di Fabio Massimo Nicosia
A
Rossella
1.
1.
Inclinazione libertaria e inclinazione autoritaria.
Il tentativo di proporre
una teoria libertaria impone, forse più di quanto non avvenga con altre dottrine
politiche, un discorso diretto sull’individuo, per poi estenderlo alle sue
relazioni con gli altri. Una simile dottrina, infatti, non può che partire
dall’individuo stesso, dato che è l’individuo il titolare della “libertà”,
nelle varie accezioni, di cui stiamo parlando, e anzitutto in termini biologici:
l’uomo è formato di mente e di corpo, e ciascuno è un “io” differenziato, titolare
di coscienza e centro di imputazione delle sensazioni, che il corpo in un certo
senso “imprigiona” nel momento stesso in cui lo forma, e lo proietta
all’esterno attraverso il contatto dei sensi con il mondo. Il primo elemento
costituzionale dell’uomo, rilevante per definire una teoria politica, è cioè la
separazione fisica tra gli individui (individualismo
ontologico), e l’impossibilità per ciascuno di accedere direttamente alla
mente degli altri.
E’ questo un primo
ostacolo a qualsiasi configurazione eccessivamente utopica, dato che tale
separazione finisce con il divenire la fonte fondamentale della diffidenza tra gli uomini, che rende
inevitabilmente imperfetta qualsiasi forma di vivere associato. Tuttavia noi
sappiamo che tale diffidenza può non essere piena o assoluta, può non condurre necessariamente
a esiti fatali o devastanti: la stragrande maggioranza di noi non è infatti come
i marziani del film di Tim Burton Mars
Attacks, dei quali non ci si poteva minimamente fidare, data la loro
crudeltà, e non lo erano nemmeno, nonostante la vulgata, i soggetti dello stato di natura di Hobbes: ciò ha fondamenti neurologici, dato che
la conformazione del cervello umano conosce, ad esempio, i cosiddetti neuroni
specchio, che consentono un discreto grado di empatia tra gli individui, e
favoriscono la capacità di riconoscere le intenzioni dell’altro e quindi i
processi di immedesimazione.
La pur limitata
propensione alla cooperazione, secondo Richard Dawkins, avrebbe radici
genetiche: l’egoismo del gene, che mira alla propria replicazione nel corso
dell’evoluzione, conduce dialetticamente a comportamenti altruistici nei
confronti di esemplari della stessa specie, proprio per autopreservarsi in
quanto patrimonio genetico. E allora si comprende meglio anche il senso del
“mutuo appoggio”, concetto elaborato dall’anarchico dell’ottocento Kropotkin,
che sconta però una frettolosità nell’estendere ciò che è etologico, ossia
quanto avviene all’interno delle specie animali, alla specie umana, che è
invece notevolmente differenziata nei tipi psicologici, con la conseguenza che,
tra gli uomini, v’è un alternarsi di cooperazione, competizione e defezione, con
frequenza probabilmente maggiore che negli animali non umani nell’ambito dei
rapporti tra esemplari della stessa specie.
La capacità di
immedesimazione può rappresentare del resto un’arma a doppio taglio, dato che saper
riconoscere l’altro non significa necessariamente riconoscere sé nell’altro e rispettarlo, ma anche manipolarlo,
come avviene nelle personalità narcisistiche, e approfittare di lui a propri
fini egoistici, rendendolo strumento dei propri obiettivi, e c’è chi è più
abile in questo e ne trae guadagno a discapito altrui.
Non tutti gli uomini, infatti,
sono dotati dello stesso grado di empatia; anzi, alcuni ne dispongono in misura
davvero limitata e altri ne sono privi, come si riscontra nelle persone più crudeli.
Tutto ciò ha rilevanza in un discorso sulla libertà, per la semplice ragione
che il privo di empatia è intollerante, non rispetta l’altro, tende a trattarlo
come oggetto anche in senso letterale, essendo totalmente insensibile alle sue
sorti, a farlo strumento bruto dei propri obiettivi, e già questo ci mostra
come si stia parlando di inclinazione autoritaria nel senso che intendiamo. Il
criminale, quando è uno psicopatico, non si commuove per la propria azione, né
l’uomo di potere prova turbamento per il fatto di dovere usare le forza in
numerose circostanze, come nel caso della decisione di avviare una guerra e di bombardare
una popolazione; del resto, è improbabile che una persona ricca di scrupoli
morali possa fare una grande carriera negli ambiti di maggior potere: e i soggetti
fondamentalmente amorali possono arrivare, in alcuni casi, anche a provare
soddisfazione per il dolore altrui.
E anche a tale
proposito la genetica ha qualcosa da dire; lo psicopatologo Simon Baron-Cohen,
nelle sue ricerche pubblicate nel volume “La scienza del male”, mostra come
esistano variabili genetiche strettamente connesse alla differenziazione tra
carattere empatico, i cosiddetti “geni associati al quoziente di empatia”, che
spiegano, insieme ai fattori ambientali e familiari, certe situazioni di
crudeltà, e che favoriscono la propensione a coartare gli altri con le proprie
vessazioni. Con ciò non si intende dire che il non empatico sia necessariamente
un autoritario, esiste anche il non empatico innocuo (esempio estremo,
l’autistico), e tale potrebbe essere considerato il carattere
dell’”indifferente liberale”, ossia un soggetto non particolarmente sensibile
alle sorti altrui, ma che non è intento a danneggiare gli altri di proposito, e
ciò in nome di una capacità di tolleranza fondata appunto sull’indifferenza.
Naturalmente, esiste un continuum, la
distinzione non è tra libertari o autoritari come fossero la luce e il buio, ed
esistono infinite gradazioni intermedie, laddove un’idea libertaria va alla
ricerca degli elementi analitici puri dei portati dell’inclinazione, nella
piena consapevolezza che la realtà sarà sempre commista.
E però, nei casi “normali”,
ossia di maggiore frequenza statistica, e non patologici, si riscontra comunque
nelle persone un certo grado di capacità di immedesimazione positiva, espressione
di quella simiglianza tra gli uomini, che fa sì che, chi più, chi meno, si possa
essere, almeno in un certo grado, sensibili alle condizioni altrui, fino al
caso non insolito di soffrire, in forza di processi di identificazione, anche per
il malessere degli estranei, e non solo del proprio, di quello dei propri cari
o dei più vicini, come sottolineava David Hume.
Una teoria libertaria si
fonda su tale elemento, ed è quindi una dottrina della possibile buona convivenza
tra gli uomini, in quanto teoria che, a differenza di quelle autoritarie, punta
sulle chances di fiducia tra gli
individui; ma noi sappiamo che tale fiducia è tanto configurabile e possibile,
quanto in fondo limitata, e deve lavorare su questo delicato equilibrio,
riconoscendosi anzitutto, inevitabilmente, come individualista, ma anche sociale,
in quanto ciascun io è altro per l’altro, e la soddisfazione dell’io è
soddisfazione dell’altro per l’altro, e il filo che collega i diversi “io” è però
esile, e sempre a repentaglio.
Ciascun individuo non
vive e non opera nel vuoto, ma in un mondo di “altri io”, ciascuno dei quali fa
altrettanto, e mentre si guarda dagli altri è costretto a confidare in loro, con
la conseguenza che la realizzazione dei fini di ciascuno dipende dalla propria
capacità di imporsi, ma anche, in non poca misura, dalla benevolenza dell’altro: ognuno, diffidente dell’altro, è costretto
però a fare affidamento su di lui per il raggiungimento dei propri fini; e
quindi si innesca un cortocircuito, rilevante in termini di teoria dei giochi,
perché se ciascuno agisse in nome della mera diffidenza, nessun obiettivo
sarebbe raggiungibile: nessuno sarebbe benevolente, e quindi nessuno potrebbe
raggiungere, se non in minima e precaria parte, i propri scopi; ma occorre che
qualcuno inizi il circuito virtuoso, pena la paralisi del dilemma del
prigioniero: è il problema della reciprocità, che ha pur labili fondamenti
biologici, come si è visto –e quindi il dilemma del prigioniero non è una
condanna della natura-, ma che assume rilevanza fondamentale in una teoria
etica, la quale voglia porsi a fondamento di una dottrina politica.
Si badi bene che il riconoscimento
del libero arbitrio non è coessenziale a una teoria libertaria, perché, anche
ammettendo che l’uomo sia determinato, ad esempio dalla propria costituzione e
conformazione, non v’è ragione per impedirne le libere manifestazioni,
ovviamente quando queste non siano pregiudizievoli per gli altri, ma su questo
si tornerà.
In mancanza di riferimenti
scientifici più precisi (Cartesio collocava questo momento nella ghiandola
pineale, l’epifisi, da lui ritenuto il punto di confluenza di res cogitans e res extensa; oppure potrebbe farsi riferimento all’amigdala, centro
del cervello emotivo, o a una combinazione tra le due), e in mancanza di
meglio, diciamo che ciascun uomo è dotato di un proprio spirito, e ogni spirito ha le sue proprie inclinazioni; la
distinzione tra inclinazione autoritaria e inclinazione libertaria fa
riferimento a questo, e sotto certi profili è la distinzione fondamentale, in
quanto meta-inclinazione, che presuppone due famiglie distinte di condotte umane
possibili, distinguendo l’insieme di quelle caratterizzate in senso libertario
da quelle orientate in senso autoritario; è questa una meta-qualificazione, in
quanto non pregiudica gli specifici contenuti delle condotte poste in essere,
ma solo la loro forma dal punto di vista del loro essere o non essere
compatibili con l’autodeterminazione dell’altro in un campo condiviso che
chiamiamo “libertà”.
Si diceva della
reciprocità, gioco virtuoso da innescare in qualche modo, confidando che la
controversa “natura umana” lo consenta, come dimostrerebbero molti studi
antropologici, che vanno alla ricerca di una sorta di “diritto naturale”
empiricamente inverato nelle società incontaminate. Occorre allora essere
“altruisti”, per essere libertari? L’altruismo in senso forte è la capacità di
mettere in primo piano gli interessi altrui trascurando i propri; si tratta di
attitudine che non può essere generalizzata, supererogatoria, per usare un
termine di John Rawls. Tant’è che una teoria libertaria richiede molto meno,
ossia forme di cooperazione, nelle quali siano considerati gli interessi altrui
mentre si perseguono i propri, dato che la libertà è uno spazio comune
indivisibile, nel quale se l’altro è libero ciò va a vantaggio anche mio, se io
traggo piacere dal fatto che anche l’altro sia libero e non impedito nella
manifestazione della propria personalità, il che è co-condizione perché io
possa esprimere la mia.
