di Fabio Massimo Nicosia
La tendenza a trattare il grande privato come
un’”autorità” da rispettare, anzi, come un vero e proprio superiore gerarchico,
trova del resto oggi una chiara spia nelle affermazioni di quegli
anarco-capitalisti, secondo i quali un social
network, ad esempio Facebook, potrebbe (come del resto fa, spesso in
violazione del principio di proporzionalità)
escludere e “bannare” a piacere “in quanto privato che comanda a casa
propria”, il che sarebbe una manifestazione della sua “libertà”.Peccato, però, che ciò vada in danno della libertà del cittadino-consumatore, il quale –circostanza che sfugge all’anarco-capitalista medio- con il social network ha stipulato un vero e proprio contratto, sicché è anch’egli “a casa propria”, il che impone al social network stesso obblighi di correttezza e buona fede nella gestione del rapporto con il consumatore; anzi, di più, perché in questa materia opera il diritto del consumo, il quale, tanto più con riferimento ai rapporti più squilibrati, introduce un altro concetto, ossia quello, peraltro antichissimo, dell’interpretatio contra stipulatorem, vale a dire che, quando il testo contrattuale è predisposto da una delle parti, quella decisamente più forte, esso va interpretato, in caso di dubbio, a vantaggio del soggetto debole. Salvo che qui l’interprete è lo stesso social network, il quale quindi dovrebbe interpretare il proprio regolamento contro se stesso! Il che già fa capire come la legittimità del “ban” dovrebbe essere oggetto di un arbitrato da parte di un terzo imparziale, tanto più che, se Facebook banna abusivamente una pagina, lede non solo la libertà del titolare, ma anche la mia di seguirla. Invece l’anarco-capitalista vive l’adesione al “regolamento” unilateralmente predisposto dal social network non come un contratto, ma come un assoggettamento di sé alle imposizioni del social network, come un atto di sottomissione e rinuncia, il che mostra come egli sia del tutto ignaro del concetto stesso di “contratto per adesione” e delle sue implicazioni. Il loro approccio è asfittico, “micro-giuridico”, dato che guarda agli standards stabiliti dal social network come Tavole della Legge ultimative e vincolanti, quando l’approccio corretto è invece quello “macro-giuridico”, ossia, da un lato, sottoporre a controllo di validità direttamente gli standards e, dall’altro lato, sindacare le modalità della loro unilaterale implementazione. D’altra parte, quando un “privato” raggiunge notevoli dimensioni e rilevanza pubblica o sociale, esso dovrebbe impegnarsi a rispettare determinati principi di rango costituzionale, ponendo il problema se i principi stessi valgano solo nei confronti dello Stato o anche dei grandi “privati”, in grado nella sostanza di adottare decisioni unilaterali nei confronti degli utenti e dei consumatori; nella specie, il “privato” Facebook è un concessionario de facto –così come esistono i cosiddetti “funzionari di fatto”-, oltretutto impiegando risorse demaniali di terra e di etere, di un servizio, che è da considerarsi pubblico, perché riguarda l’amministrazione attiva di un bene altamente prezioso, ossia la libertà di manifestazione del pensiero, forse la più importante delle libertà fondamentali previste dall’ordinamento, “maneggiare” la quale richiede una grande competenza tecnico-giuridica, mentre il social network agisce d’imperio, senza contraddittorio e con grande rozzezza tecnico-giuridica, data l’impreparazione del personale impiegato (ad esempio, non viene considerato il carattere ironico di un post, e tutto viene preso alla lettera; oltretutto, con la recente messa al bando, da parte del parlamento europeo, dei “totalitarismi”, si richiede al personale bannatore un grado elevato di conoscenza della filosofia hegeliana e gentiliana, per stanare “totalitari” ovunque si annidino e sanzionarli come da regolamento!). Al contrario, io ritengo che il social network sia inevitabilmente soggetto al diritto pubblico, costituzionale e amministrativo (auspicabilmente, non nel senso che lo Stato aiuti Facebook a limitare libertà, come fa temere l’accordo Zuckerberg-Macron). L’essere soggetto “pubblico” o “privato”, infatti, non è frutto di un’autocertificazione formale, ma un dato materiale, che ne determina i modi di sussunzione in considerazione della tipologia dell’attività svolta, anche in funzione della colossale dimensione di scala, attività che qui individuo essere un servizio pubblico de facto. Ne deriva che Facebook non può dotarsi di standards di libertà di espressione più restrittivi di quelli previsti dall’art. 21 Cost., o dal I Emendamento (semmai, da un punto di vista libertario, si auspicherebbe che fossero più ampliativi), che ammettono, per costante giurisprudenza, anche forme di forte e colorita vis polemica. Inoltre, in base alla logica qui criticata, avendo Facebook preannunciato l’emissione