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giovedì 27 settembre 2018

Teoria del Common Trust (manifesto capital-comunista)


di Fabio Massimo Nicosia


Il mio libro “L'abusiva legittimità - Dallo Stato ai Common Trust” aveva lasciato alcuni problemi aperti, non compiutamente affrontati per mancanza di tempo e di spazio: dopo avere compiutamente affrontato la questione dello Stato, il Common Trust, che proponevo quale concreta alternativa in chiave libertaria, ne veniva solo abbozzato, sia pure individuato nei suoi elementi essenziali. Mi propongo pertanto ora di riprendere il filo del discorso e, possibilmente, di concluderlo, anche se spero che se ne apriranno nuove frontiere di discussione, dato che è impossibile, se non in una prospettiva da “stato finale” che rifiuto, delineare nei minimi particolari un’istituzione di nuovo conio.
Occorre partire da una premessa metodologica: la scienza economica, in quanto a mio avviso branca del diritto (eco-nomos), studia anche, forse soprattutto, forza e rapporti di forza, dato che ciò che si acquista preliminarmente sul mercato è l’astensione dall’uso della forza da parte altrui; lo fa ad esempio la teoria dei giochi, che non distingue nel proprio esame dell’interazione tra l’economico e il non economico nella teoria della negoziazione, essendo entrambi, sempre che la distinzione abbia senso, espressione di un equilibrio o di uno squilibrio di energie.
In realtà la distinzione ha senso pressoché nullo, perché l’attore “amministra” comunque una risorsa limitata, non dico “scarsa”, ossia se stesso, in quanto soggetto ovviamente non onnipotente e fallibile, sempre in condizione di dovere effettuare una scelta piuttosto che un’altra, scartando le alternative. Ne deriva che il mercato è la rete di una serie di negoziazioni, che misurano il rapporto di forza tra gli agenti, che a volte può esprimere un equilibrio efficiente, a volte, forse più spesso nella realtà inquinata odierna, uno squilibrio insoddisfacente.
Ricondurre la forza all’esame dell’economico, e il mercato a strumento di misurazione dei rapporti di forza, torna   utile ai nostri fini, perché consente di inquadrare senza difficoltà lo Stato, impresa dominante nel mercato della forza e della sua legittimazione, quale soggetto direttamente economico, come del resto dimostra una ben precisa disciplina economica, la scienza delle finanze.
Come detto altrove, la forza è risorsa pandespota, ossia diffusa tra tutti gli uomini, e tuttavia lo Stato avanza la pretesa della sua concentrazione in chiave monopolistica, il che si esprime nel controllo materiale e di fatto del territorio, vietando la concorrenza, rivendicando il monopolio, oltre che di quella risorsa primaria e preliminare che è la legittimazione, di una serie di servizi strettamente economici sul territorio stesso, primi tra tutti i servizi di protezione e di giustizia, che finanzia attraverso lo strumento primario della tassazione –oltre che dell’indebitamento-, ossia della riscossione coattiva delle risorse tra gli individui insediati sul territorio, sul quale rivendica l’esercizio della propria supremazia.
Lo Stato, concentrato della minaccia della coercizione, è il trionfatore nel mercato della forza e della legittimazione, ma lo è per proporsi come impresa dominante nella produzione di una serie di servizi –la produzione del diritto, della protezione, della giustizia, della sicurezza sociale, etc.-, i quali tutti, in quanto considerati “beni pubblici”, giustificherebbero il loro finanziamento tramite imposizione fiscale; lo Stato elabora la propria (auto)giustificazione ricorrendo a propria volta in un concetto economico quale quello di “bene pubblico” (public goods argument for the State), e si propone come impresa di realizzazione esattamente di quel bene o tipo di bene, astratto o concreto che sia.
Gli stessi processi di autoriproduzione della legittimazione garantiscono un servizio, il servizio di legittimazione appunto, dato lo Stato non si limita a garantire se stesso, ma offre garanzia e tutela a una serie di soggetti, i quali pagano delle imposte in cambio, ma è tutto da verificare se queste imposte siano proporzionate al servizio fornito. Ad esempio, lo Stato fornisce il servizio di legittimazione al grande capitalista, o al banchiere, ma costoro riescono in grande parte a scaricare sulla collettività i costi della propria legittimazione e protezione, sicché l’imposizione fiscale crea distorsioni anche da questo punto di vista, in quanto non frutto di una contrattazione aperta, ma di negoziazioni opache, in cui è sempre il più capace ad accedere alle leve della coercizione a prevalere.
E’ quindi impossibile, nello Stato, distinguere l’economico dal non economico, non solo se i servizi che fornisce hanno chiaramente carattere economico, ma se assume rilevanza finanziaria persino il bene astratto della legittimità, e quindi lo Stato è impresa anche sotto tale particolare profilo; ma poiché è costitutivo dell’essere impresa il fatto di possedere un patrimonio, occorre interrogarsi su quale sia il patrimonio di cui lo Stato dispone, e di cui usufruisce, nello svolgimento della sua attività “imprenditoriale” di fornitore del servizio pubblico fondamentale: questo patrimonio è rappresentato proprio dal suo territorio.
Infatti, la scienza economica, nel momento in cui studia il fenomeno del capitale, riconduce a tale nozione anzitutto la terra (Fraser), capitale preliminare, sul quale poi tutte le attività di produzione necessariamente si insediano. O, per meglio dire, la Terra, perché anche sottosuolo e soprasuolo rappresentano capitale economicamente rilevante: si pensi alle miniere, per il sottosuolo, e all’etere, per il soprasuolo.