Si tratta quindi di un
altruismo limitato e indiretto, che consegue all’egoismo intelligente e a lungo
termine di aspirare a vivere in una più ampia situazione cooperativa di
libertà, che coinvolge necessariamente anche gli altri, con la conseguenza che
anche le sorti degli altri non possono non stare a cuore al libertario, essendo
strettamente legate alle sorti della propria, vivendo tutti in uno spazio
condiviso, che più è libero per tutti, meglio è per tutti, sul presupposto che
la libertà sia un bene, e che sia utile per chiunque intenda affrontare la vita
nel pieno delle proprie forze.
Il nostro sforzo, anche
se abbiamo parlato di “etica”, è di fondare tale ipotesi non su principi
normativi di tipo morale, tali per cui questi si impongano come imperativi
all’uomo, ma sulle inclinazioni dell’uomo stesso, sulla sua costituzione
genetica, neurologica e psicofisica: per comprendere l’irrilevanza, o la
limitata rilevanza dell’elemento etico in questo discorso, occorre infatti
considerare che, kantianamente, un atto compiuto in accordo immediato con la
propria inclinazione, anche se buono in sé considerato o per le sue conseguenze,
non è “morale” in senso proprio, anche se la condotta che sia mero frutto
dell’inclinazione può essere a propria volta perfezionata con la pratica, la
riflessione e l’introspezione. Ne deriva che un libertario che segua la propria
inclinazione è moralmente neutro,
anche se i suoi atti sono conformi, non per merito, ma per vocazione, a
un’astratta e teorica morale libertaria, che si volesse sforzarsi di
ricostruire.
L’inclinazione è quindi
un essere, non un dover essere, né pretende di ricavare dover essere
dall’essere, se non nei limiti della norma tecnica: se vuoi un mondo
libertario, agisci così; non si tratta di obblighi posti in capo all’uomo, ma
esprime questo direttamente in base alla sua propria costituzione fisiologica. Salvo
però che gli uomini non sono tutti uguali da questo punto di vista, essendo
l’inclinazione un’attitudine dello spirito che varia da uomo e uomo, e quella libertaria
è di alcuni e non di tutti.
Intendiamo infatti per
inclinazione libertaria, al livello puro (anche se la realtà conosce solo casi misti)
la vocazione di quegli individui, i quali, come l’Otane di Rousseau, non
aspirando a comandare gli altri, ma solo a coltivare autonomamente le proprie propensioni,
non tollerano però anche di essere comandati; e la contrapponiamo
all’inclinazione autoritaria, propria di chi, aspirando viceversa a comandare, ossia
a imporsi sugli altri, ove non vi riesca, si rassegna ad essere comandato, nel
momento stesso in cui riconosce come conforme alla propria natura di esserlo,
perché ritiene che il mondo si divida inevitabilmente in chi comanda e chi è
comandato.
L’inclinazione
autoritaria non è quindi solo propria di chi prova piacere a opprimere gli
altri, ma anche di chi accetta –“morale dello schiavo”- di essere oppresso,
benché diversa sia la collocazione delle due figure nella scala sociale. L’inclinazione
autoritaria è quindi gravida di implicazioni esterne, dato che dà vita a
situazioni indivisibili di autorità, destinate a imporsi anche a chi vorrebbe
sottrarvisi: in altri termini dà vita a un male pubblico.
Disegniamo, a tale
proposito, il seguente quadrante:
Inclinazione
libertaria
Acquiescenza
Ribellione
Inclinazione
autoritaria
Ognuno si colloca in un
qualche punto del quadrante: avremo il libertario ribelle, il libertario
acquiescente, l’autoritario ribelle e l’autoritario acquiescente, dipendendo
l’essere ribelle o acquiescente dai connotati psicologici e dalla capacità di
adattamento, o di insofferenza al sistema, di ciascuno. Di particolare interesse
appare la figura dell’autoritario ribelle e insofferente, il quale può mirare a
divenire, a seconda dei casi, criminale o, se ne ha le doti, uomo di potere,
che sono i due modi che la realtà mette a disposizione di tale genere di
personalità per imporsi sugli altri con atteggiamento unilaterale, volto a
sottrarsi alla reciprocità delle condizioni.
L’inclinazione
libertaria, dunque, è una meta-inclinazione, che non riguarda le preferenze e
le scelte specifiche che possano essere effettuate, ma tocca la loro forma, la
loro qualità nei rapporti con gli altri, la forma appunto libertaria, consistente
nel lasciare all’altro, con l’azione, tanto spazio, quanto se ne rivendica per
sé; ciò comporta evidentemente, si diceva, una qualche forma di reciprocità. Il
libertario, infatti, non si caratterizza per il fatto di mirare specificamente alla
libertà propria, dato che questo può essere atteggiamento di chiunque: anche
l’autoritario vuole infatti essere lasciato “libero” e incontrollato nel
perseguire i propri scopi.
Il libertario si
caratterizza semmai per il fatto di perseguire la libertà propria nel momento
stesso in cui persegue anche quella degli altri in uno spazio comune, che,
tecnicamente, si propone come uno di quelli che la dottrina economica definisce
beni pubblici indivisibili; anzi, un tipo particolare di bene pubblico, di
quelli che, in quanto bene astratto e linguistico, non solo non prevedono
rivalità nel consumo, ma addirittura si alimenta con l’uso: senonché, in quanto
bene pubblico, l’inveramento della libertà è soggetto a facile rischio di
frustrazione da free-riding da parte dei
comportamenti avversi od opportunistici di autoritari e acquiescenti: erano
“acquiescenti”, in effetti, i protagonisti della “banalità del male”, e non
basta a spiegare il loro comportamento l’eventuale carenza di secrezioni di
ossitocina.
La reciprocità è una
qualità che, in teoria dei giochi, si riconduce all’atteggiamento di
cooperazione, ma la cooperazione può avere gradi diversi: ad esempio, è diverso
il modo in cui si coopera all’interno di una famiglia rispetto a quello in cui
si coopera in un consiglio di amministrazione, o nel momento in cui stipuliamo
un contratto con un estraneo. Vale in proposito la regola di Hume, per la quale
i nostri sentimenti morali perdono di intensità, via via che ci si allontana da
noi; ma ciò non significa che con i lontani non si possa che belligerare, dato
che anche una benevola indifferenza può dar vita a utili elementi di
cooperazione. Anzi, nella maggior parte dei casi sarà così, e la società si
regge in buona parte proprio sulla capacità di non “fare il male”, che è
espressione di tolleranza, oltre che di indifferenza, piuttosto che su quella
di “fare il bene” necessariamente e a tutti i costi, benché l’inclinazione
libertaria preveda anche ipotesi attive di questo tipo: in ogni caso, evitare
il male è già un modo indiretto di fare il bene, o almeno di consentirlo.
Partiamo dalla
differenza tra reciprocità negativa e
reciprocità positiva: a) non fare agli altri ciò che essi non
vorrebbero sia fatto loro, ad esempio, rappresenta un atteggiamento di
cooperazione negativa, dato che si limita a dire che cosa “non” si deve fare
agli altri, ma non richiede, di per sé, un atteggiamento intrusivo, per quanto
questo possa risultare gradito, nella vita degli altri. Una variante è b) non trattare gli altri come tu stesso non
vorresti essere trattato, il che segna già un progresso, dato che, in
ipotesi, uno potrebbe non volere essere trattato con indifferenza, e allora
sarebbe destinatario dell’indicazione di non trattare gli altri con
indifferenza, e quindi si tratta di formulazione che ammette l’intervento
attivo. Per converso, ammette l’indifferenza c) tratta gli altri come tu vorresti essere trattato da loro, anche se
apparentemente dà un’indicazione positiva, dato che uno potrebbe volere essere
“lasciato in pace”, essere trattato quindi con indifferenza dagli altri, e
quindi l’indicazione è di fare altrettanto con loro. Espressione di
cooperazione positiva è invece d) fai
agli altri ciò che essi vorrebbero sia fatto loro, che richiede un
atteggiamento attivo di disponibilità nei confronti degli altri, anche se
nemmeno in tale ipotesi l’indifferenza è esclusa, se si intende quel “fai” in
un senso lato, comprensivo dell’astensione.
A ben vedere,
quest’ultima ipotesi è la migliore, quella più ricca di potenziali sviluppi,
dato che ammette la diversità delle preferenze tra gli individui più di quanto
non facciano le altre, che sembrano enfatizzare eccessivamente le simiglianze
tra gli uomini, a meno di non intendere quelle prescrizioni in termini
puramente formali, quindi rispettosi delle diversità, evitando i paradossi: ad
esempio, un masochista dovrebbe trattare gli altri con violenza, dato che lui
stesso vuole essere trattato così. La reciprocità al livello formale si limita
a dire, invece, che se tu vuoi che gli altri agiscano in modo da procurarti
piacere, devi agire in modo che l’altro provi piacere dalla tua condotta,
quindi tratta con violenza solo il masochista e non chi non lo è.
Si dirà che
l’impossibilità di penetrare il recondito altrui difficilmente potrà consentire
una tale realizzazione, dato che le preferenze delle persone sono diverse;
tuttavia, essa può essere agevolata tanto dalla comunicazione, quanto
dall’introspezione, se stiamo parlando di soggetti dotati, come da assunto, di
un adeguato grado di empatia, tale da consentire di “mettersi nei panni
dell’altro”; tanto più che, in base al canone dell’id quod plerumque accidit, noi possiamo in una certa misura
riuscire a immaginare che cosa risulti gradito all’altro da noi almeno in
termini generali.
In termini di teoria
dei giochi, quindi, il libertario persegue la strategia della cooperazione, ma
non si consegna inerme agli altri, a meno che la sua debolezza di carattere non
lo conduca all’acquiescenza, sicché i principi di reciprocità vengono integrati
dalla massima “sempre che l’altro faccia
altrettanto”, punendo le deviazioni, se non si vuole soccombere, e non
limitarsi ad auspicare la libertà, ma perseguirla attivamente, e quindi essere
disposto a battersi per essa contro chi ne è nemico, chi è portatore di
impedimenti da impedirsi, concetto che abbiamo espresso con la formula,
apparentemente ossimorica, della dittatura libertaria.
In effetti, v’è un modo
primordiale per sperimentare la reciprocità, ed è fare totalmente quello che si
vuole: se ciò non risulterà gradito agli altri, essi non mancheranno di farcelo
notare con le proprie reazioni, ma questo è il risvolto punitivo della reciprocità,
che quindi è subottimale rispetto a quello direttamente cooperativo.
