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domenica 22 aprile 2018

L'inclinazione libertaria.


di Fabio Massimo Nicosia
A Rossella

1.        1. Inclinazione libertaria e inclinazione autoritaria.
Il tentativo di proporre una teoria libertaria impone, forse più di quanto non avvenga con altre dottrine politiche, un discorso diretto sull’individuo, per poi estenderlo alle sue relazioni con gli altri. Una simile dottrina, infatti, non può che partire dall’individuo stesso, dato che è l’individuo il titolare della “libertà”, nelle varie accezioni, di cui stiamo parlando, e anzitutto in termini biologici: l’uomo è formato di mente e di corpo, e ciascuno è un “io” differenziato, titolare di coscienza e centro di imputazione delle sensazioni, che il corpo in un certo senso “imprigiona” nel momento stesso in cui lo forma, e lo proietta all’esterno attraverso il contatto dei sensi con il mondo. Il primo elemento costituzionale dell’uomo, rilevante per definire una teoria politica, è cioè la separazione fisica tra gli individui (individualismo ontologico), e l’impossibilità per ciascuno di accedere direttamente alla mente degli altri.
E’ questo un primo ostacolo a qualsiasi configurazione eccessivamente utopica, dato che tale separazione finisce con il divenire la fonte fondamentale della diffidenza tra gli uomini, che rende inevitabilmente imperfetta qualsiasi forma di vivere associato. Tuttavia noi sappiamo che tale diffidenza può non essere piena o assoluta, può non condurre necessariamente a esiti fatali o devastanti: la stragrande maggioranza di noi non è infatti come i marziani del film di Tim Burton Mars Attacks, dei quali non ci si poteva minimamente fidare, data la loro crudeltà, e non lo erano nemmeno, nonostante la vulgata, i soggetti dello stato di natura di Hobbes: ciò ha fondamenti neurologici, dato che la conformazione del cervello umano conosce, ad esempio, i cosiddetti neuroni specchio, che consentono un discreto grado di empatia tra gli individui, e favoriscono la capacità di riconoscere le intenzioni dell’altro e quindi i processi di immedesimazione.
La pur limitata propensione alla cooperazione, secondo Richard Dawkins, avrebbe radici genetiche: l’egoismo del gene, che mira alla propria replicazione nel corso dell’evoluzione, conduce dialetticamente a comportamenti altruistici nei confronti di esemplari della stessa specie, proprio per autopreservarsi in quanto patrimonio genetico. E allora si comprende meglio anche il senso del “mutuo appoggio”, concetto elaborato dall’anarchico dell’ottocento Kropotkin, che sconta però una frettolosità nell’estendere ciò che è etologico, ossia quanto avviene all’interno delle specie animali, alla specie umana, che è invece notevolmente differenziata nei tipi psicologici, con la conseguenza che, tra gli uomini, v’è un alternarsi di cooperazione, competizione e defezione, con frequenza probabilmente maggiore che negli animali non umani nell’ambito dei rapporti tra esemplari della stessa specie.
La capacità di immedesimazione può rappresentare del resto un’arma a doppio taglio, dato che saper riconoscere l’altro non significa necessariamente riconoscere nell’altro e rispettarlo, ma anche manipolarlo, come avviene nelle personalità narcisistiche, e approfittare di lui a propri fini egoistici, rendendolo strumento dei propri obiettivi, e c’è chi è più abile in questo e ne trae guadagno a discapito altrui.
Non tutti gli uomini, infatti, sono dotati dello stesso grado di empatia; anzi, alcuni ne dispongono in misura davvero limitata e altri ne sono privi, come si riscontra nelle persone più crudeli. Tutto ciò ha rilevanza in un discorso sulla libertà, per la semplice ragione che il privo di empatia è intollerante, non rispetta l’altro, tende a trattarlo come oggetto anche in senso letterale, essendo totalmente insensibile alle sue sorti, a farlo strumento bruto dei propri obiettivi, e già questo ci mostra come si stia parlando di inclinazione autoritaria nel senso che intendiamo. Il criminale, quando è uno psicopatico, non si commuove per la propria azione, né l’uomo di potere prova turbamento per il fatto di dovere usare le forza in numerose circostanze, come nel caso della decisione di avviare una guerra e di bombardare una popolazione; del resto, è improbabile che una persona ricca di scrupoli morali possa fare una grande carriera negli ambiti di maggior potere: e i soggetti fondamentalmente amorali possono arrivare, in alcuni casi, anche a provare soddisfazione per il dolore altrui.
E anche a tale proposito la genetica ha qualcosa da dire; lo psicopatologo Simon Baron-Cohen, nelle sue ricerche pubblicate nel volume “La scienza del male”, mostra come esistano variabili genetiche strettamente connesse alla differenziazione tra carattere empatico, i cosiddetti “geni associati al quoziente di empatia”, che spiegano, insieme ai fattori ambientali e familiari, certe situazioni di crudeltà, e che favoriscono la propensione a coartare gli altri con le proprie vessazioni. Con ciò non si intende dire che il non empatico sia necessariamente un autoritario, esiste anche il non empatico innocuo (esempio estremo, l’autistico), e tale potrebbe essere considerato il carattere dell’”indifferente liberale”, ossia un soggetto non particolarmente sensibile alle sorti altrui, ma che non è intento a danneggiare gli altri di proposito, e ciò in nome di una capacità di tolleranza fondata appunto sull’indifferenza. Naturalmente, esiste un continuum, la distinzione non è tra libertari o autoritari come fossero la luce e il buio, ed esistono infinite gradazioni intermedie, laddove un’idea libertaria va alla ricerca degli elementi analitici puri dei portati dell’inclinazione, nella piena consapevolezza che la realtà sarà sempre commista.
E però, nei casi “normali”, ossia di maggiore frequenza statistica, e non patologici, si riscontra comunque nelle persone un certo grado di capacità di immedesimazione positiva, espressione di quella simiglianza tra gli uomini, che fa sì che, chi più, chi meno, si possa essere, almeno in un certo grado, sensibili alle condizioni altrui, fino al caso non insolito di soffrire, in forza di processi di identificazione, anche per il malessere degli estranei, e non solo del proprio, di quello dei propri cari o dei più vicini, come sottolineava David Hume.
Una teoria libertaria si fonda su tale elemento, ed è quindi una dottrina della possibile buona convivenza tra gli uomini, in quanto teoria che, a differenza di quelle autoritarie, punta sulle chances di fiducia tra gli individui; ma noi sappiamo che tale fiducia è tanto configurabile e possibile, quanto in fondo limitata, e deve lavorare su questo delicato equilibrio, riconoscendosi anzitutto, inevitabilmente, come individualista, ma anche sociale, in quanto ciascun io è altro per l’altro, e la soddisfazione dell’io è soddisfazione dell’altro per l’altro, e il filo che collega i diversi “io” è però esile, e sempre a repentaglio.
Ciascun individuo non vive e non opera nel vuoto, ma in un mondo di “altri io”, ciascuno dei quali fa altrettanto, e mentre si guarda dagli altri è costretto a confidare in loro, con la conseguenza che la realizzazione dei fini di ciascuno dipende dalla propria capacità di imporsi, ma anche, in non poca misura, dalla benevolenza dell’altro: ognuno, diffidente dell’altro, è costretto però a fare affidamento su di lui per il raggiungimento dei propri fini; e quindi si innesca un cortocircuito, rilevante in termini di teoria dei giochi, perché se ciascuno agisse in nome della mera diffidenza, nessun obiettivo sarebbe raggiungibile: nessuno sarebbe benevolente, e quindi nessuno potrebbe raggiungere, se non in minima e precaria parte, i propri scopi; ma occorre che qualcuno inizi il circuito virtuoso, pena la paralisi del dilemma del prigioniero: è il problema della reciprocità, che ha pur labili fondamenti biologici, come si è visto –e quindi il dilemma del prigioniero non è una condanna della natura-, ma che assume rilevanza fondamentale in una teoria etica, la quale voglia porsi a fondamento di una dottrina politica.
Si badi bene che il riconoscimento del libero arbitrio non è coessenziale a una teoria libertaria, perché, anche ammettendo che l’uomo sia determinato, ad esempio dalla propria costituzione e conformazione, non v’è ragione per impedirne le libere manifestazioni, ovviamente quando queste non siano pregiudizievoli per gli altri, ma su questo si tornerà.
In mancanza di riferimenti scientifici più precisi (Cartesio collocava questo momento nella ghiandola pineale, l’epifisi, da lui ritenuto il punto di confluenza di res cogitans e res extensa; oppure potrebbe farsi riferimento all’amigdala, centro del cervello emotivo, o a una combinazione tra le due), e in mancanza di meglio, diciamo che ciascun uomo è dotato di un proprio spirito, e ogni spirito ha le sue proprie inclinazioni; la distinzione tra inclinazione autoritaria e inclinazione libertaria fa riferimento a questo, e sotto certi profili è la distinzione fondamentale, in quanto meta-inclinazione, che presuppone due famiglie distinte di condotte umane possibili, distinguendo l’insieme di quelle caratterizzate in senso libertario da quelle orientate in senso autoritario; è questa una meta-qualificazione, in quanto non pregiudica gli specifici contenuti delle condotte poste in essere, ma solo la loro forma dal punto di vista del loro essere o non essere compatibili con l’autodeterminazione dell’altro in un campo condiviso che chiamiamo “libertà”.
Si diceva della reciprocità, gioco virtuoso da innescare in qualche modo, confidando che la controversa “natura umana” lo consenta, come dimostrerebbero molti studi antropologici, che vanno alla ricerca di una sorta di “diritto naturale” empiricamente inverato nelle società incontaminate. Occorre allora essere “altruisti”, per essere libertari? L’altruismo in senso forte è la capacità di mettere in primo piano gli interessi altrui trascurando i propri; si tratta di attitudine che non può essere generalizzata, supererogatoria, per usare un termine di John Rawls. Tant’è che una teoria libertaria richiede molto meno, ossia forme di cooperazione, nelle quali siano considerati gli interessi altrui mentre si perseguono i propri, dato che la libertà è uno spazio comune indivisibile, nel quale se l’altro è libero ciò va a vantaggio anche mio, se io traggo piacere dal fatto che anche l’altro sia libero e non impedito nella manifestazione della propria personalità, il che è co-condizione perché io possa esprimere la mia.
Si tratta quindi di un altruismo limitato e indiretto, che consegue all’egoismo intelligente e a lungo termine di aspirare a vivere in una più ampia situazione cooperativa di libertà, che coinvolge necessariamente anche gli altri, con la conseguenza che anche le sorti degli altri non possono non stare a cuore al libertario, essendo strettamente legate alle sorti della propria, vivendo tutti in uno spazio condiviso, che più è libero per tutti, meglio è per tutti, sul presupposto che la libertà sia un bene, e che sia utile per chiunque intenda affrontare la vita nel pieno delle proprie forze.
Il nostro sforzo, anche se abbiamo parlato di “etica”, è di fondare tale ipotesi non su principi normativi di tipo morale, tali per cui questi si impongano come imperativi all’uomo, ma sulle inclinazioni dell’uomo stesso, sulla sua costituzione genetica, neurologica e psicofisica: per comprendere l’irrilevanza, o la limitata rilevanza dell’elemento etico in questo discorso, occorre infatti considerare che, kantianamente, un atto compiuto in accordo immediato con la propria inclinazione, anche se buono in sé considerato o per le sue conseguenze, non è “morale” in senso proprio, anche se la condotta che sia mero frutto dell’inclinazione può essere a propria volta perfezionata con la pratica, la riflessione e l’introspezione. Ne deriva che un libertario che segua la propria inclinazione è moralmente neutro, anche se i suoi atti sono conformi, non per merito, ma per vocazione, a un’astratta e teorica morale libertaria, che si volesse sforzarsi di ricostruire.
L’inclinazione è quindi un essere, non un dover essere, né pretende di ricavare dover essere dall’essere, se non nei limiti della norma tecnica: se vuoi un mondo libertario, agisci così; non si tratta di obblighi posti in capo all’uomo, ma esprime questo direttamente in base alla sua propria costituzione fisiologica. Salvo però che gli uomini non sono tutti uguali da questo punto di vista, essendo l’inclinazione un’attitudine dello spirito che varia da uomo e uomo, e quella libertaria è di alcuni e non di tutti.
Intendiamo infatti per inclinazione libertaria, al livello puro (anche se la realtà conosce solo casi misti) la vocazione di quegli individui, i quali, come l’Otane di Rousseau, non aspirando a comandare gli altri, ma solo a coltivare autonomamente le proprie propensioni, non tollerano però anche di essere comandati; e la contrapponiamo all’inclinazione autoritaria, propria di chi, aspirando viceversa a comandare, ossia a imporsi sugli altri, ove non vi riesca, si rassegna ad essere comandato, nel momento stesso in cui riconosce come conforme alla propria natura di esserlo, perché ritiene che il mondo si divida inevitabilmente in chi comanda e chi è comandato.
L’inclinazione autoritaria non è quindi solo propria di chi prova piacere a opprimere gli altri, ma anche di chi accetta –“morale dello schiavo”- di essere oppresso, benché diversa sia la collocazione delle due figure nella scala sociale. L’inclinazione autoritaria è quindi gravida di implicazioni esterne, dato che dà vita a situazioni indivisibili di autorità, destinate a imporsi anche a chi vorrebbe sottrarvisi: in altri termini dà vita a un male pubblico.
Disegniamo, a tale proposito, il seguente quadrante:

Inclinazione libertaria

Acquiescenza                                              Ribellione

Inclinazione autoritaria
Ognuno si colloca in un qualche punto del quadrante: avremo il libertario ribelle, il libertario acquiescente, l’autoritario ribelle e l’autoritario acquiescente, dipendendo l’essere ribelle o acquiescente dai connotati psicologici e dalla capacità di adattamento, o di insofferenza al sistema, di ciascuno. Di particolare interesse appare la figura dell’autoritario ribelle e insofferente, il quale può mirare a divenire, a seconda dei casi, criminale o, se ne ha le doti, uomo di potere, che sono i due modi che la realtà mette a disposizione di tale genere di personalità per imporsi sugli altri con atteggiamento unilaterale, volto a sottrarsi alla reciprocità delle condizioni.
L’inclinazione libertaria, dunque, è una meta-inclinazione, che non riguarda le preferenze e le scelte specifiche che possano essere effettuate, ma tocca la loro forma, la loro qualità nei rapporti con gli altri, la forma appunto libertaria, consistente nel lasciare all’altro, con l’azione, tanto spazio, quanto se ne rivendica per sé; ciò comporta evidentemente, si diceva, una qualche forma di reciprocità. Il libertario, infatti, non si caratterizza per il fatto di mirare specificamente alla libertà propria, dato che questo può essere atteggiamento di chiunque: anche l’autoritario vuole infatti essere lasciato “libero” e incontrollato nel perseguire i propri scopi.
Il libertario si caratterizza semmai per il fatto di perseguire la libertà propria nel momento stesso in cui persegue anche quella degli altri in uno spazio comune, che, tecnicamente, si propone come uno di quelli che la dottrina economica definisce beni pubblici indivisibili; anzi, un tipo particolare di bene pubblico, di quelli che, in quanto bene astratto e linguistico, non solo non prevedono rivalità nel consumo, ma addirittura si alimenta con l’uso: senonché, in quanto bene pubblico, l’inveramento della libertà è soggetto a facile rischio di frustrazione da free-riding da parte dei comportamenti avversi od opportunistici di autoritari e acquiescenti: erano “acquiescenti”, in effetti, i protagonisti della “banalità del male”, e non basta a spiegare il loro comportamento l’eventuale carenza di secrezioni di ossitocina.
La reciprocità è una qualità che, in teoria dei giochi, si riconduce all’atteggiamento di cooperazione, ma la cooperazione può avere gradi diversi: ad esempio, è diverso il modo in cui si coopera all’interno di una famiglia rispetto a quello in cui si coopera in un consiglio di amministrazione, o nel momento in cui stipuliamo un contratto con un estraneo. Vale in proposito la regola di Hume, per la quale i nostri sentimenti morali perdono di intensità, via via che ci si allontana da noi; ma ciò non significa che con i lontani non si possa che belligerare, dato che anche una benevola indifferenza può dar vita a utili elementi di cooperazione. Anzi, nella maggior parte dei casi sarà così, e la società si regge in buona parte proprio sulla capacità di non “fare il male”, che è espressione di tolleranza, oltre che di indifferenza, piuttosto che su quella di “fare il bene” necessariamente e a tutti i costi, benché l’inclinazione libertaria preveda anche ipotesi attive di questo tipo: in ogni caso, evitare il male è già un modo indiretto di fare il bene, o almeno di consentirlo.
Partiamo dalla differenza tra reciprocità negativa e reciprocità positiva: a) non fare agli altri ciò che essi non vorrebbero sia fatto loro, ad esempio, rappresenta un atteggiamento di cooperazione negativa, dato che si limita a dire che cosa “non” si deve fare agli altri, ma non richiede, di per sé, un atteggiamento intrusivo, per quanto questo possa risultare gradito, nella vita degli altri. Una variante è b) non trattare gli altri come tu stesso non vorresti essere trattato, il che segna già un progresso, dato che, in ipotesi, uno potrebbe non volere essere trattato con indifferenza, e allora sarebbe destinatario dell’indicazione di non trattare gli altri con indifferenza, e quindi si tratta di formulazione che ammette l’intervento attivo. Per converso, ammette l’indifferenza c) tratta gli altri come tu vorresti essere trattato da loro, anche se apparentemente dà un’indicazione positiva, dato che uno potrebbe volere essere “lasciato in pace”, essere trattato quindi con indifferenza dagli altri, e quindi l’indicazione è di fare altrettanto con loro. Espressione di cooperazione positiva è invece d) fai agli altri ciò che essi vorrebbero sia fatto loro, che richiede un atteggiamento attivo di disponibilità nei confronti degli altri, anche se nemmeno in tale ipotesi l’indifferenza è esclusa, se si intende quel “fai” in un senso lato, comprensivo dell’astensione.
A ben vedere, quest’ultima ipotesi è la migliore, quella più ricca di potenziali sviluppi, dato che ammette la diversità delle preferenze tra gli individui più di quanto non facciano le altre, che sembrano enfatizzare eccessivamente le simiglianze tra gli uomini, a meno di non intendere quelle prescrizioni in termini puramente formali, quindi rispettosi delle diversità, evitando i paradossi: ad esempio, un masochista dovrebbe trattare gli altri con violenza, dato che lui stesso vuole essere trattato così. La reciprocità al livello formale si limita a dire, invece, che se tu vuoi che gli altri agiscano in modo da procurarti piacere, devi agire in modo che l’altro provi piacere dalla tua condotta, quindi tratta con violenza solo il masochista e non chi non lo è.
Si dirà che l’impossibilità di penetrare il recondito altrui difficilmente potrà consentire una tale realizzazione, dato che le preferenze delle persone sono diverse; tuttavia, essa può essere agevolata tanto dalla comunicazione, quanto dall’introspezione, se stiamo parlando di soggetti dotati, come da assunto, di un adeguato grado di empatia, tale da consentire di “mettersi nei panni dell’altro”; tanto più che, in base al canone dell’id quod plerumque accidit, noi possiamo in una certa misura riuscire a immaginare che cosa risulti gradito all’altro da noi almeno in termini generali.
In termini di teoria dei giochi, quindi, il libertario persegue la strategia della cooperazione, ma non si consegna inerme agli altri, a meno che la sua debolezza di carattere non lo conduca all’acquiescenza, sicché i principi di reciprocità vengono integrati dalla massima “sempre che l’altro faccia altrettanto”, punendo le deviazioni, se non si vuole soccombere, e non limitarsi ad auspicare la libertà, ma perseguirla attivamente, e quindi essere disposto a battersi per essa contro chi ne è nemico, chi è portatore di impedimenti da impedirsi, concetto che abbiamo espresso con la formula, apparentemente ossimorica, della dittatura libertaria.
In effetti, v’è un modo primordiale per sperimentare la reciprocità, ed è fare totalmente quello che si vuole: se ciò non risulterà gradito agli altri, essi non mancheranno di farcelo notare con le proprie reazioni, ma questo è il risvolto punitivo della reciprocità, che quindi è subottimale rispetto a quello direttamente cooperativo.
A ben vedere, però, tutto quanto precede sembra indebolire l’idea che il libertario possa limitarsi a essere indifferente alle condizioni altrui, dato che queste massime derivano da un principio: quello per il quale la situazione di conflitto aperto è nemica della condizione di libertà, dato che favorisce l’instaurarsi di autorità, che vengono agevolmente invocate per risolvere quelle situazioni di conflitto violento tra posizioni rivelatesi incompatibili.
Ecco allora che se si vuole impedire che ciò avvenga, occorre comportarsi in modo da prevenire quei conflitti, con l’implicazione che alla condizione di libertà piena corrisponde quella di pace, vale a dire che la pace è il contesto in cui possa inverarsi la libertà come spazio comune, nel quale le diverse personalità possano pienamente esprimersi. Diversamente, ci troveremmo innanzi a un conflitto permanente, in particolare tra autoritari e libertari, in cui le reciproche fermezze possono forse esprimere la giustificazione di un principio, ma non conducono a condizioni di vita in sé apprezzabili.
Può darsi addirittura che i dotati di inclinazione libertaria siano minoranza nell’umanità, sicché si tratta di capire quale sia la strategia migliore da perseguire, ossia se quella di ritagliarsi spazi autonomi alternativi, ovvero di porsi come élite, in grado di trascinare l’intera società, conducendola a migliori traguardi sotto la propria guida “illuminata”; non sembra che le due diverse strategie siano alternative, dato che, anzi, il perseguimento di quella che si configura come situazione indivisibile le richiede entrambe. Il fatto è che l’inclinazione autoritaria trova nutrimento in molte credenze vigenti, ad esempio quella secondo la quale i migliori fini della società possono essere perseguiti esclusivamente da un’autorità, la quale rivendichi, per assicurare l’ordine e altri beni pubblici, il monopolio del potere: sicché non siamo più nemmeno in grado di comprendere quanto questa inclinazione sia naturale, e non piuttosto frutto del dominio di una cultura che la alimenta, consapevolmente o tralaticiamente, ossia per il semplice rispetto non meditato di una tradizione intellettuale dominante.
Indicazioni bibliografiche.
Kim Sterelny, La sopravvivenza del più adatto – Dawkins contro Gould, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2004 (2001).
Pëtr Alekseevič Kropotkin, Il mutuo appoggio, Catania, Edizioni Anarchismo, II ed., 2012.
Simon Baron-Cohen, La scienza del male – L’empatia e le origini della crudeltà, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2012 (2011).
John Dupré, Natura umana – Perché la scienza non basta, Bari, Laterza, 2007 (2001).
Fabio Massimo Nicosia, Il dittatore libertario – Anarchia analitica tra comunismo di mercato, rendita di esistenza e sovranity share, Torino, Giappichelli, 2011.