Ora questo capitale, nel momento in cui diviene di proprietà dello Stato, acquisisce la denominazione di demanio; in senso lato, l’intero territorio, sul quale lo Stato esercita la propria supremazia, va considerato demanio: lo dimostra una disciplina, il diritto urbanistico, che tratta di fatto l’intero territorio come se fosse di proprietà dello Stato, perché è sempre lo Stato a stabilire quali attività, e con quali modalità concessorie, possano insediarsi sul territorio, e attraverso quali corresponsioni di costi (costo di costruzione, oneri di urbanizzazione, etc.). In fondo, a ben vedere, vale ancora la norma regale, per la quale il territorio è di proprietà del sovrano, e i proprietari ne sono dei meri concessionari o usuari, dato che non v’è attività insediata, la quale, non solo non sia soggetta ad abilitazione e comporti costi, ma anche sia sistematicamente soggetta all’eventualità dell’ablazione.
V’è poi il demanio in senso stretto, e sia sufficiente leggere l’art. 822 del codice civile per rendersi conto della sua rilevanza. Se il demanio naturale non è che una declinazione speciale del territorio di cui si è detto, e può farsi rientrare nella categoria del capitale naturale, il demanio artificiale assume i chiari connotati del capitale fisso destinato alla produzione, in particolare alla produzione di servizi (si pensi alle autostrade), o comunque alla fruizione da parte del pubblico, come il patrimonio artistico (capitale circolante), monumentale e culturale.
A questo punto va spiegato per quale ragione mai tutte queste ricchezze, che consentono di sussumere lo Stato quale categoria immediata del capitale (e non “sovrastrutturalmente”, come riteneva invece Marx) non rilevano quanto potrebbero e dovrebbero, e sono insignificanti contabilmente: v’è infatti una ragione storica che spiega tale sottovalutazione, ossia che il demanio, in quanto espressione diretta della sovranità dello Stato, veniva considerato extra commercium, e quindi sottratto alla contabilizzazione nello stato patrimoniale del bilancio pubblico.
Tale irrilevanza finanziaria ha favorito la mala gestione e la non valorizzazione di questo capitale, il quale, da res communis ai cittadini qual è, ha finito con l’essere trattato da res nullius invece che da fonte di ricchezza per i cittadini stessi, i quali, invece di ricavarne beneficio finanziario, ne risultano oppressi attraverso la tassazione.
In tale ricostruzione, per la quale la sovranità sarebbe extra commercium, si esprime l’infondata pretesa della categoria del politico di sottrarsi all’economico, il che è irrealistico, come dimostra quella disciplina, derivata dalla scienza delle finanze italiana (come ha riconosciuto James Buchanan), nota con il nome di public choice, che studia esattamente le dinamiche economiche del politico. Senonché non si è trattato solo di un astratto fraintendimento scientifico, ma di una vera e propria opera di depauperamento dei cittadini, ai quali è stato occultata (Amilcare Puviani) la circostanza di essere possessori di sterminate ricchezze.
Occorre infatti considerare che, così come sotto lo Stato patrimoniale il demanio era di proprietà diretta del re in quanto sovrano, in regime viceversa di sovranità popolare, il demanio, in quanto capitale inerente la sovranità, va considerato di proprietà (sovrana) del popolo, vale a dire, in omaggio a un banale individualismo metodologico, di proprietà di ciascun singolo cittadino. Intendo qui la sovranità come una sorta di super-diritto reale, al quale tutti i diritti reali civilistici sono subordinati, in quanto soggetti sistematicamente a disciplina concessoria da parte del sovrano.
Lo Stato si rivela quindi prigioniero della propria inefficienza anche sotto tale particolare profilo, e la mancata valorizzazione del suo patrimonio (lo Stato non applica a sé l’art, 2424 del codice civile) finisce con l’affidare, a differenza proprio di quanto avveniva ai tempi dello Stato patrimoniale, in cui il patrimonio era redditizio per il suo titolare, esclusivamente alla coercizione dell’imposizione fiscale il proprio finanziamento.
Ciò fa dello Stato un’impresa consustanzialmente inefficiente, dato che ricorre alla coertazione e non alla valorizzazione del patrimonio per il proprio sostentamento, il che lo rende, da impresa di servizi, una vera e propria controimpresa, e lo qualifica, alla luce del moderno diritto della concorrenza, un abuso di posizione dominante per inefficienza deliberata, ma anche connaturata nel fatto stesso di pretendere di concentrare una risorsa fisiologicamente diffusa come la forza, il che lo rende, attraverso quest’atto di sussunzione normativa della propria fattispecie reale, un soggetto illecito (void); un illecito che, contrariamente a quanto imporrebbero i principi generali del diritto, non comporta risarcimento per i danneggiati, ma imposizione ulteriore di carattere economico-finanziario.
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Quanto precede evidenzia pertanto che lo Stato è un soggetto economico, imprenditoriale e capitalista, e che lo è in modo fortemente inefficiente –il che è sufficiente a renderlo invalido per il diritto della concorrenza, in quanto preteso monopolio che abusa della propria posizione dominante proprio attraverso l’inefficienza-, ma anche che tale inefficienza non è rimediabile, se non al prezzo di cessare di essere uno “Stato” nell’accezione storicamente acquisita, dato che dovrebbe rinunciare a troppi elementi di sé che a oggi sono considerati costitutivi della statutalità.