A ben vedere, però,
tutto quanto precede sembra indebolire l’idea che il libertario possa limitarsi
a essere indifferente alle condizioni
altrui, dato che queste massime derivano da un principio: quello per il quale la
situazione di conflitto aperto è nemica della condizione di libertà, dato che
favorisce l’instaurarsi di autorità, che vengono agevolmente invocate per
risolvere quelle situazioni di conflitto violento tra posizioni rivelatesi incompatibili.
Ecco allora che se si
vuole impedire che ciò avvenga, occorre comportarsi in modo da prevenire quei
conflitti, con l’implicazione che alla condizione di libertà piena corrisponde
quella di pace, vale a dire che la pace è il contesto in cui possa inverarsi la
libertà come spazio comune, nel quale le diverse personalità possano pienamente
esprimersi. Diversamente, ci troveremmo innanzi a un conflitto permanente, in
particolare tra autoritari e libertari, in cui le reciproche fermezze possono
forse esprimere la giustificazione di un principio, ma non conducono a
condizioni di vita in sé apprezzabili.
Può darsi addirittura
che i dotati di inclinazione libertaria siano minoranza nell’umanità, sicché si
tratta di capire quale sia la strategia migliore da perseguire, ossia se quella
di ritagliarsi spazi autonomi alternativi, ovvero di porsi come élite, in grado di trascinare l’intera
società, conducendola a migliori traguardi sotto la propria guida “illuminata”;
non sembra che le due diverse strategie siano alternative, dato che, anzi, il
perseguimento di quella che si configura come situazione indivisibile le
richiede entrambe. Il fatto è che l’inclinazione autoritaria trova nutrimento
in molte credenze vigenti, ad esempio quella secondo la quale i migliori fini
della società possono essere perseguiti esclusivamente da un’autorità, la quale
rivendichi, per assicurare l’ordine e altri beni pubblici, il monopolio del
potere: sicché non siamo più nemmeno in grado di comprendere quanto questa
inclinazione sia naturale, e non piuttosto frutto del dominio di una cultura
che la alimenta, consapevolmente o tralaticiamente, ossia per il semplice
rispetto non meditato di una tradizione intellettuale dominante.
Indicazioni
bibliografiche.
Kim Sterelny, La sopravvivenza del più adatto – Dawkins
contro Gould, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2004 (2001).
Pëtr Alekseevič Kropotkin, Il mutuo appoggio, Catania,
Edizioni Anarchismo, II ed., 2012.
Simon Baron-Cohen, La scienza del male – L’empatia e le origini della crudeltà, Milano, Raffaello Cortina
Editore, 2012 (2011).
John Dupré, Natura umana – Perché la scienza non basta,
Bari, Laterza, 2007 (2001).
Fabio Massimo Nicosia, Il dittatore libertario – Anarchia analitica
tra comunismo di mercato, rendita di esistenza e sovranity share, Torino,
Giappichelli, 2011.
2.
2.
Il problema del libero arbitrio
E’ molto antica la
questione se l’uomo sia libero di autodeterminarsi, ovvero, all’opposto,
determinato nel proprio agire da qualche necessità, sia essa il disegno di Dio,
il fato, la struttura sociale, la psicologia dell’individuo o la sua struttura
neuronale. Le neuroscienze, in effetti, hanno rilanciato il tema, in tempi più
recenti, interrogandosi, ancora una volta, sul fatto se, e in quale misura,
qualcosa di fisico come il corpo umano, del quale il cervello è parte,
sottostia a una qualche causazione da parte di una legge naturale strettamente
vincolante, in questo caso da parte delle leggi che regolano il funzionamento
del cervello.
Secondo John
Searle, in particolare, il libero arbitrio si esprimerebbe nell’esistenza di
una “lacuna” tra i momenti neurologicamente determinati e passaggio all’azione,
corrispondente al momento deliberativo. In realtà, i momenti attivi dello
spirito che si susseguono sono più d’uno, ognuno dei quali può in effetti ritenersi
espressivo di un carattere di libertà; in particolare si ravvisano tre grandi
fasi a) ricognitiva; b) deliberativa c) operativa, a loro volta suddivise in sotto-fasi.
La prima che emerge
è quella a1) dell’interpretazione del
contesto: i nostri sensi percepiscono infatti i nudi fatti bruti, ma la mente
opera, con maggiore o minore estensione e rapidità a seconda dei soggetti, un’opera
di decostruzione e ricostruzione di questi fatti, attribuendo loro un
significato ulteriore rispetto al senso immediato, che si differenzia in base
all’esperienza, alla cultura, alle propensioni di ciascuno, sicché il fatto
bruto si istituzionalizza in base ai criteri propri del soggetto, e la mente
riproietta all’esterno la realtà così come introiettata e rielaborata,
rimodellando il mondo, così come poi si ripropone alla nostra percezione.
E’ questo un
primo momento libero, per quanto condizionato dalle credenze e dei pregiudizi,
dell’operare della mente umana, con la conseguenza che la realtà finisce con il
rappresentare qualcosa di diverso per ciascuno di noi, perché ognuno di noi la
vive in modo distinto, anche a non volere estremizzare il soggettivismo; e ciò
perché le preferenze individuali giocano un ruolo già in questa fase, nella
misura in cui vi sia un rapporto tra credenza e preferenza, nel senso che le
credenze conseguono già di per se stesse alle preferenze, ma anche viceversa,
le preferenze si formano sulla base di credenze introiettate
V’è poi il
momento della sotto-fase a2) del giudizio,
consistente in un’attribuzione di valore al contesto così interpretato, ossia
nella sua riconduzione e sussunzione in categorie valoriali, in assenza di che
non è possibile elaborare alcun volere, nel quale l’agente confronti i diversi
corsi alternativi possibili della propria iniziativa sul mondo.
Operata l’interpretazione
dei fatti, e formulato il relativo giudizio, si sviluppa un’ulteriore piano di
attività del soggetto, volta a decidere come agire, consistente
nell’elaborazione di una b1) espressione
di volontà generica, ossia nell’atto di operare, sulla base dei propri
desideri, una scelta di massima tra più interventi possibili sul mondo così
come previamente ricostruito, anche attraverso atti di progettazione e
pianificazione, quando si tratta delle scelte più complesse o impegnative. Si
pensi al desiderio di cambiare città, o a una persona che soffra di carenza di
desiderio sessuale, la quale può benissimo adattarsi a tale stato di cose,
oppure può sentire fortemente il “desiderio di avere desiderio”, e solo in tal
caso può volere effettuare un qualche intervento particolare, atto a modificare
la propria condizione, e allora dovrà stabilire quale. A questo punto, si passa
alla deliberazione di una b2) volontà
specifica, ossia all’individuazione dei mezzi particolari, necessari o
utili a conseguire i fini individuati in sede di prospettazione della volontà
generica.
E solo a questo
punto, ossia una volta formatasi la volontà, si pone il tema della sua
attuazione attraverso il suo inveramento in c1) azione, che non consegue immediatamente alla formazione della
prima, giacché essa richiede un conato ulteriore, che può anche risultare
insufficiente in caso di debolezza dello sforzo di attuazione della volontà;
sicché il soggetto può anche risultare inerte, o compiere azioni che egli
stesso considera deteriori rispetto a quella primariamente desiderata. Ad
esempio, un agente può volere fermamente smettere di fumare, ma non trova la
forza sufficiente per agire in tal senso, e continuerà a fumare, pur essendo la
sua prima scelta quella di uscire dalla dipendenza. Esperita l’azione, il soggetto
ne verifica poi le conseguenze: è questa la sotto-fase del c2) controllo, in cui si accerta l’adeguatezza
e l’efficacia del proprio operato
quanto al rapporto tra mezzi utilizzati e fini perseguiti, e ciò sulla base
della considerazione dell’impatto reale del nostro operato.
Questo schema è
rigorosamente improntato a principi di razionalità nell’azione, che non tengono
conto delle intransitività proprie del livello inconscio dell’io multiplo, laddove
noi ben conosciamo il ruolo fondativo delle passioni, delle emozioni e dei
sentimenti, anche nei termini delle dinamiche neuronali (ma anche ormonali) che
li accompagnano, e che concorrono a vincolare e a determinare l’azione. Ma se nella
condotta umana razionale vi è un alternarsi di elementi di determinazione e di
libertà, ne derivano argomenti a favore del cosiddetto compatibilismo, ossia la
tesi, per la quale il fatto che l’uomo sia in qualche misura determinato non
osta alla presenza di elementi di libero arbitrio, anzi, abbiamo visto come
questo operi almeno in vari momenti: quello dell’interpretazione della realtà,
quello della susseguente formulazione di un giudizio sussuntoreo, quello della
formazione di una propria volontà di scelta, e quello dell’agire conformemente
alla volontà deliberata, oltre a quello susseguente della riverifica.
Ma ammettiamo pure
che tutte le fasi che precedono siano causalmente determinate da un qualche
elemento, ad esempio dall’inconscio, e che abbia ragione chi sostiene che anche
i momenti che i fautori del libero arbitrio ritengono volontaristici siano
frutto di dinamiche fuori dalla portata del soggetto, e che ciascuna di tali
operazioni sia causata da una qualche predisposizione; ora, anche in tal caso
nulla muterebbe ai nostri fini: non v’è nesso, infatti, tra la circostanza che
l’uomo sia in qualche modo “determinato” e il fatto di elaborare teorie di
legittimazione dell’impedimento del suo esprimersi senza coartazione. Vi
sarebbe un salto logico, in un simile tentativo: chi intendesse elaborare
simili dottrine, sarebbe comunque gravato da un forte onere di giustificazione,
non dissimilmente nei due casi: tanto se si suppone il libero arbitrio, quanto
se si presuppone il determinismo causale, anche se, in tale ipotesi, la
condotta umana potrebbe risultare più prevedibile rispetto all’ipotesi
dell’uomo pienamente in grado di autodeterminarsi in sede di volizione, il che
potrebbe immettere elementi di casualità quantistica nello sviluppo della sua
azione, tanto più che, come nella quantistica, nell’inconscio A e non A
convivono.
Non si dica,
però, come fanno alcuni studiosi del rapporto mente/cervello, che la nostra
azione sia interamente determinata dagli eventi neurologici: questi eventi,
oltretutto, ben difficilmente si prestano a essere ricostruiti come “causa”
della nostra percezione, cognizione e volizione, ma semmai come effetto, o
comunque rappresentano un evento simultaneo alle manifestazioni della nostra
coscienza, che non può che avere una propria sede unificante in qualche luogo
del cervello e che, con la propria personalità geneticamente istituita,
costituisce l’io che ciascuno di noi siamo.