2.        2. Il problema del libero arbitrio
E’ molto antica la questione se l’uomo sia libero di autodeterminarsi, ovvero, all’opposto, determinato nel proprio agire da qualche necessità, sia essa il disegno di Dio, il fato, la struttura sociale, la psicologia dell’individuo o la sua struttura neuronale. Le neuroscienze, in effetti, hanno rilanciato il tema, in tempi più recenti, interrogandosi, ancora una volta, sul fatto se, e in quale misura, qualcosa di fisico come il corpo umano, del quale il cervello è parte, sottostia a una qualche causazione da parte di una legge naturale strettamente vincolante, in questo caso da parte delle leggi che regolano il funzionamento del cervello.
Secondo John Searle, in particolare, il libero arbitrio si esprimerebbe nell’esistenza di una “lacuna” tra i momenti neurologicamente determinati e passaggio all’azione, corrispondente al momento deliberativo. In realtà, i momenti attivi dello spirito che si susseguono sono più d’uno, ognuno dei quali può in effetti ritenersi espressivo di un carattere di libertà; in particolare si ravvisano tre grandi fasi a) ricognitiva; b) deliberativa c) operativa, a loro volta suddivise in sotto-fasi.
La prima che emerge è quella a1) dell’interpretazione del contesto: i nostri sensi percepiscono infatti i nudi fatti bruti, ma la mente opera, con maggiore o minore estensione e rapidità a seconda dei soggetti, un’opera di decostruzione e ricostruzione di questi fatti, attribuendo loro un significato ulteriore rispetto al senso immediato, che si differenzia in base all’esperienza, alla cultura, alle propensioni di ciascuno, sicché il fatto bruto si istituzionalizza in base ai criteri propri del soggetto, e la mente riproietta all’esterno la realtà così come introiettata e rielaborata, rimodellando il mondo, così come poi si ripropone alla nostra percezione.
E’ questo un primo momento libero, per quanto condizionato dalle credenze e dei pregiudizi, dell’operare della mente umana, con la conseguenza che la realtà finisce con il rappresentare qualcosa di diverso per ciascuno di noi, perché ognuno di noi la vive in modo distinto, anche a non volere estremizzare il soggettivismo; e ciò perché le preferenze individuali giocano un ruolo già in questa fase, nella misura in cui vi sia un rapporto tra credenza e preferenza, nel senso che le credenze conseguono già di per se stesse alle preferenze, ma anche viceversa, le preferenze si formano sulla base di credenze introiettate
V’è poi il momento della sotto-fase a2) del giudizio, consistente in un’attribuzione di valore al contesto così interpretato, ossia nella sua riconduzione e sussunzione in categorie valoriali, in assenza di che non è possibile elaborare alcun volere, nel quale l’agente confronti i diversi corsi alternativi possibili della propria iniziativa sul mondo.
Operata l’interpretazione dei fatti, e formulato il relativo giudizio, si sviluppa un’ulteriore piano di attività del soggetto, volta a decidere come agire, consistente nell’elaborazione di una b1) espressione di volontà generica, ossia nell’atto di operare, sulla base dei propri desideri, una scelta di massima tra più interventi possibili sul mondo così come previamente ricostruito, anche attraverso atti di progettazione e pianificazione, quando si tratta delle scelte più complesse o impegnative. Si pensi al desiderio di cambiare città, o a una persona che soffra di carenza di desiderio sessuale, la quale può benissimo adattarsi a tale stato di cose, oppure può sentire fortemente il “desiderio di avere desiderio”, e solo in tal caso può volere effettuare un qualche intervento particolare, atto a modificare la propria condizione, e allora dovrà stabilire quale. A questo punto, si passa alla deliberazione di una b2) volontà specifica, ossia all’individuazione dei mezzi particolari, necessari o utili a conseguire i fini individuati in sede di prospettazione della volontà generica.
E solo a questo punto, ossia una volta formatasi la volontà, si pone il tema della sua attuazione attraverso il suo inveramento in c1) azione, che non consegue immediatamente alla formazione della prima, giacché essa richiede un conato ulteriore, che può anche risultare insufficiente in caso di debolezza dello sforzo di attuazione della volontà; sicché il soggetto può anche risultare inerte, o compiere azioni che egli stesso considera deteriori rispetto a quella primariamente desiderata. Ad esempio, un agente può volere fermamente smettere di fumare, ma non trova la forza sufficiente per agire in tal senso, e continuerà a fumare, pur essendo la sua prima scelta quella di uscire dalla dipendenza. Esperita l’azione, il soggetto ne verifica poi le conseguenze: è questa la sotto-fase del c2) controllo, in cui si accerta l’adeguatezza e l’efficacia del proprio operato quanto al rapporto tra mezzi utilizzati e fini perseguiti, e ciò sulla base della considerazione dell’impatto reale del nostro operato.
Questo schema è rigorosamente improntato a principi di razionalità nell’azione, che non tengono conto delle intransitività proprie del livello inconscio dell’io multiplo, laddove noi ben conosciamo il ruolo fondativo delle passioni, delle emozioni e dei sentimenti, anche nei termini delle dinamiche neuronali (ma anche ormonali) che li accompagnano, e che concorrono a vincolare e a determinare l’azione. Ma se nella condotta umana razionale vi è un alternarsi di elementi di determinazione e di libertà, ne derivano argomenti a favore del cosiddetto compatibilismo, ossia la tesi, per la quale il fatto che l’uomo sia in qualche misura determinato non osta alla presenza di elementi di libero arbitrio, anzi, abbiamo visto come questo operi almeno in vari momenti: quello dell’interpretazione della realtà, quello della susseguente formulazione di un giudizio sussuntoreo, quello della formazione di una propria volontà di scelta, e quello dell’agire conformemente alla volontà deliberata, oltre a quello susseguente della riverifica.
Ma ammettiamo pure che tutte le fasi che precedono siano causalmente determinate da un qualche elemento, ad esempio dall’inconscio, e che abbia ragione chi sostiene che anche i momenti che i fautori del libero arbitrio ritengono volontaristici siano frutto di dinamiche fuori dalla portata del soggetto, e che ciascuna di tali operazioni sia causata da una qualche predisposizione; ora, anche in tal caso nulla muterebbe ai nostri fini: non v’è nesso, infatti, tra la circostanza che l’uomo sia in qualche modo “determinato” e il fatto di elaborare teorie di legittimazione dell’impedimento del suo esprimersi senza coartazione. Vi sarebbe un salto logico, in un simile tentativo: chi intendesse elaborare simili dottrine, sarebbe comunque gravato da un forte onere di giustificazione, non dissimilmente nei due casi: tanto se si suppone il libero arbitrio, quanto se si presuppone il determinismo causale, anche se, in tale ipotesi, la condotta umana potrebbe risultare più prevedibile rispetto all’ipotesi dell’uomo pienamente in grado di autodeterminarsi in sede di volizione, il che potrebbe immettere elementi di casualità quantistica nello sviluppo della sua azione, tanto più che, come nella quantistica, nell’inconscio A e non A convivono.
Non si dica, però, come fanno alcuni studiosi del rapporto mente/cervello, che la nostra azione sia interamente determinata dagli eventi neurologici: questi eventi, oltretutto, ben difficilmente si prestano a essere ricostruiti come “causa” della nostra percezione, cognizione e volizione, ma semmai come effetto, o comunque rappresentano un evento simultaneo alle manifestazioni della nostra coscienza, che non può che avere una propria sede unificante in qualche luogo del cervello e che, con la propria personalità geneticamente istituita, costituisce l’io che ciascuno di noi siamo.
Il punto è che anche un soggetto che fosse interamente causalmente determinato nelle proprie determinazioni, se cioè se pure l’uomo avesse un tale carattere, egli meriterebbe di essere lasciato libero di esprimersi così come è in base alle proprie predisposizioni, al proprio carattere e alla propria personalità, il che è del resto, al di là di qualsiasi diatriba più o meno metafisica, una condizione per il perseguimento e il conseguimento della felicità, e quindi per potersi sentire appagati, poco rilevando quanto sia spiritualmente libero il suo intervento sui processi decisionali e di scelta, perché ogni caso si tratta, per ognuno, di realizzarsi nelle proprie inclinazioni, interagendo con gli altri e, qualsiasi sia l’ipotesi metafisica di partenza, facendosi comunque a propria volta puntuale causa efficiente attiva della conformazione del mondo a lui esterno.
Che il discorso sulla libertà empirica si muova su di un piano diverso rispetto a quello filosofico sul libero arbitrio è del resto dimostrato dal fatto che, ammettendo quest’ultimo, esso opera pienamente anche in presenza di coercizione (coactus tamen voluit). Ad esempio, se un rapinatore minaccia una persona con una pistola, questa, a seconda della propria personalità, può consegnare i propri beni, ma anche reagire opponendosi. Il rapinatore comprime la libertà in senso empirico, esercita un atto di costrizione, e tuttavia il destinatario della minaccia ha ancora un margine di scelta, di autonomia, nella propria condotta; tale considerazione consente di distinguere la posizione “libertaria” in materia di libero arbitrio (il termine libertarismo è impiegato anche per indicare i sostenitori di questo) da quella in materia di libertà empirica.
La configurabilità del libero arbitrio, per altro verso, rileva ai fini dell’individuazione della responsabilità del soggetto agente. Ciò assume importanza, nella vita pratica, nel diritto penale. Abbiamo sempre considerato il diritto penale la branca più irrazionale del diritto, per la sua pretesa di fondarsi sul sindacato del foro interno delle persone: il giudice dovrebbe penetrare la mente dell’imputato, per verificare, sulla base di dati molto approssimativi, la sua mens rea, attraverso l’individuazione del dolo o della colpa. Ora, le neuroscienze promettono di consentire un simile sindacato, attraverso l’indagine neuronale, ma ciò finisce con l’attribuire a neurologi e psichiatri un potere immenso sul destino delle persone; un potere, oltretutto, consacrato dalla “scienza”, il che lo renderebbe più irresistibile rispetto a quello, già comunemente ritenuto fallibile, del giudice. Assisteremmo a un rinforzamento dello science argument for the State, con la creazione di una casta di potere insindacabile, se non da colleghi restii, dato che costoro deterrebbero il monopolio del relativo sapere; e inamovibile, funzionando il mondo accademico e scientifico soprattutto per cooptazione, più di quanto non avvenga nella politica.
Cambierebbe la funzione della pena, che porrebbe al proprio centro la supposta pericolosità della persona più di quanto non avvenga oggi, in cui si va alla ricerca della “responsabilità”, con conseguente suo avvicinamento al meccanismo discrezionale delle misure di sicurezza in funzione “curativa”; tutto ciò induce preoccupazione, e ci fa immaginare qualche distopia caratterizzata da imputati con gli elettrodi nel cervello, soggetti a indagini sempre più intrusive.
Indicazioni bibliografiche.
John Searle, La razionalità dell’azione, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2003 (2001).
John Searle, Il mistero della coscienza, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1998 (1997).
AA. VV., Libero arbitrio – Storia di una controversia filosofica, a cura di Mario De Caro, Massimo Mori ed Emidio Spinelli, Roma, Carocci editore, 2014.

3. Coercizione e libertà empirica.
Date queste premesse sulla libertà “spirituale” –di questo si occupa chi tratta di determinismo e indeterminismo-, occorre ora interrogarsi sulla nozione di libertà in senso empirico, e conviene farlo muovendo dall’etimologia, dato che molte delle definizioni che conosciamo sono tautologiche e circolari.
Il lemma “libertà” trova radice nel verbo libére, che significa “far piacere, aggradare”, sicché essere liberi ha sicuramente a che fare con l’essere in condizione di fare ciò che piace, ciò che dà piacere. Ma se a me desse piacere prendere a bastonate in testa un’altra persona, sarebbe questa una libertà degna di essere tutelata per un libertario? La difficoltà è solo apparente, se si parte dalla libertà come situazione indivisibile alle parti, sicché cerchiamo regole che piacciano a noi, salvo poi scoprire che valgono per tutti e vanno a beneficio di tutti. La libertà da una parte sola, ossia la situazione in cui uno prova piacere sottomettendo un altro, non può essere definita infatti propriamente di libertà, ma di coercizione e supremazia, mentre la condizione dell’altro sarebbe propriamente di soggezione o sottomissione, come meglio vedremo.
Secondo Gerald MacCallum, la libertà è infatti tale da un impedimento proveniente da parte di qualcuno. Si tratta della cosiddetta libertà “negativa” da vincoli, restrizioni, interferenze o barriere posti in essere da parte di altri individui, escludendosi dalla definizione i fatti naturali impedienti, che non inciderebbero sulla condizione di libertà come assunta dai filosofi analitici, anche perché i fatti naturali non sono nella disponibilità umana.
Ciò rimanda, in definitiva, al concetto di coercizione, funzione che ci aiuta a comprendere, ex negativo e per antitesi, in che cosa la situazione di libertà empirica consista: siamo di fronte a fronte un soggetto che vorrebbe esprimere la propria capacità di agire, e c’è qualcuno che glielo impedisce o si sforza di impedirglielo: questo soggetto sta esercitando coercizione, quindi noi siamo in grado di capire se siamo in situazione di libertà se disponiamo altresì di una nozione analitica di coercizione.
Una discussione sulla nozione di coercizione la troviamo in Robert Nozick, il quale la riconduce alla nozione di “minaccia”, condizione necessaria e sufficiente perché coercizione vi sia; va precisato, però, che a differenza di quanto avviene negli anarco-capitalisti mainstream di scuola rothbardiana, per minaccia Nozick non intende necessariamente quella fisica destinata a infliggere danni diretti al “corpo”, impostazione che intende in senso riduzionista la cosiddetta self-ownership, ma qualsiasi prospettazione volta a peggiorare la condizione del destinatario, o almeno è su simili situazioni che Nozick ragiona. Ad esempio, Nozick si interroga sulla minaccia di licenziamento, per il caso in cui il dipendente si comporti in un certo modo.
Per meglio comprendere la natura della minaccia –prospettazione di un danno, di un peggioramento di situazione, nel caso in cui il suo destinatario adotterà una certa condotta che viene “proibita” dalla minaccia stessa-, occorre prendere in considerazione il suo opposto, l’offerta, ossia la prospettazione viceversa di un beneficio o di un premio nel caso in cui sia adottata la condotta indicata in sede di offerta. Non si deve ignorare, tuttavia, che anche l’offerta può comportare dei costi-opportunità nel destinatario, dato che l’esserne destinatario può alterare la scala delle preferenze, introducendo un turbamento psichico, che può anche rivelarsi dannoso.
Ad esempio, se io ricevo l’offerta di un lavoro vantaggioso lontano da casa, il fatto stesso di doverla prendere in considerazione comporta quell’alterazione, nonché un possibile turbamento interiore, che può peggiorare, almeno momentaneamente, la mia condizione di benessere. Ancor più chiaro questo ragionamento risulterà se si prendono in considerazione le ipotesi in cui minaccia e offerta sono combinate: ad esempio, se un genitore dice al figlio che se studierà gli regalerà una bicicletta, mentre se non studierà gli impedirà di vedere la televisione, con la prima parte dell’enunciato gli prospetta un miglioramento, ma con la seconda parte gli prospetta un peggioramento, per il caso che il figlio adotti la condotta omissiva del “non studiare”. Ma un caso del genere non sembra porre grossi problemi sotto il profilo che ci interessa, che è quello di comprendere il grado di legittimità o illegittimità di siffatte prospettazioni.
Forse che infatti una teoria libertaria impedisca sempre di prospettare situazioni peggiorative al destinatario, nel caso in cui questi adotti o non adotti una certa condotta? E’ opportuno, a tale proposito, fare riferimento alla definizione di “minaccia” contenuta nel codice penale italiano, il quale, all’art. 612, punisce, a querela della persona offesa (quasi a dire che il sentimento dell’essere minacciato è soggettivo), solo la minaccia di un “ingiusto danno”.
In punto di stretta dottrina libertaria, “danno ingiusto” significa danno illegittimo. Ad esempio, se io apro un negozio vicino al tuo, e ti faccio concorrenza, potrei procurarti un danno economico, ma questo danno non sarebbe né ingiusto giuridicamente, né illegittimo dal punto di vista libertario, dato che l’atto dell’aprire un negozio rientra nella sfera riconosciuta libera all’agente. Del resto, la nozione di “coercizione” è moralizzata e valutativamente connotata, vale a dire che non si dovrebbe avere coercizione se il danno minacciato è legittimo.
Che dire allora della minaccia di licenziamento? Essa peggiora le condizioni del destinatario, e tuttavia un “fisicalista” rothbardiano non la considererebbe coercizione. Occorre in proposito puntualizzare che, a ben vedere, anche la minaccia di licenziamento ha un chiaro risvolto fisico: il datore di lavoro, infatti, si riserva con essa di esercitare lo ius excludendi alios dal perimetro della propria proprietà, inibendo al licenziando l’ingresso nel luogo di lavoro, e allora a nostro avviso occorre distinguere.
Viene in rilievo, infatti, una discussione sulla più ampia situazione, nella quale la minaccia di licenziamento si viene a collocare, e allora diviene ineludibile se quella posizione di proprietario sia legittima o no, perché, se si assume la vigenza del lockean proviso, il licenziato sarebbe a propria volta titolare di una porzione di territorio, e quindi il licenziamento per lui non sarebbe esiziale, e potrebbe considerarsi, se non innocuo, almeno concepibile come legittimo. Mentre se, sempre su questo presupposto, il proprietario è un usurpatore, qualsiasi suo atto sarebbe da considerare illegittimo per invalidità derivata, dato che a essere illegittima è la sua stessa situazione fondamentale.
Tale considerazione ci suggerisce che, per verificare se un singolo atto sia espressione di libertà in senso empirico o di coercizione, non è mai sufficiente guardare all’atto in sé e alla relazione binaria, alla quale esso dà vita nei confronti del destinatario, prospettiva tradizionale dei filosofi analitici di scuola liberale (si pensi a Ian Carter), che rischia di rivelarsi asfittica, ma occorre guardare alla più ampia situazione di insieme, nella quale quell’atto si viene a inserire.
Emerge qui la nozione di coercizione sistemica, che, al pari del suo contrario, ossia la libertà, è una situazione indivisibile tra tutti i soggetti di un contesto dato. Ad esempio, in una situazione statualizzata le condizioni di ciascuno sono alterate dal grande soggetto rivendicatore del monopolio della forza, del diritto e della legittimità, con la conseguenza che diviene impossibile verificare se un atto sia legittimo dal punto di vista libertario, se non collocandolo nel più ampio contesto, in cui lo Stato incide, alterandolo, con la propria forza irresistibile.
Indicazioni bibliografiche.
Gerald C. MacCallum, jr.,  Libertà negativa e positiva, in AA. VV., L’idea di libertà, a cura di Ian Carter e Mario Ricciardi, Milano, Feltrinelli Editore, 1996 (1967).
Ian Carter, La libertà eguale, Feltrinelli Editori, Milano, 2005.
Robert Nozick, Coercizione (1969), in Idem, Puzzle Socratici, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1999.
Murray Newton Rothbard, L’etica della libertà, Macerata, Liberilibri, 1996 (1982).
Charles Taylor, Cosa c’è che non va nella libertà negativa, (1979), in L’idea di libertà, cit..

4.        4. La coercizione sistemica nelle relazioni con lo Stato.
L’approccio analitico mainstream risulta eccessivamente concentrato sulle situazioni particolari, perdendo di vista le situazioni di insieme, che vengono poco persuasivamente affrontate solo al livello dell’esemplificazione. Si perde così di vista in buona parte la coercizione di sistema dello Stato, o comunque dell’ordinamento giuridico in generale e del sistema sociale.
Viceversa, se si muove dal presupposto che ipotesi coercitive siano plasticamente caratterizzate (al di là delle sfumature) dalla minaccia dell’uso della violenza, l’ordinamento giuridico dello Stato è minaccia sistematica e coercizione sistemica, dato che ciascuna norma (il modello è la norma penale, il tipo che più di ogni altro esprime il predominio dello Stato) che lo costituisce è linguisticamente conformata nei termini della minaccia, rivolta alla generalità delle persone, in senso tecnico e proprio: «Chiunque commette un fatto diretto a sottoporre il territorio dello Stato o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero, ovvero a menomare l’indipendenza dello Stato, è punito con la morte» (art. 241 originario del codice penale, non a caso il primo reato della parte speciale del codice Rocco, il cui Titolo Primo si occupa esattamente  «Dei delitti contro la personalità dello Stato»).
Si potrebbe sostenere che una simile minaccia, di per sé, in quanto non costrittiva direttamente sul corpo fisico, ma solo sulla psiche delle persone, non varrebbe a comportare coercizione o limitazione di libertà, che rimarrebbe impregiudicata, dato che ognuno  potrebbe ritenersi autorizzato ad ignorare la minaccia stessa, ma chi opponesse una simile obiezione starebbe ricadendo nella confusione tra libertà come libero arbitrio e libertà empirica e sociale, che è quella della quale stiamo discutendo ora.
Un requisito della minaccia, che emerge a tale proposito, ossia quanto alla sua attitudine, in quanto articolazione linguistica, verbale o non verbale, a comprimere effettivamente la libertà empirica, occorre distinguere la minaccia seria da quella priva di tale carattere.
Ora, non v’è dubbio che la minaccia promanante dallo Stato, dalle sue norme, dal suo apparato militare, poliziesco e  burocratico –David Graeber parla del poliziotto come del burocrate per eccellenza, il “burocrate armato”-, giudiziario, carcerario, manicomiale, sia la più “seria” rinvenibile sul “mercato della forza”, in quanto quella in grado di venir  implementata direttamente non solo con la violenza, ma con una violenza massiccia, in quanto frutto di una particolare organizzazione volta proprio a tale scopo.
Questo non vale, in effetti, per ciascuna delle sue prescrizioni, dato che lo Stato sconta un’intrinseca inefficienza da overbooking, da inflazione normativa, sicché i suoi stessi formidabili mezzi di implementazione si rivelano una risorsa scarsa rispetto all’immensa vastità delle norme giuridiche che devono essere applicate: un cartello stradale, dimenticato sull’autostrada dopo i lavori di manutenzione, indicante il limite di 20 km orari di velocità, non sarebbe credibile e non esplicherebbe funzione deterrente; ma, di regola, le persone considerano credibile la minaccia normativa, pur variando la sua capacità di impatto, da norma a norma, da persona a persona in base alle inclinazioni e alla psicologia di ciascuno.
Lo Stato, però, è potente, ma non onnipotente: le norme giuridiche dell’ordinamento statuale rappresentano una minaccia sistematica articolata in forma linguistica e, per come sono conformate, rappresentano proposizioni probabilistiche, descrittive e costitutive delle modalità procedimentali e delle condizioni della loro propria realizzazione empirica: la disposizione penale sopra indicata, nel concorrere a costituire l’ordinamento, descrive un possibile stato delle cose, il cui inveramento è affidato agli organi dello Stato incaricati dell’applicazione attraverso le procedure previste (procedimento e processo); ma si tratta di un’ipotesi empirica, subordinata alla capacità dell’enunciato di correlarsi fattualmente in forza della sua adeguatezza, tanto nell’oggetto (che rivendica attitudine all’universalizzazione), quanto nella sua capacità, collegandosi alle disposizioni procedimentali e processuali, di radicarsi nella realtà. Tutto ciò va quindi confermato sul campo, non è dato a priori: è quindi possibile che le disposizioni risultino “falsificate” dalla disapplicazione, più o meno diffusa, data comunque la selettività discriminatoria propria nell’implementazione ex officio e non su istanza della parte interessata. Discorso in parte diverso potrebbe essere svolto per le disposizioni di diritto civile, quante volte esse forniscano la descrizione di istituti, messi a disposizione del libero uso delle parti, quali istruzioni e, proprio nel senso della teoria dei giochi, “giochi risolti” a loro disposizione: ma anche in tal caso la loro adeguatezza viene verificata nella loro capacità di adattarsi all’uso, sicché si tratta pur sempre di enunciati empirici, oltre che analitici.
In ogni caso, in presenza di un diffusa normazione conformata nei termini della minaccia potenzialmente efficiente, la situazione generale, vista da tale punto di vista, è puramente e semplicemente di non libertà, ossia di coercizione generalizzata: vi potrà essere, di volta in volta, maggiore o minore coercizione, maggiore o minore subordinazione, sia complessiva che interindividuale, ma non si dà situazione indivisibile di libertà: la libertà come la intendiamo noi, come, cioè, situazione indivisibile, è un concetto tutto/niente, e non è “misurabile”: ciò che sarà misurabile è, semmai, il tasso di coercizione presente, il tasso di subordinazione che l’accompagna specularmente.
Ad esempio, secondo Felix Oppenheim la tassazione non sarebbe indice di coercizione. Tale posizione ignora quanto espresso dalla cultura libertaria da almeno centosettanta anni a questa parte. Si pensi alla resistenza fiscale di Thoreau, alla discussione di Lysander Spooner sul carattere non vincolante di una Costituzione che nessun cittadino americano aveva mai sottoscritto e, di conseguenza, sull’abusività della tassazione; o a Benjamin Tucker, che alcuni considerano un “socialista”, il quale considerava però robbery la tassazione stessa. Ma già Pierre-Joseph Proudhon, in un saggio del 1849, ricollegava direttamente il libero credito monetario, privo di ancoraggio aureo, all’abolizione delle imposte, quali soluzioni congiunte del problema sociale. Di recente, è stato David Graeber (teorico di riferimento di Occupy Wall Street) a individuare nelle vicende fiscali, intrecciate con quelle del debito, il fil rouge dell’oppressione lungo il percorso storico.
D’altra parte, se Oppenheim non ravvisa “coercizione” né nell’imposizione fiscale, né nel carcere, non si comprende proprio di che cosa parli quando parla di “libertà”: forse delle liti di vicinato, e allora riemerge la questione del carattere asfittico delle concezioni analitiche dominanti, che non colgono la coercizione insita in un intero sistema. La negazione della libertà come spazio comune alle parti conduce a un certo punto l’autore a ritenere che Hitler sarebbe stato l’uomo più “libero” del suo tempo. Semmai, si dirà che il dittatore è dotato di potere coercitivo particolarmente intenso, non certo fonte di manifestazione di libertà, tanto più che il carcere incatena anche il secondino; ma un abbaglio simile è proprio il frutto del non aver compreso come la libertà sia piano indivisibile tra più soggetti, tra tutti gli individui dell’umanità, e non può essere verificata esclusivamente appuntando l’attenzione sull’agire “libero”, nel senso di incontrollato, di un unico uomo, senza verificare le ricadute sugli altri della sua condotta.
In realtà, in termini analitici, la tassazione assume il carattere di quella che Hillel Steiner ha ricostruito come throffer, ossia l’”offerta che non si può rifiutare” di Vito Corleone, tipo particolare della combinazione tra minaccia e offerta di cui si è già parlato: qui la minaccia è rappresentata dall’obbligo di pagare le imposte, in cambio dell’offerta alla prestazione di determinati servizi, che non consegue a un’esplicita richiesta del destinatario della throffer, sulla quale l’assetto fiscale originario si fonda: “Se non paghi sarai sanzionato, se paghi riceverai dei servizi in cambio”; in effetti, lo Stato è caratterizzato da un ricorso sistematico alla throffer, data l’ambivalenza della sua normazione, volta a un tempo a minacciare e a promettere, a restringere e ad ampliare, salvo che non sempre il ristretto corrisponde con l’ampliato, dato che lo Stato redistribuisce le risorse riscosse in modo differenziato e, anzi, discriminatorio, sicché si instaura una dura competizione tra i minacciati, da un lato nello sforzo di sottrarsi alla minaccia evadendo od eludendo, dall’altro per potere accedere alle leve dell’offerta, che non è mai incondizionata, né rispettosa del principio di eguaglianza di fronte alla legge.
A proposito di tassazione, riteniamo di fare un passo ulteriore, muovendo da quello che ci appare un errore logico di Robert Nozick a proposito di applicazione del principio di risarcimento. Nozick immagina che, in una situazione simile allo stato di natura di Locke, agli “indipendenti” free riders sia impedito l’esercizio della giustizia privata, sulla base della supposta pericolosità delle loro procedure. Di ciò si farebbe carico l’”agenzia dominante” (che, però, pretendendosi unico agente autorizzato, darebbe così vita a una fattispecie di abuso di posizione dominante), costituendosi in monopolio di fatto. Un monopolio di fatto, il quale concentri in proprie mani tutte le armi, possiede però un formidabile incentivo a divenire monopolio di diritto, tant’è che l’agenzia dominante trasmuta in Stato ultraminimo.
Lo Stato ultraminimo fornisce servizi solo agli acquirenti delle sue polizze: ma, dato che il servizio di protezione, in quanto reputato bene pubblico, viene ritenuto da Nozick indivisibile, lo Stato ultraminimo, in lettura edulcorata, “fornisce a tutti il servizio di protezione”, e diviene Stato minimo vero e proprio; e ciò con un salto indietro di oltre un secolo rispetto a Gustave de Molinari, il quale riteneva invece che il servizio di protezione fosse divisibile e ammettesse concorrenza. Nozick esce dall’empasse affermando che, poiché il servizio di protezione sarebbe appunto indivisibile, lo Stato ultraminimo sarebbe “moralmente obbligato” a trasformarsi in Stato minimo, e quindi a fornire il servizio stesso anche agli indipendenti, ai quali era stato proibito l’esercizio della giustizia privata. Ecco quindi che la proibizione verrebbe “risarcita” mediante la prestazione di quel servizio.
Senonché il risarcimento deve andare a vantaggio del danneggiato, non a svantaggio; invece qui siamo di fronte al cumulo di due svantaggi: la proibizione dell’esercizio della giustizia privata e l’imposizione di un servizio non richiesto –il giudizio se le esternalità siano da considerarsi positive o negative è soggettivo, sicché attorno alla costituzione del bene pubblico si instaurano conflitti-, a pretesa compensazione di quella primitiva proibizione. Non si comprende, infatti, come l’autore del danno possa stabilire unilateralmente il contenuto della prestazione risarcitoria, indipendentemente dalle preferenze del danneggiato che andrebbe risarcito. A questo punto, se tale presunto risarcimento vale a fondare la validità della proibizione iniziale, sarebbe stato preferibile che gli indipendenti fossero stati risarciti in moneta: medium universale, che avrebbe consentito loro di scegliere sul mercato, sulla base delle loro effettive preferenze, in quale modo, con quali beni della vita, riparare il danno subito. Ciò in quanto le persone sono titolari di scale di preferenze diverse, mentre Nozick presume che tutti accettino di buon grado, quale risarcimento, un servizio di protezione armato che potrebbe essere non gradito loro (ad esempio in quanto pacifisti nonviolenti), nel senso che qualcuno potrebbe ritenere negativa quell’esternalità, che Nozick dà per scontato sia considerata positiva da tutti.
Sicché, in definitiva, l’agenzia dominante, nel suo processo di trasformazione in Stato minimo, finisce con l’esercitare coercizione verso gli indipendenti due volte: quando proibisce, e quando impone una modalità risarcitoria non richiesta, che potrebbe essere ritenuta addirittura dannosa: protezione e oppressione si identificano e si sovrappongono, perché l’indivisibilità, se c’è, vale anche da tale punto di vista Soluzione paternalistica, dato che Nozick sostituisce proprie valutazioni sul carattere positivo o negativo delle esternalità al giudizio degli interessati. E sempre che abbia poi senso una protezione anche “scelta”, dato che comunque si tratta pur sempre di delegare l’armamento a qualcuno, e quindi legarsi mani e piedi a lui, una volta che gli hai delegato l’uso delle armi; difficoltà che lo stesso pensiero anarco-capitalista sulle agenzie di protezione non supera, ove non giunga alla conclusione di armare la comunità direttamente.
Ecco allora che analogo discorso possiamo svolgere con riferimento alla tassazione, a sua volta fondata su di una circolarità paradossale: che il cittadino non solo è subordinato allo Stato predatore e al potere che lo esprime, ma “paga” anche (le “imposte”) per esserlo, sicché la conseguente e connessa prestazione di “servizi” si rivela una formula politica di legittimazione e giustificazione del potere; il cittadino viene così coartato due volte: in origine, quando viene sottoposto all’apparato coercitivo, e poi, quando viene costretto a pagare per tenere in piedi l’apparato stesso, sicché lo Stato concentra su di sé le due funzioni di controllo e di servizio, finendo con il sovrapporle e col farle coincidere, dato che l’oggetto del servizio è elaborato unilateralmente; mentre, a rigore, visto che presta il proprio consenso all’autorità, il cittadino non dovrebbe pagare, ma andrebbe compensato in cambio del consenso che presta;  e ciò in soluzione del mistero di Etienne de La Boétie, per il quale il consenso viene prestato gratis per ragioni incomprensibili («quale orribile vizio vedere un numero infinito di uomini non obbedire ma servire”). Diversamente non vi sarebbe “scambio”, né “contratto sociale”, nemmeno metaforico. Ora, se questo è il quadro, per cui la coercizione va considerata in quanto sistema, e non come relazione binaria tra un soggetto A e un soggetto B, lo stesso vale per la nozione di “libertà” in quanto tale, che è una situazione, uno spazio, un bene pubblico indivisibile, nel senso proprio in cui si parla di bene pubblico nella scienza economica, anzi, in un’accezione ulteriormente evoluta.    
Indicazioni bibliografiche.
Felix Oppenheim, Dimensioni della libertà, Milano, Feltrinelli, 1982, (1961).
Greg Cohen, Capitalismo, libertà e proletariato, (1991), in L’idea di libertà, cit.
Robert Nozick, Anarchia, Stato e Utopia – I fondamenti filosofici dello “Stato minimo”, Firenze, Le Monnier, 1981, (1974).
Gustave de Molinari, Sulla produzione della sicurezza (1849), in Bastiat-de Molinari, Contro lo statalismo, Macerata, Liberilibri, 1994.
Fabio Massimo Nicosia, Il Locke conteso. I diritti di proprietà tra libertarians e left-libertarians, in Rivista di Politica, fasc. n. 2, 2013.
Etienne de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, Torino, La Rosa Editrice, 1995 (1548).
Pierre Joseph Proudhon, Organisation du Crèdit et de la Circulation, et Solution du Problème social sans Impot, Parigi, Garnier Frères, 1849.
David Graeber, Debito – I primi 5000 anni, Milano, Il Saggiatore, 2012,