Lo Stato pretende di avere risolto il nodo gordiano della convivenza politica attraverso il rimedio dell’appartenenza necessaria a un presunto monopolio in nome del “bene pubblico”, e per garantirla è costretto a ricorrere alla coercizione. Senonché la coercizione è consustanzialmente inefficiente, dato che non valorizza le potenzialità del coartato, ma, come si è visto, nemmeno quelle del coartatore, almeno non quelle economico-finanziarie, sovrastate dall’uso della forza quale strumento, non di negoziazione, ma di inefficiente imposizione unilaterale.
E’ questo un difetto intrinseco delle dottrine del contratto sociale, che fanno di tale “contratto” un gioco a somma negativa (ci si associa rinunciando a propri diritti in cambio di una coercizione inefficiente), e non a somma positiva, ossia associarsi per garantire a sé dei benefici, attraverso la costituzione di istituzioni efficienti anche dal punto di vista economico-finanziario. Si tratta quindi di un ben strano “contratto”, dato che, a differenza di quanto avviene con un normale scambio di mercato, non si migliora, almeno tendenzialmente, la condizione degli scambisti, ma la si peggiora, rinunciando a qualcosa, non in nome di un beneficio più ampio, ma di un’ulteriore restrizione.
L’avere però ricostruito lo Stato come soggetto economico ed impresa, sia pure con connotati che la rendono un’inefficiente controimpresa, ci suggerisce la via di fuga, consistente nell’eliminazione di quegli elementi di inefficienza che abbiamo descritto, il che però, e questo è il punto, determina la cessazione dello Stato come storicamente lo conosciamo, dissolvendo quel preteso “monopolista di tutto” (Chamberlain) in un più ampio mercato concorrenziale, in cui finalmente gli individui si associno per trarre vantaggi e non per ricavarne danni.
Tra i filosofi politici classici, l’unico che si è mosso parzialmente in tale direzione è stato John Locke, configurando il suo istituto politico come un Trust. Occorre infatti considerare che il Trust, istituto di common law sorto dalla giurisdizione di equity, di cui Locke era funzionario, è intrinsecamente volto a beneficiare determinati soggetti (beneficiary) anche dal punto di vista finanziario, o comunque può agevolmente essere piegato a questi fini.
E noi abbiamo visto come lo Stato dispone di imponenti capitali, che trascura, e che non valorizza a vantaggio dei cittadini sul piano finanziario. Tuttavia, non v’è alcuna ragione che tale attività sia svolta in forma monopolistica. Del resto, il monopolio della forza può vivere solo attraverso la forza (il suo fine è il suo mezzo), dato che il fatto che la forza si concentri in un monopolio, trattandosi come detto di risorsa pandespota, non fa di quel monopolio un monopolio naturale, ma artificiale (artificioso), e quindi non vive spontaneamente, ma solo auto-imponendosi, vietando la concorrenza attraverso la minaccia della coazione.
Anche in politica, la condizione fisiologica è la concorrenza, non il monopolio, che si viene a instaurare attraverso una altrettanto artificiosa connessione tra la nozione di “bene pubblico” e quella della sua implementazione in chiave monopolistica. Senonché v’è un problema, ossia che la concorrenza si svolge sul territorio, e il territorio esprime una forte valenza in chiave monopolistica, dato che l’insediamento delle persone su di esso trasforma in indivisibili tra loro alcune scelte riguardanti il territorio stesso, pur quando gli individui intendessero vivere ognuno secondo uno stile di vita differenziato: il territorio a tutti indivisibilmente si impone, e quindi è res communis alle parti. E questa res communis, come si è visto, è capitale, e come capitale va fatto fruttare a vantaggio di tutti i comunisti.
Salvo che ora tale capitale è di proprietà dello Stato, il quale, come pure si è visto, è, in parte deliberatamente, in parte connaturatamente, inidoneo a farlo fruttare. E allora si tratta di individuare delle istituzioni, alternative allo Stato come lo conosciamo, in grado di fare fruttare a vantaggio dei cittadini quel capitale comune che è il demanio. Il quale, a questo punto, perderebbe la propria denominazione (demanio viene da dominium), per essere riconosciuto come capitale comune di rilevanza politica, che propongo quale nozione di public choice, per intendere il nesso che intendo proporre tra il vivere associati e il fatto di ricavare guadagno, e non perdite, dal fatto di vivere associati.
Il capitale comune già demanio rimarrebbe appunto di titolarità comune, ma verrebbe affidato in gestione di valorizzazione a istituzioni, che, riecheggiando Locke, denomino Common Trust, quale sede della partecipazione, ben sì anche politicamente rilevante, ma anche e soprattutto della valorizzazione finanziaria. Il Trust che propongo è “common” in una duplice accezione: da un lato, si tratta di espressione di un nuovo diritto comune, derivazione del diritto della concorrenza, che già oggi si applica tanto ai soggetti privati, quanto a quelli di diritto pubblico, quale superamento e confluenza degli storici diritto pubblico e diritto privato, che prenda da quest’ultimo la contrattualità e il connesso principio di buona fede, e dal primo i principi di garanzia propri del diritto amministrativo, quale ad esempio la sindacabilità dei soggetti forti, anche di “diritto privato”, sotto il profilo dell’eccesso di potere, quale sintomo di situazione, e non solo di sistema, dell’istituto dell’abuso di posizione dominante; dall’altro lato, common significa che il Trust si occupa esattamente di valorizzare beni, anzi capitali, per definizione comuni.