Il punto è che
anche un soggetto che fosse interamente causalmente determinato nelle proprie
determinazioni, se cioè se pure l’uomo avesse un tale carattere, egli
meriterebbe di essere lasciato libero di esprimersi così come è in base alle
proprie predisposizioni, al proprio carattere e alla propria personalità, il
che è del resto, al di là di qualsiasi diatriba più o meno metafisica, una
condizione per il perseguimento e il conseguimento della felicità, e quindi per
potersi sentire appagati, poco rilevando quanto sia spiritualmente libero il
suo intervento sui processi decisionali e di scelta, perché ogni caso si tratta,
per ognuno, di realizzarsi nelle
proprie inclinazioni, interagendo con gli altri e, qualsiasi sia l’ipotesi
metafisica di partenza, facendosi comunque a propria volta puntuale causa
efficiente attiva della conformazione del mondo a lui esterno.
Che il discorso
sulla libertà empirica si muova su di un piano diverso rispetto a quello
filosofico sul libero arbitrio è del resto dimostrato dal fatto che, ammettendo
quest’ultimo, esso opera pienamente anche in presenza di coercizione (coactus tamen voluit). Ad esempio, se un
rapinatore minaccia una persona con una pistola, questa, a seconda della
propria personalità, può consegnare i propri beni, ma anche reagire
opponendosi. Il rapinatore comprime la libertà in senso empirico, esercita un
atto di costrizione, e tuttavia il destinatario della minaccia ha ancora un
margine di scelta, di autonomia, nella propria condotta; tale
considerazione consente di distinguere la posizione “libertaria” in materia di
libero arbitrio (il termine libertarismo è impiegato anche per indicare i
sostenitori di questo) da quella in materia di libertà empirica.
La
configurabilità del libero arbitrio, per altro verso, rileva ai fini
dell’individuazione della responsabilità del soggetto agente. Ciò assume
importanza, nella vita pratica, nel diritto penale. Abbiamo sempre considerato
il diritto penale la branca più irrazionale del diritto, per la sua pretesa di
fondarsi sul sindacato del foro interno delle persone: il giudice dovrebbe
penetrare la mente dell’imputato, per verificare, sulla base di dati molto
approssimativi, la sua mens rea,
attraverso l’individuazione del dolo o della colpa. Ora, le neuroscienze
promettono di consentire un simile sindacato, attraverso l’indagine neuronale,
ma ciò finisce con l’attribuire a neurologi e psichiatri un potere immenso sul
destino delle persone; un potere, oltretutto, consacrato dalla “scienza”, il
che lo renderebbe più irresistibile rispetto a quello, già comunemente ritenuto
fallibile, del giudice. Assisteremmo a un rinforzamento dello science argument for the State, con la
creazione di una casta di potere insindacabile, se non da colleghi restii, dato
che costoro deterrebbero il monopolio del relativo sapere; e inamovibile,
funzionando il mondo accademico e scientifico soprattutto per cooptazione, più
di quanto non avvenga nella politica.
Cambierebbe la
funzione della pena, che porrebbe al proprio centro la supposta pericolosità
della persona più di quanto non avvenga oggi, in cui si va alla ricerca della
“responsabilità”, con conseguente suo avvicinamento al meccanismo discrezionale
delle misure di sicurezza in funzione “curativa”; tutto ciò induce
preoccupazione, e ci fa immaginare qualche distopia caratterizzata da imputati
con gli elettrodi nel cervello, soggetti a indagini sempre più intrusive.
Indicazioni bibliografiche.
John Searle, La razionalità dell’azione, Milano,
Raffaello Cortina Editore, 2003 (2001).
John Searle, Il mistero della coscienza, Milano,
Raffaello Cortina Editore, 1998 (1997).
AA. VV., Libero arbitrio – Storia di una controversia
filosofica, a cura di Mario De Caro, Massimo Mori ed Emidio Spinelli, Roma,
Carocci editore, 2014.
3.
Coercizione e libertà empirica.
Date queste premesse
sulla libertà “spirituale” –di questo si occupa chi tratta di determinismo e
indeterminismo-, occorre ora interrogarsi sulla nozione di libertà in senso
empirico, e conviene farlo muovendo dall’etimologia, dato che molte delle
definizioni che conosciamo sono tautologiche e circolari.
Il lemma “libertà” trova
radice nel verbo libére, che
significa “far piacere, aggradare”, sicché
essere liberi ha sicuramente a che fare con l’essere in condizione di fare ciò
che piace, ciò che dà piacere. Ma se a me desse piacere prendere a bastonate in
testa un’altra persona, sarebbe questa una libertà degna di essere tutelata per
un libertario? La difficoltà è solo apparente, se si parte dalla libertà come
situazione indivisibile alle parti, sicché cerchiamo regole che piacciano a
noi, salvo poi scoprire che valgono per tutti e vanno a beneficio di tutti. La
libertà da una parte sola, ossia la situazione in cui uno prova piacere
sottomettendo un altro, non può essere definita infatti propriamente di libertà,
ma di coercizione e supremazia, mentre la condizione dell’altro sarebbe
propriamente di soggezione o sottomissione, come meglio vedremo.
Secondo Gerald
MacCallum, la libertà è infatti tale da un impedimento proveniente da parte di
qualcuno. Si tratta della cosiddetta libertà “negativa” da vincoli,
restrizioni, interferenze o barriere posti in essere da parte di altri
individui, escludendosi dalla definizione i fatti naturali impedienti, che non
inciderebbero sulla condizione di libertà come assunta dai filosofi analitici,
anche perché i fatti naturali non sono nella disponibilità umana.
Ciò rimanda, in
definitiva, al concetto di coercizione,
funzione che ci aiuta a comprendere, ex
negativo e per antitesi, in che cosa la situazione di libertà empirica consista:
siamo di fronte a fronte un soggetto che vorrebbe esprimere la propria capacità
di agire, e c’è qualcuno che glielo impedisce o si sforza di impedirglielo:
questo soggetto sta esercitando coercizione, quindi noi siamo in grado di
capire se siamo in situazione di libertà se disponiamo altresì di una nozione
analitica di coercizione.
Una discussione sulla
nozione di coercizione la troviamo in Robert Nozick, il quale la riconduce alla
nozione di “minaccia”, condizione necessaria e sufficiente perché coercizione
vi sia; va precisato, però, che a differenza di quanto avviene negli
anarco-capitalisti mainstream di
scuola rothbardiana, per minaccia Nozick non intende necessariamente quella
fisica destinata a infliggere danni diretti al “corpo”, impostazione che
intende in senso riduzionista la cosiddetta self-ownership,
ma qualsiasi prospettazione volta a
peggiorare la condizione del destinatario, o almeno è su simili situazioni
che Nozick ragiona. Ad esempio, Nozick si interroga sulla minaccia di
licenziamento, per il caso in cui il dipendente si comporti in un certo modo.
Per meglio comprendere
la natura della minaccia –prospettazione di un danno, di un peggioramento di
situazione, nel caso in cui il suo destinatario adotterà una certa condotta che
viene “proibita” dalla minaccia stessa-, occorre prendere in considerazione il
suo opposto, l’offerta, ossia la
prospettazione viceversa di un beneficio o di un premio nel caso in cui sia
adottata la condotta indicata in sede di offerta. Non si deve ignorare,
tuttavia, che anche l’offerta può comportare dei costi-opportunità nel
destinatario, dato che l’esserne destinatario può alterare la scala delle preferenze,
introducendo un turbamento psichico, che può anche rivelarsi dannoso.
Ad esempio, se io
ricevo l’offerta di un lavoro vantaggioso lontano da casa, il fatto stesso di
doverla prendere in considerazione comporta quell’alterazione, nonché un
possibile turbamento interiore, che può peggiorare, almeno momentaneamente, la
mia condizione di benessere. Ancor più chiaro questo ragionamento risulterà se
si prendono in considerazione le ipotesi in cui minaccia e offerta sono
combinate: ad esempio, se un genitore dice al figlio che se studierà gli
regalerà una bicicletta, mentre se non studierà gli impedirà di vedere la
televisione, con la prima parte dell’enunciato gli prospetta un miglioramento,
ma con la seconda parte gli prospetta un peggioramento, per il caso che il
figlio adotti la condotta omissiva del “non studiare”. Ma un caso del genere
non sembra porre grossi problemi sotto il profilo che ci interessa, che è
quello di comprendere il grado di legittimità o illegittimità di siffatte
prospettazioni.
Forse che infatti una
teoria libertaria impedisca sempre di prospettare situazioni peggiorative al
destinatario, nel caso in cui questi adotti o non adotti una certa condotta? E’
opportuno, a tale proposito, fare riferimento alla definizione di “minaccia”
contenuta nel codice penale italiano, il quale, all’art. 612, punisce, a
querela della persona offesa (quasi a dire che il sentimento dell’essere
minacciato è soggettivo), solo la minaccia di un “ingiusto danno”.
In punto di stretta
dottrina libertaria, “danno ingiusto” significa danno illegittimo. Ad esempio,
se io apro un negozio vicino al tuo, e ti faccio concorrenza, potrei procurarti
un danno economico, ma questo danno non sarebbe né ingiusto giuridicamente, né
illegittimo dal punto di vista libertario, dato che l’atto dell’aprire un
negozio rientra nella sfera riconosciuta libera all’agente. Del resto, la
nozione di “coercizione” è moralizzata e valutativamente connotata, vale a dire
che non si dovrebbe avere coercizione se il danno minacciato è legittimo.
Che dire allora della
minaccia di licenziamento? Essa peggiora le condizioni del destinatario, e
tuttavia un “fisicalista” rothbardiano non la considererebbe coercizione.
Occorre in proposito puntualizzare che, a ben vedere, anche la minaccia di
licenziamento ha un chiaro risvolto fisico: il datore di lavoro, infatti, si
riserva con essa di esercitare lo ius
excludendi alios dal perimetro della propria proprietà, inibendo al
licenziando l’ingresso nel luogo di lavoro, e allora a nostro avviso occorre
distinguere.
Viene in rilievo,
infatti, una discussione sulla più ampia situazione, nella quale la minaccia di
licenziamento si viene a collocare, e allora diviene ineludibile se quella
posizione di proprietario sia legittima o no, perché, se si assume la vigenza
del lockean proviso, il licenziato
sarebbe a propria volta titolare di una porzione di territorio, e quindi il
licenziamento per lui non sarebbe esiziale, e potrebbe considerarsi, se non
innocuo, almeno concepibile come legittimo. Mentre se, sempre su questo
presupposto, il proprietario è un usurpatore, qualsiasi suo atto sarebbe da
considerare illegittimo per invalidità derivata, dato che a essere illegittima
è la sua stessa situazione fondamentale.
