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sabato 9 febbraio 2019

Costituzioni in conflitto e divagazioni sull'ordoliberalismo



di Fabio Massimo Nicosia

Si è fatta strada l’idea che Repubblica Italiana e Unione Europea dispongano di “costituzioni economiche” differenti, forse addirittura inconciliabili. Non si tratterebbe cioè di un semplice caso di diversi sed non adversi, ma di vera e propria genetica incompatibilità; ciò, fatte salve alcune recenti, note forzature, che hanno reso quasi de facto, per irresponsabilità e faciloneria delle nostre classi dirigenti, la prima conforme alla seconda, pur ovviamente non potendo eliminare tutte le aporie di una simile giustapposizione, prima, e sovrapposizione, in ultimo: con la conseguenza che la Costituzione italiana risulta oggi, in definitiva, contraddittoria, in assenza di alcun criterio formalmente riconosciuto di soluzione al riguardo delle antinomie, che non sia la generale “prevalenza del diritto comunitario”. Ciò con una dottrina e una giurisprudenza sui cosiddetti controlimiti assai deboli, e ulteriormente indebolite dalla recezione in Costituzione dai principi del pareggio di bilancio e del principio di rispetto degli obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione Europea.
Tornerò su questo. Come si sa, la Costituzione italiana fissa una serie di finalità di carattere “sociale”, che richiedono un’attività di perseguimento attivo da parte dei poteri dello Stato in un regime di economia mista. Fulcro ne è l’art. 3, che si propone obiettivi di eguaglianza sostanziale, ma clausole di “utilità sociale” sono disseminate ovunque nel testo costituzionale. La Repubblica, con le sue istituzioni, sarebbe libera di valutare a discrezione i mezzi, per ottenere quei risultati; spicca, in particolare, il cosiddetto principio lavorista, com’è noto fin dall’art. 1, ripreso dall’art. 3, in cui le figure della persona, del cittadino e del lavoratore si confondono; e dall’art. 4, nel quale al diritto al lavoro si affianca il dovere di svolgere, di propria scelta, una qualsiasi attività, che concorra al progresso materiale della società[1]. Da tali principi, la dottrina costituzionalistica ha ricavato l’esistenza di un obbligo costituzionale alla piena occupazione; ora, non è detto che ciò debba necessariamente comportare politiche di carattere keynesiano; tuttavia esse sono certamente consentite dalla costituzione[2], e sono state in effetti perseguite nell’epoca di mezzo cosiddetta proprio del “compromesso keynesiano” tra capitale e lavoro.
E così, il sistema che si è venuto a delineare (tra inserimento in costituzione del principio concorrenziale, indipendenza della banca centrale e regola del pareggio di bilancio) disegna “un nuovo diritto costituzionale dell’economia, radicalmente alternativo rispetto al disegno originario della costituzione repubblicana”[3].
Il tutto accompagnato da un processo di dismissione della sovranità fin dall’origine squisitamente politico, che, nel nostro Paese, ha preso le mosse a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, allorché noti eventi hanno distrutto le classi dirigenti nazionali pubbliche, nonché indebolito quelle  private, con le famose “privatizzazioni senza liberalizzazione”[4]; il che ha consentito non solo l’affermarsi dei “poteri invisibili”[5], ma anche il consolidarsi di quello che, già a decorrere dal famoso divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia del 1981 –una riforma di rango quasi-costituzionale, dato che si introduceva il principio dell’indipendenza della banca centrale dalle politiche fiscali, avvenuta attraverso uno scambio di lettere-, veniva invocato come “vincolo esterno” europeo[6], dall’ingresso nella banda stretta dello Sme nel 1990 fino appunto all’introduzione nel 2012 del fiscal compact nella Costituzione in modifica dell’art. 81; e ciò a tacere dell’altra fondamentale modifica, quella dell’art. 117, il quale, ora, al primo comma assoggetta la legislazione ai “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”, oltre che in genere dagli obblighi internazionali, con ciò però mostrando, se non confessando, l’inadeguatezza, sino ad allora, della pretesa di fondarne il rispetto in toto sul solo art. 11[7], i cui limiti –acconsentire a limitazioni di sovranità per assicurare “la pace e la giustizia”- paiono insufficienti, o comunque troppo vaghi, per giustificare tanto[8]. Oltretutto, l’art. 11 ammette “limitazioni” di sovranità, mentre noi abbiamo assistito ad autentica cessioni: la più vistosa è quella monetaria, ma essa vanno aggiunte notevolissime porzioni di normazione –e si sa che fare leggi è espressione tipica della sovranità[9]- e di giurisdizione.