Nell’istituto del Trust si è soliti distinguere il Disponente (Settlor), vale a dire il soggetto che costituisce il Trust e ne determina la regolamentazione; il Trustee, la persona o le persone alle quali il Settlor trasferisce i beni con l’obbligo di amministrarli; i “Beni in Trust” (Trust Fund), l’insieme dei beni costituiti in Trust  e i beneficiari (Beneficiaries), ossia coloro i quali vengono indicati nel Trust quali destinatari della distribuzione dei beni; il Guardiano (Protector), colui che ha il compito di vigilare e controllare che il Trustee persegua in modo corretto.
Ora, nel Common Trust il Settlor è rappresentato dai cittadini, i quali costituiscono il Trust a beneficio di se stessi, ed essi stessi fanno da guardiano a un Trustee sempre revocabile nelle proprie funzioni. Si tratta di un ribaltamento di paradigma rispetto allo Stato, dato che la dimensione della valorizzazione economica del bene comune diventa una categoria della politica dei liberi individui, e chiamo questo capital-comunismo, dato che ci si associa non (solo) per distribuire costi, ma (soprattutto) per ripartire utili.
Ciò induce a tutta una serie di scelte, da effettuarsi in nome dell’efficienza, a partire dalla dimensione di scala dell’istituzione, che perde il proprio carattere “nazionale”, per divenire locale, in funzione dello specifico bene da valorizzare. Qui non si tratta, come sostiene Jon Elster, di ripartire localmente risorse scarse ed oneri, ma di distribuire utili da capitale, e di capitale che, pur con il venire meno dello Stato, mantiene il proprio carattere comune, essendo quella della privatizzazione del bene una soluzione di rapina nei confronti dei cittadini, i quali, già spettatori di uno Stato non in grado di valorizzare i loro beni, troverebbe soluzione a tale inefficienza assegnando i quei beni in via privilegiata, in depauperamento dei cittadini stessi.
Vale a dire che il rimedio all’inefficienza dello Stato nel trarre utili dal capitale comune non è trasformare il capitale comune in capitale privato, il che dovrebbe quantomeno comportare risarcimento per il cittadino deprivato della sua quota di capitale comune, ma di assegnare al cittadino un utile derivante dalla gestione del capitale di cui è contitolare. Si tratterebbe di una beffa per il cittadino vessato, di un colpo di coda dello Stato declinante, il quale, dopo una grande epoca storica in cui ha fallito nel proprio compito di mettere a frutto il capitale comune, non sa fare altro, per porre rimedio al suo fallimento, che far cessare, non già la mancata valorizzazione, ma il carattere comune del capitale da valorizzare. E semmai, proprio l’ipotesi della privatizzazione del demanio dimostra come si tratti di assets in grado di produrre utili: ma per chi?
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Si impongono, a questo punto, considerazioni di filosofia politica, le quali, dal punto di vista logico, assumono carattere preliminare rispetto a quanto andiamo sostenendo. Dal mio punto di vista, la premessa dalla quale muovere ha carattere libertario: nessuno è legittimato a imporre unilateralmente obblighi giuridici o morali ad altri, il “Tu devi” di A non è costitutivo di obblighi in capo a B, non esistono obbligazioni di carattere eteronomo, ma solo autonomo, con la conseguenza che solo il consenso può rappresentare fonte di obblighi giuridici e/o morali.
Ho ampiamente argomentato (rimando in particolare al mio “Libertarismo, self-ownership, utile universale”) come ciò comporti quale implicazione stretta che la Terra sia res communis omnium: ne deriva, infatti, che qualsiasi utilizzazione o modificazione unilaterale del territorio può assumere carattere validamente costitutivo e vincolante esclusivamente se accompagnata dal consenso dei terzi, il che comporta che la Terra era già in precedenza, rispetto all’atto modificativo (ad esempio l’erezione di un muro), anche dei terzi, i quali tutti hanno voce in capitolo e titolo a formulare un giudizio sul segno positivo o negativo da assegnare all’esternalità connessa a quella modificazione.
Ho pure argomentato sul fatto che ciò non comporti diniego alla libera iniziativa, ma che questa comporti indennizzo e compensazione a vantaggio dei terzi. In situazione originaria, ciò comporta che la Terra sia capitale naturale comune, che le risorse naturali siano comuni, e che quindi ogni attività produttiva che comporti impiego di risorse naturali (comuni) comporta corresponsione di utile a tutti i comunisti in misura proporzionata alla quota di risorse naturali impiegate nel processo produttivo (utile universale).
Ora, come si inserisce il demanio da valorizzare in tale quadro dottrinario? Il demanio, o “capitale comune di rilevanza politica”, non è che una particolare declinazione dell’idea della Terra come res communis, con la differenza che esso è capitale comune già oggi anche per il diritto positivo vigente.
In effetti, tutto il capitale naturale mondiale andrebbe a rigore definito, oggi, demanio, una volta assuntane la definizione lata che abbiamo accolto. Salvo che gli Stati trattano da res nullius la res communis, e ne consentono la depredazione individuale senza indennizzo, creando i presupposti per lo sfruttamento in assenza di risarcimento.
Tuttavia, se noi ci atteniamo alla lettera dell’art. 822 del codice civile, siamo in grado di distinguere, come anticipato, il demanio naturale da quello artificiale. In realtà la distinzione è sfumata, dato che anche quello naturale è soggetto all’opera umana, e quindi rappresenta in una qualche misura un artificio della tecnica.