Tale considerazione ci
suggerisce che, per verificare se un singolo atto sia espressione di libertà in
senso empirico o di coercizione, non è mai sufficiente guardare all’atto in sé
e alla relazione binaria, alla quale esso dà vita nei confronti del
destinatario, prospettiva tradizionale dei filosofi analitici di scuola
liberale (si pensi a Ian Carter), che rischia di rivelarsi asfittica, ma
occorre guardare alla più ampia situazione di insieme, nella quale quell’atto
si viene a inserire.
Emerge qui la nozione
di coercizione sistemica, che, al
pari del suo contrario, ossia la libertà, è una situazione indivisibile tra tutti i soggetti di un contesto dato.
Ad esempio, in una situazione statualizzata le condizioni di ciascuno sono
alterate dal grande soggetto rivendicatore del monopolio della forza, del
diritto e della legittimità, con la conseguenza che diviene impossibile
verificare se un atto sia legittimo dal punto di vista libertario, se non
collocandolo nel più ampio contesto, in cui lo Stato incide, alterandolo, con
la propria forza irresistibile.
Indicazioni
bibliografiche.
Gerald C. MacCallum, jr., Libertà negativa e positiva, in AA. VV., L’idea di libertà, a cura di Ian Carter
e Mario Ricciardi, Milano, Feltrinelli Editore, 1996 (1967).
Ian Carter, La libertà eguale,
Feltrinelli Editori, Milano, 2005.
Robert Nozick, Coercizione (1969), in Idem, Puzzle Socratici, Milano, Raffaello
Cortina Editore, 1999.
Murray Newton Rothbard, L’etica della libertà, Macerata,
Liberilibri, 1996 (1982).
Charles Taylor, Cosa c’è che non va nella libertà negativa,
(1979), in L’idea di libertà, cit..
4.
4.
La coercizione sistemica nelle relazioni con lo Stato.
L’approccio
analitico mainstream risulta
eccessivamente concentrato sulle situazioni particolari, perdendo di vista le
situazioni di insieme, che vengono poco persuasivamente affrontate solo al
livello dell’esemplificazione. Si perde così di vista in buona parte la
coercizione di sistema dello Stato, o comunque dell’ordinamento giuridico in
generale e del sistema sociale.
Viceversa,
se si muove dal presupposto che ipotesi coercitive siano plasticamente
caratterizzate (al di là delle sfumature) dalla minaccia dell’uso della
violenza, l’ordinamento giuridico dello Stato è minaccia sistematica e
coercizione sistemica, dato che ciascuna norma (il modello è la norma penale,
il tipo che più di ogni altro esprime il predominio dello Stato) che lo
costituisce è linguisticamente conformata nei termini della minaccia, rivolta
alla generalità delle persone, in senso tecnico e proprio: «Chiunque commette un fatto diretto a
sottoporre il territorio dello Stato o una parte di esso alla sovranità di uno
Stato straniero, ovvero a menomare l’indipendenza dello Stato, è punito con la
morte» (art. 241 originario del codice penale, non a caso il primo reato
della parte speciale del codice Rocco, il cui Titolo Primo si occupa
esattamente «Dei delitti contro la
personalità dello Stato»).
Si
potrebbe sostenere che una simile minaccia, di per sé, in quanto non
costrittiva direttamente sul corpo fisico, ma solo sulla psiche delle persone,
non varrebbe a comportare coercizione o limitazione di libertà, che rimarrebbe
impregiudicata, dato che ognuno potrebbe
ritenersi autorizzato ad ignorare la minaccia stessa, ma chi opponesse una
simile obiezione starebbe ricadendo nella confusione tra libertà come libero
arbitrio e libertà empirica e sociale, che è quella della quale stiamo
discutendo ora.
Un
requisito della minaccia, che emerge a tale proposito, ossia quanto alla sua
attitudine, in quanto articolazione linguistica, verbale o non verbale, a
comprimere effettivamente la libertà empirica, occorre distinguere la minaccia seria da quella priva di tale carattere.
Ora,
non v’è dubbio che la minaccia promanante dallo Stato, dalle sue norme, dal suo
apparato militare, poliziesco e
burocratico –David Graeber parla del poliziotto come del burocrate per
eccellenza, il “burocrate armato”-, giudiziario, carcerario, manicomiale, sia la
più “seria” rinvenibile sul “mercato della forza”, in quanto quella in grado di
venir implementata direttamente non solo
con la violenza, ma con una violenza massiccia, in quanto frutto di una
particolare organizzazione volta proprio a tale scopo.
Questo
non vale, in effetti, per ciascuna delle sue prescrizioni, dato che lo Stato
sconta un’intrinseca inefficienza da overbooking,
da inflazione normativa, sicché i suoi stessi formidabili mezzi di
implementazione si rivelano una risorsa scarsa rispetto all’immensa vastità
delle norme giuridiche che devono essere applicate: un cartello stradale,
dimenticato sull’autostrada dopo i lavori di manutenzione, indicante il limite
di 20 km orari di velocità, non sarebbe credibile e non esplicherebbe funzione
deterrente; ma, di regola, le persone considerano credibile la minaccia
normativa, pur variando la sua capacità di impatto, da norma a norma, da
persona a persona in base alle inclinazioni e alla psicologia di ciascuno.
Lo
Stato, però, è potente, ma non onnipotente: le norme giuridiche
dell’ordinamento statuale rappresentano una minaccia sistematica articolata in
forma linguistica e, per come sono conformate, rappresentano proposizioni
probabilistiche, descrittive e costitutive delle modalità procedimentali e
delle condizioni della loro propria realizzazione empirica: la disposizione
penale sopra indicata, nel concorrere a costituire l’ordinamento, descrive un
possibile stato delle cose, il cui inveramento è affidato agli organi dello
Stato incaricati dell’applicazione attraverso le procedure previste
(procedimento e processo); ma si tratta di un’ipotesi empirica, subordinata
alla capacità dell’enunciato di correlarsi fattualmente in forza della sua
adeguatezza, tanto nell’oggetto (che rivendica attitudine
all’universalizzazione), quanto nella sua capacità, collegandosi alle
disposizioni procedimentali e processuali, di radicarsi nella realtà. Tutto ciò
va quindi confermato sul campo, non è dato a
priori: è quindi possibile che le disposizioni risultino “falsificate”
dalla disapplicazione, più o meno diffusa, data comunque la selettività
discriminatoria propria nell’implementazione ex officio e non su istanza della parte interessata. Discorso in
parte diverso potrebbe essere svolto per le disposizioni di diritto civile,
quante volte esse forniscano la descrizione di istituti, messi a disposizione
del libero uso delle parti, quali istruzioni e, proprio nel senso della teoria
dei giochi, “giochi risolti” a loro disposizione: ma anche in tal caso la loro
adeguatezza viene verificata nella loro capacità di adattarsi all’uso, sicché
si tratta pur sempre di enunciati empirici, oltre che analitici.
In
ogni caso, in presenza di un diffusa normazione conformata nei termini della
minaccia potenzialmente efficiente, la situazione generale, vista da tale punto
di vista, è puramente e semplicemente di non
libertà, ossia di coercizione generalizzata: vi potrà essere, di volta in
volta, maggiore o minore coercizione, maggiore o minore subordinazione, sia
complessiva che interindividuale, ma non
si dà situazione indivisibile di libertà: la libertà come la intendiamo
noi, come, cioè, situazione indivisibile, è un concetto tutto/niente, e non è
“misurabile”: ciò che sarà misurabile è, semmai, il tasso di coercizione
presente, il tasso di subordinazione che l’accompagna specularmente.
Ad
esempio, secondo Felix Oppenheim la tassazione non sarebbe indice di
coercizione. Tale posizione ignora quanto espresso dalla cultura libertaria da
almeno centosettanta anni a questa parte. Si pensi alla resistenza fiscale di
Thoreau, alla discussione di Lysander Spooner sul carattere non vincolante di
una Costituzione che nessun cittadino americano aveva mai sottoscritto e, di
conseguenza, sull’abusività della tassazione; o a Benjamin Tucker, che alcuni
considerano un “socialista”, il quale considerava però robbery la tassazione stessa. Ma già Pierre-Joseph Proudhon, in un
saggio del 1849, ricollegava direttamente il libero credito monetario, privo di
ancoraggio aureo, all’abolizione delle imposte, quali soluzioni congiunte del
problema sociale. Di recente, è stato David Graeber (teorico di riferimento di Occupy Wall Street) a individuare nelle
vicende fiscali, intrecciate con quelle del debito, il fil rouge dell’oppressione lungo il percorso storico.
D’altra
parte, se Oppenheim non ravvisa “coercizione” né nell’imposizione fiscale, né
nel carcere, non si comprende proprio di che cosa parli quando parla di
“libertà”: forse delle liti di vicinato, e allora riemerge la questione del
carattere asfittico delle concezioni analitiche dominanti, che non colgono la
coercizione insita in un intero sistema. La negazione della libertà come spazio
comune alle parti conduce a un certo punto l’autore a ritenere che Hitler
sarebbe stato l’uomo più “libero” del suo tempo. Semmai, si dirà che il
dittatore è dotato di potere coercitivo
particolarmente intenso, non certo fonte di manifestazione di libertà,
tanto più che il carcere incatena anche il secondino; ma un abbaglio simile è
proprio il frutto del non aver compreso come la libertà sia piano indivisibile
tra più soggetti, tra tutti gli individui dell’umanità, e non
può essere verificata esclusivamente appuntando l’attenzione sull’agire “libero”,
nel senso di incontrollato, di un unico uomo, senza verificare le ricadute
sugli altri della sua condotta.
In
realtà, in termini analitici, la tassazione assume il carattere di quella che
Hillel Steiner ha ricostruito come throffer,
ossia l’”offerta che non si può rifiutare” di Vito Corleone, tipo particolare della
combinazione tra minaccia e offerta di cui si è già parlato: qui la minaccia è
rappresentata dall’obbligo di pagare le imposte, in cambio dell’offerta alla
prestazione di determinati servizi, che non consegue a un’esplicita richiesta del
destinatario della throffer, sulla
quale l’assetto fiscale originario si fonda: “Se non paghi sarai sanzionato, se paghi riceverai dei servizi in cambio”;
in effetti, lo Stato è caratterizzato da un ricorso sistematico alla throffer, data l’ambivalenza della sua
normazione, volta a un tempo a minacciare e a promettere, a restringere e ad
ampliare, salvo che non sempre il ristretto corrisponde con l’ampliato, dato
che lo Stato redistribuisce le risorse riscosse in modo differenziato e, anzi,
discriminatorio, sicché si instaura una dura competizione tra i minacciati, da
un lato nello sforzo di sottrarsi alla minaccia evadendo od eludendo,
dall’altro per potere accedere alle leve dell’offerta, che non è mai
incondizionata, né rispettosa del principio di eguaglianza di fronte alla
legge.