5.        5. La libertà come spazio comune incommensurabile.
      Secondo Isaiah Berlin, “nella società ideale, costituita da esseri pienamente responsabili, le regole scomparirebbero lentamente, perché sarei a malapena consapevole della loro esistenza. Un solo movimento sociale fu abbastanza audace da rendere del tutto esplicita questa assunzione e da accettarne le conseguenze, quello degli anarchici. Ma tutte le forme di liberalismo fondate su una metafisica razionalistica sono versioni più o meno annacquate di questo articolo di fede”.
La libertà negativa di cui trattano i filosofi politici analitici, dei quali Ian Carter si propone come punta, si direbbe la versione liberale annacquata della libertà. Ma annacquata non solo rispetto a quella anarchica, ma anche rispetto a quella liberale bene intesa. Andiamo per gradi. Secondo lo studioso anarchico Salvo Vaccaro, “il pensiero anarchico effettua da sempre uno scarto teorico rispetto al liberalismo proprio sulla questione della libertà: il liberalismo assegna uno spazio predeterminato di libertà a ciascuno in relazione alla delimitazione più o meno statica dell’analogo spazio assegnato all’altro con cui si entra in contatto, con l’effetto di ridimensionare la libertà, riducendola per entrambi i partner. Al contrario, rinarrata sotto la luce convergente di teoria anarchica e postmoderno, la libertà si deessenzializza per rilanciarsi come processo espansivo di liberazione che mai raggiunge una saturazione stabile e definitiva –nemmeno nel regno dell’anarchia…- e pertanto in tale gioco agonale non si dà limite precostituito (costituzionalizzato, direbbero i liberal-democratici), bensì ogni spinta produce beneficio diffuso e gli eventuali conflitti tra tali dinamiche verrebbero a trovare un punto provvisorio di equilibrio autoregolato proprio nella relazione di ciascuno con l’altro che costituirà, nonostante ogni deriva individualistica e solipsistica della matrice proprietaria borghese, il reale nucleo umano: io/altro, con un topos libertario di responsabilità relazionale e reciproca.
Se gli anarchici di estrazione classica, rispetto agli anarco-capitalisti, hanno il vantaggio della critica a ogni forma di dominio, proprietario, sociale, di genere, nel costume, gli anarco-capitalisti possono vantare di avere fondato, attraverso il richiamo alla teoria del mercato, i lineamenti di una società senza Stato, che possa invece prescindere dalla costruzione del famoso “uomo nuovo”: sicché anche l’uomo comune, il quale pure nutra sentimenti conservatori o tendenzialmente autoritari, può trovarsi a proprio agio nel modello di società delineato agli anarco-capitalisti, che gli propongono semplicemente lo smantellamento di uno Stato ormai ridotto a rudere inefficiente.
Non si deve pensare, però, che, con ciò, gli anarco-capitalisti abbiano risolto il problema dell’inclinazione autoritaria, dissolvendola nel mercato quale sistema, spontaneo e “naturale”, di pesi e contrappesi, in grado di neutralizzarla e riassorbirla. Occorre considerare, infatti, che, senza forti inoculazioni di inclinazione libertaria –e allora il tema della costruzione dell’uomo nuovo in qualche misura si ripropone, da qui il fiorire di letteratura sulla pedagogia libertaria-, molte prospettazioni degli anarco-capitalisti rischiano di rivelarsi indesiderabili, a partire dalla ricostruzione della figura del proprietario in termini unilaterali, e non relazionali, quale sorta di “sovrano assoluto” nel perimetro della sua proprietà, una proprietà del resto dai fondamenti spesso opinabili e raramente persuasivi, se quello che è “lavoro” fondante l’homesteading per te, può essere mera esternalità negativa per me: e allora avrai sempre necessità di acquisire in qualche modo il mio consenso, se la tua pretesa unilaterale è di escludermi o discriminarmi; e tanto più che l’anarco-capitalismo copre con una sanatoria i titoli di proprietà esistenti, anche illegittimi, fino a prova del contrario, con tutti i problemi di effettività –di costi, di competenza- che pone la questione della rettificazione dei titoli, soprattutto di quelli particolarmente consistenti.
L’anarco-capitalismo in mano agli autoritari comporta perciò il forte rischio che, al posto di un desiderabile mercato davvero libero, si affermi quella che abbiamo chiamato idiocrazia (dominio di privati, da idion, privato in greco), e che il ricorso al diritto privato, quale strumento di esercizio del dominio, in luogo di quello pubblico non rappresenti un progresso, ma un regresso dal punto di vista libertario (una regressione dallo Stato costituzionale allo Stato patrimoniale), proprio perché il diritto pubblico liberale prevede delle garanzie –parità di trattamento, sindacato del vizio di eccesso di potere, etc.-, che il diritto privato non conosce nei confronti di chi esercita un potere privato: si pensi al caso di un accordo di cartello tra le più grandi agenzie di protezione in un sistema anarco-capitalistico. A meno di non estendere anche al potere privato siffatte garanzie, dando luogo a un nuovo diritto comune, il quale consideri formalistica la distinzione pubblico/privato e vada alla sostanza, rinforzando, semmai, l’operatività del principio di buona fede, quale riflesso civilistico del vizio di eccesso di potere, ovvero generalizzando l’abuso di posizione dominante, rendendolo “vizio” di situazione, oltre che di “sistema”, tanto per i soggetti pubblici, quanto per quelli privati.
Ma se c’è un difetto negli anarco-capitalisti è proprio l’eccesso di formalismo, che porta a sacralizzare quella distinzione, finendo con il legittimare tutto quanto proviene dal “privato” in quanto “privato” e a demonizzare il “pubblico” per il solo fatto di essere “pubblico”, ignorando che, nella loro prospettazione, un privato eserciterebbe coercizione non meno del pubblico; anzi, di più, proprio sotto il profilo del sindacato del suo operato in quanto “privato”, che, una volta proprietario, secondo tale prospettazione, diviene dominus di tutte le situazioni, che si svolgono nell’ambito della sua proprietà; e se la proprietà è su larga scala, o di cartello, ecco allora che gli individui non proprietari sono in balia dei (pochi) proprietari.
Va detto, però, che chi pretendesse di fondare il proprio predominio sul diritto civile, scaverebbe, almeno in linea di principio, la terra sotto i propri piedi, dato che non è obbligatorio intrattenere rapporti con un soggetto privato, sicché l’eventuale Stato idiocratico tenderebbe dialetticamente alla propria estinzione: per dirla al modo del sito internet satirico “Lercio”, “Lo Stato si privatizza per diventare efficiente, ma i cittadini disdicono il contratto e si estingue”. E’ pur vero, però, che a tale non obbligo di appartenenza devono corrispondere effettive possibilità alternative, che non sarebbero rinvenibili in una situazione di “Stato privato”, in mano a un cartello di potenti proprietari: da alcuni discorsi di molti anarco-capitalisti non si ricava affatto, infatti, che la situazione da loro prospettata sarebbe migliorativa, sul piano della libertà; essa sarebbe infatti del tutto identica, se non peggiore per le ragioni dette, solo che tutti i rapporti assumerebbero una veste esteriore “contrattuale”, in sé del tutto irrilevante sul piano materiale.
Ma anche il contratto sociale dei classici aveva veste appunto “contrattuale”, e pure dava vita a “Leviatani” variamente conformati; e poi conosciamo la rilevanza dei contratti per adesione, in cui soggetti forti predispongono unilateralmente il testo contrattuale, spesso ricco di clausole vessatorie, e al cittadino comune non resta che “aderire”, sottoscrivendo in assenza di alcuna effettiva autonomia: almeno in teoria, l’attuale codice del consumo consente una protezione maggiore per il cittadino, nei confronti del grande privato, rispetto a quanto gli anarco-capitalisti non ammettano, sulla base della loro formalistica impostazione iper-privatistica.
Si consideri l’esempio delle città-condominio, paradigma del modello sociale e comunitario anarco-capitalista, che avrebbero un amministratore e un’assemblea condominiale, la quale, non diversamente da un qualsiasi organismo di diritto pubblico di rilevanza territoriale, prenderebbe decisioni a maggioranza, vincolanti per tutti, compresi i minori e le generazioni future, ossia persone che non hanno concorso a stipulare il contratto. Ma anche per gli stipulatori, occorrerebbe verificare in concreto se ciò comporti incremento effettivo di libertà attraverso la facoltà di exit, ma ciò presupporrebbe bassi costi di trasferimento e città-condominio con regole migliori alle quali approdare, il che non è scontato, anche se non si può escludere.
Ad esempio, secondo alcuni anarco-capitalisti il regolamento di una città-condominio potrebbe non ammettere gli omosessuali. Una tale previsione sarebbe enormemente intrusiva, dato che dovrebbe verificare le abitudini intime dei condomini (come? Con videocamere installate nelle camere da letto?), e questo, in linea di astratta teoria, potrebbe anche ammettersi sul piano contrattuale: ma vincolerebbe anche le generazioni future, i figli dei condomini, i quali si troverebbero con un regolamento condominiale preconfezionato da rispettare, sicché, ove un nuovo nato fosse omosessuale, non solo sarebbe oggetto di ostracismo, ma si troverebbe a dovere emigrare in un’altra città-condominio, la quale viceversa ammetta gli omosessuali. Ora, si badi bene che tutto ciò non avrebbe senso in un contesto di Stato liberal-costituzionale, che, pur in presenza di sentimenti di omofobia, non pretende di subordinare il riconoscimento di diritti ai gusti sessuali, sicché, in un caso come questo, passare dal “pubblico” al “privato”, assegnando al “privato” poteri così totalizzanti, rappresenterebbe un passo indietro e non un progresso.
A parte tali degenerazioni, gli anarco-capitalisti hanno una concezione della libertà vicina a quella della tradizione liberale, quella impostata sulla tutela della libertà negativa dalla coercizione, estendendo teoricamente l’ambito delle attività sottratte alla coercizione e affidate al mercato.
La concezione liberale viene però spesso intesa in termini riduttivi. E’ vero che l’idea della libertà liberale intesa come ognuno ricondotto al proprio ambito spaziale limitato, si ravvisa nella concezione della proprietà di Kant, come convivenza tra un “mio” e un finitimo “tuo”, che si “costringono” reciprocamente. Tuttavia, se il liberalismo ha mostrato anzitutto quella faccia “difensiva”, e fornito un’immagine ristretta nella propria concezione della libertà, ciò si deve a ragioni di carattere storico, dato che, in origine, si trattava di elaborare soprattutto una dottrina di “limitazione” del potere dispotico, prima che fosse consentito immaginare l’espansione a tutto tondo dell’individualità nella comunità dei liberi e degli eguali. Certo, la concezione di libertà di un Michail Bakunin è più attraente e convincente, dato che consente di superare il vieto luogo comune, per il quale la mia libertà finisce dove inizia la tua: “Io non sono veramente libero che quando tutti gli esseri umani che mi circondano, uomini e donne, non sono ugualmente liberi: posso dirmi libero solo in presenza di altri uomini e in rapporto con loro. Io stesso sono umano e libero solo nella misura in cui riconosco la libertà e l’umanità di tutti gli uomini che mi circondano. La libertà degli altri, lungi dall’essere un limite o una negazione della mia libertà, ne è al contrario la condizione necessaria e la conferma. Non divengo veramente libero se non attraverso la libertà degli altri, così che più numerosi sono gli uomini liberi che mi circondano, più profonda e più ampia è la loro libertà, più estesa e più profonda e più ampia diviene la mia libertà. Io intendo quella libertà per cui ciascuno, anziché sentirsi limitato dalla libertà degli altri vi trova al contrario la sua conferma e la sua estensione all’infinito.
Tuttavia, si badi che, se troppo spesso la libertà liberale viene declinata in quei termini asfittici soprattutto dai mass-media e tra la gente comune, sul piano della teoria economica del mercato essa si sovrappone a ben vedere a quella di Bakunin, il che non deve sorprendere. Da quando gli economisti hanno superato il dogma aristotelico, per il quale lo scambio avviene trasferendo il «tanto quanto», ossia rimanendo inalterate le condizioni di benessere degli scambisti, da quando cioè, insinuandosi la nozione soggettivistica del valore, si inizia a comprendere che lo scambio è fatto per migliorare le condizioni degli scambisti, e non per lasciarle inalterate, la nozione “liberale” di libertà già si propone, in Carl Menger piuttosto chiaramente, nella prospettiva di considerare l’esaltazione delle condizioni dell’uno come co-condizione per l’esaltazione di quelle dell’altro;
Naturalmente, occorre, per addivenire al cosiddetto “ottimo paretiano”, che le condizioni degli scambisti non siano eccessivamente squilibrate nei punti di partenza, che è quanto avviene oggi, allorché il contraente “forte” profitta di quello “debole” per ragioni di assetto economico e istituzionale; ma, a parte ciò, e a questo cercheremo rimedio, quanto precede poggia sul presupposto che la nozione di libertà sia grosso modo riconducibile a quella di “benessere”, quantomeno nel senso che la libertà si presume utile iuris et de iure, quale quadro meta-normativo, all’interno del quale ogni scelta, volta alla soddisfazione di un bisogno, si rende possibile, sicché è immaginabile, da tale punto di vista, un utilitarismo (formale) libertario: qualsiasi forma di utilitarismo, che non fosse tale, comporterebbe sacrificio di libertà, e quindi danni incommensurabili allo stesso benessere, nel momento in cui l’essere e sentirsi “liberi” sia ritenuto un elemento basilare del proprio benessere.
La questione non era affatto ignota a Isaiah Berlin, il quale poneva Adam Smith tra i dotati di “una visione ottimistica della natura umana, (i quali) credono nella possibilità di armonizzare gli interessi”; esattamente il presupposto della teoria del mercato, che, collegando in rete tutti gli scambi, posto che, almeno idealmente, uno scambio avvantaggia i coinvolti, in rete verrebbe avvantaggiata l’umanità intera: la libertà, ossia la potenzialità di ciascuno, anche in questo ordine di idee, come per gli anarchici, si accresce con il contatto con gli altri, non viene limitata da questo: anticipazioni di quella che poi sarebbe stata la teoria dei giochi, con riferimento però ai giochi a somma positiva e cooperativi, sicché, nel mercato ideale, la strategia di cooperazione vince su quella di defezione. Quantomeno nel senso che, in regime di concorrenza, a ogni caso di defezione corrisponde un’ipotesi alternativa di cooperazione, sicché lo scambio non è mai un monopolio bilaterale A vs. B, ma sempre un modello trilaterale d’asta, una rete di aste interconnesse, in cui vi sia sempre la possibilità di cambiare competitore e aggiudicatario.
Ma se la libertà si esalta nell’incontro intersoggettivo, essa cessa di essere vicenda personale, per divenire bene pubblico puro, in un’accezione ulteriore, rispetto a quella accolta dalla scienza economica. Intendiamo infatti per puro il bene pubblico, il quale, facendone uso, non solo non si consuma, ma anzi si riproduce, si mantiene vivo invece di consumarsi. Ad esempio, la lingua è soggetta al principio di abbondanza, non di scarsità: più viene utilizzata più è viva e si ravviva, mentre se non se ne fa uso muore. Lo stesso vale per tutti i beni immateriali, come il software, in sé replicabile all’infinito, salvo barriere tecnologiche o normative; come l’informazione e la cultura: non solo chi impara a memoria una poesia non impedisce ad altri di fare altrettanto –quindi non si dà rivalità nel consumo-, ma tutti sono in grado di diffondere ulteriormente quella poesia, autoriproducendo, e consentendo di riprodurre tendenzialmente all’infinito, quel bene pubblico.
Altrettanto vale allora per la libertà-bene pubblico indivisibile, perché per ogni interazione possibile, che massimizza l’utilità di chi interagisce, vi sono una quantità potenzialmente infinita di interazioni in rete, che ulteriormente massimizzerà l’utilità di tutti: e nell’interazione la libertà viene alimentata, invece che ridursi. Anche a voler limitare l’osservazione alla relazione a due, la libertà-bene indivisibile può rappresentarsi come uno spazio corrispondente a un angolo piatto, nel quale i partners della relazione occupino ciascuno un angolo retto l’uno adiacente all’altro, sicché la relazione è in equilibrio. Laddove nelle relazioni coercizione/subordinazione, supremazia/soggezione, l’angolo è rispettivamente ottuso e acuto, di modo che quanto vien “misurato” è l’oscillazione del lato in comune, sicché l’angolo ottuso sarà più o meno ottuso, e altrettanto l’acuto: mentre si ha piena libertà solo in corrispondenza dei due angoli retti, nella prospettiva, però, del reciproco insinuarsi l’uno nello spazio dell’altro.
In altro modo, la relazione può essere rappresentata da una bilancia a due piatti (o da un’altalena a due seggiole contrapposte): quando scende un piatto, sale l’altro, all’incremento da un lato corrisponde la riduzione dell’altro: ma, fuoriuscendo dall’equilibrio stabile, si esce dalla “libertà comune”, per entrare in un rapporto, che non è di “libertà” aumentata da un lato e di “libertà” diminuita dall’altro, ma di coercizione da un lato e di sottomissione dall’altro, di supremazia da un lato e di soggezione dall’altro, come nei rapporti potestà/interesse legittimo nella scienza del diritto amministrativo.
La libertà, in quanto spazio comune, è cioè gioco a somma positiva, un win-win game; l’altra concezione, al contrario, ne fa gioco a somma zero, dato che ogni spazio che andasse a vantaggio dell’uno andrebbe a detrimento dell’altro: esattamente ciò che avviene, al contrario, non nelle relazioni di libertà, scambiste o associative che siano, ma piuttosto nelle relazioni coercitive, caratterizzate da un rapporto supremazia/soggezione, sicché l’angolo ottuso, espandendosi, preme l’acuto adiacente, che ulteriormente si riduce; il piatto della bilancia più pesante si abbassa e l’altro si alza in corrispondenza.
Chi ritenesse che questa costituisca una situazione di libertà, che si possa misurare nelle oscillazioni –sfuggendogli che si tratta invece di una situazione di rapporto tra una coercizione e una subordinazione- sarebbe prigioniero di una zero-sum mentality, per la quale in ogni relazione –quindi non solo in una caratterizzata dal confronto tra supremazia e soggezione- debbano necessariamente riconoscersi un winner ed un looser, e ciò persino nelle relazioni libere.
La libertà relazionale-intersoggettiva trova invece, come detto, espressione nello scambio, nel quale tutte le parti coinvolte mirano a migliorare le proprie condizioni, e si tratta di gioco a somma positiva. Che poi la relazione abbia luogo sotto forma di contratto in senso proprio o di associazione, vale a dire di scambio di mercato o di relazioni comunitarie, non cambia di molto; perché tale distinzione non sembra avere altro senso che retorico, dato che anche il momento associativo è costituito da scambi.
E’ pur vero che, di solito, si sottolinea che, in uno scambio, ognuna delle parti, dopo l’incontro per la conclusione del contratto, prosegue autonomamente per la propria strada, perché i rispettivi interessi, consumato lo scambio, si divaricano, mentre nell’associazione gli interessi restano comuni e il legame perdura indefinitamente nel tempo; ma anche l’associazione, se è volontaria e libera nell’adesione, è precaria, e le parti possono riprendere la propria strada in qualsiasi momento, e la relazione perdurerà solo fin quando le parti, non meno che nello scambio istantaneo, la riterranno utile. Quindi, un’associazione rappresenta nulla più uno scambio continuato o relativamente permanente; e, del resto, Kant, sia pure in tutt’altri contesti, accostava il termine Gemeinshaft  a quello commercium.
A questo punto, libertà e giustizia, in una relazione, coincidono, perché può ritenersi “giusta” solo una relazione nella quale non si evidenzino rapporti di soggezione che non siano consensuali. In presenza di consenso, viceversa, qualsiasi invasion è permessa (si pensi a un rapporto sado/maso volontario, o al pugilato, o al duello, pur non consentito dal nostro ordinamento): nel senso che è assentita e autorizzata dall’interessato, il cui giudizio è sovrano, sicché i terzi saranno indotti a intervenire solo nel caso in cui ravvisino esternalità negative nei loro confronti, ad esempio nel danno che procura loro la diffusione di un comportamento chicken, in quanto consolidante l’indivisibile autorità non deliberatamente e consapevolmente accettata dal terzo estraneo al rapporto specifico.
Se la libertà è scambio nello spazio comune, e non solo atto unilaterale, va ribadita la difficoltà: l'idea che uno scambio, secondo il modello dell'ottimo paretiano, avvantaggi gli scambisti, e quindi che il mercato, essendo una rete di scambi tra n coppie, in cui ognuno si avvantaggia, dovrebbe avvantaggiare quindi tutti, è sottoposta a una grave restrizione. Ciò infatti presuppone che le persone che scambiano agiscano su di un piede di parità, almeno di partenza, e che quindi la loro scelta sia effettivamente libera e non viziata dal bisogno. Oltretutto, gli scambi non avvengono tra angeli, ma sulla base di rapporti di forza e della pressione delle reciproche pretese, anche collettive, come nelle relazioni sindacali e di cartello. Ma se io sono un misero deprivato dei miei diritti originari sulla Terra, minacciato da norme repressive inique che mi costringono al salario, quando cedo in uno scambio la mia forza-lavoro, non solo non miglioro, ma peggioro la mia condizione, rispetto alla fase originaria di autonomia. Quindi, in tal caso, la mia volontà nello scambio è viziata e, in un caso simile, un “contratto di lavoro” sarebbe stipulato in stato di bisogno, e quindi tecnicamente rescindibile (art. 1448 c.c.), oltre a comportare indennizzo la deprivazione originaria.
Pur con tale precisazione, resta il fatto che l’idea che la libertà, e non il rapporto supremazia/soggezione, che è altro da una condizione di equilibrio tra le parti in uno spazio comune, si possa misurare, può portare a conclusioni assurde e contrarie al senso comune, a meno di non considerarle paradossi o autoironia da filosofo. Ci riferiamo al caso limite proposto da Hillel Steiner, dell’uomo rinchiuso in un sarcofago (ventilato, precisa l’autore, in vena di spiritosaggini), per il quale il malcapitato avrebbe pur sempre la “libertà” di «strofinarsi il piede contro la superficie interna di un sarcofago». Non solo: questa sarebbe per il soggetto una conquista e un’acquisizione, perché prima di essere rinchiuso nel sarcofago, questa facoltà gli era preclusa! Sempre Steiner propone un altro confronto, per “misurare” la libertà: «un individuo è più libero se è incatenato al muro di una cella con una catena legata a un solo polso che non avendo entrambi i polsi legati»: è evidente, al contrario, che entrambi si trovano in una situazione di grave sottomissione, salvo che uno lo è leggermente meno dell’altro, altro che gradazioni diverse di libertà! E un uomo sarebbe totalmente illibero solo nel caso in cui il suo sistema nervoso fosse controllato da altri; il che rappresenta certo una situazione di annientamento della sua volontà, ma l’argomento finisce “per fare il gioco dell’avversario”, dato che, a questo punto, qualsiasi situazione di oppressione, che fosse appena minore, potrebbe venir spacciata come tutto sommato “liberale”. E’ del tutto evidente, a chiunque sia dotato di senno, che un simile approccio “analitico” alla misurazione della libertà non conduce da nessuna parte e non è di alcuna utilità, per chi, dotato di inclinazione libertaria, abbia a cuore le sorti del futuro della libertà.
Indicazioni bibliografiche.
Guido De Ruggiero, Storia del Liberalismo Europeo, Milano, Feltrinelli, IV ed., 1977 (1925).
Isaiah Berlin, Due concetti di libertà, Feltrinelli, Milano, 2000 (1958).
Salvo Vaccaro, Divenire anarchismo, in S. Vaccaro, a cura di Pensare altrimenti, Eleuthera, 2011.
Michael Bakunin, Dio e lo Stato, Pistoia, RL, 1974
Hillel Steiner, Libertà individuale, in L’idea di libertà, cit.
Immanuel Kant, Primi principi metafisici della dottrina del diritto, Bari, Laterza, 2005 (1797), a cura di F. Gonnelli, Capitolo primo, Del modo di avere qualcosa di esterno come il proprio.
Aristotele, Etica Nicomachea, Milano, Rusconi, 1993.
Richard Cantillon, Saggio sulla natura del commercio in generale, Torino, Einaudi, 1974 (1755).
Carl Menger, Principi di economia politica, a cura di Elena Franco Nani, Torino, UTET, 1976 (1871).