Se lido del mare, spiagge, fiumi, torrenti, laghi, rade, boschi rientrano nel capitale naturale, strade, autostrade, monumenti, opere necessarie alla difesa, strade ferrate, aeroporti, opere d’arte, musei, pinacoteche, archivi e biblioteche sono veri e propri investimenti direttamente, come lo sono tutte le opere pubbliche, salvo che, con l’attuale contabilità, rappresentano solo un costo e non se ne vedono le entrate. E poi c’è l’etere, ma anche le riserve auree, che, da noi, sono poderose e sono di proprietà della Banca d’Italia; non demanio in senso stretto, ma ai nostri fini assimilabili per regime (e se non lo fossero andrebbero comunque espropriate in quanto capitale intrinsecamente comune).
Poi ci sono tutti i beni immateriali. Occorre una ricostruzione teorica del bene immateriale dello Stato, che è strettamente connesso all’esercizio delle sue potestà, che propongo di riassumere nel già richiamato concetto, analogo a quanto rappresenta il know how nel diritto privato, di rilevanza politica, bene immateriale che non viene meno con il venir meno dello Stato, dato che la politica continuerebbe a vivere con sembianze diverse: come detto, ci si assocerebbe per guadagnare e non per rimetterci, e allora cambia anche il senso dell’invocata partecipazione popolare, che diventa partecipazione volta alla produzione di utili, oltre che alla ripartizione di costi.
E allora emerge il problema di come individuare i soggetti attivi della partecipazione al Common Trust, incaricato di valorizzare beni o quote di beni o di panieri di beni.
Partiamo dal punto zero rappresentato dalla situazione attuale: i cittadini appartengono necessariamente allo Stato, non sono liberi di scegliere se aderirvi o no, e in ciò consiste l’essere (preteso, perché i concorrenti esistono anche se illegali) monopolio della forza; una volta sciolto lo Stato, ed emersa in tutta la sua chiarezza la proprietà diretta del demanio da parte dei cittadini, emerge la necessità di definire la loro partecipazione ai Common Trust in termini di libera adesione.
Tuttavia si è precisato anche che, in regime di sovranità popolare, i cittadini sono tutti contitolari del demanio; ma questo non può comportare che essi debbano necessariamente aderire ai Common Trust, dato che la premessa da cui abbiamo preso le mosse è libertaria. E allora si può rinunciare, dato che ubi commoda, ibi incommoda, e partecipare alla gestione di un capitale comporta una certa dose di rischio, perché aderire al Common Trust significa che sei disposto a farti carico dei costi relativi alla gestione e alla manutenzione del bene nella prospettiva di trarne un guadagno. Però il fatto di essere stato “comunista” del bene demaniale lascia delle tracce: uno può scegliere se aderire o non aderire, ma in caso di non adesione deve essergli liquidato il valore della sua quota.
E’ a questo punto che emerge il problema teorico forse più delicato, dal punto di vista della coerenza del sistema che propongo. Vale a dire, se, come ho detto, la Terra, stante l’assioma libertario (nessuno è legittimato a imporre obblighi giuridici o morali agli altri), va considerata res communis omnium, forse che anche il Colosseo è di proprietà di un brasiliano o di un sudafricano? In linea di astratta dottrina la risposta propenderebbe per un sì (patrimonio comune dell’umanità), ma c’è un problema, che deriva da una differenziazione storica: ossia che il cittadino italiano, per la manutenzione del Colosseo fino a oggi, ha pagato delle imposte (non invoco quindi nemmeno un senso di appartenenza “patriottico” di comunità, che pure potrebbe avere un suo spazio), e quindi, in un certo senso, attraverso l’appartenenza coatta allo Stato e l’imposizione fiscale, il cittadino italiano ha esercitato una sorta di homesteading differenziato sul Colosseo (e sulla Valle dei Templi, etc.), il che suggerisce di limitare a lui il diritto di liquidazione della quota in caso di non adesione al relativo Common Trust.
Ciò vale solo, però, per la liquidazione della quota al non aderente, dato che il principio di non territorialità dell’ordinamento del Common Trust, ulteriore elemento di differenziazione rispetto allo Stato, fa sì che il brasiliano e il sudafricano possano autoselezionarsi quali soggetti interessati a farsi carico degli oneri di manutenzione del bene, nella prospettiva di ricavarne un utile. Ho chiamato tale elemento, ossia il fatto di proporre ordinamenti giuridici non fondati sul territorio, agearchia, ed esprimo un favor nei suoi confronti, per la ragione detta, ossia che il territorio, se è considerato elemento costitutivo di un ordinamento giuridico, ne favorisce il carattere monopolistico sul territorio stesso, con la conseguenza di guardare positivamente al coinvolgimento di soggetti esterni al territorio, ove autoselezionati come interessati, sempre che siano disponibili a farsi carico degli oneri, nello stesso momento in cui aspirino a condividerne gli utili.
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Occorre poter individuare un percorso di transizione, che conduca dallo Stato monopolista di pressoché “tutto” ai Common Trust concorrenziali nella gestione del capitale comune. La premessa è che il demanio appartenga direttamente ai cittadini, non solo per “sovranità popolare”, ma anche per usucapione ab immemoriale, istituto che si applica esattamente al demanio, in quanto bene in linea di principio non usucapibile; ma i cittadini occupano e vivono il demanio da sempre, e quindi se ne sono impadroniti anche formalmente. Tuttavia tale circostanza non risulta dall’esteriorità delle forme stesse, dato che quei beni sono sempre imputati allo Stato.
Allora si tratta di trovare (naturalmente qui la questione diventa politica, perché presuppone un governo intenzionato a perseguire questo percorso) degli strumenti di autoespropriazione del demanio da parte dello Stato a vantaggio dei cittadini, in modo da consentire loro poi di aderire ai Common Trust concorrenziali.