Se si accede a quest’ultimo ordine di idee, occorre concludere che l’Unione europea, e tutto il portato di modifiche di rango costituzionale e super-costituzionale, che ha recato con sé, presenta una scaturigine sostanzialmente de facto e costituzionalmente illegittima, non essendo ovviamente di rango costituzionale le leggi di ratifica dei trattati, od oggetto di dubbia sanatoria, attraverso le modifiche costituzionali più recenti (si pensi appunto alla riforma dell’art. 117, c. 1).
Due modelli costituzionali in conflitto, alle quali corrispondono due diversi idealità, quella democratico-sociale propria dei nostri costituenti e quella ordoliberale dell’Unione. La vicenda dell’ordoliberalismo è stata ricostruita molte volte; si tratta di una dottrina sostanzialmente utopica, come tale a volte fonte di fanatismi applicativi, che ce ne forniscono nella realtà una versione spesso alquanto volgare,  si pensi al profluvio di regolamenti e di direttive europee: siccome l’ordoliberalismo persegue l’ideale (alquanto astratto) della concorrenza perfetta, e in concorrenza perfetta i concorrenti sono caratterizzati da omogeneità del prodotto fornito, la Ue procede a una massiccia normazione di standardizzazione degli oggetti di mercato, sicché la concorrenza sia “perfetta” da Stoccolma ad Agrigento; peccato però che, sempre secondo il modello, in concorrenza perfetta il profitto dovrebbe tendere a essere nullo, ma tale ovviamente nella realtà non è, dimostrando anche per ciò solo quanto il modello stesso sia inattingibile. Si dirà che si tratta di un ideale da conseguire, un’utopia, appunto, verso la quale protendere. Si tratta in realtà di un modello analitico, che, preso alla lettera, può condurre a distopie come in ogni caso simile nella storia; più concretamente, il modello analitico diviene una formula politica di legittimazione dell’intervento di governo, tanto più che la normazione comunitaria sembra andare nella direzione opposta, dato che quelle prescrizioni –si pensi al regolamento GDPR sulla cosiddetta tutela della privacy- comportano spesso costi notevoli di “adeguamento” agli operatori, favorendo così i grandi e rischiando di mettere fuori mercato i piccoli, ovvero di farli vivere nell’illegalità permanente; ovvero, spesso di chiudere e di farsi dipendenti, sicché il fair play normativo (e non finanziario) ordoliberale finisce con il favorire non già la concorrenza perfetta, ma la grande dimensione di scala.
Per converso, da questa maniacale e contraddittoria tensione verso un’idealizzata concorrenza vorrebbero derivare all’ordoliberalismo dei meriti, rispetto ad altre correnti neoliberali, ossia la sensibilità nei confronti della questione degli sfruttamenti abusivi di posizione dominante, laddove gli “austriaci” ritengono, non solo perfettamente legittimi, ma efficienti i monopoli sorti spontaneamente dal mercato. Sfuggono però agli esponenti della corrente due elementi; anzitutto, quanto queste posizioni dominanti siano frutto di privilegi concessi dallo Stato, non solo quando vi siano evidenti commistioni, ma anche solo per l’accumulo di diritti monopolistici di proprietà intellettuale (e gli “austriaci” a loro volta incorrono in analoga fallacia, allorché parlano di monopoli “spontanei”, quando di “spontaneo” non vi è in realtà quasi mai nulla). In secondo luogo, sfugge all’ordoliberale, il quale vede nello Stato lo strumento della realizzazione coattiva dell’ideale concorrenziale, come lo Stato sia a sua volta impresa dominante nel settore dei servizi, e non solo certo neutrale regolatore, con la conseguenza che la censura di sfruttamento abusivo di posizione dominante andrebbe rivolta anzitutto nei confronti dello Stato stesso.[10] E in realtà, sul piano del diritto positivo, l’ispirazione ordoliberale ha figliato nel Trattato europeo una norma anarco-capitalista, o, se si vuole, in senso lato leninista, nel senso che, in base all’art. 106, lo Stato diviene arbitro della sua propria estinzione, dato che, in base alla norma, compete allo Stato stesso di fissare i limiti, che possono sempre essere valicati, della propria rivendicazione monopolistica e coattiva nella fornitura di determinati servizi.
V’è poi un altro elemento da considerare, ossia che l’istituto dell’abuso di posizione dominante viene previsto in funzione della tutela del “bene pubblico” concorrenza. Ma allora vien da chiedersi se la concorrenza sia un fine assoluto in sé, o non sia piuttosto un bene strumentale ad altri obiettivi –oltre a costituire espressione di una libertà, quella economica-; e allora quale potrebbe essere l’obiettivo ulteriore, al quale la tutela della concorrenza è finalizzata, se non la tutela del consumatore? E chi è il consumatore, se non null’altro che il cittadino stesso? L’abuso di posizione dominante diviene così istituto di garanzia, “costituzionalistico”, a tutela del cittadino nei confronti tanto del potere pubblico (anche i soggetti pubblici sono sottoposti al principio di concorrenza), quanto di quello privato, senza distinzioni (e tanto più che il potere privato, se è tale, è per lo più colluso con il pubblico).