A
proposito di tassazione, riteniamo di fare un passo ulteriore, muovendo da quello
che ci appare un errore logico di Robert Nozick a proposito di applicazione del
principio di risarcimento. Nozick immagina che, in una situazione simile allo
stato di natura di Locke, agli “indipendenti” free riders sia impedito l’esercizio della giustizia privata, sulla
base della supposta pericolosità delle loro procedure. Di ciò si farebbe carico
l’”agenzia dominante” (che, però, pretendendosi unico agente autorizzato,
darebbe così vita a una fattispecie di abuso
di posizione dominante), costituendosi in monopolio di fatto. Un monopolio
di fatto, il quale concentri in proprie mani tutte le armi, possiede però un
formidabile incentivo a divenire monopolio di diritto, tant’è che l’agenzia
dominante trasmuta in Stato ultraminimo.
Lo
Stato ultraminimo fornisce servizi solo agli acquirenti delle sue polizze: ma,
dato che il servizio di protezione, in quanto reputato bene pubblico, viene
ritenuto da Nozick indivisibile, lo Stato ultraminimo, in lettura edulcorata,
“fornisce a tutti il servizio di protezione”, e diviene Stato minimo vero e
proprio; e ciò con un salto indietro di oltre un secolo rispetto a Gustave de
Molinari, il quale riteneva invece che il servizio di protezione fosse
divisibile e ammettesse concorrenza. Nozick esce dall’empasse affermando che, poiché il servizio di protezione sarebbe
appunto indivisibile, lo Stato ultraminimo sarebbe “moralmente obbligato” a
trasformarsi in Stato minimo, e quindi a fornire il servizio stesso anche agli
indipendenti, ai quali era stato proibito l’esercizio della giustizia privata.
Ecco quindi che la proibizione verrebbe “risarcita” mediante la prestazione di
quel servizio.
Senonché
il risarcimento deve andare a vantaggio del danneggiato, non a svantaggio;
invece qui siamo di fronte al cumulo di due svantaggi: la proibizione
dell’esercizio della giustizia privata e l’imposizione di un servizio non
richiesto –il giudizio se le esternalità siano da considerarsi positive o negative
è soggettivo, sicché attorno alla costituzione del bene pubblico si instaurano
conflitti-, a pretesa compensazione di quella primitiva proibizione. Non si
comprende, infatti, come l’autore del danno possa stabilire unilateralmente il
contenuto della prestazione risarcitoria, indipendentemente dalle preferenze
del danneggiato che andrebbe risarcito. A questo punto, se tale presunto
risarcimento vale a fondare la validità della proibizione iniziale, sarebbe
stato preferibile che gli indipendenti fossero stati risarciti in moneta: medium universale, che avrebbe consentito loro di scegliere sul
mercato, sulla base delle loro effettive preferenze, in quale modo, con quali
beni della vita, riparare il danno subito. Ciò in quanto le persone sono
titolari di scale di preferenze diverse, mentre Nozick presume che tutti
accettino di buon grado, quale risarcimento, un servizio di protezione armato
che potrebbe essere non gradito loro (ad esempio in quanto pacifisti
nonviolenti), nel senso che qualcuno potrebbe ritenere negativa
quell’esternalità, che Nozick dà per scontato sia considerata positiva da
tutti.
Sicché,
in definitiva, l’agenzia dominante, nel suo processo di trasformazione in Stato
minimo, finisce con l’esercitare coercizione verso gli indipendenti due volte: quando proibisce, e quando
impone una modalità risarcitoria non richiesta, che potrebbe essere ritenuta
addirittura dannosa: protezione e oppressione si identificano e si
sovrappongono, perché l’indivisibilità, se c’è, vale anche da tale punto di vista
Soluzione paternalistica, dato che Nozick sostituisce proprie valutazioni sul
carattere positivo o negativo delle esternalità al giudizio degli interessati.
E sempre che abbia poi senso una protezione anche “scelta”, dato che comunque
si tratta pur sempre di delegare l’armamento a qualcuno, e quindi legarsi mani
e piedi a lui, una volta che gli hai delegato l’uso delle armi; difficoltà che
lo stesso pensiero anarco-capitalista sulle agenzie di protezione non supera,
ove non giunga alla conclusione di armare la comunità direttamente.
Ecco
allora che analogo discorso possiamo svolgere con riferimento alla tassazione,
a sua volta fondata su di una circolarità paradossale: che il cittadino non
solo è subordinato allo Stato predatore e al potere che lo esprime, ma “paga”
anche (le “imposte”) per esserlo, sicché la conseguente e connessa prestazione
di “servizi” si rivela una formula politica di legittimazione e giustificazione
del potere; il cittadino viene così coartato due volte: in origine, quando viene
sottoposto all’apparato coercitivo, e poi, quando viene costretto a pagare per
tenere in piedi l’apparato stesso, sicché lo Stato concentra su di sé le due
funzioni di controllo e di servizio, finendo con il sovrapporle e col farle
coincidere, dato che l’oggetto del servizio è elaborato unilateralmente;
mentre, a rigore, visto che presta il proprio consenso all’autorità, il cittadino non dovrebbe pagare, ma
andrebbe compensato in cambio del
consenso che presta; e ciò in
soluzione del mistero di Etienne de La Boétie, per il quale il consenso viene
prestato gratis per ragioni
incomprensibili («quale orribile vizio
vedere un numero infinito di uomini non obbedire ma servire”). Diversamente
non vi sarebbe “scambio”, né “contratto sociale”, nemmeno metaforico. Ora, se
questo è il quadro, per cui la coercizione va considerata in quanto sistema, e non come relazione binaria
tra un soggetto A e un soggetto B, lo stesso vale per la nozione di “libertà”
in quanto tale, che è una situazione, uno spazio, un bene pubblico
indivisibile, nel senso proprio in cui si parla di bene pubblico nella scienza
economica, anzi, in un’accezione ulteriormente evoluta.
Indicazioni
bibliografiche.
Felix Oppenheim, Dimensioni della libertà, Milano,
Feltrinelli, 1982, (1961).
Greg Cohen, Capitalismo, libertà e proletariato, (1991), in L’idea di libertà, cit.
Robert Nozick, Anarchia, Stato e Utopia – I fondamenti
filosofici dello “Stato minimo”, Firenze, Le Monnier, 1981, (1974).
Gustave de Molinari, Sulla produzione della sicurezza (1849),
in Bastiat-de Molinari, Contro lo
statalismo, Macerata, Liberilibri, 1994.
Fabio Massimo Nicosia, Il Locke conteso. I diritti di proprietà tra
libertarians e left-libertarians, in Rivista
di Politica, fasc. n. 2, 2013.
Etienne de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria,
Torino, La Rosa Editrice, 1995 (1548).
Pierre Joseph Proudhon, Organisation
du Crèdit et de la Circulation, et Solution du Problème social sans Impot,
Parigi, Garnier Frères, 1849.
David Graeber, Debito – I primi 5000 anni, Milano, Il
Saggiatore, 2012,
5.
5.
La libertà come spazio comune incommensurabile.
Secondo Isaiah Berlin, “nella società ideale, costituita da esseri
pienamente responsabili, le regole scomparirebbero lentamente, perché sarei a
malapena consapevole della loro esistenza. Un solo movimento sociale fu
abbastanza audace da rendere del tutto esplicita questa assunzione e da
accettarne le conseguenze, quello degli anarchici. Ma tutte le forme di
liberalismo fondate su una metafisica razionalistica sono versioni più o
meno annacquate di questo articolo di
fede”.
La
libertà negativa di cui trattano i filosofi politici analitici, dei quali Ian
Carter si propone come punta, si direbbe la versione liberale annacquata della
libertà. Ma annacquata non solo rispetto a quella anarchica, ma anche rispetto
a quella liberale bene intesa. Andiamo per gradi. Secondo lo studioso anarchico
Salvo Vaccaro, “il pensiero anarchico
effettua da sempre uno scarto teorico rispetto al liberalismo proprio sulla
questione della libertà: il liberalismo assegna uno spazio predeterminato di
libertà a ciascuno in relazione alla delimitazione più o meno statica
dell’analogo spazio assegnato all’altro con cui si entra in contatto, con
l’effetto di ridimensionare la libertà, riducendola per entrambi i partner. Al
contrario, rinarrata sotto la luce convergente di teoria anarchica e
postmoderno, la libertà si deessenzializza per rilanciarsi come processo
espansivo di liberazione che mai raggiunge una saturazione stabile e definitiva
–nemmeno nel regno dell’anarchia…- e pertanto in tale gioco agonale non si dà
limite precostituito (costituzionalizzato, direbbero i liberal-democratici),
bensì ogni spinta produce beneficio diffuso e gli eventuali conflitti tra tali
dinamiche verrebbero a trovare un punto provvisorio di equilibrio autoregolato
proprio nella relazione di ciascuno con l’altro che costituirà, nonostante ogni
deriva individualistica e solipsistica della matrice proprietaria borghese, il
reale nucleo umano: io/altro, con un topos libertario di responsabilità
relazionale e reciproca”.
Se
gli anarchici di estrazione classica, rispetto agli anarco-capitalisti, hanno
il vantaggio della critica a ogni forma
di dominio, proprietario, sociale, di genere, nel costume, gli
anarco-capitalisti possono vantare di avere fondato, attraverso il richiamo
alla teoria del mercato, i lineamenti di una società senza Stato, che possa
invece prescindere dalla costruzione del famoso “uomo nuovo”: sicché anche
l’uomo comune, il quale pure nutra sentimenti conservatori o tendenzialmente
autoritari, può trovarsi a proprio agio nel modello di società delineato agli
anarco-capitalisti, che gli propongono semplicemente lo smantellamento di uno
Stato ormai ridotto a rudere inefficiente.