Un’ipotesi potrebbe essere quella di iniziare, conferendo tutto il demanio, dopo averlo contabilizzato -e quindi assegnatogli attraverso perizie di estimo un fair value-, a una public company, avente per soci tutti i cittadini, ognuno dei quali ne fosse titolare di una quota. L’andamento di questa società suggerirebbe, con l’esperienza, quale sia la dimensione di scala ottimale della gestione di ciascun bene demaniale. Ad esempio, la valorizzazione del Colosseo andrebbe in sinergia, faccio per dire, coi Fori Imperiali: oppure no, se il marchio del Colosseo si dimostra autosufficiente sul mercato finanziario. Si possono anche prevedere varie combinazioni di marchi: Roma, ma anche Colosseo, Fori Imperiali, e così via. Oppure ancora si può istituire il Trust del Fiume Po, o quello del Lago di Como, che possiamo definire capitali in quanto infrastruttura del servizio di navigazione, così come lo Stadio di San Siro è capitale fisso dell’attività imprenditoriale “partita di calcio”, con tutto quel che ne consegue (diritti sportivi televisivi, sponsorizzazioni, etc.). E ancora il Trust di Venezia o di ciascun suo monumento, o quello dell’Autostrada del Sole, e così via. Ovviamente, ciascun cittadino sarebbe libero di aderire a tutti i Trust che preferisce, dato che l’opzione iniziale, per come l’abbiamo descritta, è aperta.
Tutto ciò per dire che la dimensione ottimale del Common Trust non può essere definita a priori, ma è un frutto dell’esperienza. Può essere bene per bene, o anche rappresentare un pacchetto di beni, o un paniere di quote immateriali di diversi beni: tutto ciò emergerà dall’esperienza. Saranno i cittadini stessi a proporre, insieme ai tecnici, le soluzioni migliori.
Occorre però considerare un’altra circostanza, che deriva direttamente dal carattere di capitale assegnato al demanio: ossia il suo costituire in quanto tale retrostante monetario. Considero la moneta, quando non è moneta-merce direttamente, sempre comunque un titolo rappresentativo di un’entità retrostante.
Non è vero, infatti, che la stessa fiat money non conosca retrostante: essa si fonda sulla fiducia, ma sulla fiducia in che cosa? Nella forza dello Stato (o di un Unione di Stati, come nel caso della BCE), ma questa forza ha un fondamento nel dominio che lo Stato esercita sul suo territorio, vale a dire, in senso lato ma non troppo, sul suo demanio, riserve auree comprese, che rappresenta tutto insieme la garanzia sottostante l’emissione monetaria. Tant’è che la BCE rivendica il proprio ruolo di creditore della Repubblica Italiana in conseguenza del Quantitative Easing, e che garanzia può concederle, la Repubblica, se non il proprio demanio? Così come del resto è avvenuto con la crisi greca, che ha visto il conferimento in un fondo di garanzia del Pireo e del Partenone, se non erro.
In questo senso, anche la moneta fiat è, indirettamente, un “titolo rappresentativo di merci”, come lo è la moneta avente al contrario un chiaro, diretto ed esplicito retrostante in capitali. Ma se, ripeto, il demanio deve essere considerato di proprietà di ciascun singolo cittadino, esso rappresenta un capitale, potenziale retrostante monetario, a vantaggio di ciascuno, e allora ognuno avrebbe diritto a una propria quota di basic income, fondata appunto sul demanio come capitale comune, quale fotografia in negativo del (divieto di) libero conio.
Se ciò sarebbe già possibile in regime di statualità, con i Common Trust il meccanismo sarebbe più diretto e di più agevole applicazione. Prendiamo ancora l’ipotesi del Trust del Colosseo; anzitutto, realizzerebbe il marchio del monumento e lo quoterebbe in borsa, magari costituendo una società apposita, alla quale conferire il marchio, da concedere in sfruttamento, merchandising, e simili.
Dopo di che potrebbe costituire una banca “popolare”, la quale considererebbe come riserva la quota di demanio che ha in gestione, emettendo moneta a vantaggio dei cittadini beneficiaries del Common Trust. Dopo di che la banca opererebbe come una normale banca, i cui azionisti sarebbero i cittadini aderenti al Trust, tra i quali andrebbero ripartiti gli utili; si noti che, stante il principio di riserva frazionaria, vigente anche quando la moneta era basata sull’oro (Samuelson), la moneta emessa sarebbe sovrabbondante rispetto allo stesso valore di mercato del bene.
Il tutto anche al fine di finanziare le opere pubbliche, ossia quei beni “indivisibili”, che si suppone che, in assenza dello Stato, capace di grande indebitamento, oltre che di tassazione, il mercato non sarebbe in grado di realizzare, il che è vero, a mio avviso, solo nei termini della difficoltà del finanziamento; sicché invece, con la presente proposta, il capitale comune si autoriproduce, dato che, evidentemente, l’opera realizzata rappresenta nuovo capitale fisso, suscettibile a propria volta di contabilizzazione. A tale proposito, rimando alla mia ipotesi di “voto monetario”, di cui ho parlato ne “L’abusiva legittimità”, voto monetario, misuratore delle preferenze effettive e non meramente dichiarate, reso finalmente plausibile dall’accesso diffuso alla moneta, e che quindi non sconterebbe il peso delle disparità di reddito.