L’abuso di posizione dominante guadagna così una nuova accezione, che si riferisce non al potere di mercato di un’impresa con riferimento ai soggetti concorrenti (abuso di sistema, orizzontale), ma con riferimento al cittadino-consumatore (abuso di situazione, di relazione, verticale), al quale è consentito semplicemente di aderire passivamente a contratti unilateralmente predisposti, spesso in termini vessatori, dal soggetto asimmetrico –che non necessariamente è dominante in termini concorrenziali-, con riferimento ai quali l’invocazione del “consenso” finisce con il rivelarsi solo un velo di facciata, posto a relazioni non meno “necessarie” di quelle di diritto pubblico[11].
Il diritto della concorrenza e dei consumatori diviene così la base di un nuovo ius commune, fondato sul principio dell’interpretatio contra stipulatorem e sul favor civis, vale a dire sul principio di buona fede, che vale tanto per pubblici che privati operatori, avente carattere di garanzia generalizzata per il cittadino; ma tutto ciò postula una fuoriuscita dal canone tradizionale del diritto pubblico ad appartenenza necessaria, nel momento in cui questo finisce con il valere de facto anche nel diritto privato, che non pare propria, se non tendenzialmente –ma si tratta di un’estrapolazione teorica forse arbitraria da parte nostra-, né dell’ordoliberalismo, né della sua applicazione “volgare” a livello comunitario europeo.
Vero è che in Franz Böhm, uno dei padri, con Walter Eucken, della Scuola di Friburgo, vi è la sottolineatura della centralità di una società fondata sul diritto privato[12]; ma il presupposto è che questa società -società di mercato, nella quale i parametri di riferimento sono rappresentati dal sistema dei prezzi- non sia in grado di esprimere istituzioni proprie, e dipenda totalmente dalla regolamentazione esogena dello Stato per potersi affermare e stabilizzare; non solo il mercato, per l’ordoliberalismo, è un prodotto non naturale, ma artificiale; ma nemmeno è in grado di realizzare spontaneamente istituzioni collettive, e richiede una costante presenza occhiuta dello Stato per fissare le regole, che consentano il concreto funzionamento del mercato stesso e l’”instaurazione” (nientedimeno) della società di diritto privato[13].
Si è visto come ciò comporti, nella policy dell’Unione europea, un’instancabile opera di normazione di livello primario, che definiremmo di legislazione regolamentare, tertium genus rispetto alla legge generale e astratta e la legge-provvedimento; ma, a un livello superiore, di rango materialmente, quando non formalmente, costituzionale, ciò si esprime nel principio della “stabilità monetaria”[14], e quindi, nella pratica, nel principio dell’indipendenza della banca centrale dalla politica, le cui più notevoli manifestazioni sono state, dapprima, a partire dal 1957, la Bundesbank, e poi evidentemente la Banca Centrale Europea.
Non può sfuggire quindi come questo “liberalismo” abbisogni fortemente del monopolio della forza, in tal caso, oltre che del monopolio della normazione, di quello della moneta e della sua gestione; che poi all’atto pratico questo monopolio sia trasferito al livello continentale non ne fa venir meno, anzi a nostro avviso l’accentua, il carattere “statalista”. Si è cercato di ricostruire l’idea della banca centrale indipendente, collocandola nel sistema dei pesi e contrappesi costituzionali, cosa che avviene non di rado anche nella polemica giornalistica: contrappeso cioè alla classe politica spendacciona, così come lo sarebbe il vaglio di legittimità delle leggi, effettuato da una corte costituzionale[15]. Ma si tratta di una ricostruzione mistificatoria, se si considera che l’”indipendenza”, riconosciuta alla BCE dal trattato europeo, non ne fa certo un “contrappeso” ai poteri, ma semmai un potere, in grande parte svincolato da controlli a propria volta –sostanzialmente, anche se non formalmente, sottratto al controllo giurisdizionale-, se non addirittura, in buona misura, il potere per eccellenza del nuovo Stato finanziario continentale.
Quanto all’elemento “sociale”, che sarebbe proprio dell’economia sociale di mercato[16], l’ordoliberalismo, a differenza di quanto si sforza di fare la nostra Costituzione, sembra avere poco da dirci; è pur vero che, per Böhm, “l’idea di trasformare una società a molti strati in una società di diritto privato composta da persone ugualmente libere dotate di uguali diritti mira a realizzare niente di meno che una società in cui cessi la soggezione e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo[17]”; ma si tratta appunto di quell’elemento utopistico, di cui si è parlato, per il quale una pura società concorrenziale risolverebbe da sé il problema sociale, senza necessità di ulteriori interventi, che siano rivolti esplicitamente in tal senso.