di una propria moneta, per renderla a corso forzoso tra gli utenti basterebbe una modifica degli (unilaterali, posti e non contrattati, quindi vessatori) standards di comunità (magari prevedendo anche casi di ban nell’uso di quella moneta nei confronti di chi già la utilizzi), con la conseguenza che il social network assapora l’idea di divenire un vero e proprio Stato privato, con una propria normazione, una propria giurisdizione, avanzandosi ora l’ipotesi di proprie “corti di appello” (in causa propria, però, e per ora vince tutte le cause), una propria esecuzione delle proprie sentenze (ma nessuna divisione dei poteri, nessun giudice terzo), e ora una propria moneta, sul territorio del web (e allora perché non eleggere la sua governance?). Conosco la replica: nessuno è obbligato a utilizzare Facebook (e tuttavia Facebook esprime in modo plastico come si atteggerebbe uno Stato privato vero e proprio). A parte il fatto che nessuno è comunque obbligato, di regola, a dar vita a rapporti contrattuali di sorta, ma ciò non significa che la controparte, se più forte, una volta stipulato il contratto abbia diritto ad abusare nel corso del rapporto, si deve anche considerare, ai tempi nostri, l’addiction che affetta la relazione con un social network, che già oggi è strumento indispensabile per molti, il che già dovrebbe indurre a non ammettere ban senza contraddittorio, vale a dire senza sentire le ragioni dell’utente, trattandosi oltretutto di un quasi-monopolista (circa due miliardi di utenti nel mondo per Facebook, il quale, non pago, ha acquisito anche Instagram). Ma c’è di più: nessuno oggi sostiene che uno non sarebbe “tenuto” a fare uso dei servizi telefonici e di energia domestica (“gas” ed elettricità), dato che sono parte integrante di una vita “normale” nei nostri continenti ai nostri tempi, e non un capriccio: lo stesso vale per internet e sempre di più, ormai, per i social network, per cui quella che ho chiamato addiction tende in modo progressivo a mutare pelle, per tasformarsi, più semplicemente, nell’esigenza di fruire di un servizio percepito come irrinunciabile, esattamente come il telefono, l’elettricità e il gas: esprimere pubblicamente la propria opinione su piattaforme apposite finirà presto con il rappresentare un bisogno non minore degli altri indicati, che vengono definiti non a caso servizi “essenziali” (pur non essendo di regola “obbligatori”, e però sono indispensabili, necesssari in concreto per poter vivere nel XXI secolo), nozione di cui è del resto evidente la relatività storicà. Si noti che non ho fatto cenno ai presupposti di legittimità del titolo proprietario di Facebook, che, a rigore libertario sono inesistenti (brevetti, uso gratuito di demanio, quindi abusiva costruzione di un’enclosure, ma anche contratto vessatorio non negoziato, che inficia la legittimità dei ban per “reato di opinione”); ma qui ho voluto prendere la questione da un’altra prospettiva. Tuttavia, data tale consustanziale illegittimità, dovrebbe opera una sorta di homesteading collettivo a vantaggio degli utenti. Naturalmente, resta ferma l’ipotesi che, confermandosi Facebook un luogo dalla censura facile, possano emergere concorrenti, e questo è l’unico punto su cui gli anarco-capitalisti hanno ragione: salvo che si tratta di una mera eventualità dai tempi non certo brevi, disponibilità dei capitali a parte. Nel frattempo, una volta che Facebook diventasse l’unico luogo al mondo sul quale esprimere opinioni, essa diventerà arbitro totale di ciò che si può dire e ciò che non si può dire, potendo silenziare a piacere chi vuole. Ma non c’è da preoccuparsi: a quel punto sarà sempre al tuo fianco un anarco-demente, il quale, essendo oltretutto teorizzatore della legittimità dei monopoli “di fatto” –e invece abbiamo visto come in tal caso il monopolio “di fatto” sia fortemente giuridificato-, ti dirà “Facebook è un privato e fa ciò che vuole, e poi non è obbligatorio stare su Facebook”. Un altro esempio di capitalismo autoritario può essere rappresentato dai call center molesti, che telefonano a raffica nelle nostre case e nei nostri uffici: l’assioma rothbardiano, molto probabilmente, lo considererebbe un comportamento legittimo –del resto qualsiasi cosa provenga dai capitalisti per gli attuali rothbardiani è legittimo per definizione-; il mio assioma invece li delegittimerebbe, considerandolo imposizione unilaterale di un obbligo giuridico (se è loro “diritto” chiamare) e di una costrizione empirica (di essere costretti all’ascolto dallo squillo sgradito, se non proprio quello di rispondere). Infine, il NAP consentirebbe al proprietario di rimanere tale, esercitando lo ius excludendi alios, anche avendo abbandonato la propria area, cosa che invece il mio assioma non consente, dato che occupazione e uso sono subordinati a un giudizio di utilità.
Nessun commento:
Posta un commento