Non
si deve pensare, però, che, con ciò, gli anarco-capitalisti abbiano risolto il
problema dell’inclinazione autoritaria, dissolvendola nel mercato quale
sistema, spontaneo e “naturale”, di pesi e contrappesi, in grado di
neutralizzarla e riassorbirla. Occorre considerare, infatti, che, senza forti
inoculazioni di inclinazione libertaria –e allora il tema della costruzione dell’uomo
nuovo in qualche misura si ripropone, da qui il fiorire di letteratura sulla
pedagogia libertaria-, molte prospettazioni degli anarco-capitalisti rischiano
di rivelarsi indesiderabili, a partire dalla ricostruzione della figura del
proprietario in termini unilaterali, e non relazionali, quale sorta di “sovrano
assoluto” nel perimetro della sua proprietà, una proprietà del resto dai
fondamenti spesso opinabili e raramente persuasivi, se quello che è “lavoro”
fondante l’homesteading per te, può
essere mera esternalità negativa per me: e allora avrai sempre necessità di
acquisire in qualche modo il mio consenso, se la tua pretesa unilaterale è di
escludermi o discriminarmi; e tanto più che l’anarco-capitalismo copre con una
sanatoria i titoli di proprietà esistenti, anche illegittimi, fino a prova del
contrario, con tutti i problemi di effettività –di costi, di competenza- che
pone la questione della rettificazione dei titoli, soprattutto di quelli
particolarmente consistenti.
L’anarco-capitalismo
in mano agli autoritari comporta perciò il forte rischio che, al posto di un
desiderabile mercato davvero libero, si affermi quella che abbiamo chiamato idiocrazia (dominio di privati, da idion, privato in greco), e che il
ricorso al diritto privato, quale strumento di esercizio del dominio, in luogo
di quello pubblico non rappresenti un progresso, ma un regresso dal punto di
vista libertario (una regressione dallo Stato costituzionale allo Stato
patrimoniale), proprio perché il diritto pubblico liberale prevede delle
garanzie –parità di trattamento, sindacato del vizio di eccesso di potere, etc.-,
che il diritto privato non conosce nei confronti di chi esercita un potere
privato: si pensi al caso di un accordo di cartello tra le più grandi agenzie
di protezione in un sistema anarco-capitalistico. A meno di non estendere anche
al potere privato siffatte garanzie, dando luogo a un nuovo diritto comune, il
quale consideri formalistica la distinzione pubblico/privato e vada alla
sostanza, rinforzando, semmai, l’operatività del principio di buona fede, quale
riflesso civilistico del vizio di eccesso di potere, ovvero generalizzando
l’abuso di posizione dominante, rendendolo “vizio” di situazione, oltre che di
“sistema”, tanto per i soggetti pubblici, quanto per quelli privati.
Ma
se c’è un difetto negli anarco-capitalisti è proprio l’eccesso di formalismo,
che porta a sacralizzare quella distinzione, finendo con il legittimare tutto
quanto proviene dal “privato” in quanto “privato” e a demonizzare il “pubblico”
per il solo fatto di essere “pubblico”, ignorando che, nella loro
prospettazione, un privato eserciterebbe coercizione non meno del pubblico;
anzi, di più, proprio sotto il profilo del sindacato del suo operato in quanto
“privato”, che, una volta proprietario, secondo tale prospettazione, diviene dominus di tutte le situazioni, che si
svolgono nell’ambito della sua proprietà; e se la proprietà è su larga scala, o
di cartello, ecco allora che gli individui non proprietari sono in balia dei
(pochi) proprietari.
Va
detto, però, che chi pretendesse di fondare il proprio predominio sul diritto
civile, scaverebbe, almeno in linea di principio, la terra sotto i propri
piedi, dato che non è obbligatorio intrattenere rapporti con un soggetto
privato, sicché l’eventuale Stato idiocratico tenderebbe dialetticamente alla
propria estinzione: per dirla al modo del sito internet satirico “Lercio”, “Lo
Stato si privatizza per diventare efficiente, ma i cittadini disdicono il
contratto e si estingue”. E’ pur vero, però, che a tale non obbligo di
appartenenza devono corrispondere effettive possibilità alternative, che non
sarebbero rinvenibili in una situazione di “Stato privato”, in mano a un
cartello di potenti proprietari: da alcuni discorsi di molti anarco-capitalisti
non si ricava affatto, infatti, che la situazione da loro prospettata sarebbe
migliorativa, sul piano della libertà; essa sarebbe infatti del tutto identica,
se non peggiore per le ragioni dette, solo che tutti i rapporti assumerebbero
una veste esteriore “contrattuale”, in sé del tutto irrilevante sul piano
materiale.
Ma
anche il contratto sociale dei classici aveva veste appunto “contrattuale”, e
pure dava vita a “Leviatani” variamente conformati; e poi conosciamo la
rilevanza dei contratti per adesione, in cui soggetti forti predispongono
unilateralmente il testo contrattuale, spesso ricco di clausole vessatorie, e
al cittadino comune non resta che “aderire”, sottoscrivendo in assenza di
alcuna effettiva autonomia: almeno in teoria, l’attuale codice del consumo consente
una protezione maggiore per il cittadino, nei confronti del grande privato,
rispetto a quanto gli anarco-capitalisti non ammettano, sulla base della loro
formalistica impostazione iper-privatistica.
Si
consideri l’esempio delle città-condominio, paradigma del modello sociale e
comunitario anarco-capitalista, che avrebbero un amministratore e un’assemblea
condominiale, la quale, non diversamente da un qualsiasi organismo di diritto
pubblico di rilevanza territoriale, prenderebbe decisioni a maggioranza,
vincolanti per tutti, compresi i minori e le generazioni future, ossia persone
che non hanno concorso a stipulare il contratto. Ma anche per gli stipulatori,
occorrerebbe verificare in concreto se ciò comporti incremento effettivo di
libertà attraverso la facoltà di exit,
ma ciò presupporrebbe bassi costi di trasferimento e città-condominio con
regole migliori alle quali approdare, il che non è scontato, anche se non si
può escludere.
Ad
esempio, secondo alcuni anarco-capitalisti il regolamento di una
città-condominio potrebbe non ammettere gli omosessuali. Una tale previsione
sarebbe enormemente intrusiva, dato che dovrebbe verificare le abitudini intime
dei condomini (come? Con videocamere installate nelle camere da letto?), e
questo, in linea di astratta teoria, potrebbe anche ammettersi sul piano
contrattuale: ma vincolerebbe anche le generazioni future, i figli dei
condomini, i quali si troverebbero con un regolamento condominiale
preconfezionato da rispettare, sicché, ove un nuovo nato fosse omosessuale, non
solo sarebbe oggetto di ostracismo, ma si troverebbe a dovere emigrare in
un’altra città-condominio, la quale viceversa ammetta gli omosessuali. Ora, si
badi bene che tutto ciò non avrebbe senso in un contesto di Stato
liberal-costituzionale, che, pur in presenza di sentimenti di omofobia, non
pretende di subordinare il riconoscimento di diritti ai gusti sessuali, sicché,
in un caso come questo, passare dal “pubblico” al “privato”, assegnando al
“privato” poteri così totalizzanti, rappresenterebbe un passo indietro e non un
progresso.
A
parte tali degenerazioni, gli anarco-capitalisti hanno una concezione della
libertà vicina a quella della tradizione liberale, quella impostata sulla
tutela della libertà negativa dalla coercizione, estendendo teoricamente
l’ambito delle attività sottratte alla coercizione e affidate al mercato.
La
concezione liberale viene però spesso intesa in termini riduttivi. E’ vero che
l’idea della libertà liberale intesa come ognuno ricondotto al proprio ambito
spaziale limitato, si ravvisa nella concezione della proprietà di Kant, come
convivenza tra un “mio” e un finitimo “tuo”, che si “costringono”
reciprocamente. Tuttavia, se il liberalismo ha mostrato anzitutto quella faccia
“difensiva”, e fornito un’immagine ristretta nella propria concezione della
libertà, ciò si deve a ragioni di carattere storico, dato che, in origine, si
trattava di elaborare soprattutto una dottrina di “limitazione” del potere
dispotico, prima che fosse consentito immaginare l’espansione a tutto tondo
dell’individualità nella comunità dei liberi e degli eguali. Certo, la
concezione di libertà di un Michail Bakunin è più attraente e convincente, dato
che consente di superare il vieto luogo comune, per il quale la mia libertà finisce dove inizia la tua:
“Io non sono veramente libero che quando
tutti gli esseri umani che mi circondano, uomini e donne, non sono ugualmente
liberi: posso dirmi libero solo in presenza di altri uomini e in rapporto con
loro. Io stesso sono umano e libero solo nella misura in cui riconosco la
libertà e l’umanità di tutti gli uomini che mi circondano. La libertà degli
altri, lungi dall’essere un limite o una negazione della mia libertà, ne è al
contrario la condizione necessaria e la conferma. Non divengo veramente libero
se non attraverso la libertà degli altri, così che più numerosi sono gli uomini
liberi che mi circondano, più profonda e più ampia è la loro libertà, più
estesa e più profonda e più ampia diviene la mia libertà. Io intendo quella
libertà per cui ciascuno, anziché sentirsi limitato dalla libertà degli altri
vi trova al contrario la sua conferma e la sua estensione all’infinito”.
Tuttavia,
si badi che, se troppo spesso la libertà liberale viene declinata in quei
termini asfittici soprattutto dai mass-media
e tra la gente comune, sul piano della teoria economica del mercato essa si
sovrappone a ben vedere a quella di Bakunin, il che non deve sorprendere. Da
quando gli economisti hanno superato il dogma aristotelico, per il quale lo
scambio avviene trasferendo il «tanto
quanto», ossia rimanendo inalterate le condizioni di benessere degli
scambisti, da quando cioè, insinuandosi la nozione soggettivistica del valore,
si inizia a comprendere che lo scambio è fatto per migliorare le condizioni degli scambisti, e non per lasciarle
inalterate, la nozione “liberale” di libertà già si propone, in Carl Menger
piuttosto chiaramente, nella prospettiva di considerare l’esaltazione delle
condizioni dell’uno come co-condizione per l’esaltazione di quelle dell’altro;
Naturalmente,
occorre, per addivenire al cosiddetto “ottimo paretiano”, che le condizioni
degli scambisti non siano eccessivamente squilibrate nei punti di partenza, che
è quanto avviene oggi, allorché il contraente “forte” profitta di quello
“debole” per ragioni di assetto economico e istituzionale; ma, a parte ciò, e a
questo cercheremo rimedio, quanto precede poggia sul presupposto che la nozione
di libertà sia grosso modo riconducibile
a quella di “benessere”, quantomeno nel senso che la libertà si presume utile iuris et de iure, quale quadro
meta-normativo, all’interno del quale ogni scelta, volta alla soddisfazione di
un bisogno, si rende possibile, sicché è immaginabile, da tale punto di vista,
un utilitarismo (formale) libertario: qualsiasi forma di utilitarismo, che non
fosse tale, comporterebbe sacrificio di libertà, e quindi danni
incommensurabili allo stesso benessere, nel momento in cui l’essere e sentirsi
“liberi” sia ritenuto un elemento basilare del proprio benessere.