Ora, se questo potrebbe avere senso a partire da una situazione originaria egualitaria, non si vede invece come l’”instaurazione” della concorrenza possa bastare a se stessa nel risolvere la questione della diseguaglianza, che trova la propria origine in atti di appropriazione unilaterale –id est: senza risarcimento a vantaggio degli spossessati-, che trovano conferma di legittimazione storica dei titoli, oltre che di attivo alimento, nell’opera dello stesso Stato; a meno che questa “instaurazione” non sia espressa in termini talmente radicali, da intendere l’obiettivo finale della “concorrenza perfetta” alla lettera, ivi compreso appunto l’obiettivo di azzerare ogni squilibrio e, a ben vedere, ogni profitto, vale a dire ogni potere.
È possibile che in qualche ristretto circolo filosofico qualcuno coltivi siffatta lettura estrema dell’ordoliberalismo, fino a renderlo “ordolibertarismo”[18]: ha un suo senso l’affermazione per cui la concorrenza fallisce perché non ce n’è abbastanza (ma c’è chi dice lo stesso dello Stato), ma presa alla lettera l’affermazione porta allo smantellamento dell’intero sistema e alla sottoposizione al consenso universale di qualsiasi titolo di proprietà (proprietà calata nel mercato); ma certo non pare davvero questa la politica dominante a livello europeo, né un simile risultato contemplerebbe il monopolio monetario, dato che il principio concorrenziale non potrebbe che estendersi a tale fondamentale materia; eppure quel monopolio è centrale tanto nell’ordoliberalismo, quanto nel sistema comunitario europeo, a meno che lo stesso non sia da ritenersi transitorio nelle ipotetiche teorizzazioni più ardite.
La soluzione del problema sociale non andrebbe attivamente perseguita, quindi, perché essa conseguirebbe automaticamente all’affermarsi del principio di concorrenza perfetta; nell’attesa, però, prevale l’inerzia, e non si comprende come quell’obiettivo possa essere raggiunto in assenza di una rettificazione dei titoli storici di proprietà.
Sogno dei grandi soggetti privati non è certo, però, la “concorrenza perfetta”, ma lo Stato privato, una holding di controllo del territorio e dell’ordine pubblico, senza mendicanti e homeless visibili, che amministri la spartizione delle risorse tra gli “ottimati”, che spolpi il demanio, e nulla ne resti, interamente appropriato. Le élites, contrariamente a quello che credono gli anarco-capitalisti da un parte e certi sovranisti dall’altra, non faranno mai a meno dello Stato; possono fare a meno dello Stato pluriclasse, di mediazione tra gli interessi, ma non di un’impalcatura idonea a imporre il proprio predominio. Al più potranno concedere dei sussidi ai poveri per raffreddare le loro velleità di ribellione. Sicché, nella loro mente, si delinea un futuro di pochi con la carta di credito inesauribile, alcuni che sbarcano il lunario, e, semmai, una massa imprecisata di diseredati titolari, al più, di carta annonaria, ovviamente soggetti a sistematico telecontrollo da parte dei “proprietari” dello Stato; questa distopia rappresenterebbe l’apoteosi di quella che in passato ho chiamato “idiocrazia”, da idion, “privato” in greco, che trova la sua più lampante manifestazione odierna nel sistema delle banche centrali, organismi di diritto pubblico, posseduti privatamente.
A differenza che nell’idea hayekiana di “ordine spontaneo”, di catallassi, vale nell’ordoliberalismo il convincimento costruttivista che la concorrenza non sarebbe “naturale”, e quindi andrebbe deliberatamente perseguita, ma sfugge a costoro la critica hayekiana all’abuso della ragione, per cui non sono sotto il loro controllo gli effetti inintenzionali di un simile progetto, che potrebbe ben essere quello appena descritto. Certo, in assenza di concorrenza in molti settori (si pensi a quelli “sovrani”), in presenza di sfruttamenti abusivi di posizioni dominanti, che trovano sostegno reale in uno Stato che si vuole impegnato a combatterli, la concorrenza non può che essere costruita con un atto decisorio di volontà. Più impegnativo sarebbe stabilire, invece, se la concorrenza del mercato sia o no “naturale” partendo da un’ipotetica situazione originaria; Hayek, per coerenza, probabilmente direbbe che lo è, fermo restando il rivale comunitario al mercato, a meno di non ricostruire in termini “di mercato” –il che è astrattamente possibile- la stessa comunità fondata sulla condivisione.