6.        6. Inclinazione libertaria e situazione originaria
Per capire quando ci troviamo di fronte ad atti di effettiva coercizione, si rivela forse utile una simulazione; immaginiamo che, in una situazione originaria alla Rawls, in cui viga il velo di ignoranza, ma anche, come abbiamo rilevato in passato, “di cultura”, soggetti tutti dotati di inclinazione libertaria debbano stabilire quali condotte ammettere e quali proibire, in quanto ritenute “coercitive”, o percepite come tali. Occorre infatti considerare che l’inclinazione libertaria non ammette tutte le condotte, ma ne vieta alcune; vieta, in particolare, l’esercizio di tutte quelle facoltà naturali che sarebbero viceversa riconducibili all’inclinazione autoritaria. Siamo al limite del paradosso, perché, effettivamente, l’inclinazione autoritaria ammette più condotte di quante non ne ammetta l’inclinazione libertaria, volta alla costituzione di uno spazio comune aperto nel quale tutte le parti coinvolte massimizzino simultaneamente le reciproche facoltà compatibili tra le parti stesse, laddove l’inclinazione autoritaria ammette anche condotte non compatibili, ma ciò da una parte sola, a detrimento cioè delle potenzialità espressive di una o più delle parti in causa.
In una situazione originaria composta da soggetti tutti dotati di inclinazione autoritaria, infatti, nessuna condotta sarebbe pregiudizialmente vietata: questo sarebbe il paradossale esito dialettico del conato di vietare più condotte possibili, dato che questo finirebbe con il legittimare qualsiasi attività di impedimento, e quindi anche gli atti più lesivi e aggressivi, e ogni decisione ultima verrebbe affidata al rapporto di forza: i più forti prevarrebbero, scaturendo il loro predominio da un quadro che possiamo definire di “anarchia negativa”.
I libertari, viceversa, mirando all’obiettivo della reciprocità, sarebbero impegnati a individuare –ecco il paradosso- le condotte vietate, e una tale operazione non pare davvero agevole, dato che ognuno tenderebbe a riservare a sé la facoltà di adottare più condotte possibili –ad esempio, nessuno rinuncerebbe alla facoltà di influenzare gli altri attraverso la propria capacità di persuasione-, ma, al contempo, vorrebbe vietare agli altri tutte le condotte incompatibili con la propria libertà personale, fino alla soglia in cui si realizzi l’agognato obiettivo del rispettivo bilanciamento nella reciprocità, dato che ogni regola che sto pensando per me, la sto concependo sia nella mia veste di attore, sia nella mia veste di destinatario dell’azione altrui; e questo è il vero senso, per noi, del velo di ignoranza, dato che, in situazione originaria non so se, in un futuro caso particolare, sarò attore o destinatario di una tipologia di condotta, e allora delibererò mettendomi nei panni simultaneamente dell’attore e del destinatario: l’empatia nasce dall’introspezione, perché se devo decidere il livello delle sanzioni penali, in questa condizione, mi metterò simultaneamente nei panni della vittima e nei panni dell’innocente ingiustamente accusato, oltre che del colpevole, sicché cercherò in me una soluzione che tenga conto di ciascuna di queste esigenze: agire in situazione originaria significa ponderare imparzialmente interessi ipotetici.
Anzitutto, in situazione originaria si stabilirebbe, in linea del tutto generale, che nessuno è legittimato a imporsi agli altri, e verrebbero certamente messe al bando, in quanto non conformi con l’obiettivo, attività come aggredire fisicamente gli altri, o minacciare l’aggressione fisica. Ma siamo sicuri che ciò sia sufficiente? Non esistono altre condotte, oltre l’aggressione fisica, che rappresentino violazioni di libertà? Una risposta ci viene dalla scienza giuridica, che conosce sfumature spesso molto maggiori di quelle proposte dai filosofi analitici; il diritto civile, ad esempio, sanziona, nelle relazioni contrattuali, non solo la violenza, ma anche il dolo, e attribuisce rilevanza all’errore, e impone costantemente il rispetto del principio di buona fede; ma subordina la loro operatività all’iniziativa dell’interessato, prevedendo l’annullamento del contratto su istanza di parte. Allo stesso modo, nel diritto penale italiano, la minaccia è sottoposta alla querela del minacciato, dato che il giudizio sul grado di serietà della minaccia è, come si è visto, soggettivo.
Tutto ciò pare indicativo di come l’inclinazione libertaria operi in situazione originaria: essa indurrebbe a vietare non solo le condotte platealmente invasive della sfera fisica, ma anche condotte fraudolente o potenzialmente dannose, ponendo a proprio fondamento il principio di buona fede –occorre potersi fidare dell’altro-, riservando però a ognuno la facoltà di decidere caso per caso quando reagire e quando no, sulla base di valutazioni individuali di opportunità e convenienza. Appare infatti eccessivamente restrittivo l’approccio di Murray Rothbard, per il quale solo la minaccia di uso della forza fisica (oltre che l’uso diretto) rappresenterebbe illegittima invasion: il concetto di aggressione al corpo è troppo indeterminato, dato che non si comprende quanto vicino al corpo si debba arrivare e con quale intensità, tanto più che, nell’impostazione dell’anarco-capitalista, la medesima tutela accordata al corpo si estende ai beni di proprietà (e all’adempimento contrattuale, in quanto articolazione del diritto di proprietà); sicché la vaghezza diviene assoluta, se non si condividono i presupposti  indicati per divenire “proprietari”.
Sul punto intendiamo proporre un approccio diverso: dato che free, in inglese, significa tanto “libero”, quanto “gratuito”, val la pena di cogliere tale non casuale coincidenza terminologica, per accostare la nozione di coercizione, quindi di situazione illibera, alla presenza di costi da sopportare per porre in essere una certa condotta: costi vivi, costi di transazione, costi di transizione, costi di informazione, costi-opportunità, costi irrecuperabili, etc. Senonché, anche con riferimento a ciò che rappresenta “costo” i giudizi sono soggettivi, potendo convivere preferenze diversificate tra le persone (e anche, per chi nutre dubbi sul dogma della transitività, anche all’interno della persona stessa), e comunque si dovrà pur sempre distinguere tra costi imposti -minacciare comporta l’imposizione di un costo per il destinatario della minaccia-, costi affrontati deliberatamente e costi naturali, con la conseguenza che l’arbitro ultimo del sentirsi coartato è sempre l’interessato, il quale è autorizzato a sottoporre al vaglio del mercato giuridico la propria iniziativa di reazione agli atti che egli ritiene, non solo fisicamente invasivi, ma anche infìdi.
Ciò non significa estendere indefinitamente la nozione di coercizione, che va in effetti distinta da altre situazioni, come ad esempio quella, poco convincente, introdotta da Lindley M. Fraser, di “rapporto economico disproduttivo”, in quanto comunque fondato sull’adesione volontaria delle parti allo scambio, non sulla coercizione di una nei confronti dell’altra. L’esempio proposto è questo: lo studioso Fraser, mentre lavora nella sua stanza, è disturbato da un organetto che suona per la strada. Accetta allora di corrispondere al proprietario dell'organetto denaro per farlo smettere. In tal caso, secondo Fraser, il rapporto sarebbe “produttivo” per l'organettista, che ottiene del denaro per non far nulla, e disproduttivo (disproductive) per lo studioso, il quale rinuncia a del denaro per rimanere nello stato in cui si trovava prima dello scambio. La spiegazione non convince: l'organettista aveva un diritto di suonare non inferiore a quello dello studioso di studiare, dato che la strada è pubblica e non di proprietà dello studioso. Pertanto si può immaginare la situazione esattamente inversa: che sia l'organettista a pagare lo studioso per poter continuare a suonare, dato che lui suonando può continuare a guadagnare da altri. Le parti, in entrambe le ipotesi, darebbero vita a una valutazione di convenienza identica a quella che avviene in qualsiasi scambio: se valga di più la somma di denaro corrisposta o la prestazione che si consegue; e una prestazione può essere anche omissiva, può cioè consistere in una rinuncia.
Se si entra in simili ordini di idee, il concetto di coercizione diviene eccessivamente esteso, finendo con il ricomprendere anche le mere situazioni di influenza, il cui esercizio si vorrebbe invece salvaguardato. Si pensi alla vicenda del “boicottaggio” subito da “Dolce & Gabbana”, per le dichiarazioni dei due stilisti avverse all’adozione di minori da parte delle coppie omosessuali. Sulla questione vi sono state polemiche pretestuose, dato che l’appello al boicottaggio è una modalità lecita nel mercato, ne fa parte integrante, in forma di exit e voice, per dirla con Albert O. Hirschmann.
Nel boicottaggio si prospetta infatti un peggioramento di situazione –ad esempio, “non comprerò più le tue giacche, e invito gli altri a fare altrettanto”- che rientra anzitutto nella libertà di manifestazione del pensiero, dato che uno resta sempre libero di non comprare una giacca, salvo che, con il boicottaggio, non si limita ad agire o a non agire, ma anche lo dichiara pubblicamente, sicché vietare il boicottaggio sarebbe anzitutto vietare una libertà di parola.
Se comprare o non comprare un prodotto è perfettamente lecito, è altrettanto lecito anche dichiararlo, dichiararlo in pubblico, e quindi proporsi come esempio per gli altri, i quali restano pienamente liberi a propria volta di accedere all’invito, ovvero sottrarvisi: non v’è quindi coercizione nei loro confronti, come non lo è nei confronti del venditore, il quale si sottopone al giudizio del mercato, e quindi sconta il fatto che propri atteggiamenti possano risultare sgraditi alla platea dei consumatori, o a una sua porzione.
In generale, operate tali distinzioni, non si può che rassegnarsi al fatto che, per valutare invece su quale focal point  convergere, in situazione originaria, per stabilire in che cosa consista la coercizione (illegittima), occorre sottrarsi a considerazioni ideologiche o troppo restrittive, ma affidarsi all’id quod plerumque accidit, come elaborato ab immemore, come detto, dalla dottrina civilistica e penalistica, le quali hanno fornito nozioni di violenza e di minaccia e di rispetto della buona fede molto articolate, che tengono conto delle varianti soggettive: dato che anzitutto timore e paura sono il focus attorno al quale la nozione di coercizione si sviluppa (che il potere sovrano si fondi sulla paura è un luogo comune della più lucida letteratura reazionaria), ma variano di grado a seconda degli individui.
Senonché, in situazione originaria, i libertari non si limiterebbero a considerare la libertà dalla violenza altrui o da altre forme di impedimento, come da concezione classica della libertà negativa, ma estenderebbero il concetto alle questioni di sistema, istituzionali ed economiche. Ogni individuo è dotato di forza psico-fisica, e persone razionali, che fossero dotate di inclinazione antiautoritaria, stabilirebbero anzitutto il principio dell’antitrust preventivo, volto a delegittimare qualsiasi tentativo di affermazione del monopolio della forza, in quanto consustanzialmente inconsistente con il carattere pandesposta della titolarità della forza, e, dunque, della capacità di effusione normativa. Si dirà che, nel caso in cui tutti i soggetti fossero dotati di quell’inclinazione, di ciò non vi sarebbe bisogno, tuttavia occorre considerare che quella relativa al monopolio della forza consiste in una credenza costitutiva in ordine alla sua efficienza ed efficacia, sicché tentazioni in tal senso sono sempre possibili, tanto più che vi sono gradazioni diverse nell’inclinazione libertaria (ad esempio, alcuni libertari sostengono lo “Stato minimo”); da qui l’esigenza di munirsi di strumenti di vigilanza, anche in via preventiva, per non trovarsi di fronte a situazioni poi insormontabili di consolidato monopolio della coercizione.
*****
In situazione originaria, per altro verso, i libertari, dal principio, che possiamo considerare l’architrave della dottrina libertaria quale conseguenza dell’”inclinazione”, ossia quello del difetto di legittimazione in capo ad alcuno del diritto di imporsi coercitivamente sugli altri, sarebbero in grado di ricavare altresì implicazioni rilevanti dal punto di vista economico, in quanto a propria volta articolazione della questione del potere e della sua delegittimazione.
Ovviamente, i dotati di inclinazioni libertaria non sono identici nel carattere, nei tratti psicologici della personalità, quindi non avrebbe senso ipotizzare, come viceversa fa John Rawls, che in situazione originaria si debba seguire necessariamente il criterio del maximin –“minimizzare la massima perdita”, che rischia di portare alla paralisi, e non risolve il dilemma del prigioniero, dato che porterebbe a defezionare-, piuttosto che altri criteri di azione di maggiore respiro, essendo molto diversificati tra gli individui gli atteggiamenti di propensione o avversione al rischio.
In linea di massima, però, pur con queste varianti individuali, il libertario non è un avventato, e cercherebbe di garantirsi una qualche base di certezza, lasciando all’ulteriore libero gioco le chances di differenziazione, accettando di assumersi una certa dose di rischio: probabilmente, da questo punto di vista, è per lui confacente una qualche combinazione tra il maximin, “massimizzare il minimo guadagno”, elemento di relativa certezza, e il criterio dell’expected value, che introduce elementi di aleatorietà nel realizzarsi delle aspettative.
Come conciliare questa duplice esigenza, senza imposizioni e rimanendo ancorati al principio di libertà? Occorre muovere dalla considerazione che il tipo psicologico libertario rifiuta per inclinazione di farsi imporre le cose, non riesce, dal punto di vista morale, a dare fondamenti a “obblighi”, che non siano autofondati, che non siano frutto di un sentimento interiore, con la conseguenza che può parlarsi di obbligo solo fin quando perdura il sentimento di obbligazione; sono invece esclusi obblighi di fonte esclusivamente eteronoma: il “tu devi” di A non comporta mai obblighi –morali, giuridici- in capo a B. Il dotato di inclinazione libertaria nega qualsiasi fondamento all’obbligazione, quindi anche all’obbligazione politica, che non sia il proprio effettivo consenso alla fonte del preteso obbligo, mentre l’autoritario, quando, come nella maggior parte dei casi, non riesce ad assurgere a posizioni di comando, subisce passivamente gli imperativi dell’autorità, almeno sin quando questi non vadano platealmente contro il suo interesse, e allora si rivolterà: non però per spirito libertario, ma per il rifiuto di subir danno, che è in capo a ogni uomo, sia esso libertario o autoritario.
Ne deriva un’implicazione stretta fondamentale: dal punto di vista libertario, la Terra è di proprietà comune agli uomini, i quali esercitano originariamente in comune la propria potestà possessoria, attraverso un homesteading collettivo, corrispondente al fatto che ognuno, con il proprio corpo, occupa immediatamente, alla nascita, uno spazio nel mondo, e tutti lo fanno simultaneamente; dato che, a ben vedere, non v’è mai un “primo occupante” (già Locke confutò Filmer su questo), ma un’occupazione collettiva e comunitaria, che si tramanda di generazione in generazione, nell’ambito della quale si vanno poi a inserire le valorizzazioni individuali di suolo, che non sono mai “originarie”. Con la conseguenza che le appropriazioni individuali sono frutto di convenzioni collettive, come rilevarono Pufendorf e Hume, sicché possiamo dire che, da questo punto di vista, la proprietà non è un dato presupposto del mercato, ma è essa stessa calata nel mercato.
Occorre infatti considerare che le attività umane sono insediate, e inevitabilmente si svolgono, sul territorio –questo il senso di una disciplina come l’urbanistica, che disciplina esattamente l’insediamento degli interessi sul territorio-, con l’implicazione immediata che ogni atto di autorità si rivela, implicitamente e in ultima analisi, un atto di gestione imperativa e unilaterale del territorio, fino al caso eclatante dello Stato, che sul territorio, e quindi sugli insediati, rivendica nientedimeno che la “sovranità”. Icastico esempio analitico è quello dell’erezione di un muro, volto a impedire il passaggio, come nel caso di perimetrazione di un possesso, teso a volgerlo in proprietà inviolabile.
Orbene, se A erige un muro con una tale finalità, perché B dovrebbe considerare “obbligatori” gli effetti di quel muro, fuori da un suo attivo consenso? Può un bruto fatto come l’atto di erezione di un muro essere fonte di obblighi? Non è forse l’erezione di quel muro una lesione della libertà negativa di B? Si potrebbe dare il caso che tale erezione sia volta a proteggere una porzione di suolo sulla quale A abbia “lavorato”, e che con ciò egli, secondo la dottrina dell’homesteading, ne sarebbe divenuto “proprietario”, acquisendo il pieno diritto di escludere gli altri dall’accesso in quel suolo, sicché il muro assurgerebbe a evento eticamente connotato, da fatto bruto trasmuterebbe in fatto istituzionale.
Osta all’accoglimento di tale discorso il fatto che  ciò che per A è “lavoro”, per B potrebbe essere una semplice esternalità negativa, un atto emulativo nell’accezione civilistica, ossia di puro danno per lui, magari senza davvero avvantaggiarne l’autore: il giudizio sul carattere positivo o negativo delle esternalità è infatti soggettivo, lo diceva già James Buchanan trattando dei beni pubblici, come lo è il senso dell’utilità del lavoro altrui; per cui, comparando il tuo vantaggio, derivante dall’erezione del muro, con il danno da me subito dalla stessa, io potrei concludere che ne ricavo solo danni o più danni che vantaggi, e quindi sarei perfettamente titolato ad oppormi a tale erezione, fino a legittimarne la demolizione; legittimazione derivante dall’assenza di alcun obbligo in mio capo a rispettare un muro che mi danneggia –impedisce la mia circolazione, o lede il mio senso estetico-, senza che su di me ricada alcun obbligo di rispettare l’esistenza del muro, che io posso ritenere meramente bruta, a meno che io non ne riconosca a sua volta l’utilità; e allora scatta l’onere, per A, di essere in qualche misura persuasivo nei confronti di B, al fine di acquisirne il consenso: non basta l’intenzionalità unilaterale dell’autore. Diversamente, si ricadrebbe altresì in fallacia naturalistica, dato che, dal fatto che tu abbia svolto un certo lavoro, tu pretendi anche che su di me ricada un dover essere, un dovere di rispetto per quello che tu ritieni, senza dimostrarmelo, lavoro utile anche per me.
Ne deriva che una proprietà privata, che a questo punto diventa un semplice usufrutto, in quanto istituto relazionale, che sia legittimamente fondata dal punto di vista libertario, non può che incardinarsi sul consenso degli altri; in altri termini, sul proprietario ricade l’onere di dimostrare utile per gli altri la sua proprietà, pena il mancato rispetto della stessa da parte della comunità. Il “tu devi” di A non comporta obblighi morali e giuridici per B, si diceva, men che meno hanno effetti normativi i comportamenti materiali di A nei confronti di B, fatta salva la loro capacità di effettiva imposizione; ma allora saremmo al di fuori dei derivati dell’inclinazione libertaria, per ricadere nel mero rapporto di forza, proprio dell’inclinazione autoritaria. La proprietà è quindi istituto ambivalente, dato che può essere fondato sia dall’autorità –la maggior forza-, e allora è proprietà unilaterale, sia dalla libertà –il consenso del destinatario-, ma in tal caso il consenso deriva da un giudizio di utilità condivisa da parte del non proprietario.
Ora, perché B dovrebbe mai attribuire il proprio consenso alla condotta materiale di A, a meno che A non sia in possesso di una capacità di persuasione particolarmente spiccata, che lo esenti da oneri ulteriori, al di fuori di uno specifico vantaggio anche per lui in conseguenza di quella condotta? Il vantaggio potrebbe consistere anzitutto nella reciprocità, come illustrata dal lockean proviso: A diviene proprietario, ma altrettanto capita a B, dato che, nel momento stesso in cui A erige il muro, riconosce il diritto di B di fare altrettanto e di divenire proprietario di una porzione di terreno “altrettanta e altrettanto buona”. Ma non solo, in una data situazione, la terra potrebbe essere scarsa, ovvero potrebbero non esservi porzioni di pari valore, e quindi difettare il presupposto per la realizzazione di una reciprocità reale sui possessi; ma B potrebbe anche non avere alcun interesse a tale forma di compensazione, preferendo poter circolare liberamente in tutti gli spazi (preferenza nomade), e quindi non appagandosi del riconoscimento a uno spazio esclusivo assegnato a lui.
In tal caso il suo consenso andrebbe “acquistato” con altre forme, in primis quella monetaria, dato che, come detto, il denaro rappresenta un medium universale di circolazione e di acquisizione dei beni. Ne deriva che B potrebbe acconsentire alla proprietà di B esclusivamente ove indennizzato monetariamente per la privazione di spazi liberi a sua disposizione.
Essere proprietario diviene quindi costoso per il proprietario, a meno che la sua pretesa possessoria non sia contenuta, ad esempio limitata ad esigenze essenziali (l’abitazione, l’esercizio di un’attività imprenditoriali ritenuta utile dagli altri), tale da consentire un effettivo grado di reciprocità accettabile da B, sempre che B ne sia interessato.
Dal ragionamento che precede deriva che A e B sono in origine parimenti comproprietari del territorio, dato che il consenso di B è indispensabile ad A per potere rivendicare un uso esclusivo di una porzione. La proprietà è quindi istituto relazionale e ambivalente, dato che, da un lato, è desiderata per il fatto di consentire quell’uso esclusivo, ma, dall’altro, comporta lesione della libertà negativa per chi da quell’uso esclusivo viene privato della libertà di circolazione, e la lesione di libertà negativa deve poter essere risarcita. In tale quadro, la lesione di libertà negativa corrisponde ai diritti di comproprietà di B, sicché il risarcimento del danno subito assume i caratteri di una rendita, dovuta all’essere contitolare del suolo.
Posto che tale libertà negativa –la libertà “da”, qui riferita alle appropriazioni unilaterali non vantaggiose- è in capo a ciascun uomo, tale rendita compete a ogni individuo per il fatto stesso di esistere, e quindi si tratta propriamente di una “rendita di esistenza”, spettante a ciascuno in quanto comunista (comproprietario) del suolo.
Quanto precede vale in termini analitici ipotizzando una situazione originaria, dalla quale muovere i primi passi: erezione del muro, compensazione conseguente. Ma vale anche a invalidare, proponendo un sistema di rettificazioni, la situazione attuale, nel momento in cui la grande parte degli uomini non viene compensata per il fatto di essere tenuta a rispettare forzosamente le titolarità di beni di altri privilegiati.
Emerge qui la classica distinzione tra libertà negativa e libertà positiva. I libertari di scuola liberale, infatti, vedono la lesione della libertà solo nelle violazioni di libertà negativa, la libertà “da”, ossia appunto dalla costrizione; mentre la libertà positiva sarebbe una condizione nella quale sia concreta la possibilità “di” fare, di agire concretamente. Il fatto è, si dice, che essere dotati di mezzi concreti per agire richiede un intervento che potrebbe essere coercitivo su altri al fine di ottenere quei mezzi (ad esempio, attraverso l’intermediazione dello Stato), e ciò non sarebbe compatibile con i principi libertari, i quali quindi si limiterebbero a considerare la libertà “da”. Esistono però situazioni nelle quali la libertà positiva è perfettamente riconducibile alla libertà negativa, e ciò avviene tutte le volte in cui la mancanza di mezzi concreti per agire deriva da lesioni di libertà negativa, con la conseguenza che immaginare l’attribuzione di mezzi per agire materialmente si configura come esito di un risarcimento del danno da lesione di libertà negativa.
Ecco allora che, ritornando alla simulazione della situazione originaria, noi vediamo come persone razionali, pur dotate di inclinazione libertaria, non si limiterebbero a prevedere per sé “diritti” intangibili, ma, consapevoli della fallibilità dell’essere umano, e quindi dell’inverosimiglianza che i “diritti” siano davvero sempre rispettati, introdurrebbero altresì il principio di risarcimento: nel caso che trattiamo, del risarcimento delle violazioni di libertà negativa, e, quindi, dello stabilimento di condizioni per l’effettivo esercizio della libertà positiva, ossia della libertà “di”.
Attraverso l’introduzione del principio di risarcimento, noi vediamo quindi come libertà negativa e libertà positiva finiscano con il rivelarsi due facce della stessa medaglia, e non vi sia contrapposizione analitica delle due nozioni.
Indicazioni bibliografiche

Patrick H. Nowell Smith, Etica, Firenze, La Nuova Italia, 1974 (1954).