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Un forte freno alla transizione “dallo Stato ai Common Trust” sembra rappresentato dal fatto che lo Stato di oggi sia fortemente indebitato. Come verrebbe trattato questo indebitamento, nel processo di transizione, che libererebbe ampie risorse di capitali, di assets, ai fini di una produzione e di una ricchezza diffusa?
Va subito detto che il debito, come lo concepiamo oggi, è frutto di un falso in bilancio: quegli assets non sono infatti indicati nello stato patrimoniale dello Stato. Se allo Stato si applicasse analogicamente, mutatis mutandis, l’art. 2424 del codice civile, la situazione sarebbe ben diversa, dato che il valore del patrimonio compenserebbe il debito. Di tale mancata contabilizzazione sono responsabili ovviamente gli uomini politici, i quali, con la loro inerzia, hanno reso lo Stato ancora più inefficiente ed esposto ai mercati finanziari di quanto esso non sia per propria intrinseca natura.
Ma c’è una questione ancora più di fondo, che consente di ritenere il debito “detestabile”, e quindi in buona parte ripudiabile. Vale a dire che l’impresa Stato non valorizza il proprio patrimonio di capitali non rendendolo retrostante monetario, e quindi si auto-costringe, per autofinanziarsi a incrementare tassazione e debito. Lo Stato, il quale, al pari di qualsiasi capitalista, ben potrebbe emettere moneta (Schumpeter), per ragioni storiche che non mette conto qui di indagare, non lo fa e acquista la moneta di cui ha bisogno sui mercati finanziari e, in particolare, dalle banche.
Nei paesi in cui la banca centrale funziona da prestatore di ultima istanza, in pratica, il debito è rappresentato in buona parte da una partita di giro, in quanto debito dello Stato con se stesso. Là dove ciò non accade, come da noi, si accumulano interessi sul debito, e la finanza pubblica è sottomessa al sistema bancario. Dopo di che lo Stato è costretto a incrementare la tassazione per pagare debito e interessi sul debito, quando, almeno teoricamente, in presenza di cosiddetta “sovranità monetaria” l’imposizione fiscale potrebbe tendere addirittura allo zero, dato che lo Stato potrebbe auto-dotarsi del proprio fabbisogno di moneta, metterla in circolo, e combinarsi nel mercato con la moneta di derivazione bancaria.
Ne deriva che l’attuale debito pubblico non è connaturato al sistema, ma rappresenta il frutto di ben precise scelte politiche, per quanto evidentemente condizionate dal sistema bancario e finanziario, e quindi non può essere usato come un’arma contro chi volesse transitare a un sistema economico-finanziario più evoluto. Per quanto riguarda i comuni cittadini, il riconoscimento della dotazione di una quota di capitale comune sarà sufficiente a compensare il loro “investimento” in titoli di Stato, mentre per il debito detenuto da grandi istituzioni, in primo luogo, da noi, la BCE, la quale si è auto-costituita in creditore dello Stato, emettendo moneta per dare vita al Quantitative Easing, vedranno puramente e semplicemente cassato il loro credito, essendo da considerare odioso e detestabile il debito nei loro confronti.
Detenere il monopolio della moneta significa poi in realtà detenere il monopolio dell'economia, dato che assegnare moneta è fare la prima delle politiche economiche, politica economica discrezionale, come è discrezionale l'assegnazione di moneta. Solo riconoscendo a tutti una quota di moneta di base, può aversi poi un libero mercato che non sia in realtà il mercato distorto dei privilegiati.
Del resto, con il sistema della riserva frazionaria com’è oggi, le banche emettono di fatto tutta la moneta che vogliono, tendenzialmente all’infinito, salvo che contabilizzano i mutui che erogano al passivo, come se si trattasse di una pura intermediazione del credito, occultando il fatto che si tratta di moneta nuova, consistente quindi in un chiaro attivo per chi la emette; dato che, quando il prestito verrà restituito con gli interessi, la banca si locupleterà non solo degli interessi, ma anche del capitale fondamentale da essa stessa emesso e prestato. Se il credito va in sofferenza, quindi, non si tratta di una perdita, ma solo di un mancato guadagno, anche se contabilmente il mancato guadagno risulta come perdita. Tale opzione contabile deriva da una duplice ragione: da un lato, occultare agli occhi dell’opinione pubblica il dato di fatto che la banca emetta moneta, benché ciò sia ormai notorio; e, dall’altro lato, non pagare imposte su questi utili, con la conseguenza che, quando una banca compra titoli di Stato, impiega risorse nette e non tassate: motivo di più, dunque, per ritenere detestabile il debito nei loro confronti.
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Finora ho argomentato con riferimento soprattutto al demanio in senso stretto; ma che dire del capitale naturale, rappresentato dalle risorse naturali? Esse sono, lo si è detto, res communis omnium, quindi non valgono, in linea di principio, limitazioni di carattere locale. Pertanto si possono prevedere Trust per risorsa, o panieri o pacchetti di risorse (minerali, prodotti della terra) senza limitazioni di ambito operativo. Ma si potrebbe prevedere anche, per dire, il Common Trust dell’oceano, che guadagni dalla navigazione, per fare un esempio.
Compito di simili Trust sarebbe di contrattare il prezzo delle risorse naturali impiegate nei processi produttivi -ovvero, come nel caso di internet, periziarne la sua rilevanza economica quale capitale base di un’impresa (si pensi ad Amazon)- dai singoli operatori economici, in modo da rendere possibile la realizzazione dell’utile universale a vantaggio di ciascun cittadino del mondo (cfr. ancora il mio Libertarismo, self-ownership, utile universale, nonché il saggio L’inclinazione libertaria, ma anche la parte dedicata de “L’abusiva legittimità”), che viene computato a partire dai prezzi di mercato delle risorse naturali e delle materie prime.