Si tratta di una questione che Karl Polanyi ha individuato, nella storia, in epoche ben precedenti rispetto a quelle neoliberali: la “grande trasformazione” della società in una di mercato tra la fine del XVIII secolo e la prima parte del XIX non fu, sostiene l’Autore, un fatto spontaneo -né si partiva da zero, quindi l’ipotesi della “naturalità” non è verificabile-, ma frutto di ben precise scelte politico-legislative, per non dire di veri e propri atti di forza, oggetto di sanatoria, come le recinzioni, le enclosures[19], che hanno fatto unilaterale piazza pulita dei diritti collettivi sulla terra considerata comune, o privata, ma comunque ab immemorabile gravata di diritti collettivi, che sono stati rimossi in assenza per lo più di compensazione e di risarcimento[20].
I diritti consuetudinari sulla terra, comune o privata, ma sempre soggetta a usi civici, sono stati unilateralmente cancellati[21], e su questa base lo Stato moderno ha adottato attivamente politiche di laissez faire, incentrate cioè sul cosiddetto sistema autoregolato dei prezzi; ma la convinzione che al sistema dei prezzi reali possano essere estranei i rapporti di forza è un’illusione, se quei prezzi non sono in grado di compensare e risarcire tutti i danni, procurati ed emergenti, dato che alla base di quei prezzi si situano ben precisi rapporti di forza –e politici!-, ad esempio nel controllo delle risorse naturali.
L’”autoregolazione”, e questo vale anche per gli ordoliberali, non ha nulla di etereo, dato che un ipotetico mercato davvero “autoregolato” non sarebbe altro che una continua riconferma dei rapporti di forza e degli assetti di potere in atto; del resto se dire, come Polanyi, che l’economia originaria era immersa nei rapporti sociali implica che essa fosse immersa in rapporti di forza che sono mutevoli, invertire la relazione, ossia introdurre i rapporti sociali all’interno del rapporto economico, esprime l’intenzione di stabilizzare quei rapporti sociali, che vengono sussunti nel mercato come immutabili.
Il sistema dei prezzi non si è evoluto partendo dallo zero di una situazione originaria, ma da una situazione pregiudicata dai rapporti, inizialmente feudali, e poi di sradicamento sociale; la concorrenza degli ordoliberali ha il coraggio di insinuarsi in questi rapporti, sconvolgendoli, restituendo a ogni individuo la pienezza, ad esempio attraverso politiche di risarcimento, del suo potere essere attore non marginale del mercato? Non viene esplicitato, quindi di fatto viene negato, e il lavoratore deve restare lavoratore; da qui il carattere conservativo degli assetti di classe in essere di un’ideologia che pure si presume possa vantare un volto progressista.
Scrive Polanyi, esprimendo lo spirito ordoliberale ante litteram: “Non vi era nulla di naturale nel laissez-faire. I mercati liberi non avrebbero mai potuto esistere se si fossero lasciate le cose al loro corso. Così come le manifatture del cotone, la principale industria del libero scambio, furono create con l’ausilio di tariffe protettive, premi di esportazione e sussidi salariali indiretti, lo stesso laissez-faire fu attuato dallo stato. Gli anni trenta e quaranta videro non soltanto un’esplosione della legislazione che respingeva le regolamentazioni restrittive, ma anche un aumento enorme nelle funzioni amministrative dello stato che veniva ora dotato di una burocrazia centrale in grado di realizzare i compiti posti dai sostenitori del liberalismo. Per l’utilitarista tipico, il liberalismo economico era un progetto sociale che avrebbe dovuto essere attuato per raggiungere la massima felicità per il massimo numero di persone; il laissez faire non era un metodo per conseguire qualcosa ma era la cosa da conseguire. È vero che la legislazione non poteva fare nulla direttamente tranne che abrogare delle restrizioni dannose, ma questo non significava che il governo non potesse fare nulla, specialmente in modo indiretto. Al contrario il liberale utilitarista vedeva nel governo il grande strumento per il raggiungimento della felicità. Rispetto al benessere materiale, Bentham credeva, l’influenza della legislazione ‘è come nulla’ in confronto al contributo inconsapevole del ‘ministro della polizia’”[22].
Ora, se il capitalismo nascente si è decisamente avvalso della coercizione e del supporto dello Stato e della sua attiva normazione e amministrazione, non si comprende perché a essere imputati di “statalismo” dovrebbero essere invece i ceti dominati, solo perché, per usare il linguaggio, di Polanyi, essi finirono con il chiedere allo Stato stesso “protezione” nei confronti di una situazione, che li vedeva, in quanto operatori di mercato, solo come lavoratori; e la cui disciplina, dice ancora Polanyi, è rappresentata dalla fame, conseguente allo sradicamento dei diritti collettivi originariamente connessi alla feudalità.