John Rawls, Una teoria della giustizia, a cura di S. Maffettone, Milano, Feltrinelli, 1982 (1971)

R. Duncan Luce – Howard Raiffa, Games and Decisions – Introduction and Critical Survey, New York, Dover Publications Inc., 1957, ed. 1989.

Lindley M. Fraser, Economic Thought and Language – A Critique of Some Fundamental Economic Concepts, London, A. & C. Black Ltd, 1937, 183.
Albert O. Hirschman, Exit, Voice and Loyalty – Responces to Decline in Firms, Organizations, and States, Cambridge, Harvard University Press, 1970.
7.        7. Il risarcimento (o indennizzo) per lesione di libertà negativa e i cosiddetti “fattori economici impersonali”.
Per meglio comprendere tale approdo, val la pena di ricapitolare, considerando una questione molto importante, che, come Ian Carter ricorda, viene posta in particolare dagli scrittori di orientamento che egli definisce “socialista”; e cioè se “fattori economici impersonali quali la disoccupazione o la povertà” costituiscano vincoli alla libertà. La questione va impostata diversamente; soccorre in proposito il marxista analitico G. A. Cohen, il quale pone la questione della proprietà privata proprio come lesione della libertà negativa. In effetti, in termini non moralizzati, prescindendo dalla pretesa di giustificare eticamente la proprietà (con il lavoro della terra o con l’homesteading comunque inteso), si è già visto che chi erige un muro di cinta non fa che limitare la libertà di circolazione (e, richiamando l’invocazione di Rousseau  nel “Discorso”, saremmo legittimati a demolire quel muro), quindi lede la libertà negativa.
Occorre muovere da una premessa logica: le parole –né comportamenti materiali come l’impossessamento- di A non possono costituire mai unilateralmente obblighi morali o giuridici in capo a B. Ciò non comporta che gl’impossessamenti individuali siano, sempre in una prospettiva non moralizzata, a loro volta “illegittimi”, semplicemente, inferendosi dall’assioma della non giustificazione dell’obbligo unilateralmente imposto che la Terra nasce res communis e non res nullius, gl’impossessamenti comportano indennizzo nei confronti di chi in ipotesi rimanga sprovvisto, in violazione del lockean proviso, di possesso. Ovvero, a contrariis, il fatto che la lesione di libertà negativa comporti necessariamente indennizzo, diversamente essa sarebbe priva di valore, implica che si stia indennizzando il mancato possesso di qualcosa che era già anche del beneficiario dell’indennizzo, dunque res communis.
Ragiona in termini di “risarcimento” delle limitazioni di libertà Robert Nozick. Preferiamo qui la dizione “indennizzo” a “risarcimento” nel rispetto dell’approccio non moralizzato: la nozione indennizzo riguarda infatti atti leciti (si pensi alla “responsabilità per atto lecito della pubblica amministrazione”, che comporta indennizzo e non risarcimento del danno, come nel caso dell’espropriazione per pubblica utilità), mentre quella di risarcimento presuppone la qualificazione dell’atto in termini di illecito, giuridico o morale. Senonché, indennizzare i non possessori per la violazione della loro libertà negativa comporta il superamento stesso della distinzione tra libertà negativa e libertà positiva (nonché, si direbbe, della distinzione tra libertà e giustizia), dato che questa viene tutelata immediatamente attraverso l’indennizzo del danno procurato alla prima, consentendo al deprivato dei diritti sulla Terra, della quale originariamente sarebbe “comunista in senso civilistico”, il sostentamento (“rendita di esistenza”) e quindi una libertà di azione non solo in astratto, ma concretamente tale, in una situazione di “giustizia”: la libertà negativa, attraverso l’indennizzo della propria lesione, acquisisce sostanza materiale, e si sottrae alla critica degli autori di sinistra o dei comunitaristi come Charles Taylor.
Quelli che ai “socialisti” appaiono “fattori economici impersonali” rappresentano perciò vere e proprie lesioni, personali, di libertà negativa. Lo si ricava dal ragionamento sotteso al capitolo XXIV del libro I del “Capitale”, nel quale Karl Marx ricostruisce i processi dell’“accumulazione originaria”: il capitalismo inglese sorgerebbe dalla spartizione privatistica dei commons attraverso le forzose enclosures; in conseguenza di tale fenomeno, i contadini fuoriusciti venivano costretti all’urbanizzazione forzata, al vagabondaggio e alla mendicità; ma, data la feroce legislazione vigente al riguardo, quei contadini venivano di fatto trasformati costrittivamente in operai di fabbrica, e quindi in schiavi del lavoro salariato. E non, si badi, in quanto il lavoro salariato sarebbe in sé schiavitù, dato che potrebbe costituire in astratto espressione di una preferenza, o di avversione al rischio; ma in quanto lo diviene in conseguenza della costrizione che ne viene posta a fondamento: pace lo stesso Marx, quindi, lo sfruttamento non ha fondamento “economico”, ma politico-giuridico e fondato sulla forza, ossia la violazione generalizzata della libertà negativa di coloro i quali vengono costretti a farsi “lavoratori salariati” e dar vita al dumping tra proletari, tenendo cioè il salario a livelli di sussistenza, per guadagnarsi, in competizione, un “posto di lavoro” indesiderabile nelle condizioni storiche date; cosa resa inevitabile dall’assenza, ora come allora, di un indennizzo originario.
Senonché tutto ciò non può essere liquidato come “fattore economico impersonale”, ma come una serie di atti di forza e di violenza “personali” e puntuali, con responsabili, se non determinati, almeno determinabili, anche alla luce dell’insegnamento della public choice e del suo individualismo metodologico, che vede dietro la lotta politica sempre individui precisi, ognuno dei quali incentivato all’autointeresse (ad analoghe conclusioni condurrebbe un approccio realista-politico). Quale sia poi la ragione per la quale tale incentivo produca effetti opposti a quelli dell’analogo incentivo nel mercato libero teorico, ossia effetti da “mano invisibile alla rovescia”, deriva dal fatto che lo Stato non è un mercato aperto, ma un’asta chiusa monopolistica, burocraticamente organizzata, che verticalizza, distribuendole dall’alto verso il basso, le esternalità, invece di internalizzarle, come vorrebbe la scuola dei property rights; e dal conseguente elemento che gli accordi che lo costituiscono non sono scambi che avvantaggiano tutte le parti in causa, ma contratti in danno di terzo, in cui ogni beneficio o privilegio viene accordato in funzione di un danno, di un’esternalità negativa procurata ad altri ignari, dato che la legislazione non correla in modo trasparente benefici e svantaggi, ma li scinde, dimodoché, attraverso la lettura dell’alluvionale legislazione quotidianamente sfornata, non siamo mai in grado di verificare, per ogni vantaggio legislativo, chi ne sia il correlato danneggiato, e viceversa: mentre nei liberi contratti stipulati nel mercato libero le parti sono consapevoli di sé e della propria controparte, se il principio di risarcimento e il lockean proviso sono rispettati.
Tutto ciò non significa però che, in situazione originaria, i libertari stabilirebbero che le ricchezze debbano essere “uguali” tra gli uomini; abbiamo visto che la tipologia psicologica libertaria ammette un certo grado di propensione al rischio, sicché l’uguaglianza, qualsiasi cosa essa significhi, ad esempio di condizioni economiche, è una pretesa eccessiva, che, oltretutto, conduce diritti a un paradosso: solo un’autorità irresistibile potrebbe assicurare un’uguaglianza, che sia frutto di un appiattimento, che non potrebbe che essere coercitivo; ma la presenza di una simile autorità irresistibile costituirebbe già di per sé deroga all’uguaglianza (di potere), con la conseguenza che l’uguaglianza è semplicemente impossibile, se non limitata agli appiattiti, mentre l’appiattitore si ergerebbe sovrano sugli altri, appunto in deroga all’idea dell’uguaglianza delle condizioni di tutti.
La diversità di condizioni è quindi appropriata in un contesto libertario, e verrebbe ammessa in situazione originaria, dato che, una volta garantitasi una base di certezza attraverso il principio di risarcimento o indennizzo, ognuno rivendicherebbe per sé il libero esercizio della facoltà di migliorare le proprie condizioni; se non ci fosse la facoltà di differenziarsi, ciascuno in omaggio al proprio carattere, non ci sarebbe libertà; ma questa diseguaglianza è attutita dalla premessa della contitolarità del suolo a titolo di comproprietà comunista (in senso civilistico), sicché, data l’attitudine del suolo a produrre una rendita, non produce mai esiti devastanti, dato che anche il più svantaggiato tra gli uomini dispone di una porzione di Terra pro quota, e oltretutto, di conseguenza, di un retrostante monetario comune, che diviene dialetticamente fondamento del principio del libero conio, del diritto di ognuno di emettere moneta sulla base di quel capitale naturale, che diviene retrostante comune (Earthstandard). Occorre infatti considerare che la moneta, se non nasce come titolo rappresentativo di merci, però a un certo punto diviene tale, ossia simbolo rappresentativo di un capitale: invece di recarsi al mercato con un bue, il mercante vi si reca con un titolo, rappresentativo di quel capitale retrostante, e lo scambia. Ne deriva che qualsiasi bene di valore può proporsi come retrostante di moneta – lo è stato a lungo l’oro, e, come sostiene Hayek, può esserlo qualsiasi paniere di beni-, e la Terra è il più imponente capitale composto che conosciamo, ed è capitale, come si è visto, a tutti comune. Ne derivano, come vedremo via via conseguenze non di poco conto.
Indicazioni bibliografiche.
Greg A. Cohen, Self-Ownership, Freedom and Equality, Cambridge University Press, 1995
John. E. Roemer, Valore, Sfruttamento e Classe, Milano, Giuffrè, 1993.
Friedrich Engels, Anti-Dühring, Roma, Editori Riuniti, 1985.

Harold Demsetz, Verso una teoria dei diritti di proprietà, in AA. VV., La nuova economia politica americana, a cura di Francesco Forte, Milano, Milano, SugarCo, 1980 (1967).

Friedrich von Hayek,  La denazionalizzazione della moneta – analisi teorica e pratica della competizione tra valute, Milano, Etas, 2001 (1976).


8.        8. L’utile universale
E’ venuto il momento di affrontare un punto delicato e difficile, dato che pone non pochi problemi dal punto di vista della realizzabilità pratica –tanto più se il tentativo è di fornirne una rappresentazione non statalistica-, che rappresenta il portato primario del principio di risarcimento, o di indennizzo, e che quindi, da questo punto di vista, rappresenta un second best libertario, dato che presuppone che determinati “diritti” siano stati violati, con la conseguenza che il rimedio non può essere perfettamente ripristinatorio –factum infectum fieri nequit-, ossia la configurabilità di un utile universale a vantaggio di ciascun individuo. L’utile universale è, più precisamente, l’istituto in forza del quale qualsiasi attività produttiva ed economica sia condotta con l’impiego di capitale naturale, che, per le ragioni esposte, è capitale comune, comporta un riconoscimento di una quota di utile in capo a tutti i comunisti, vale a dire a tutti gli individui viventi sul suolo terrestre, i quali, in quanto comproprietari, hanno titolo a una compensazione per l’utilizzo del loro capitale. Il che potrebbe anche indurre a ritenere che, data la posta in gioco, in tal caso la violazione dei diritti sia addirittura opportuna, in quanto motore della produzione e dello sviluppo, e che il principio di risarcimento sia una risposta ottima a tale probabilmente inevitabile violazione, salvo il caso che uno non consumi risorse naturali esattamente per quanto ottiene (profitto zero).
A nostro avviso, si tratta dell’unica modalità in grado di rispettare il principio lessicografico di John Rawls, che impone il primato del principio di libertà, subordinando a esso qualunque intervento di carattere “sociale”. Più esattamente, secondo Rawls, che nella sua monumentale opera non fornisce indicazioni coerenti su come realizzare l’ambizioso obiettivo, “la libertà può essere limitata solo in nome della libertà”.
Secondo Rawls, infatti, “Occorre distinguere diverse priorità. Con priorità della libertà intendo la precedenza del principio dell’eguale libertà rispetto al secondo principio di giustizia. I due principi sono ordinati lessicalmente, e perciò le istanze della libertà devono essere soddisfatte per prime” (210). Come è noto, il secondo principio di giustizia afferma primariamente, per quanto a noi interessa, che “Le ineguaglianze economiche e sociali devono essere… per il più grande beneficio dei meno svantaggiati…” (255), ed è esattamente quanto avviene con la nostra proposta: non solo la libertà è al primo posto nell’ordinamento lessicale, ma diremmo che è all’unico posto, dato che la compensazione è fondata a sua volta su di un principio di libertà, in quanto fondamento di libertà positiva, radicato sul risarcimento della primitiva lesione della libertà negativa come sopra descritta. E si invera anche il secondo principio, dato che quanto di vantaggio economico va al più produttivo si ripercuote positivamente anche sullo svantaggiato, in quanto ritenuto comproprietario del capitale naturale che il primo impiega. Siamo qui di fronte a un’articolazione dell’ottimo paretiano (ognuno si avvantaggia dai mutamenti di situazione, non solo “non peggiora”), che possiamo definire ottimo libertario, in quanto tale massimizzazione si fonda sul primato della libertà e sulla coincidenza concettuale tra libertà negativa e libertà positiva, in quanto la seconda sia il riflesso della (violazione della) prima.
Occorre infatti considerare che, una volta stabilito che, sulla base dell’assioma libertario (nessuno è legittimato a imporsi unilateralmente sugli altri) la Terra è di proprietà comune agli uomini, ciò non vale per il solo suolo, ma per tutto il cosiddetto capitale naturale. Ne deriva che qualsiasi attività imprenditoriale, la quale faccia impiego di risorse naturali –e tutte lo fanno- sta per ciò solo impiegando nel proprio processo produttivo capitali di proprietà comune. Del resto, quella di “patrimonio comune dell’umanità” è già oggi una nozione di diritto positivo, ma essa rientra tra le nozioni di diritto spaziale, branca del diritto internazionale, sicché, in base ai trattati, la Luna e Marte sono parte di questo patrimonio comune, ma la Terra, che è il pianeta sul quale gli uomini vivono, paradossalmente non lo sarebbe, se non parzialmente (ad esempio, lo sono i fondali degli oceani).
Introduciamo così la nozione di capitale comune, che è rappresentato da tutte le risorse naturali che un’impresa impiega nel proprio processo produttivo: ad esempio, secondo la giurisprudenza della nostra Corte Costituzionale, l’etere è demanio, quindi capitale comune, con la conseguenza che un’impresa di radiodiffusione, o telefonica, o che faccia massiccio uso di internet (si pensi ad Amazon, oltre evidentemente a Google o Facebook), è impresa che fonda i propri profitti massimamente sull’uso di capitale comune, ma non corrisponde alla comunità alcunché quale corrispettivo a tale titolo “concessorio”. Anzi, assistiamo al paradosso che proprio tali colossi sono tra i minori pagatori di imposte, ma non è sulle tasse che vogliamo fondare il nostro ragionamento, dato che, come si è visto, le tasse sono un elemento fondante della coercizione, che non vogliamo nemmeno indirettamente legittimare, il che andrebbe a detrimento non solo dei grossi –i quali del resto sono abilissimi a eludere-, ma soprattutto dei piccoli, più agevolmente vessabili.
Proponiamo, invece, che ognuno, con riferimento alle risorse di capitale comune che impiega nel corso della produzione, sia tenuto a corrispondere un canone, vale a dire un corrispettivo, che avrebbe natura civilistica e non tributaria, non solo in quanto non destinato a uno Stato, il quale decida discrezionalmente come ripartirne i proventi; ma in quanto correlato e calcolato, non sul proprio reddito sulla base di aliquote prestabilite, ma sul consumo di bene comune, ossia per l’intensità dell’utilizzo, da parte di ciascun operatore economico, di suolo, sottosuolo e sovrasuolo (etere); ciò determinerebbe anzitutto un chiaro contrappeso ecologista alla produzione, dato che gli imprenditori, che non ne vengono aprioristicamente limitati nella propria ricerca di profitto, sono indotti e incentivati al minor consumo possibile di capitale comune, adottando le tecnologie più leggere possibili, proprio per evitare di corrispondere una somma eccessivamente elevata di canone; come si vede, il tema ecologico fa qui leva sull’interesse individuale e non sull’altruismo, il che pare un punto a vantaggio della proposta, tanto più che, in regime di concorrenza, l’imprenditore più ecologista può tenere più bassi i propri prezzi e trionfare sul mercato rispetto a concorrenti meno rispettosi dell’ambiente; si tratta di una declinazione libertaria del principio chi inquina paga, fondata primariamente sul principio dell’obbligo di indennizzo, che accompagna le esternalità negative.
Si tratterebbe quindi di operare dei conteggi, assegnando un valore globale al capitale comune impiegato nel processo produttivo –e quindi emergerebbe il ruolo dei periti e degli esperti di estimo, i quali fissino prezzi sulla base di un’econometria simile a quella di Oskar Lange-, scomputandolo dal “prodotto mondiale lordo”, e assegnando di conseguenza a ciascun cittadino mondiale la quota di propria spettanza. Se l’operazione su macroscala non pone eccessivi problemi pratici, se non di attribuzione della relativa competenza, più complicato è stabilire quanto di canone, e a chi, debba versare ciascun imprenditore.
Una prima possibile obiezione salta infatti all’occhio: una siffatta necessità non potrebbe che finire con il restaurare l’autorità, vanificando il conato, operato in situazione originaria, di dar vita a una situazione indivisibile libertaria e non autoritaria: si tratta infatti di acquisire dati con modalità diffusa e di elaborarli, nonché di stabilire in capo a ogni utilizzatore di risorse naturali un obbligo di pagamento del relativo canone, pena la mancata convalidazione del suo diritto reale, che quindi si esporrebbe alla contestazione, e sarebbe affidato esclusivamente alla reputazione o al rapporto di forza: quest’ultimo profilo non pone particolari difficoltà teoriche, dato che consegue de plano dal principio di risarcimento, che abbiamo visto pacificamente accolto in sede di situazione originaria libertaria. Più problemi pone l’aspetto organizzativo, dato che qualcuno potrebbe sostenere che staremmo per ricostituire “lo Stato”, e che qualsiasi alternativa allo Stato sarebbe comunque “uno Stato”, oltretutto particolarmente intrusivo, sotto mentite spoglie.
