142 e 150.
[39] Cfr. per
riferimenti il mio Il sovrano occulto,
cit., 151 ss.
[40] Cfr. Donald
Gillies – Giulio Giorello, La filosofia
della scienza nel XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 1995 (1993), 185 ss.
[41] Ivi, 161 ss.
[42] Ludwig
Wittgenstein, Ricerche filosofiche,
cit., §23, 17.
[43] Ivi, §198, 94.
[44] Ivi, §201, 96.
[45] Cfr. il mio Il sovrano occulto, cit., 301 ss.
[46] In senso contrario,
ovviamente, Immanuel Kant, Critica della
ragion pratica, loc. cit., 51.
[47] Ricerche filosofiche, cit., §198, 95.
[48] Naturalmente,
nel sostenere queste tesi, sono influenzato da John L. Austin, Come fare cose con le parole, a cura di
Carlo Penco e Marina Sbisà, Bologna, Marietti, 1987 (1962).
[49] Ricerche filosofiche, cit., §206, 97.
[50] Ivi, §219, 100.
[51] Non ripeto qui
tutte le considerazioni di critica al concetto di imperatività dei comandi, che
ho espresso in Il sovrano occulto,
cit., 64 ss. e passim, dato che dopo
tanti anni su questo non ho cambiato idea, e quindi posso serenamente rinviare
a quella lettura.
[52] Ricerche filosofiche, cit., §291, 116.
[53] Ivi, Parte
Seconda, 215.
[54] Il sovrano occulto, cit., 148 ss.
[55] Si noti la
differenza con il linguaggio semi-arcaico delle XII Tavole, le cui norme
iniziavano con un “se”, riferito a un evento ipotetico, ma proseguivano con un
esplicito imperativo per indicare il carattere vincolante della regola (Aldo
Schiavone, op. cit., 98).
[56] Il sovrano occulto, cit., 213 ss.
[57] Ivi, 85 ss.
[58] Cfr. Enrico
Ferri, L’antigiuridismo di Max Stirner,
Milano, Giuffré, 1992.
[59] Cfr. Aldo
Schiavone, op. cit., 40.
[60] Aldo Schiavone
nota come, per Platone (Minosse), “Il
nomos è il disvelamento dell’essere” (ivi,
202), sicché l’ontologia giuridica è forma ideale dell’universale assegnato al
mondo, che si propone come ricostruttiva del particolare dello stesso, non
necessariamente che si impone a esso, dato che un istituto fotografa un
fatto-tipo, non dice che un fatto-tipo specifico debba essere o non essere.
[61] Cfr. il mio L’abusiva legittimità, cit., 17 ss.
[62] Cfr. il mio Beati possidentes, cit., 193.
[63] Sulla fusione
tra religioso e precettivo, cfr. Aldo Schiavone, op. cit., 56 ss. Si vedano al riguardo anche e soprattutto le opere
del fondatore della scuola di realismo giuridico scandinavo Axel Hägerström.
[64] Si fa qui
riferimento alla classica distinzione kantiana tra legislazione “morale”, che
afferisce direttamente alla doverosità di una condotta, e legislazione
“giuridica”, che invece ammette anche il proprio contrario (cfr. Immanuel Kant,
La metafisica dei costumi, Roma-Bari,
Laterza, 2019, 20); ma in tal caso si tratta in realtà di una questione di
tecnica di formulazione linguistica, che non è tassativa e può anche incontrare
mutamenti. Infatti, se è vero che, mentre la norma morale, come il precetto
religioso, dirà “non uccidere”,
mentre la norma giuridica dirà “chi
uccide è punito a x”, ammettendo così come trascendentalmente libero l’atto
dell’uccidere, nulla esclude che anche la norma morale sia formulata con
tecnica analoga, ad esempio: “chi uccide
sarà oggetto di pubblica riprovazione”, e allora in tal caso il morale e il
giuridico finiranno con il sovrapporsi, almeno in buona parte –se alla
costrizione tradizionale del diritto si sostituisce, non nessuna sanzione, ma altro
tipo di sanzione-, nell’ammettere come trascendentalmente libera la
condotta riprovata.
[65] Su tale nozione
cfr. Henry Sidgwick, I metodi dell’etica,
cit., 371 ss.
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