Quel laissez- faire sorse ab origine squilibrato: chi di Stato ferisce, di Stato può perire, se lo Stato diviene pluriclasse e si fa carico di quei beni comuni di protezione, che si rendono necessari proprio di fronte all’incapacità, o alla non volontà[23], di farsene carico da un sistema concorrenziale, che alla prova dei fatti si rivelò “liberismo” solo per i più forti[24]; in un sistema, oltretutto, a suffragio ristretto, per cui il lavoratore era soggetto a coercizione anche da questo punto di vista.
Si confidò che lo Stato facesse propri quegli interessi comuni, che il mercato ignorava, non perché questo fosse consustanziale a un’idea puramente teorica di mercato, che tutti includa, ma da un piede di parità –e allora torna la metafora della situazione originaria-, ma perché quello era un mercato riservato a una parte sola, sicché la protezione non poteva, se non come prodotto indiretto, venir fornita autopoieticamente dal mercato stesso, dati i rapporti di forza nel mercato, salvo ovviamente il peso dei lavoratori congiunti nel cartello del sindacato[25].
L’invocata protezione da parte dello Stato nei confronti dei miseri rappresenta un salto logico, ma non si può dire che il soggetto debole avesse altri modi di conseguire protezione, se non attraverso la lotta sindacale; salvo che questa si rivela un bene collettivo di produzione più complessa (creare nuove istituzioni) di fronte alla scorciatoia, comprensibile, del fare appello all’istituzione forte già esistente, per quanto questa fosse di proprio già impegnata ad accentuare il carattere di classe delle politiche di laissez-faire, con riferimento alle quali il povero è necessario in quanto povero: niente povertà, niente laissez-faire; il povero deve farsi “lavoratore”, e quindi la sua povertà di base è funzionale al sistema di sfruttamento, che si viene così a creare e a consolidare.
Sradicato dalla terra, sulla quale già l’epoca feudale aveva assegnato dei diritti poi nullificati, il povero viene ricondotto alla figura del potenziale lavoratore di fabbrica –il vagabondaggio e la mendicità vengono duramente repressi-, risultando spersonalizzato, in quanto soggetto pieno, rispetto alle epoche passate; così si può dire in coro -da parte di Marx, di Polanyi e di Foucault- che il lavoratore diviene “merce”, dato che questo è l’unico modo, per lo sprovvisto di capitale, per potersi fare soggetto nel meccanismo di mercato.
Sono dell’idea, al contrario, che il lavoratore non sia merce, ma semmai capitale (umano), se il suo ruolo è reciprocamente succedaneo al capitale fisso rappresentato dai macchinari. Come ci ricorda Foucault, per il neoliberalismo (che sia “Ordo”, o della Scuola di Chicago) ognuno deve farsi impresa, anzi, ciascun uomo è impresa[26], impresa di se stesso.
A me pare che vi sia un deciso miglioramento di significato in questa passaggio terminologico –dal lavoro-merce al lavoro-capitale e all’impresa diffusa-, comune alla teoria e alla giurisprudenza della Corte di Giustiza Ue, che ha dilatato all’inverosimile, con ottime intenzioni, la nozione comunitaria europea di impresa.
Senonché il lavoratore “imprenditore di se stesso”, locuzione edulcorata per descrivere lo spiantato, non può davvero farsi “capitale” e “impresa” se non accedendo diffusamente al credito; e allora ritorna in auge la questione del libero conio (o del suo negativo fotografico, l’utile universale), perché l’imprenditore senza capitale che non sia “se stesso” è solo un precario della vita. I rider del food dispongono del capitale-bicicletta, ma lo mettono a disposizione del datore di lavoro, e tuttavia non diventano soci dell’azienda, nonostante il loro decisivo apporto di capitale all’impresa. Anzi, sono tra i più precari tra i lavoratori, quindi, per sancire lo sfruttamento è necessario negar loro la qualifica di lavoratori subordinati, qualifica la cui natura protettiva, oggi, è sempre più evidente.
E allora i rider non chiedono ragione della loro esclusione quali soci dell’azienda, alla quale conferiscono capitale, ma si dispongono in modo da conseguire le protezioni connesse allo status di lavoratore subordinato. Chi in politica si è adagiato su questa faciloneria del precario, che in realtà sarebbe imprenditore, non ha spiegato però come si possa essere imprenditori senza accesso al credito, senza disporre di una base monetaria, sulla quale poter fondare davvero la propria impresa: come si vede, l’ideale della concorrenza, più o meno perfetta, presupporrebbe che, al venir meno della sicurezza del posto da lavoratore dipendente, l’imprenditore di se stesso “per forza” potesse disporre dello stesso accesso al credito che ha generalmente l’imprenditore privilegiato: è questo è chiaramente un “meno peggio” rispetto all’idea libertaria del libero conio[27], ma darebbe comunque un senso alla proposta, allo stato mistificatoria, di considerare ciascuno imprenditore; non si dà imprenditore realistico senza accesso al credito o a un qualche capitale che sia altro dal mero “se stesso”, per quanto questo potrebbe essere contabilizzato in quanto portatore di know how, oltre che di “bicicletta”.