In realtà si tratterebbe di un’attività tecnica del tutto vincolata, priva di discrezionalità o di libertà politica; ma se l’uomo (sia pure il libertario) fosse non si dice un angelo, ma dotato, per impiegare un’espressione di Baron-Cohen, di superempatia, ognuno verserebbe sua sponte il canone di propria spettanza, traguardo al quale ci si potrebbe avvicinare evolutivamente per via consuetudinaria, attraverso punizioni alla reputazione per chi non paga; ma noi siamo partiti da una premessa di “non utopia”, di relativa diffidenza tra gli uomini, sicché abbiamo stabilito che nemmeno i dotati di inclinazione libertaria siano eticamente perfetti, e quindi è logico che in situazione originaria deliberino anche second best –per meglio dire, si delibera il criterio dell’utilità dei second best-, che prevedano implementazione anche forzosa degli obblighi pattuiti a fronte di quelli che si sono convenzionalmente stabiliti essere dei diritti, cercando al contempo di massimizzare il quadro concorrenziale, nel quale queste implementazioni si situino.
Se ci accontentassimo di una contrattazione decentrata la questione sarebbe meno problematica, ma, se si vuole un istituto che valga indistintamente per tutti, si tratta di intendersi: l’inclinazione libertaria non esclude il formarsi di una qualsiasi istituzione, ma solo di istituzioni che rivendichino il monopolio della produzione giuridica, di istituzioni che ambiscano a divenire monopoliste tendenzialmente di tutto sul territorio, ed è solo tale quidditas a caratterizzare lo Stato; non impedisce invece il formarsi di istituzioni deputate a singoli scopi, le quali ammettano del resto concorrenza nell’esercizio delle relative funzioni. Non c’è alcuna necessità, infatti, che le istituzioni deputate alla raccolta dei dati siano in forma monopolistica, dovendo i dati essere sempre “interpretati”, con la conseguenza che una pluralità di opinioni in concorrenza non solo sarebbe ammissibile, ma addirittura opportuna anche con riferimento a un’attività tecnica.
Si possono perciò ipotizzare common Trust in sede locale, le quali raccolgano autocertificazioni sul consumo di risorse naturali e che le sottopongano a verifica a campione sulla base di parametri discussi e noti, e che questi dati siano immessi in un elaboratore comune “confederativo” che operi i conteggi; ma tale attività sarebbe comunque aperta alla contestazione e alla concorrenza, dato che non si impedisce a nessuno di proporre conteggi alternativi, sulla base dei quali aprire il confronto; né si richiede un potere centrale di implementazione, perché questa potrebbe essere anche diffusa, come lo sarebbero partecipazione e discussione sui conteggi stessi.
Saremmo quindi al di fuori delle pretese monopolistiche di uno Stato, il quale, come abbiamo rilevato altrove, mira a divenire monopolista di ogni cosa e vieta la concorrenza nelle funzioni sovrane. In tale contesto, invece, qualsiasi funzione sarebbe affidata alla concorrenza –sul punto si tornerà-, compresa quella di calcolo, pur in presenza di un elaboratore condiviso, nel quale confluiscano varie proposte, il quale le compari sulla base di criteri discussi e partecipati, stabilendo quanto i produttori debbano versare a titolo di canone e, di conseguenza, le quote spettanti in capo a ciascuno.
Ovviamente, anche tale esiti sarebbero contestabili, e ognuno potrebbe proporre conteggi alternativi, aprendo la relativa discussione; si potrebbe anche ipotizzare che, su scala locale, si avvii una contrattazione collettiva orientata dalle diverse fonti di calcolo, che quindi avrebbero valore solo indicativo e non prescrittivo, se non in via residuale, ossia per i casi di assenza di contrattazione locale: bisogna fare il possibile perché questa “concessione” non comporti il formarsi di un’autorità irresistibile su scala mondiale, sicché non sia attribuito alcun potere imperativo, ma solo orientativo.
Si consideri, del resto, che, come abbiamo anticipato, stiamo discutendo di un istituto di second best, oltre che di transizione verso una più matura situazione di pieno libero conio, in cui ognuno, per così dire, emetta da sé il proprio “utile universale” sulla base della propria reputazione, oltre che del retrostante comune rappresentato dal capitale naturale, situazione alla quale farebbe seguito dialetticamente, in regime di abbondanza e una volta che ognuno potesse davvero emettere propria moneta, quella della gratuità. Tutti gli istituti fondati sul principio di risarcimento sono dei second best, dato che partono dal presupposto che dei “diritti”, o comunque delle situazioni giuridiche soggettive giudicate degne di protezione, siano state violate; ma in situazione originaria si prende in considerazione anche tale ipotesi, come si è visto, sicché elementi di imperfezione sono inevitabili in una vita reale.
Per contro, non vi sarebbe bisogno di alcuna organizzazione particolare, se il sistema dei prezzi fosse posto in condizione di operare correttamente, ossia in modo tale da introiettare anche tutti i costi dell’impronta ecologica, con la conseguenza che l’acquisizione di risorse del capitale naturale possa rispecchiare effettivamente nel prezzo il costo effettivo arrecato alla comunità: in tal caso, l’utile universale emergerebbe spontaneamente proprio dal meccanismo di formazione dei prezzi; ma ciò presuppone una qualche forma di predefinizione dei diritti di proprietà, anche comunitaria, per evitare fenomeni come il land grabbing, e in modo tale che ogni deminutio ambientale consenta di riconoscere il proprio danneggiato, che verrebbe compensato, il che è un altro argomento a favore di una visione decentrata dell’istituto, comunità per comunità: in tal caso, l’utile universale non sarebbe uguale per tutti nel mondo, ma varierebbe in funzione del consumo locale delle risorse naturali.
Se ciò semplifica il quadro, per altri versi lo complica dal punto di vista dei principi, dato che non è un “merito” vivere in zone ricche di capitale naturale, anche se è pur vero che si instaura un legame affettivo humeano tra una comunità e il proprio territorio, con l’implicazione che il depauperamento viene sentito come sofferenza maggiore proprio al livello locale. Si tratta quindi di individuare un punto di equilibrio tra le due esigenze, ossia quella di riconoscere ognuno come comunista pro quota della Terra, e quella di rispettare i legami tra l’individuo, la comunità, e il territorio su cui vive, senza che ciò comporti l’istituzionalizzazione del territorio quale elemento costitutivo degli ordinamenti in chiave monopolistica. Per ovviare a questo inconveniente, si potrebbero allora imputare a dei Common trust globali i conteggi relativi al consumo di determinate risorse tipo (petrolio, oceani, etc.), o addirittura la contrattazione diretta con gli operatori, in modo tale che la compensazione sia poi ripartita pro quota tra tutti, e ognuno sia abilitato a spendere il corrispettivo del consumato: l’universalizzazione dell’istituto sarebbe, per così dire, un first best del second best, e tuttavia occorre stare attenti a che il meglio non sia nemico del bene.
Per altro verso, si potrebbe obiettare: perché indennizzare un brasiliano per una risorsa consumata in Africa e viceversa? Può apparire una forzatura, ma è questa una conseguenza del ritenere patrimonio comune dell’umanità il mondo, con la conseguenza che l’Africa è anche del brasiliano, così come il Brasile è anche dell’africano: il vantaggio sta nella reciprocità delle compensazioni. Certo, di fronte a danni ambientali plateali, le comunità direttamente lese rivendicheranno un risarcimento ulteriore, ad esempio a titolo di danno morale, oltre che patrimoniale, e qui vale quanto si è detto a proposito della configurabilità di un più maturo sistema dei prezzi, più efficace nell’introiettare tutti i costi locali, nonché i riflessi economici dei comportamenti illeciti.
Superate le difficoltà, va detto, peraltro, ammettendo che a ognuno sia resa disponibile una carta di credito, che lo ponga in grado di spendere la relativa quota di utile –ritratto allo specchio del libero conio-, agire in tal senso non è certo “obbligatorio”; non si impone cioè a nessuno un determinato stile di vita, non lo si impone ai Pigmei o agli aborigeni australiani, i quali, volendo, potrebbero viaggiare per il mondo, frontiere permettendo, ma anche starsene lì dove sono, a vivere come hanno sempre vissuto. E’ questa una ipotesi di soluzione anche per i primitivisti alla Zerzan, i quali rifiutano in toto l’odierna società tecnologica e dei consumi, e vagheggiano un ritorno all’epoca dei cacciatori e dei raccoglitori, al cui stile di vita vorrebbero improntare la propria: potrebbero benissimo farlo, pur disponendo potenzialmente della propria quota di utile universale, elaborata avendo in mente le capacità produttive della società di oggi, in modo tale che la misura di quell’utile non è autoritativamente prefissata, ma affidata totalmente alle dinamiche di mercato: maggiore è il “prodotto mondiale lordo”, maggiore è il consumo di capitale naturale, maggiore sarà la quota di utile universale spettante a ciascuno.
Se tutto quanto precede delinea un’ipotesi di strutturazione dell’istituto dell’utile universale in un contesto libertario, va detto che già oggi, e non solo in chiave futuribile, operano fondamenti che autorizzano il riconoscimento di qualcosa di simile (diciamo un basic income incondizionato), se non altro perché il principio di risarcimento è già oggi vigente, anche se non ne sono state indagate tutte le implicazioni.
Si tratta, in particolare, di fondare su tale principio il contratto sociale, ipotetico e virtuale, che si colloca alla base della costituzione di ciascuno Stato. Come si è visto, Robert Nozick fonda sul principio di risarcimento nientedimeno che la formazione stessa dello Stato, con ciò incorrendo in grave aporia, dato che lo Stato, per chi lo percepisce come un’invasione, non rappresenta un risarcimento, ma una doppia imposizione: la prima imposizione è il divieto di farsi giustizia da sé per gli “indipendenti”, la seconda è l’imposizione dello Stato come monopolistico fornitore del servizio vietato.
Si noti che, per Nozick, un simile Stato sarebbe “minimo”, ma non si comprende in base a quale ragionamento uno Stato “minimo” dovrebbe occuparsi “solo” di giustizia e polizia a tutela dei diritti di proprietà, e non, magari, “solo” di sanità o di assistenza agli anziani, trattandosi in ciascun caso di “beni pubblici”, che si pretende sottostiano identicamente, o comunque non con differenze apprezzabili, alla dottrina economica; con la conseguenza che lo Stato, una volta che si sia appropriato del monopolio della produzione giuridica e si sia incaricato di realizzare i “beni pubblici”, finirà con l’occuparsi di ciascuno di essi, e cesserà di essere “minimo”, per la tendenza insita nel dominio a espandere il proprio potere, legge bronzea che conosciamo dai tempi di Botero.
Tanto più che Nozick ammette il lockean proviso e il conseguente principio di rettificazione della validità dei titoli di proprietà vigenti, con la conseguenza che il suo Stato “minimo” non si limiterebbe a “tutelare” i diritti di proprietà, ma passerebbe il tempo in tale operazione di rettificazione, e quindi non sarebbe particolarmente timido sul piano dell’intrusività, al di là delle intenzioni del filosofo, che non spiega come si possano implementare altrimenti quei principi in un contesto statualizzato.
Ne deriva che la costituzione dello Stato, il massimo violatore istituzionalizzato della libertà negativa, dovrebbe comportare un risarcimento netto sul piano dell’attribuzione a ciascuno dei presupposto per l’esercizio della libertà positiva, attraverso la corresponsione di una somma di denaro, unico “risarcimento” immaginabile, essendo l’unico che consente a ognuno di esprimere poi le proprie preferenze sul mercato, acquistando altresì, sempre sulla pase delle proprie preferenze, quote di bene pubblico, oltre che di bene privato.
Possiamo definirlo questo il “fondamento democratico” dell’utile universale, o comunque del basic income, strettamente connesso alla costrizione, che viene operata nei confronti di tutti, a partecipare allo Stato, ente per eccellenza ad “appartenenza necessaria”, il quale non solo non compensa questa privazione, ma, anzi, pretende esso di essere compensato con la tassazione. Ora, è interessante notare che anche tale fondamento democratico riposa su di un capitale comune, il demanio, che, in regime di sovranità popolare, appartiene pro quota a ciascun cittadino.
Superando antiche concezioni, che consideravano il demanio non contabilizzabile in quanto espressione della sovranità –e la sovranità sarebbe extra commercium-, contabilizzando il fair value del demanio statale, e degli altri enti territoriali, nello stato patrimoniale dei relativi bilanci, si darebbe emersione a un formidabile (cfr. art. 822 c.c.) retrostante monetario di proprietà comune, il quale autorizza, sulla base del principio di eguaglianza di fronte alla legge, la corresponsione a ciascun cittadino –comproprietario, per la ragione detta, del demanio- di una rendita, o addirittura di un utile, se il demanio viene reso in qualche modo profittevole (royalties sui marchi, derivati, o altre soluzioni finanziarie), com’era del resto ai tempi dello Stato patrimoniale, quando il sovrano traeva rendite da esso e poteva trattenersi dal premere sulla tassazione; salvo che oggi il demanio, da capitale personale del sovrano, è divenuto capitale comune al popolo, a sua volta sovrano, il quale però, a oggi, non ne trae alcun beneficio. Nell’odierna realtà, tale proposta sconta una difficoltà pratica, se stiamo alla Repubblica Italiana, ossia che lo Stato è privo di sovranità monetaria attuale, essendo l’emissione monetaria riservata alla Banca Centrale Europea, espressione suprema di quello Stato finanziario che si è costituito con la denominazione di Unione Europea.
Ma ciò introduce immediatamente un altro piano di discussione: tale rivendicazione di monopolio, infatti, è platealmente lesiva della libertà di libero conio, sicché, semmai, ricade sulla BCE –tanto più che, attraverso il Quantitative Easing, essa è divenuta creditrice dello Stato italiano, il cui demanio opera di fatto quale garanzia del debito- l’obbligo del relativo risarcimento, attraverso il principio detto dell’helicopter money, della quale pure gli economisti hanno discusso, trovando eco persino nella stessa BCE.
La centralità, nel nostro disegno, dell’istituto dell’utile universale è rappresentata dalla vexata quaestio dei beni pubblici, alla quale si è già accennato.
La necessità che questi siano realizzati diviene infatti public goods argument for the State, consistente nella diffusa convinzione che il mercato e la comunità spontanea siano destinati a fallire nella produzione dei beni pubblici, e quindi sia indispensabile un’autorità centrale coercitiva hobbesiana per realizzarli; si tratta, a nostro modo di vedere, di un falso problema.
La realizzazione dei beni pubblici diviene il fondamento giustificativo moderno della sovranità, dato l’estendersi a infiniti settori della relativa nozione. Ma l’idea che gli uomini, da soli –quindi la dottrina dei fallimenti del mercato è non dissimile di quella della tragedy of commons-, non siano in grado di realizzare quello che viene ritenuto il bene pubblico primario per difetto di fiducia reciproca, la sicurezza, risale, nella modernità, quantomeno a Hobbes, secondo il quale gli uomini, constatata questa loro incapacità, danno vita a un patto costituente del potere sovrano, al quale sottomettersi in vista di un bene superiore, il bene pubblico, appunto.
La concezione moderna di bene pubblico come giustificativo dell’intervento dell’autorità risale almeno al classico lavoro del Samuelson del 1954, per il quale per beni pubblici –l’economista fa ricorso alla dizione “beni collettivi”- si intendono i beni indivisibili, inescludibili nella fruizione e privi di rivalità nel consumo, producenti esternalità; se ne è ricavato che, mentre il mercato sarebbe efficiente nella realizzazione di beni privati divisibili, non riuscirebbe invece nella realizzazione di beni a fruizione superindividuale, in quanto si scontrerebbe coi limiti di capacità di cooperazione da parte degli individui, con trionfo viceversa del free-riding e del dilemma del prigioniero paralizzante.
Senonché esiste ampia letteratura su modalità di realizzazione del bene pubblico da parte della comunità e del mercato, tanto più alla luce dell’evoluzione tecnologica, che consente di rendere divisibile e spartibile ciò che un tempo non si riteneva tale, sicché la nozione diviene relativa e non cogente; dando vita all’esito paradossale, che, una volta che la tecnologia renda escludibile una risorsa (ad esempio l’acqua), proprio la dottrina samuelsiana diviene giustificativa del contrario delle intenzioni, ossia della privatizzazione.
Molta di questa letteratura proviene da ambienti libertarian, che mettono al centro la funzione imprenditoriale nella realizzazione di tale tipologia di beni e, del resto, il leitmotiv del pensiero anarco-capitalista è che non esiste funzione svolta dallo Stato, che non possa essere affidata al mercato, e noi condividiamo tale impostazione, del resto condivisa, nei fondamenti, dagli anarchici classici, salvo sostituire il termine “mercato” con il termine “comunità”: ma sempre di realizzazione spontanea e non coercitiva si tratta.
Dove però invece cade l’argomentazione anarco-capitalista, quando parla di libero acquisto della propria quota di bene pubblico sul mercato? Cade sul punto che, a oggi, molti non dispongono delle risorse necessarie per accedervi: sanità, previdenza, ma anche giustizia: non c’è dubbio che l’anarco-capitalista è sufficientemente persuasivo, quando argomenta che ciascuno di tali servizi può benissimo essere fornito in regime di libera concorrenza, ma resta silente quando gli si fa notare che i più non dispongono delle risorse necessarie a tale scopo; sicché il vero public goods argument for the State finisce con il divenire la povertà; e lo Stato si giova di tale più moderna giustificazione, l’andare in soccorso ai poveri, pur essendo inevitabilmente dominato dai forti.
Occorre quindi dare una risposta al problema della miseria e delle più radicali disparità di reddito, che sia condotta con argomenti di libertà, ed è quanto ci siamo sforzati di fare delineando i presupposti della nostra proposta di utile universale: solo su tale base, e non su altre, si potrà finalmente discutere senza pregiudizi di un libero mercato dei beni e dei servizi pubblici.