Anche in tal caso l’adesione sarebbe volontaria, dato che nessuno è costretto a ottenere la propria quota di utile; ad esempio, un primitivista alla Zerzan, ovvero un aborigeno che volesse continuare a vivere secondo tradizione, non vengono costretti ad ottenere una carta di credito, tuttavia v’è anche facoltà di ottenerla e di non farvi uso, se non eccezionalmente.
Immagino, a questo punto, che ciascuno dei Trust incaricati di amministrare una o più risorse naturali effettui i   conteggi dei relativi consumi e prezzi, in modo poi da ripartire i proventi tra tutti i cittadini del mondo, che, in base all’impostazione dichiarata, sono comunisti del capitale naturale. Agli imprenditori, come ho precisato nelle opere citate, viene richiesto di corrispondere esclusivamente un canone pari al valore di mercato delle risorse naturali impiegate nel processo produttivo, e nessuna imposta ulteriore, per le ragioni ivi illustrate. Anche per le risorse naturali, si può ipotizzare che uno o più Trust collegati costituiscano delle istituzioni bancarie, che prevedano come riserva quote di stock di materie prime.
Tutto ciò comporta che vi sia una qualche forma di interazione tra i molti Common Trust, che potrebbero confluire anche in una confederazione, la quale, come si vede, non avrebbe carattere territoriale come di consueto, ma funzionale e a fini produttivi.
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Resta da dire qualcosa su come siano da designare i responsabili dei Trust, i quali verrebbero incaricati dalle comunità volontarie di valorizzare i loro patrimoni di riferimento.
Si tratterebbe di una grande occasione di partecipazione popolare, in una politica non rappresentata da astratte discussioni ideologiche o demagogiche, ma volte a uno scopo preciso: arricchire la comunità. Sarebbe un modo nuovo di intendere la politica, un nuovo “contratto sociale”, in forza del quale, come ho già rimarcato, non ci si aggrega per rinunciare a diritti in nome della scarsità di quello che ho definito lo Stato “bad company” della filosofia politica classica, ma ci si associa per esplorare le potenzialità economiche e finanziarie del capitale comune, in un gioco a somma estremamente positiva, dato che al guadagno dell’uno corrisponde quello dell’altro, e quindi una politica a minore conflittualità. Idee diverse su come valorizzare il bene comune potranno comunque esserci; e allora prevedo comunque che siano presentate liste diverse di candidati a gestire i Trust, ma con un accorgimento: introdurre quello che ne “L’abusiva legittimità” ho battezzato panachage cardinalista.
Vale a dire che la lista elettorale non vincola il voto, ma si potranno votare anche candidati di liste diverse, attribuendo loro, come modalità di voto, un punteggio, ad esempio da zero a dieci, come in un voto scolastico.
L’elettore può esprimere tutte le preferenze che vuole a vantaggio dei diversi candidati, anche di liste contrapposte, formulando un giudizio numerico, sicché verrà eletto chi otterrà il punteggio più alto. Il termine “cardinalista” esprime proprio questo, ossia che, attraverso il giudizio numerico, l’elettore esprime non solo l’ordine delle preferenze, ma anche la loro intensità, per utilizzare il modo di ragionare dell’economista coreano Ng.
Come si concilia tale opzione elettorale con il fatto che in precedenza (cfr. Libertarismo, self-ownership, utile universale) ho definito il voto un atto di coercizione? In realtà è evidente la differenza: qui non si vota su programmi elettorali a pacchetto un po’ su tutto, con la conseguenza che un po’ su tutto la maggioranza schiaccerà la minoranza.
Nei Common Trust si vota esclusivamente per selezionare persone, che si presume siano dotate non solo di qualità politiche, ma soprattutto di caratura tecnica, per un compito ben delimitato, per quanto molto importante, ossia valorizzare il capitale comune. D’altra parte, il Trust rappresenta una comunità volontaria, e un meccanismo di selezione dovrà pur esserci, e allora meglio farne un’occasione di partecipazione, di discussione pubblica, di condivisione di sempre nuove e aggiornate modalità tecnico-finanziarie a vantaggio di tutti: non c’è un programma di governo ad adesione obbligata che opprime chi la pensa diversamente, ma una tendenziale convergenza su quali siano le opzioni migliori, in un campo che non discrimina nessuno. E allora il voto serve soprattutto come occasione di discussione per fare emergere quali siano davvero le opzioni migliori, di tal che anche l’eventualità delle liste contrapposte è solo teorica, in omaggio al principio, per il quale anche le questioni di carattere tecnico possono offrire soluzioni diverse; e naturalmente, l’eletto sarà soggetto a permanente recall, per il caso in cui non svolga al meglio la propria funzione.
Val la pena di ribadire che non sto proponendo un sistema onnicomprensivo, i Common Trust non rappresenteranno l’alfa e l’omega delle istituzioni sociali, ma saranno istituzioni specifiche dedicate a uno specifico scopo: creare risorse finanziarie a vantaggio della comunità, affinché sia reso poi possibile un mercato libero su base paritaria con riferimento a ogni servizio, compresi quelli di welfare. Per tutto il resto vale ovviamente il principio di libera associazione e sperimentazione, fino a quando gli stessi Trust diverranno pleonastici, una volta che la tecnologia consentirà il diffondersi pieno del libero conio (cfr. ancora Libertarismo, self-ownership, utile universale).




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