Se questo è il senso dell’ordoliberalismo, il quale, marxisteggiando, rimanda al “dopo” l’instaurazione della concorrenza perfetta la soluzione del problema sociale (dato che per ora non intende rettificare i titoli, ma affida alla ricetta del “più concorrenza” per conseguire il fatto che l’economia di mercato sia sociale), si capisce come nuove richieste di protezione polanyana emergano; e la nostra carta costituzionale pare costruita all’uopo (e sempre di più sono quelli che vedono inevitabilmente nel nostro Stato nazionale la sede dell’affermazione di quei principi di protezione), salvo verificare ch’essa non sia stata vanificata nelle parti fondamentali dal prevalere normativo dei principi ordoliberali dell’Unione europea: rispetto alla nostra costituzione si tratta ben sì di procedere oltre, ma oltre, non di tornare indietro; in questo caso l’ordoliberalismo si fa davvero, come direbbe Foucault, dispositivo di dominio. Il primato del diritto comunitario significa, occorre sia ben chiaro, non tanto un problema di gerarchia delle fonti, ma di vero e proprio primato di un ordinamento sull’altro, di una precisa ideologia sull’altra; e a ciò corrispondono, è difficile negarlo, interessi di classe diversi e non di rado contrapposti.



[1] Questa attività non deve produrre reddito necessariamente per sé. Nella realtà contemporanea, l’individuo “sempre connesso” e il consumatore producono però valore sociale e reddito per altri, pur non guadagnando nulla. Mi pare che una lettura moderna dell’art. 4 possa fondare la previsione di un reddito di base universale, sul presupposto che, a ben vedere, tutti concorrono in qualche modo, con la propria attività, anche se non remunerata in quanto tale, alla produzione della ricchezza, da quando cede gratuitamente i propri dati ai social networks, a quando atteggia le proprie scelte di consumatore sulla base della pubblicità fruita.
[2] Omar Chessa, La costituzione della moneta – Concorrenza, indipendenza della banca centrale, pareggio di bilancio, Napoli, Jovene, 2016. 30 ss.
[3] Ivi, 369.
[4] Giulio Sapelli, Chi comanda in Italia, Milano, Guerini e Associati, 2018, 50.
[5] Ibidem.
[6] Antonio Pilati, Poteri dispersi e sovranità perduta, in G. Sapelli, op. cit., 165 ss. Sulla posizione dell’allora Ministro del Tesoro Guido Carli cfr. Alessandro Somma, Sovranismi, cit. 97.
[7] Cfr. Corte Cost., ord. 26 gennaio 2017 n. 24, in Giur. Cost., 2017, 171 ss..
[8] Sul punto cfr. Roberto Bin, Paolo Caretti e Giovanni Pitruzzella, Profili costituzionali dell’Unione europea, Bologna, Il Mulino, 2015, 235.
[9] Padoa Schioppa
[10] Abusiva legittimità
[11] Si pensi alle migliaia di “consensi” inevitabili che rilasciamo con riferimento alla gestione della cosiddetta privacy; paradigmatico il grottesco caso dei cookies. Né del resto il possessore di un’automobile può fare a meno di assicurarsi, né di fatto possiamo rinunciare ad avere un conto corrente bancario, se vogliamo essere inseriti nell’attuale società, né tantomeno di un numero di telefono o di una connessione internet. Pochi poi sono coloro i quali riescono a rinunciare a una partecipazione ai social networks: in ognuna di tali situazioni, siamo di fronte a un soggetto forte che fissa unilateralmente le condizioni della relazione e a un soggetto debole che “aderisce”.
[12] Franz Böhm, La società di diritto privato e l’economia di mercato, in L’economia sociale di mercato e i suoi nemici, a cura di Francesco Forte, Flavio Felice e Clemente Forte, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012. Il saggio è apparso sulla rivista “Ordo” nel 1966.
[13] Ivi, 83.
[14] Ivi, 81. A sua volta, Eucken scrive che “Senza un efficiente ordine monetario l’ordine della concorrenza non può funzionare in maniera soddisfacente” (Walter Eucken, Sul duplice compito dell’economia dal punto di vista della politica economicai, in Il liberalismo delle regole. Genesi ed eredità dell’economia sociale di mercato, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010 (1947), 115.
[15] Cfr. Omar Chessa, op. cit., 265 ss.
[16] Così come l’ha ribattezzata Alfred Müller-Armack. Si vedano i suoi scritti pubblicati in L’economia sociale di mercato e i suoi nemici, cit.