Indicazioni bibliografiche.

Thomas Paine, La giustizia agraria (1797), in AA.VV., Reddito di cittadinanza, a cura di Nunziante Mastrolia e Maria Teresa Sanna, 2015, Licosia Edizioni.
Philippe Van Parjis, Reddito di cittadinanza. Ragioni a confronto (1992), in Reddito di cittadinanza, cit.
Vilfredo Pareto, Compendio di sociologia generale, Torino, Einaudi, 1978.
Paul Samuelson, The Pure Theory of Public Expenditure, in The Review of Economics and Statistics, Vol. 36. N. 4, Nov. 1954.

9.        9. La questione del diritto naturale e il problema della morale.
E’ noto come sia diffuso tra libertari di tendenze anche diverse appellarsi al “diritto naturale” a sostegno delle proprie tesi. In realtà, l’idea del diritto naturale è un’idea antica, poi molto diffusa nel pensiero cattolico, per la quale esistono principi morali ultimi immutabili, derivanti dalla natura dell’uomo e delle cose, dai quali sarebbe possibile ricavare more geometrico, attraverso il retto uso della ragione, le regole della giusta convivenza umana; si tratta, come si vede anche solo da questa descrizione, di una dottrina troppo ambiziosa, per non dire pretenziosa.
Come sottolineò Norberto Bobbio, il giusnaturalismo si fonda su poche proposizioni, forse di una sola, e tutto il resto è corollario. Se è una sola, essa è molto probabilmente “fai il bene, evita il male”, una formulazione fatta apposta per mettere d’accordo tutti, come certi enunciati della politica internazionale, che impiegano termini deliberatamente generici per ottenere l’assenso di controparti agguerrite. Ciò in quanto sarebbe nella natura dell’uomo perseguire il bene, con la conseguenza che un principio supremo che ribadisse questo concetto sarebbe inevitabilmente conforme a essa, e a quello occorrerebbe tenersi ancorati. Emergono immediatamente due obiezioni: a) Non tutti sono necessariamente votati al bene; se, per un libertario, il “bene” è la libertà e il “male” la coercizione, abbiamo visto come solo una parte degli uomini siano dotati di inclinazione libertaria, con la conseguenza che molti uomini, più o meno carenti di empatia, sono votati al “male” della coercizione e della supremazia.
Ne deriva che dalla “natura umana” non sono ricavabili univocamente precetti di libertà, ma tanto precetti di libertà, quanto precetti di autorità, senza che si possa dire che gli uni siano “naturali” e gli altri no: se è naturale, nel senso di conforme alla natura umana, la libertà, è altrettanto naturale, per le ragioni dette, l’autorità, la quale si nutre oltretutto di credenze costitutive diffuse, come quella, ad esempio, che il monopolio sarebbe la forma efficiente di soluzione del nodo gordiano politico: lo Stato, per dirne una. Non è dunque alla “natura”, tantomeno a quella umana, che ci si possa affidare per invocare il carattere normativamente precettivo della libertà, ma, semmai, a un’attività di dinamica posizione del diritto in senso libertario. V’è poi una seconda obiezione, e cioè che b) Se anche tutti fossero dotati di inclinazione libertaria –e quindi votati a quello che per i libertari è il bene- quella generica indicazione non sarebbe di alcun ausilio nella soluzione dei casi concreti dubbi e limite, tant’è vero che vi sono una grande quantità di risposte diverse al riguardo, e solo il concorso delle diverse ipotesi in un libero dibattito può condurre a un qualche risultato utile, che non consente affatto di fare affidamento su principi eterni e “immutabili”; dato che, se questi sono tali, è ciò solo in virtù della loro vaghezza e, in definitiva, inutilità, se non nei limiti dell’indicazione di una buona intenzione di partenza.
A non migliori risultati si perverrebbe se gli enunciati, invece di uno, fossero tre, ad esempio honeste vivere, neminem laedere, unicuique suum tribuere: anche a tale proposito, infatti, i consensi sarebbero prima facie universali, salvo dividersi, quando si tratta di stabilire, nei casi concreti, che cosa sia “onesto” nella vita di oggi, in cui i contesti sono pregiudicati rispetto a un’ipotetica situazione di giustizia originaria, che cosa rappresenti di conseguenza “lesione”, e che cosa spetti a ciascuno in una “giusta” ripartizione delle risorse in contesti simili.
Vero è, invece, che ogni qualvolta principi riconducibili ai principi giusnaturalisti, segnatamente a quelli relativi ai “diritti naturali individuali”, sono stati solennemente affermati, si è dovuto ricorrere al diritto positivo: si pensi alle dichiarazioni dei diritti delle due rivoluzioni, l’americana e la francese, o alla dichiarazione universale dei diritti umani dell’ONU, che ha segnato, secondo un’opinione diffusa, l’irrompere del “diritto naturale” (cioè di alcuni principi supremi di ragione, però di fatto non ancora vigenti) nel diritto positivo.
Fermo restando che, anche oggi che si tratta teoricamente di diritto positivo, quei principi sono largamente disapplicati, il che revoca in serio dubbio il loro carattere di “naturalità”, dato che la loro implementazione è viceversa oggetto di una difficilissima, e alterna, battaglia politica. Perché possano essere ritenute effettivamente vigenti, infatti, quei principi dovrebbero non solo invalidare in astratto le scelte normative che vi si pongano in contrasto, ma anche vedere riconosciuta nei fatti tale invalidazione, tanto sul piano formale, quanto su quello materiale: il che qualche volta avviene, ma nella più parte dei casi no, dato che non si ha certo l'impressione che i diritti umani siano davvero rispettati, nel nostro mondo.
La legge in vigore nella realtà ha quindi ben poco a che vedere con quei principi fondamentali di libertà, e, quindi, con i principi di diritto naturale, dei quali sono incarnazione. Non c’è nessun nesso, quindi, contrariamente a quanto sosteneva l’ottimista libertario americano del XIX secolo Lysander Spooner, tra legge naturale, che in sé non vige, o comunque non ha forza autosufficiente per potere vigere, e legge di gravità, o altre leggi esse sì naturali (ad esempio, velocità della luce), che invece vigono di necessità.
In ambito libertario moderno, una certa fortuna ha arriso all’”assioma di non aggressione” formulato da Murray Rothbard, salvo che, se il postulato iniziale è indovinato come illustrazione dei contorni di un principio ricavabile dall’inclinazione libertaria, non lo sono altrettanto tutte le implicazioni che l’autore ne ricava geometricamente, tanto sul fronte dell’attribuzione e del riconoscimento storico dei diritti di proprietà, quanto su quello dell’individuazione di che cosa debba intendersi per “aggressione”, eccessivamente connotata in senso “fisicalistico”: ossia ignorando tutta una serie di questioni riguardanti l’incidenza sulla psiche di possibili azioni coercitive, che tuttavia hanno innegabilmente ricadute a loro volta fisiche di sofferenza anche grave: si pensi ai casi della diffamazione e della violazione del diritto morale d’autore, che un libertarian “fisicalista” non potrebbe condannare sul piano del diritto naturale, se non ricorrendo a escamotages contrattualistici, che non risolvono il problema di fondo, ossia quello se sia in sé lecito o illecito procurare danni a terzi, anche gravi, attraverso queste modalità.
Tuttavia non si tratta più che di opinioni, a ulteriore dimostrazione che un’ultima parola non è mai pronunciabile, nemmeno quando si pretende di formulare con rigore le implicazioni di un supposto principio di diritto naturale come l’assioma di non aggressione, che, per altro verso, può anche essere un principio gradito ai libertari, salvo il permanere di casi dubbi, ma che non può, per le ragioni dette, radicarsi su alcuna “natura umana” universale e inequivoca, essendo questa pluralistica, contraddittoria e non univoca.
L’invocazione della retta ragione come metodo di indagine, per ricavare regole specifiche da quei principi generalissimi, è poi insufficiente, se si tralascia che i nostri sentimenti morali sono anzitutto frutto irrazionale, o almeno non razionale, delle nostre emozioni; e, per quanto vi sia simiglianza tra gli uomini, queste emozioni sono soggettive e differiscono da individuo a individuo, sempre alla luce dell’inclinazione fondamentale di ciascuno; sicché poi ognuno agirà ponendo proprio diritto, coerente e consistente con la propria inclinazione, che, evidentemente, non è necessariamente quella libertaria.
Riteniamo che la morale si radichi infatti sugli stati emotivi, sull’impatto che sul nostro sistema neuronale e sulla psiche hanno determinati eventi nei quali ci immedesimiamo, non tanto come “osservatore imparziale”, ma proprio direttamente in quanto soggetto coinvolto, se non personalmente, almeno emotivamente. Tali emozioni danno vita a sentimenti, che vengono via via elaborati dalla ragione cognitiva, la quale consente di formulare linguisticamente delle massime morali. Ma, e in questo Hume ha la meglio su Kant, la ragione è al servizio della passione, dell’emozione e del sentimento, non li sostituisce; con la conseguenza che, essendo soggettivi passione, emozione e sentimento, l’elaborazione razionale dei loro portati morali è del pari soggettiva, sicché l’ambizione all’universalizzazione dei relativi enunciati paga uno scotto in termini di inadeguatezza dell’esito linguistico ultimo. Ne consegue che, nella realtà pratica, si instaura un “mercato” dei giudizi morali, e la morale oggettiva effettivamente vigente è un’emersione risultante, che sconta la diversità dei punti di partenza, mescolando orientamenti anche molto diversi, proiezione, come al solito, della convivenza di personalità autoritarie e libertarie, combinate oltretutto in varia misura in ciascuno di noi. Sicché verrebbe da chiedersi se, in un’ipotetica società di post-umani, che fossero totalmente privi di emozioni, potrebbe parlarsi di discorsi morali, che, in tal caso, sarebbero affidati interamente al ragionamento, un ragionamento, però, che sarebbe totalmente gelido e distaccato dal profondo dell’uomo.
Soccorre in proposito la considerazione che, a porre attenzione, i dilemmi morali sono sempre funzioni della scarsità della risorsa (in senso lato e anche metaforico) da assegnare. Si tratta di un carattere comune a tutte le istituzioni, a ben vedere, dato che lo stesso vale per il diritto, lo Stato e il mercato, ossia ogni qualvolta vi sia qualcosa da ripartire che non sia abbondante, perché in tal caso tutti ne potrebbero attingere liberamente. La situazione soggettiva che emerge, in questi casi, non è il diritto soggettivo, ma l’interesse legittimo, ossia un’aspettativa volta al sacrificio fisiologico, data l’assenza di risorse sufficienti a soddisfare tutte le pretese in campo. Emerge così la questione dei casi dubbi e dei casi limite, quelli che rappresentano un rompicapo per tutti i filosofi morali, e che non è detto che una filosofia libertaria sia meglio di altre in grado di risolvere, non certo in base a incerti e contestabili diritti preliminari di proprietà. Siamo ai limiti dello stato di necessità, che risolve tutti i rapporti preesistenti, in quanto è in gioco la sopravvivenza, e quindi assistiamo a una sorta di “liberi tutti”, in cui ognuno si ritiene legittimato ad agire come meglio crede, senza in alcun modo considerare interessi e pretese altrui.
Irrompiamo così nelle questioni dette del trolley problem, situazioni in cui si è costretti a scegliere tra due mali, uno supposto maggiore e uno supposto minore, e non tra bene e male. Per esempio, nel classico esperimento mentale della triste scelta del fare morire –con azione od omissione- una persona –trattata, direbbe Kant, come mezzo, e non come fine in sé- per salvarne cinque, una macchina o un post-umano senza sentimenti opterebbero meccanicamente per il sacrificio dell’uno sulla base di un principio quantitativo, mentre un essere senziente non potrebbe prescindere dall’emozione, e, in particolare, dal sentimento che lo lega a quella persona: e se fosse suo figlio? Nessuno potrebbe rimproverarlo di averlo salvato, anche sulla base della considerazione che il valore di una vita umana è infinito, e ha poco senso opporre che quello di cinque persone varrebbe cinque infiniti. Anche se si potrebbe opporre che, salvando più persone, si limita la sofferenza complessiva, dato il più elevato numero di familiari e amici, che verrebbero complessivamente coinvolti.
Il caso limite è ben poco ipotetico, se si considera che su queste questioni si stanno interrogando i progettisti della nuova automobile senza pilota Google, e una delle opzioni in campo è quella di sacrificare il trasportato, che in genere sarebbe il proprietario dell’auto, per salvare un numero superiore di persone in potenziale pericolo (ammettiamo che quell’uomo fossi io: avrei da ridire in radice su come viene in genere impostato il trolley problem): quindi, la fredda razionalità dei progettisti, che somiglia a quella della più ottusa macchina di intelligenza artificiale, giunge a sacrificare la vita del proprio cliente, il quale aveva fatto affidamento sull’acquisto di quel prodotto non certo per venirne ucciso da una decisione, presa sulla base di una “razionalità” semicolta da istituto tecnico; come dimostra anche il fatto che queste automobili sono programmate per rispettare alla lettera il codice della strada, quando la sociologia del diritto ci racconta della maggiore efficienza di una certa quota di trasgressione rispetto a segnaletiche poco razionali, che non di rado accompagnano il nostro percorso, così come in genere è funzionale un certo grado di trasgressione alla rigidità della legge: cosa che una macchina di intelligenza artificiale faticherebbe a comprendere, a meno che non fosse programmata anche per sindacare la ragionevolezza della norma che deve rispettare.
A parte tale caso limite, in cui il “proprietario” è nientedimeno che la vittima designata della scelta, non si deve però pensare che il criterio proprietario sia di per sé un criterio valido per risolvere i casi limite, come ritiene Rothbard, e ciò per la semplice ragione che i titoli di proprietà oggi esistenti sono molto dubbi nei fondamenti storici, sicché pare ardito attribuire al proprietario addirittura un potere di vita o di morte. Semplicemente, nei casi limite, non esiste soluzione nell’ambito della dottrina dei diritti, se non nei limitati termini dell’indennizzo per il danneggiato: i diritti sono tutti risolti dall’inesigibilità, e scatta la lotta bruta per la sopravvivenza, ovvero il senso morale soggettivo dell’agente decisore, quando questi sia estraneo alla contesa. E nemmeno l’utilitarismo originario ci fornisce una soluzione, in quanto filosofia espansiva, sulla ripartizione di risorse positive –per John Stuart Mill, il massimo numero di persone possibili, delle quali si doveva volere la felicità, erano “tutti”-, ma non ci dà risposte, se non grevemente quantitative, su giochi a somma zero o negativa.
In realtà, l’esempio principe proposto, quello di Churchill nella seconda guerra mondiale, ci dice che il vero carattere di questo tipo di scelte –ossia se fare morire una persona o un certo gruppo di persone in quanto “quantitativamente” inferiore rispetto a un altro gruppo di persone- ha valenza di guerra, o comunque politica, dato che, come notò Locke, “politica” è, in ultima analisi, decidere della vita e della morte delle persone. Ma ben di rado la scelta politica e di guerra si fa condizionare dalla morale: se Churchill ha scelto, in una data occasione, di fare morire “meno persone” l’ha fatto per “contenere le perdite”, per motivi strategici e non etici, quindi, non certo per scrupolo morale.
L’estrema difficoltà di soluzione nei casi limite analitici si coglie da questo esempio: qualcuno ha installato una bomba talmente potente da fare saltare il pianeta; il responsabile viene fermato, e si tratta di decidere se torturarlo per fargli rivelare dove ha collocato la bomba. Si tratta di un dilemma molto problematico, dal punto di vista libertarian mainstream, che, in quanto teoria deontologica sui diritti, dovrebbe tutelare anche il diritto dell’attentatore a non essere torturato, benché ci sia un dubbio su questo, dato che, pur in quell’ambito si potrebbe individuare una proporzione tra il danno subito attraverso la tortura, e il danno da evitare dell’esplosione del pianeta. In realtà la vera soluzione al dilemma etico ci è fornito, ancora una volta, dai principi del diritto, dato che il caso indicato sembra proprio rientrare nella legittima difesa come anche oggi codificata. Semmai, ci si dovrà sforzare di contenere al massimo possibile il danno per il torturato, limitando il male allo stretto indispensabile.
Ma proviamo a chiederci se invece si tratti di torturare un innocente, il quale sia però informato sulla collocazione della bomba. Si può danneggiare un innocente? I principi del diritto ci dicono che ci troviamo in una situazione di stato di necessità, e lo stato di necessità risolve i diritti, riportandoci alla lotta per la sopravvivenza. In stato di necessità, secondo il codice penale, anche l’innocente perde i propri diritti, perché si tratta di una situazione da “stato di natura” pre-attribuzione dei diritti: come si vede, la scienza del diritto ha individuato una soluzione, alla quale i filosofi morali non sono giunti con altrettanta chiarezza e lucidità. Questo in linea di pura astrazione, perché ovviamente, ammettere la tortura in concreto darebbe vita a un piano inclinato, che non ci consente di attribuire poteri simili a poteri che, nella pratica, rinforzerebbero la violenza dello Stato in modo indiscriminato; ma, naturalmente, il dilemma etico non presuppone necessariamente che si stia parlando dello Stato, potendosi riferire a qualsiasi soggetto agente, al quale compete, semmai, di non oltrepassare determinati confini all’atto di compiere l’atto difensivo.
Estremizzando, si potrebbe sostenere che, anche fuori dai casi limite, qualsiasi scelta dell’uomo della strada, anche quelle minute, abbia rilevanza etica, dato che, per ogni scelta, ci si potrebbe chiedere se non ve ne sia una migliore dal punto di vista morale, ad esempio una che aumenti il tasso di libertà complessiva –o, per meglio dire, riduca il livello di coercizione-, rispetto a una acquiescente nei confronti di un sistema di non libertà. Ogni agente morale si trova quindi nella condizione di dovere comparare due o più stati del mondo ipotetici e sceglierne uno, benché la maggior parte delle scelte quotidiane avvengano con una certa meccanicità. Tuttavia, ragionando in linea puramente teorica, per ogni scelta compiuta ve ne potrebbe essere un’altra migliore, tanto più in situazioni in cui l’assegnazione di diritti scontasse gravi limiti, dovuti all’impossibilità che una tale assegnazione non sconti il sacrificio di posizioni astrattamente non meno degne, e quindi ci si trovi innanzi a situazioni in cui vi siano “beni” da bilanciare, uno o più dei quali vada sacrificato.
Ciascuno effettua, anche inconsapevolmente, confronti interpersonali o interreali di utilità ogni qualvolta agisce, ma, se ciò avviene nel rispetto del quadro “libertario” delineato, tali azioni sono rilevanti o irrilevanti dal punto di vista etico? Se esse sono libere e non comportano coercizione nei confronti di terzi, ha senso porsi il problema della loro moralità astratta, o la morale, rispetto a tal genere di azione, non ha assolutamente nulla da dire?
Tali atti restano pienamente leciti, tuttavia nulla esclude che si possa dar vita a esperimenti mentali per comparare azioni possibili, per ragionare attorno l’ipotesi che una di esse, e non un’altra, aumenti il grado di libertà o di cooperazione complessivo, e allora emergono le categorie del ribelle e dell’acquiescente, perché l’acquiescente non sarà contestativo nei confronti del mondo come lo conosciamo, e allora non contribuirà a migliorare le condizioni di tutti, anzi, rischia di peggiorarlo, perché, nel momento in cui avalla lo status quo, lo rinforza, concorrendo alla formazione di una situazione indivisibile illibera.
Con ciò non si vuole pretendere che ognuno sia investito dal sacro fuoco dell’impegno in ogni propria azione, tuttavia non si può fare a meno di notare che le sorti della libertà sono più affidate all’iniziativa, se intelligente e non controproducente, del ribelle, che non a quella rinunciataria dell’acquiescente, il quale, per altro verso, è vincente, in quanto più dotato della capacità di adattarsi al mondo, anche a costo di soffocare, quando posseduta, la propria naturale vocazione libertaria.
Tuttavia, un giudizio comparativo su condotte, tutte astrattamente “lecite”, ma dalla conseguenze diverse, e per certi versi opposte, pare configurabile. Il consequenzialismo prende qui una rivincita dal punto di vista libertario; vale a dire che, comparando due condotte, entrambe rispettose dei principi libertari come li abbiamo delineati, si può concludere che una sia preferibile all’altra proprio per quanto comporti in termini di incremento o diminuzione della coercizione complessiva, ovvero per il fatto di lasciarla inalterata; del resto, ogni comportamento incide sulla reputazione, quindi la scelta dell’uno o dell’altro assume significato anche sotto tale profilo.
Normalmente, il punto di vista etico, come del resto il diritto penale, attribuisce importanza alle intenzioni dell’agente, in funzione della previsione sulle conseguenze attese, ma qui stiamo parlando dell’efficacia dell’azione, che può travalicare le intenzioni, dato che un’azione ribelle, adottata con le migliori intenzioni libertarie, può rivelarsi nella pratica totalmente inefficace, quando non dannosa (ad esempio un atto di ribellione fallimentare), mentre, al contrario, un’azione apparentemente neutra, adottata senza alcuna intenzione particolare dall’uomo della strada, può ottenere risultati superiori da quel punto di vista, anche al di là del proposito.
Ma il vero problema è quello delle scelte tragiche, in cui emerge prepotentemente il profilo della scarsità: come assegnare le risorse, quando ciò comporta il beneficio di qualcuno in danno di qualcun altro? Conosciamo un ampio dibattito in tal senso, ma esiste una risposta libertaria al dilemma? Libertario è rispettare la dignità di tutte le persone coinvolte in un calcolo morale, ma può ben capitare che una tutela integrale di ciascuno si riveli impossibile all’atto pratico: ad esempio, ammettiamo che un ospedale disponga di un solo posto letto libero, o di una sola incubatrice libera, mentre i pretendenti sono più di uno. L’assegnazione della risorsa scarsa inevitabilmente premia qualcuno a discapito di un altro. C’entra la libertà in questo ragionamento, o essa vale solo ad attribuire al decisore il pieno diritto di decidere sulla base delle sue proprie intuizioni morali? Ad esempio, la risorsa potrebbe essere assegnata in ordine di arrivo, o sulla base di chi ha più bisogno; ma ammettiamo che due persone siano giunte contemporaneamente e abbiano identico bisogno; a questo punto, il decisore potrebbe agire sulla base della simpatia, o magari dell’estetica, degli interessati. Oppure potrebbe odiare i ricchi (o i poveri) e assegnare la risorsa al povero (o al ricco).
Si tratta certo di criteri contestabili, od opinabili, ma occorre ammettere che la “libertà” ha poco da dirci, è poco utile come criterio ultimo in grado di giudicare il criterio adottato, e ciò deriva dal suo carattere prettamente formale, che riguarda la condizione di chi effettua  una scelta, e non la scelta direttamente; sicché si apre la strada per dibattiti in cui valgono altri criteri, dato che l’inclinazione libertaria non spiega tutto, limitandosi a rilevare in quanto dottrina della competenza, ossia sull’attribuzione della facoltà di decidere, oltre che come dottrina della condizione di libertà del decisore.
Ad esempio, in materia di bioetica, si pongono non di rado problemi su chi sia competente a decidere sulle sorti di malati terminali, come è stato nel caso del piccolo Alfie. Qui emergono i due distinti problemi morali: a) la scelta da effettuare; b) la competenza a prendere la decisione. Se il criterio libertario principe è quello di rispettare la volontà, ove espressa o ricostruita, dell’interessato, di fronte però a un neonato, che non è in grado di esprimere la propria opinione, quanto alla scelta occorrerebbe trovare un criterio che simulasse l’opinione che non c’è, immedesimandosi nel soggetto, e le risposte possono essere le più diverse: ad esempio, si potrebbe ritenere che l’interessato non avrebbe alcuna intenzione di vivere nella sofferenza e preferirebbe morire, oppure che potrebbe esprimere un desiderio di vita comunque, nel momento in cui stia lottando biologicamente per la sopravvivenza. Nel formulare il giudizio, ognuno non può quindi che parlare per sé, immaginando che cosa vorrebbe per sé in quella situazione.
Quanto alla competenza, il problema che si pone è se attribuire primario rilievo alla volontà dei genitori, o a quella dei medici, o di istituzioni pubbliche come i tribunali. Il tribunale simula l’ipotesi del decisore imparziale, che quindi dovrebbe tenere conto dell’opinione dei medici, ma anche di quella dei genitori; un’altra opzione è quella di attribuire un qualche ruolo alla comunità, estendendo la partecipazione alla decisione a soggetti, che si sentono comunque coinvolti in quanto potenzialmente interessati, e che si immedesimano, ad esempio, nella situazione dei genitori. Il limite di questi coinvolti è il difetto di competenza tecnica, tuttavia l’unica soluzione possibile, che sia per un minimo coerente con principi libertari, è che si apra il più ampio dibattito tra i competenti, nella consapevolezza, a sua volta “libertaria”, però, che anche l’uomo della strada è portatore di intuizioni morali che potrebbero rivelarsi valide, o comunque rispettabili. Se ne trae conferma in letteratura dalla cosiddetta filosofia sperimentale, che dimostra come le opinioni morali dell’uomo della strada non si rivelano necessariamente “peggiori” di quelle dei filosofi morali di professione.
Un caso limite, prospettato dal filosofo morale Derek Parfit, è quello della donna incinta di due gemelli, uno dei quali, si scopre, è privo di entrambi gli occhi. Il quesito che viene posto è se si debba, potendo, operare i due feti, in modo da attribuire a ciascuno un occhio, sapendo che ciò consentirà a entrambi di vivere una vita abbastanza soddisfacente, mentre la vita del bambino senza occhi sarebbe pessima (così la prospettazione del caso).
Il libertario mainstream dirà che il gemello con entrambi gli occhi ha il diritto a conservarli, e peggio per l’altro. L’egualitario opterà per l’opzione un occhio per uno. Parfit non nota, però, che si dà un’altra opzione, quella che la donna abortisca selettivamente il gemello senza occhi, evitandogli ab origine una vita disperata. Come si vede, riemerge qui il profilo della competenza, che, nel caso dell’aborto viene attribuita interamente alla donna, in quanto soggetto interessato dalla gravidanza, e quindi titolare della facoltà di decidere se portarla innanzi. Imporre a una persona uno stato fisico indesiderato sarebbe infatti un’opzione peggiore, dal punto di vista libertario, dato che implicherebbe un grado di coercizione intollerabile, e ciò anche indipendentemente dallo statuto da attribuire al feto, questione del resto metafisica.
Che cosa succede, però, se la donna è contraria all’aborto? Possiede questa il diritto di ripartire gli occhi tra i due gemelli? E’ sua la competenza di decidere, o di entrambi i genitori? La comunità ha qualcosa da dire al riguardo? Dal punto di vista dell’intuizione morale, chi scrive opererebbe un bilanciamento tra le due condizioni e, tutto considerato, opterebbe per l’opzione “egualitaria” in considerazione delle sue conseguenze (attribuire a entrambi una vita degna di essere vissuta pare uno stato del mondo migliore che lasciare uno dei due in stato di disperazione); ma, si ripete, dal punto di vista libertario il primo tema è quello della competenza, che un libertario molto obtorto collo attribuirebbe a organi dello Stato come i tribunali, in quanto ciò comporterebbe, di fatto, l’attribuzione allo Stato della proprietà del corpo umano, il che pare indesiderabile. Quale sia, indipendentemente dalla competenza, la scelta “giusta”, invece, resta sempre questione molto opinabile, in casi come questi, e dottrine deontologiche e consequenzialiste continueranno a confrontarsi senza sosta. Ma il nostro punto è che non esiste alcun “diritto naturale” che possa fornire indicazioni utili a risolvere casi appena complicati, se non nel limitatissimo senso di prescrivere di sforzarsi di agire e di decidere nel modo che si sente essere il migliore possibile (fai il bene, evita il male).
Certo, se il decisore è vincolato da uno schema normativo, come ad esempio un giudice, egli ne sarà orientato, ma nella più parte dei casi egli opererà correttamente se procederà attraverso una comparazione e un bilanciamento degli interessi, tenendo conto dei principi di rango superiore, che sono, come detto, i diritti umani, una volta che questi siano entrati, per via internazionale, nell’ordinamento giuridico di ciascun paese; ovvero, nel caso degli USA, spetterà alla Corte Suprema dire l’ultima parola, sulla base dei principi costituzionali, che comprendono i diritti previsti dai vari “emendamenti”: tutto ciò non rappresenta ancora “diritto libertario”, ma certo dovrebbe, o potrebbe essere, almeno in teoria, diritto libertariamente orientato, stante il contenuto di quei diritti supremi e dei criteri previsti per il bilanciamento degli interessi, quando questi introiettino i supremi diritti umani.
V’è poi l’etica libertaria minimale, rispettare gli impegni presi, adempiere ai contratti –ovviamente nei limiti della loro validità: un codice civile ha molto da insegnare a certi libertarian, feticisti della firma apposta-, e così via. Non si deve pensare, però, che tutto ciò sia affidato alla sola morale; anche chi fosse intenzionato ad agire in contrasto con tali principi, infatti, sarebbe sottoposto alla reazione altrui, e meglio lo si vedrà affrontando la questione del diritto. Ma v’è anche una morale positiva ulteriore? Ad esempio, quanto da noi sostenuto sull’utile universale è implicazione stretta dell’inclinazione libertaria come da noi intesa, ma è anche esito di un’intuizione morale; ma un anarco-capitalista contrario alla rendita di esistenza e all’utile universale, che affida la tutela del povero esclusivamente alla beneficenza del ricco, a nostro avviso dovrebbe prendere in seria considerazione il dovere morale dei ricchi di fare beneficenza ai poveri; e ciò per due fondamentali ragioni, proprio dal punto di vista anarco-capitalista: in primo luogo, come ammette Rothbard, oltre a Nozick, i titoli di proprietà attuali dei più ricchi sono nella più parte dei casi illegittimi, in quanto frutto di favoritismi storici da parte delle istituzioni statuali: Nozick e Rothbard, in modo diverso, ammettono addirittura la rettificazione di questi titoli, sia pure con notevole difficoltà; ma allora, se non si vuole giungere al loro esproprio, quantomeno si radichi in capo a questi ricchi il dovere morale di contribuire a favore dei poveri; ma c’è di più: è anche loro interesse procedere in tal senso, dato che lo Stato si nutre, tra le altre giustificazioni più o meno mistificatorie, proprio di quella della tutela del debole. E allora, se non si vuole che lo Stato si ricostituisca o si alimenti, che almeno gli si tolga questo profilo di legittimazione, il che, oltretutto “terrebbe buoni” i poveri. Ma la verità è che, se gli anarco-capitalisti sono contrari allo Stato per ragioni ideologiche, non lo sono affatto i capitalisti reali, che dallo Stato traggono primaria tutela. E quindi il secondo profilo è solo teorico, forse valido per un anarco-capitalista coerente, ma non per un detentore di ricchezze attuali, salvo che non sia moralmente motivato in modo significativo.

Indicazioni bibliografiche.
Norberto Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Bari, Laterza, 2011.
Alessandro Passerin d’Entreves, La dottrina del diritto naturale, Milano, Comunità, 1980.
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László Mérö, Calcoli morali – Teoria dei giochi, logica e fragilità umana, Bari, Edizioni Dedalo, 2000 (1996).
Ronald Dworkin, I diritti presi sul serio, Bologna, Il Mulino, 1982 (1977).
Fabio Massimo Nicosia, L’interesse legittimo come pretesa a una quota del bene comune in regime di scarsità, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2012.


10.     10. Problemi libertari nel diritto.