[17] Op. cit, 81.
[18] In tale lettura, l’ordoliberalismo diverrebbe una variante della proposta di dittatura libertaria: cfr. il nostro Il dittatore libertario – anarchia analitica tra comunismo di mercato, rendita di esistenza e sovranity share, Torino, Giappichelli, 2011
[19] Oggi il capitale si nutre di nuove e non nuove enclosures immateriali (contraddizione in termini), e si tratta dei diritti monopolistici di proprietà intellettuale, accumulati a migliaia ciascuno dalle multinazionali, dei domini dei grandi colossi di internet, che non remunerano i titolari di demanio, ossia i cittadini loro prosumatori, che come tornerò a dire più avanti, di quelle reti sono anche i veri proprietari.  Per non parlare del monopolio-oligopolio bancario, che esclude i più dall’accesso al capitale monetario: altra enclosure espressa dal sistema.
[20] Sulla vicenda si veda il capitolo XXIV del Libro primo del Capitale di Marx. Inoltre, Karl Polanyi, op. cit., 228 ss. Per la Francia cfr. Marc Bloch, La fine della comunità e la nascita dell’individualismo agrario, Milano, Jaka Book, 2017 (1930); per l’Italia preunitaria, si veda come il percorso di erosione degli usi civici sulle terre demaniali, con annessa validazione, anche in sanatoria, delle chiudende de facto,  è ricostruito da Oreste Ranelletti, Concetto, natura e limiti del demanio pubblico – Teoria (1898), ora in Idem, Scritti giuridici scelti, IV, I beni pubblici, Napoli, Jovene, 1992, 189 ss.
[21] Ponendo come Legislatore John Locke, qualsiasi enclosure o chiudenda si rivela illegittima e illecita, dato che non rispetta il proviso del lasciare agli altri altrettanta e altrettanto buona terra (§ 33 del Secondo Trattato sul Governo), a meno che non si proceda appunto, se non alla rettificazione dei titoli storici, ovvero al risarcimento del danno. Locke partiva esattamente dall’esperienza delle prime enclosures, e pur convalidando l’esperienza proprietaria unilaterale del coltivatore sulle pretese del pascolo, l’assoggettava a un requisito ben preciso, che può esprimersi nel “tutti proprietari”, o quantomeno siano risarciti gli espropriati. Cfr.  James Tully, A Discourse On Property – John Locke and His Adversary, Cambridge University Press, 1980.
[22] Karl Polanyi, op. cit., 178, evidenziazioni nostre.
[23] Resto convinto che il mercato possa realizzare beni pubblici in luogo dello Stato. Il problema è rappresentato dal fatto che la classe privilegiata del mercato non ha interesse che sia il mercato stesso la fonte di soluzione di quei problemi, dato che farebbe dell’autolesionismo. E allora la classe subordinata non ha fatto dottrina sui public goods nella storia, ma si è comprensibilmente preoccupata che se ne facesse carico lo Stato, data l’insufficienza dell’azione sindacale in tal senso.
[24] Anche la critica di Keynes al laissez-faire non tiene conto di questo aspetto, dato che quella che viene confutata non è l’idea del “mercato” astrattamente inteso, ma quella del mercato reale, del liberismo per i soli forti: confutare quel laissez faire non vale a confutare ancora l’idea del mercato, ma di un mercato al quale si possa davvero tutti partecipare, e non solo i privilegiati. Cfr. il saggio La fine del laissez-faire (1926) in John Maynard Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Torino, Utet, 2013. 107 ss.
[25] Com’è noto, ogni tanto qualche liberista intransigente chiede lo scioglimento dei sindacati in quanto illegittimo cartello tra i lavoratori: instaurare i principi della concorrenza tra i lavoratori ha senso solo se essi sono da considerarsi imprese; ma se di imprese si tratta, esse dovrebbero disporre, oltre che della contabilità dell’impresa (peso finanziario dei diritti immateriali di know how), anche di un capitale monetario di base. Un cartello dei lavoratori non è certo paragonabile a un cartello di grandi imprese. L’attacco ai sindacati (al principio, perché quelli italiani è come non averli) è quindi funzionale al “dumping tra proletari”.
[26] Michel Foucault, Nascita della biopolitica – Corso al Collège de France (1978-1979), Milano, Feltrinelli, 2004, 196.
[27] Nel modello analitico, il libero conio ha forti potenzialità redistributive rispetto all’assetto attuale dell’accesso alla moneta, quindi si tratta di una proposta liberale e “socialista” insieme. In effetti, la stessa concorrenza perfetta porterebbe al prezzo di costo di Josiah Warren, il che rappresenterebbe un punto di confluenza del pensiero liberale e di quello socialista libertario.

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