Al di là delle simulazioni analitiche delle varie situazioni intersoggettive, se c’è qualcuno che pretende di imporre i propri contenuti normativi agli altri, questo è evidentemente il soggetto Stato, la cui legislazione ha la pretesa non comune di costituire unilateralmente (e quindi dovrebbe applicarsi il principio dell’interpretatio contra stipulatorem) obblighi nei confronti dei cittadini, e non solo. Si è detto che, in linea generale, il “tu devi” di A non costituisce obblighi in capo a B. Ovviamente, ciò vale, anche e soprattutto, se A è lo Stato e B il cittadino; da questo punto di vista, lo Stato è l’istituzione consacrata alla negazione del principio di reciprocità: lo Stato, infatti, a differenza di ogni altro agente del mercato, pretende di imporre le proprie esternalità verticali, dall’alto verso il basso, senza accollarsene i costi, e senza corrispondere alcun risarcimento o indennizzo, e ciò attraverso la normazione, che esso vive come fossero degli “imperativi”.
L’imperativismo, ossia la concezione, per la quale la legge rappresenterebbe un comando del sovrano, è un’antica concezione (si pensi a John Austin), che, considerata valida oggi, sarebbe espressione di un modo alquanto volgare di intendere il positivismo giuridico. Pare evidente che subito ci si interrogherebbe sul fondamento di legittimazione politica di questo comando -oltre che sulla possibilità di sindacarlo-, e che cosa lo autorizzi a porsi come fonte di obblighi in capo ai cittadini e, in genere, agli individui. Evidentemente, la formula politica democratica non è sufficiente a risolvere la questione, dato che, da un punto di vista libertario, non può essere il fatto di promanare da una maggioranza –o, per meglio dire, da una minoranza che si assume in rappresentanza della maggioranza- che un “comando” possa ritenersi vincolante per un individuo, il quale non ne condivida in pieno fonte e contenuti.
Si entra qui in questioni di teoria generale del diritto, che qui ricostruiamo molto sommariamente; e allora la mente vola subito a quello che è considerato il teorizzatore principe del positivismo giuridico, vale a dire Hans Kelsen, secondo il quale il carattere di obbligatorietà della norma giuridica si fonda sulla sua “validità”, e una norma è valida quando si inserisce in un ordinamento giuridico a sua volta valido, vale a dire “autorizzato” (da chi?), che è quanto lo distingue da una qualsiasi banda di briganti; la quale, dotata di solo senso soggettivo e non oggettivo, esercita coercizione senza essere autorizzata. Ma su cosa si fonda l’ordinamento giuridico autorizzato? Sulla propria efficacia, prosegue Kelsen, vale a dire sulla propria valenza effettiva, la propria “vigenza”, sulla propria capacità di esistere nel mondo dei fatti in quanto ordinamento giuridico, ossia su di una Grundnorm.
Ecco allora che non si elude la questione: la validità e, quindi, l’obbligatorietà dell’ordinamento e delle sue norme, si fondano sulla forza, sulla loro capacità di imporsi nei fatti. Con la conseguenza che una costruzione che si vuole teoricamente molto sofisticata finisce con il ricadere nell’imperativismo bruto: un ordinamento è obbligatorio in quanto abbia forza sufficiente per imporsi, tanto è vero che l’obbligatorietà della norma giuridica viene ricondotta al fatto che essa preveda una sanzione, che però l’ordinamento deve essere in grado di implementare, di inverare nel mondo dei fatti, attraverso la loro trasformazione nei termini indicati dalla norma.
La norma valida è infatti “vincolante”, e l’uomo “deve” comportarsi nel modo previsto dalla norma. Tale modo di vedere la questione è stato osteggiato dai realisti giuridici, in primo luogo da Alf Ross, che vedeva in tali dichiarazioni di doverosità degli elementi spuri, nel mondo del diritto, tanto da fargli parlare in proposito di “quasi positivismo”, e non di positivismo laico e razionale. In realtà, affermare che la norma dello Stato va “obbedita” –spiegheremo presto il senso delle virgolette-, solo in quanto il suo ordinamento è dotato della forza irresistibile per imporsi, sfocia nel legalismo etico, per cui lo Stato (per Kelsen il diritto si identifica con lo Stato) diviene fonti di imperativi morali, ai quali attenersi. Kelsen lo nega, ma nel momento in cui fonda la validità sull’efficacia, efficacia in quanto effettiva vigenza del sistema, non sfugge alla critica di fare del soggetto empiricamente più forte la fonte, solo in quanto soggetto effettivamente forte, di obblighi e di doveri per i suoi destinatari: una doverosità fondata interamente sulla forza sembra davvero una cattiva morale.
A onor del vero, Kelsen non sostiene che esista un obbligo morale di obbedire alle leggi, né un obbligo giuridico distinto dal mero fatto della previsione di una sanzione, perché ragiona dal punto di vista interno all’ordinamento e non da quello dei destinatari; tuttavia introdurre il linguaggio della doverosità, trattando di norme giuridiche, dà vita a un inquinamento concettuale non da poco; dato che, al di là del fatto che l’ordinamento, dal suo punto di vista, preveda una sanzione a fronte di una data condotta, non spiega ancora in che senso uno dovrebbe non adottare quella condotta, al di là del consenso, da un lato, o del rapporto di forza, dall’altro.
A nostro avviso, il problema trova soluzione sul piano dell’analisi del linguaggio, che ci consente di escludere che le norme giuridiche pretendano obbedienza ai propri enunciati. Prendiamo in esame una qualsiasi norma giuridica, la quale concorra a costituire, con le altre, un ordinamento giuridico; ebbene, noi non vi troveremo pressoché mai enunciati formulati attraverso la forma linguistica dell’imperativo, o della doverosità, se non negli esempi più arcaici o in casi marginali, ma per lo più proposizioni vergate con la forma descrittiva.
La norma giuridica non dice mai “Ti comando di non uccidere”, ovvero “E’ obbligatorio, è doveroso non uccidere” (questo avviene con la religione), ma, semmai, “Chi uccide è punito alla pena x”. Si tratta della “descrizione” di un fatto ipotetico futuro, di un’ipotesi empirica, che va poi verificata sul campo. Lo Stato indica a se stesso, non ai consociati, come reagire nel caso in cui i consociati adottino una determinata condotta. Va sottolineato che la gran parte dei teorici del diritto mainstream non ha mai preso sul serio siffatta forma dichiarativa, asserendo che la “dichiarazione” reca con sé un imperativo implicito, ma si tratta di un modo per eludere la questione e fare un passo indietro rispetto a quella che è una conquista di ragione.
Semmai, affermare “Chi uccide è punito” rappresenta una minaccia (se uccidi, ti punirò), ma la minaccia non ha alcuna forza obbligante, semmai costrittiva (la distinzione è netta) nei confronti del destinatario, al di là del consenso con il suo contenuto (i più condivideranno l’idea di non uccidere, ma si pensi a molte altre previsioni normative che possono vantare molto minore consenso), ovvero, più spesso, del rapporto di forza. Non solo il libero arbitrio resta intatto, ma anche dallo stesso punto di vista dell’ordinamento, non si dà alcun obbligo giuridico o morale riconnesso di per sé alla norma, ma solo avvertimenti su possibili conseguenze, tutte da verificare. E allora il contenuto della norma dovrà essere sufficientemente adeguato, in quanto formulazione linguistica, alla realtà empirica, in modo che il suo impatto sia conforme a quell’autodescrizione, mostrandosi così disposizione dotata di efficacia.
Il diritto è adeguato in quanto sia in grado, tanto in quanto articolazione linguistica, quanto per il suo essere rappresentativo degli stati di cose sui quali si propone di incidere, di collegarsi efficacemente con il mondo, consentendo la propria effettiva vigenza con il successo della scelta più opportuna rispetto all’indicazione normativa; e il punto è che il sindacato dell’adeguatezza può condurre a esiti imprevedibili, alla luce dei sacri principi contenuti nelle norme di rango superiore. Emerge qui la questione della gerarchia delle fonti, sulla quale non ci possiamo soffermare, tuttavia si è già ricordato che, con la codificazione internazionale dei diritti umani, al primo posto della gerarchia si vengono a collocare proprio questi, con l’apertura di importanti prospettive dal nostro punto di vista. Salvo che, tra i diritti umani codificati, v’è proprio quello di non essere costretti a fare parte di associazioni (art. 20, c. 2, della dichiarazione dell’ONU), il che vorrebbe dire avere messo teoricamente fuorilegge lo Stato come lo conosciamo (“ente ad appartenenza necessaria”), con tutti i problemi di implementazione di un simile generalissimo principio, che è facile immaginare.
Ma immaginiamo che, come vorrebbe l’idea pura di “Stato di diritto”, in cui, come in Hugo Krabbe, il governo del diritto prevalesse su quello degli uomini, il diritto formalmente vigente lo fosse anche effettivamente: molto probabilmente, un simile esito sarebbe possibile solo se all’”uomo” (al governante, al giudice, all’amministratore, al politico) fosse sostituito un elaboratore di intelligenza artificiale, incaricato di attuare davvero tutto il diritto formalmente in vigore in un dato momento nell’ordinamento giuridico; si possono immaginare due risultati: o l’ordinamento imploderebbe sotto il carico delle sue contraddizioni, rivelando l’ineffettività dell’ordinamento stesso, nel conato stesso di bilanciare davvero tutti gli interessi, astrattamente presi in considerazione dalle sue norme; ovvero, se l’elaboratore fosse ben programmato nell’assicurare il rispetto delle norme di rango supremo, l’ordinamento stesso, ai livelli più bassi, verrebbe invalidato nel suo complesso per contrasto inevitabile con quei sacri principi, tanto elevati da non potere essere inverati da un ordinamento materiale fondato sulla minaccia contraddittoria a rispettare gli interessi più disparati: sicché resterebbero solo i principi supremi in quanto coerenti, da chiunque attingibili in concorrenza, e si tratterebbe di ordinamento libertario, proprio alla luce del contenuto astratto, che è in grande parte di libertà, di quei principi supremi.
A parte tale considerazione, che evidenzia il carattere utopico dell’idea che il governo della legge possa essere altro da un governo degli uomini –sicché dal punto di vista descrittivo Carl Schmitt prevale su Kelsen-, tanto più in un contesto pretesamente monopolistico, va detto che, riducendo il contenuto della norma giuridica sanzionatoria ad attestazione di una minaccia, il cittadino –il consociato, l’individuo- resta totalmente libero di agire come ritiene, valutando le conseguenze pratiche del proprio operato: abbiamo introdotto, a tale proposito, la nozione di disobbedienza incivile, per intendere l’atteggiamento non eroico di chi, sulla base di un calcolo costi/benefici, si assuma il rischio di non ottemperare alla minaccia normativa, falsificando sul campo la relativa pretesa. Ma in realtà non si tratta di disobbedienza in senso proprio, non rappresentando la norma un imperativo o altrimenti una fonte di obblighi, ma di un agire volto a eludere il suo contenuto minaccioso, sicché la relazione non è tra ordinamento e uomini, ma rapporto, solo mediato da quell’articolazione linguistica che sono le norme, tra uomini di potere, da un lato, e uomini che ne sono privi, dall’altro.
Altro è l’ordinamento dello Stato, altro sono io, e viaggiamo su binari diversi, dato che io potrò sempre scegliermi, sempre che ne abbia la forza, criteri di azione difformi –o solo eventualmente conformi- rispetto a quelli previsti dalle sue norme, e potrei sempre costituire ordinamenti alternativi –Santi Romano ha mostrato come anch’essi siano fonte di diritto-, che si propongano di fare concorrenza, sul mercato giuridico, rispetto all’ordinamento dello Stato, che è “impresa” dominante, ma presume eccessivamente di sé, quando pretende di essere l’unica fonte del diritto. E questo vale non solo nel modello ideale, ma già oggi, in regime di statualità.
*****
I teorici del diritto mainstream, in genere e con poche eccezioni (si pensi a Bruno Leoni), non mettono in discussione il monopolio nella legittimazione della produzione giuridica, con la conseguenza che, in tale materia, si è formato un senso comune, che tende a escludere che il diritto possa essere materia di concorrenza. Nostra idea, a tale proposito, è che, al contrario, ciascun singolo individuo sia fonte diretta e immediata di produzione giuridica, per la semplice ragione che la “capacità giuridica”, la capacità di effusione normativa, è un attributo proprio di qualsiasi individuo: ognuno è dotato dei requisiti fondamentali per “porre diritto”, una ragione e una dotazione di forza fisica, volta a fare rispettare quanto deliberato, a minacciare sanzioni e a punire, oltre che a stipulare. Ogni atto fondato sulla ragione è atto di posizione di diritto, è diritto di fonte individuale autonoma, “diritto soggettivo”, quindi. Diritto invece “oggettivo” è l’esito inintenzionale, dall’emersione, delle interazioni tra gli individui, che si scambiano minacce e proposte di astensione sull’uso della forza.
Il monopolio è consustanzialmente inefficace e inefficiente a porre diritto oggettivo –in realtà si tratta del diritto “soggettivo” dell’agente Stato-, proprio perché la capacità giuridica, ed etica, è propria di ciascun singolo individuo, e solo fittiziamente può essere concentrata in un soggetto collettivo, mentre il mercato (libertario) è la rete delle interazioni negoziali tra gli individui. Ogni individuo, nell’interagire con gli altri, avanza una propria ipotesi normativa e la sottopone al vaglio altrui; il diritto oggettivo che emerge dal confronto con gli altri è quindi frutto e risultante dal bombardamento reciproco dei diritti soggettivi, che si ripercuote a propria volta sulla realtà sottostante, proponendosi quale insieme di standards orientativi nel caos delle condotte individuali, che vanno alla ricerca di parametri di certezza, ai quali ancorare la propria iniziativa.
Ognuno, per altro verso, produce esternalità, ma in misura infinitamente inferiore di quanto possa fare un monopolista del diritto, dato che le esternalità interindividuali vengono contrattate e ricontrattate, mentre quelle del preteso monopolista –preteso, perché essendo la forza una risorsa diffusa, la sua concentrazione risulterà ineffettiva, per cui non siamo di fronte a un vero monopolio, ma, come abbiamo argomentato altrove, a un mero abuso di posizione dominante nel mercato della forza e della legittimazione- sono imposte unilateralmente.
Il monopolista è quindi solo preteso, dato che la forza, e la ragione in grado di elaborare criteri di legittimazione del suo impiego, sono risorse pandesposte, ossia appartenenti a ciascuno degli uomini. Il realismo giuridico ci dice che per diritto deve intendersi quanto prevediamo sarà stabilito dai giudici; ma tutti siamo “giudici”, sicché la scienza giuridica dovrebbe anzitutto occuparsi dell’azione umana in quanto fonte di atti ricostruibili in termini giuridici. Del resto, il linguaggio giuridico non è che linguaggio comune tecnicizzato (autorizzazione, assicurazione, pena, etc.), e ognuno agisce in modo riconducibile a quelle categorie: ognuno autorizza, assicura, punisce (o prova pena) e così via.
Non solo: l’uomo può associarsi, e dare più forza al proprio diritto unendosi con altri, ponendo la propria proposta normativa e confrontandola con quella di altri individui e associazioni. Certo, se ragioniamo in termini di inclinazione libertaria, il discorso viene agevolato: le differenze di contenuto normativo tra un gruppo e l’altro non saranno radicali, e in caso di contrasto non sarà difficile trovare un componimento arbitrale. Su questo assunto, si fonda la proposta anarco-capitalista delle cosiddette “agenzie di protezione”, ognuna delle quali sarebbe incaricata di implementare un sostanzialmente identico, tranne i particolari, “codice libertario” (in genere riconducibile alle proposte del nume Murray Rothbard). Ma quid iuris se le proposte normative delle diverse agenzie si rivelano del tutto incompatibili? La libera concorrenza, che presuppone, nella sua forma pura, il carattere identico del servizio fornito (quindi la concorrenza perfetta sarebbe possibile solo tra agenzie normative volte a implementare codici libertari), sarebbe sostituita da un conflitto permanente, e l’esito sarebbe la ricostituzione dello Stato, con un processo di formazione e di consolidamento dell’agenzia dominante meno edulcorato di come crede di potere illustrare Robert Nozick.
Quale esempio di conflitto possibile, si può indicare il fatto che gli anarco-capitalisti mainstream non considerano che le loro agenzie di protezione, volte alla tutela dei diritti proprietari, implicano come riflesso l’anarco-sindacalismo, dato che i non proprietari, anche dallo stesso punto di vista anarco-capitalista, non hanno minore diritto di coalizzarsi e di tutelare i propri interessi, e di contrattare con le agenzie incaricate di tutelare i proprietari: i proprietari, a differenza di quanto ritengono gli anarco-capitalisti, sarebbero particolarmente deboli, in un simile contesto, ossia privi della tutela della proprietà fornita dallo Stato; si tratterebbe di un conflitto aperto, con periodici scontri tra agenzie, alternati a momenti di tregua, senza che i proprietari possano chiamare a propria tutela la polizia del monopolista della forza. L’anarco-capitalista risponde che i diritti di proprietà sono diritti naturali, però non solo non è persuasivo sulla loro protezione, ma è anche evidente che altri possano avere concezioni diverse della proprietà (ad esempio una proprietà fondata sul consenso e che non implichi sfruttamento) e battersi per esse. Del resto, si è visto che gli anarco-capitalisti non propongono alcuna soluzione al problema sociale, che non sia la discrezionale beneficenza volontaria del ricco nei confronti del povero, ed è per porre rimedio a tale grave lacuna, che abbiamo elaborato il concetto sopra illustrato di utile universale, che si rivela soluzione a tutto campo –l’importanza del denaro…-, anche cioè ai fini normativi che qui ci occupano: è evidente, infatti, che minori disparità di reddito avvicinerebbero anche i contenuti normativi delle diverse agenzie in campo, le soluzioni contrattuali e arbitrali ne verrebbero agevolate, e i conflitti di gran lunga ridotti.
Certo, resteranno differenze anche profonde di carattere culturale, ma sarà rimossa la prima causa di conflitto, che è quella tra chi ha qualcosa da difendere e chi non ha nulla da perdere.

Indicazioni bibliografiche.
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Hugo Krabbe, The Modern Idea of the State, New York, London, D. Appleton, 1922.
Bruno Leoni, Oscurità e incongruenze nella dottrina kelseniana del diritto, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, 1960.
Fabio Massimo Nicosia, Il sovrano occulto – Lo “stato di diritto” tra governo dell’uomo e governo della legge, Milano, Franco Angeli, 2000.
Fabio Massimo Nicosia, Beati possidentes, Macerata, Liberilibri, 2004.
Fabio Massimo Nicosia, L’abusiva legittimità – Dallo Stato ai common trust, Genova, De Ferrari, 2017.

11.     11. Conclusione: quadro di oggi e prospettive.

Da quanto precede, emerge come l’inclinazione libertaria contempli il mercato. Il mercato è la rete dei negozi giuridici, intessuta tra tutti gli individui che occupano il globo. Esso non presuppone che siano predefiniti diritti di proprietà, dato che, come abbiamo visto, esistono interazioni economiche già in regime di comunione della Terra. I diritti di proprietà individuali, infatti, scaturiscono da quelle interazioni, attraverso la compensazione del sacrificato dagli impossessamenti individuali. Più esattamente, quindi, il proprietario individuale è un usufruttuario rispetto a una proprietà che l’assioma libertario (l’impossibilità per A di imporre unilateralmente obblighi a B) vuole comune.
Il mercato, però, è una funzione della scarsità. Ipotizzando infatti che ci sia tanta terra a disposizione di chiunque, consentendo a ciascuno di impossessarsene di una porzione, non ci sarebbe bisogno di questa compensazione. Il mercato è una modalità di spartizione di risorse scarse, come dimostra il fatto che se di un bene –in ipotesi, il pane- vi fosse piena abbondanza, non ci sarebbe bisogno di spartirlo tra gli individui, potendo ognuno appropriarsene liberamente, secondo il modello della presa nel mucchio comunista.
Questo è un approdo al quale potrà giungersi solo quando l’automazione delle macchine, sostituendo la pena del lavoro, potrà produrre beni in abbondanza, in modo tale che ognuno possa appropriarsene senza necessità di compensare altri; ancora per un lungo periodo, tuttavia, ciò non sarà, se non gradualmente per alcuni beni e non per altri, ma, a quel punto, sarà giunto il momento di riverificare la legittimità dei titoli di proprietà delle macchine, e così eventualmente “rettificarli” a vantaggio di tutti, come del resto ammettevano tanto Nozick quanto Rothbard. Fino ad allora, per i beni che continueranno a essere scarsi, nella nostra proposta continuerebbe a operare il criterio di ripartizione del mercato, con ogni conseguente disuguaglianza anche economica –ossia, non solo dovuta a elementi di carattere personale- tra gli individui, con il rimedio dell’utile universale, che rende non devastanti le conseguenze della diseguaglianza. Ma anche ipotizzando che, un giorno, tutti i beni divengano abbondanti nella società delle macchine, e che ciò renda possibile il comunismo (libertario), di mercato potrà continuare a parlarsi, con riferimento alle azioni umane, al loro scambio, alle interazioni personali, alle effusioni individuali di carattere e di forza sulla base delle differenti personalità: anche il comunismo (libertario) –si pensi a Luigi Galleani- ammetterebbe le più articolate differenziazioni di preferenze.
Di “mercato” si possono però proporre due nozioni distinte, una prescrittiva, corrispondente al mercato libertario, nel quale siano rispettate tutte le restrizioni sopra indicate, e una descrittiva, che abbia a mente il mercato come oggi lo conosciamo. V’è poi un’accezione epistemologica, che emerge quando si studiano le relazioni umane come relazioni di mercato, utilizzando il relativo linguaggio degli economisti: si veda il caso di Gary Becker, che ricostruisce sulla base di categorie economiciste qualsiasi interazione umana. Ma il mercato è anche la sede, intendendo la concorrenza in un’accezione non necessariamente economicista, anche della compresenza di stili di vita diversi, di epistemologie diverse in competizione, la sede della tolleranza nei confronti di visioni diverse dalle nostre. Persino l’anarchico Errico Malatesta fece l’apologia del “libero commercio”, cogliendovi proprio questo elemento costitutivo della libera sperimentazione.
Il “mercato” attuale, però, ha ben poco a che vedere con quello libertario, dato che le assegnazioni dei titoli di proprietà, nella storia, non sono avvenute nel rispetto delle restrizioni libertarie, ma sono avvenute sulla base di appropriazioni forzose, favorite da istituzioni come lo Stato, che rivendicano il monopolio della coercizione, sulla base di proprie leggi, che sono, nella più parte dei casi, vere e proprie leggi-provvedimento a vantaggio ora di questo ora di quello. Lo Stato, in particolare, favorisce il costituirsi di monopoli e di situazioni protette nel mercato, e si propone direttamente come soggetto suo, ma con l’inefficienza propria di chi rivendica l’esclusiva forzosa in molti settori: brevetti, concessioni, copyrights, marchi, industria bellica, industria della realizzazione delle opere pubbliche, sono tutte forme di capitalismo sostanzialmente di Stato, o, quantomeno, che non potrebbe prosperare senza il forte ausilio dello Stato: è estremamente complesso, nell’attuale stato di cose, di compenetrazione tra capitalismo reale e istituzioni pubbliche, distinguere le interazioni davvero volontarie da quelle inquinate dalla coercizione, essendo la presenza attiva dello Stato pervasiva in ogni settore, dato l’alimentarsi della credenza dell’irrinunciabilità del monopolio come soluzione ultima del dilemma giuridico e politico, che attrae e seleziona domande sociali di ogni tipo, favorendone alcune e sacrificandone altre, in base a una turnazione, che dipende per lo più dalle scelte politiche.
Il mercato reale, quindi, ricomprende lo stesso Stato, che è soggetto attore nell’ambito del moderno diritto della concorrenza, e una grande quantità di istituzioni; siamo poi di fronte a un sistema del credito oligopolistico, con al vertice una banca centrale e, via via, una serie di vassalli privati protetti gerarchicamente ordinati, ognuno dei quali concessionario di fatto del potere discrezionale di emettere moneta bancaria monopolistica a corso forzoso, nulla a che vedere con un’autentica libera concorrenza nel conio. Il sistema idiocratico della compenetrazione tra grande privato e Stato trova proprio nel sistema finanziario il proprio culmine, dato che le banche centrali, organismi di diritto pubblico, sono possedute privatamente; ma non mai viene meno il ruolo centrale dello Stato quale impalcatura, attorno alla quale questi poteri si organizzano.
Val la pena, a tale proposito, spendere qualche parola su come Marx abbia inteso il rapporto tra Stato e capitale. Marx considerava lo Stato una mera sovrastruttura dei rapporti di produzione, destinato ad estinguersi, una volta che i rapporti di forza tra le classi avessero condotto il “proletariato”, o, per meglio dire, i suoi autonominatisi rappresentarsi, ad impadronirsene. Eccezion fatta per il capitolo XXIV del Libro primo del “Capitale”, nella parte in cui descrive i processi di accumulazione originaria, Marx, però, ha sostanzialmente ignorato il ruolo dello Stato come giocatore autonomo nei processi di riproduzione dell’accumulazione; così come non ha previsto il suo ruolo come grande burocrate nelle società socialiste, e ciò a differenza degli anarchici suoi coevi, in primo luogo Bakunin, lungo un percorso che conduce poi alla critica di Castoriadis all’Unione Sovietica.
Non vi sarebbe stata nessuna rivoluzione industriale, molto probabilmente, senza il ruolo propulsivo, “keynesiano” ante litteram, dello Stato inglese nella realizzazione delle infrastrutture di comunicazione, delle strade e delle ferrovie: il ruolo dello Stato di simbiosi con il capitalismo reale perdura tuttora, come si è visto. C’è una ragione di fondo, in tutto questo: lo Stato, rivendicando il monopolio del controllo del territorio –e, quindi, delle persone che vi si situano- controlla di fatto l’uso della terra, che è però capitale in senso tecnico, anzi, il capitale preliminare, dato che tutte le attività produttive si insediano e si svolgono sul territorio, e non potrebbero insediarvisi in assenza di una concessione d’uso di quel territorio oggetto di potere sovrano, sicché la sovranità è immediata sovranità sul capitale (non a caso Carl Schmitt parlava di “plusvalore della sovranità”). In regime di statualità, quindi, il capitalismo non può che sorgere e svilupparsi, se non con il supporto decisivo dello Stato, e lo stesso vale oggi per i brevetti, il cui ruolo centrale nel capitalismo contemporaneo consegue al loro costituire una concessione pubblica sovrana.
Ne deriva che il “capitalismo” che ne scaturisce ha sempre molto poco a che vedere con il modello astratto del mercato imperturbato dell’accezione “prescrittiva”, anche perché tale mercato sconta le diseguaglianze di partenza, favorite dal controllo monopolistico del potere e dalle sue concessioni patrimoniali. Ci troviamo quindi di fronte a un complesso integrato, in cui “pubblico” e “privato” recitano parti in commedia solo formalmente differenziate, ma convergenti nella costituzione del più generale sistema, nel quale ci troviamo a vivere, peraltro caratterizzato oggi da processi di scheletrizzazione degli Stati; i quali, non contabilizzando il proprio possente demanio, a sua volta capitale in senso tecnico trattato da res nullius e non valorizzato, sono barche leggere in balia delle tempeste dei mercati finanziari.
Senonché vi è un ulteriore limite nel mercato come lo conosciamo: l’idea prescrittiva non è infatti realizzata nemmeno sotto il profilo che il sistema dei prezzi si propone come veicolo di raccolta delle informazioni, ma le informazioni possono essere alterate: ad esempio, nel caso già indicato dei prezzi riguardanti i costi ecologici, molti di questi costi assurgono a informazioni significative per il formarsi del sistema dei prezzi attuale, che sottostima quei costi in danno di popolazioni depredate, oltretutto: il prezzo viene formato sulla base di ben precisi rapporti di forza, e sono semmai queste le informazioni che ne vengono veicolate; sicché si evidenzia la necessità di un’opera di rettificazione dei prezzi, e quindi con un’interferenza correttiva che rimanda al discorso che abbiamo svolto a proposito dell’utile universale, che si fonda proprio sulla necessità di indennizzare quei costi, che, in ultima analisi, sono costi di libertà, ma anche materiali, per i sacrificati.
Ora, se questa è la complessità del quadro, viene quindi da chiedersi come il libertario per inclinazione si trovi a dovere convivere con un simile sistema; così come, nella storia dell’evoluzione, la vita nasce dalle sue forme più semplici, lo stesso vale per le società, e così come in esito dell’evoluzione forme semplici e forme complesse convivono, perché i batteri non sono certo diminuiti rispetto all’origine, però infine è emerso l’uomo, così il formarsi di organismi sociali complessi non è in grado di annientare la forma più “semplice”, che è l’individuo e la sua ansia di separatezza, il suo volersi ritagliare spazi in questa crescente complessità: in effetti, il “sentirsi liberi” in una società complessa è in buona parte una percezione soggettiva, conseguente al modo in cui si ricostruisce questa società nella propria mente, e dipende molto dal grado di spirito critico che impieghiamo all’atto di questa ricostruzione.
E’ plausibile che il dotato di inclinazione libertaria sia anche il più critico, in quanto più sensibile, più idoneo a cogliere il senso di costrizione che deriva da certe articolazioni sociali dell’autoritario, tanto più se acquiescente, per cui il libertario vivrà con maggiore difficoltà il proprio adattamento sociale, fino al limite della sociopatia; tale carattere è massimo nei già ricordati primitivisti, che rifiutano in toto il moderno consesso sociale, caratterizzato oltretutto da una pervasività di regole sconosciuta nel passato, per cui è una sfida sostenere che oggi si sia più liberi (rectius: più autonomi) di venti, cinquanta, cento, mille, o centomila anni fa; anche se le possibilità sono aumentate, ma sono aumentate a dismisura anche le occasioni di coercizione: l’ambivalenza della rete di internet lo sta a dimostrare, in quanto sede di relazioni nuove, ma forse anzitutto di controllo dall’alto. E i liberal “progressisti” danno il loro contributo dannoso, con la loro mania del politicamente corretto a tutti i costi, lesivo della prima delle libertà, la libertà di manifestazione del pensiero.
La teoria evoluzionistica della “sopravvivenza del più adatto” lascia perciò dubbi sull’avvenire, in prospettiva, della libertà e sulla fortuna della stessa inclinazione libertaria, dato che, se nella società convivono elementi di autorità e di libertà, la selezione dovrebbe premiare i più capaci di adattamento all’attuale quadro, che sono gli acquiescenti, la cui condotta lo consolida, ma anche gli “autoritari ribelli” che realizzano se stessi con la scalata per il potere. Il soggetto adattivo nei confronti dell’esistente esprime ben sì una propria capacità di cooperazione, ma di cooperazione con un quadro pregiudicato in termini di defezione istituzionalizzata, rinforzando il quadro stesso. La teoria dei giochi evolutivi (in particolare la strategia del tit for tat delineata da Robert Axelrod), che prevede, sul medio-lungo periodo, il prevalere della cooperazione, non autorizza peraltro soverchi ottimismi per le ragioni esposte: ossia, quando si parla di “cooperazione”, occorre chiedersi cooperazione rispetto a che cosa; dato che, se un determinato quadro, in ipotesi, è “autoritario”, cooperare significa cooperare con il quadro “autoritario”, rinvigorendolo, e allora il libertario dovrà più defezionare che non cooperare con quel contesto. Il tit for tat funziona, teoricamente, in chiave libertaria, a partire dallo stato di situazione originaria, semmai, ma non in un contesto già pregiudicato, in cui la cooperazione non sarebbe tra pari, ma tra colombe rispetto a falchi in un gioco falchi/colombe.
Sicché si porrebbe il problema di uscire dal gioco per entrare in un altro, ma è ciò possibile per via meramente evolutiva, ignorando totalmente gli insegnamenti della teoria delle catastrofi? Il problema è che le catastrofi, come nelle estinzioni di massa di specie, sovente accentuano tendenze evolutive già in atto, sicché si richiede comunque un processo in una determinata direzione, per quanto sia possibile accelerarlo. E allora il libertario può adottarre varie strategie: può operare la propria secessione individuale e passare al bosco, come il ribelle di Jünger, che ci ricorda la vita nei boschi di Thoreau; oppure creare spazi autonomi di resistenza individuale o collettiva alternativi all’esistente, creando comunità volontarie non territoriali, “agearchiche”, modello antimonopolistico di una possibile società futura; o adattarsi e rinunciare, tanto più che la sfida è globale, attendendo, semmai, il crollo spontaneo e improvviso del sistema, che sempre la teoria delle catastrofi ci consente di non escludere a priori, anche se un crollo improvviso lascerebbe solo di per sé macerie, in assenza di un’adeguata consapevolezza anche teorica; ovvero ancora, prendere il potere e imporsi agli autoritari in nome dell’”impedimento dell’impedimento”: le cose da fare sarebbero davvero molte, ma della figura e della strategia del dittatore libertario abbiamo già parlato in altra sede, e a quella rimandiamo. Si badi bene che tutte queste ipotesi non si escludono reciprocamente, dato che l’azione dal basso non esclude un contestuale, benché complicato, intervento dall’alto: in ogni caso, anche queste scelte sono personali e soggettive, e ognuno opera la propria.
Indicazioni bibliografiche.

Carl Schmitt, Legalità e legittimità (1932), in Le categorie del “politico”, a cura di Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera, Bologna, Il Mulino, 1972.
Errico Malatesta, A proposito di “revisionismo anarchico” (1924), in Idem, Pensiero e volontà, vol. 3, Carrara, 1975.
Alan Barnard, Storia del pensiero antropologico, Bologna, Il Mulino, 2002 (2000).
Robert Axelrod, Giochi di reciprocità, Milano, Feltrinelli, 1985 (1984).
Fabio Massimo Nicosia, Il ‘comunismo libertario’ di Luigi Galleani, in A – Rivista anarchica, aprile 2014.

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