La
questione non era affatto ignota a Isaiah Berlin, il quale poneva Adam Smith
tra i dotati di “una visione ottimistica
della natura umana, (i quali) credono nella possibilità di armonizzare gli
interessi”; esattamente il presupposto della teoria del mercato, che,
collegando in rete tutti gli scambi, posto che, almeno idealmente, uno scambio
avvantaggia i coinvolti, in rete verrebbe avvantaggiata l’umanità intera: la
libertà, ossia la potenzialità di ciascuno, anche in questo ordine di idee,
come per gli anarchici, si accresce con il contatto con gli altri, non viene
limitata da questo: anticipazioni di quella che poi sarebbe stata la teoria dei
giochi, con riferimento però ai giochi a somma positiva e cooperativi, sicché,
nel mercato ideale, la strategia di cooperazione vince su quella di defezione.
Quantomeno nel senso che, in regime di concorrenza, a ogni caso di defezione
corrisponde un’ipotesi alternativa di cooperazione, sicché lo scambio non è mai
un monopolio bilaterale A vs. B, ma
sempre un modello trilaterale d’asta, una rete di aste interconnesse, in cui vi
sia sempre la possibilità di cambiare competitore e aggiudicatario.
Ma
se la libertà si esalta nell’incontro intersoggettivo, essa cessa di essere
vicenda personale, per divenire bene
pubblico puro, in un’accezione ulteriore, rispetto a quella accolta dalla
scienza economica. Intendiamo infatti per puro
il bene pubblico, il quale, facendone uso, non
solo non si consuma, ma anzi si riproduce, si mantiene vivo invece di consumarsi.
Ad esempio, la lingua è soggetta al principio di abbondanza, non di scarsità:
più viene utilizzata più è viva e si ravviva, mentre se non se ne fa uso muore.
Lo stesso vale per tutti i beni immateriali, come il software, in sé replicabile all’infinito, salvo barriere
tecnologiche o normative; come l’informazione e la cultura: non solo chi impara
a memoria una poesia non impedisce ad altri di fare altrettanto –quindi non si
dà rivalità nel consumo-, ma tutti sono in grado di diffondere ulteriormente
quella poesia, autoriproducendo, e consentendo di riprodurre tendenzialmente
all’infinito, quel bene pubblico.
Altrettanto
vale allora per la libertà-bene pubblico indivisibile, perché per ogni
interazione possibile, che massimizza l’utilità di chi interagisce, vi sono una
quantità potenzialmente infinita di interazioni in rete, che ulteriormente
massimizzerà l’utilità di tutti: e nell’interazione la libertà viene
alimentata, invece che ridursi. Anche a voler limitare l’osservazione alla
relazione a due, la libertà-bene indivisibile può rappresentarsi come uno
spazio corrispondente a un angolo piatto, nel quale i partners della relazione occupino ciascuno un angolo retto l’uno
adiacente all’altro, sicché la relazione è in equilibrio. Laddove nelle
relazioni coercizione/subordinazione, supremazia/soggezione, l’angolo è
rispettivamente ottuso e acuto, di modo che quanto vien “misurato” è
l’oscillazione del lato in comune, sicché l’angolo ottuso sarà più o meno
ottuso, e altrettanto l’acuto: mentre si ha piena libertà solo in
corrispondenza dei due angoli retti, nella prospettiva, però, del reciproco insinuarsi l’uno nello spazio
dell’altro.
In
altro modo, la relazione può essere rappresentata da una bilancia a due piatti
(o da un’altalena a due seggiole contrapposte): quando scende un piatto, sale
l’altro, all’incremento da un lato corrisponde la riduzione dell’altro: ma,
fuoriuscendo dall’equilibrio stabile, si esce dalla “libertà comune”, per
entrare in un rapporto, che non è di “libertà” aumentata da un lato e di “libertà”
diminuita dall’altro, ma di coercizione
da un lato e di sottomissione dall’altro, di supremazia da un lato e di
soggezione dall’altro, come nei rapporti potestà/interesse legittimo nella
scienza del diritto amministrativo.
La
libertà, in quanto spazio comune, è cioè gioco a somma positiva, un win-win game; l’altra concezione, al
contrario, ne fa gioco a somma zero, dato che ogni spazio che andasse a
vantaggio dell’uno andrebbe a detrimento dell’altro: esattamente ciò che
avviene, al contrario, non nelle relazioni di libertà, scambiste o associative
che siano, ma piuttosto nelle relazioni coercitive, caratterizzate da un
rapporto supremazia/soggezione, sicché l’angolo ottuso, espandendosi, preme
l’acuto adiacente, che ulteriormente si riduce; il piatto della bilancia più
pesante si abbassa e l’altro si alza in corrispondenza.
Chi
ritenesse che questa costituisca una situazione di libertà, che si possa
misurare nelle oscillazioni –sfuggendogli che si tratta invece di una
situazione di rapporto tra una coercizione e una subordinazione- sarebbe
prigioniero di una zero-sum mentality,
per la quale in ogni relazione
–quindi non solo in una caratterizzata dal confronto tra supremazia e
soggezione- debbano necessariamente riconoscersi un winner ed un looser, e
ciò persino nelle relazioni libere.
La
libertà relazionale-intersoggettiva trova invece, come detto, espressione nello
scambio, nel quale tutte le parti coinvolte mirano a migliorare le proprie
condizioni, e si tratta di gioco a somma positiva. Che poi la relazione abbia
luogo sotto forma di contratto in senso proprio o di associazione, vale a dire
di scambio di mercato o di relazioni comunitarie, non cambia di molto; perché
tale distinzione non sembra avere altro senso che retorico, dato che anche il
momento associativo è costituito da scambi.
E’
pur vero che, di solito, si sottolinea che, in uno scambio, ognuna delle parti,
dopo l’incontro per la conclusione del contratto, prosegue autonomamente per la
propria strada, perché i rispettivi interessi, consumato lo scambio, si
divaricano, mentre nell’associazione gli interessi restano comuni e il legame
perdura indefinitamente nel tempo; ma anche l’associazione, se è volontaria e
libera nell’adesione, è precaria, e le parti possono riprendere la propria
strada in qualsiasi momento, e la relazione perdurerà solo fin quando le parti,
non meno che nello scambio istantaneo, la riterranno utile. Quindi,
un’associazione rappresenta nulla più uno scambio continuato o relativamente
permanente; e, del resto, Kant, sia pure in tutt’altri contesti, accostava il
termine Gemeinshaft a quello commercium.
A
questo punto, libertà e giustizia, in una relazione, coincidono, perché può
ritenersi “giusta” solo una relazione nella quale non si evidenzino rapporti di
soggezione che non siano consensuali. In presenza di consenso, viceversa,
qualsiasi invasion è permessa (si
pensi a un rapporto sado/maso volontario, o al pugilato, o al duello, pur non
consentito dal nostro ordinamento): nel senso che è assentita e autorizzata
dall’interessato, il cui giudizio è sovrano, sicché i terzi saranno indotti a
intervenire solo nel caso in cui ravvisino esternalità negative nei loro
confronti, ad esempio nel danno che procura loro la diffusione di un
comportamento chicken, in quanto
consolidante l’indivisibile autorità non deliberatamente e consapevolmente
accettata dal terzo estraneo al rapporto specifico.
Se
la libertà è scambio nello spazio comune, e non solo atto unilaterale, va
ribadita la difficoltà: l'idea che uno scambio, secondo il modello dell'ottimo
paretiano, avvantaggi gli scambisti, e quindi che il mercato, essendo una rete
di scambi tra n coppie, in cui ognuno
si avvantaggia, dovrebbe avvantaggiare quindi tutti, è sottoposta a una grave restrizione.
Ciò infatti presuppone che le persone che scambiano agiscano su di un piede di
parità, almeno di partenza, e che quindi la loro scelta sia effettivamente
libera e non viziata dal bisogno. Oltretutto, gli scambi non avvengono tra
angeli, ma sulla base di rapporti di forza e della pressione delle reciproche
pretese, anche collettive, come nelle relazioni sindacali e di cartello. Ma se
io sono un misero deprivato dei miei diritti originari sulla Terra, minacciato
da norme repressive inique che mi costringono al salario, quando cedo in uno
scambio la mia forza-lavoro, non solo non
miglioro, ma peggioro la mia condizione, rispetto alla fase originaria di
autonomia. Quindi, in tal caso, la mia volontà nello scambio è viziata e, in un
caso simile, un “contratto di lavoro” sarebbe stipulato in stato di bisogno, e
quindi tecnicamente rescindibile (art. 1448 c.c.), oltre a comportare
indennizzo la deprivazione originaria.
Pur
con tale precisazione, resta il fatto che l’idea che la libertà, e non il
rapporto supremazia/soggezione, che è altro da una condizione di equilibrio tra
le parti in uno spazio comune, si possa misurare, può portare a conclusioni
assurde e contrarie al senso comune, a meno di non considerarle paradossi o
autoironia da filosofo. Ci riferiamo al caso limite proposto da Hillel Steiner,
dell’uomo rinchiuso in un sarcofago (ventilato, precisa l’autore, in vena di
spiritosaggini), per il quale il malcapitato avrebbe pur sempre la “libertà” di
«strofinarsi il piede contro la
superficie interna di un sarcofago». Non solo: questa sarebbe per il
soggetto una conquista e un’acquisizione, perché prima di essere rinchiuso nel
sarcofago, questa facoltà gli era preclusa! Sempre Steiner propone un altro
confronto, per “misurare” la libertà: «un
individuo è più libero se è incatenato al muro di una cella con una catena
legata a un solo polso che non avendo entrambi i polsi legati»: è evidente,
al contrario, che entrambi si trovano in una situazione di grave sottomissione,
salvo che uno lo è leggermente meno dell’altro, altro che gradazioni diverse di
libertà! E un uomo sarebbe totalmente illibero solo nel caso in cui il suo sistema
nervoso fosse controllato da altri; il che rappresenta certo una situazione di
annientamento della sua volontà, ma l’argomento finisce “per fare il gioco
dell’avversario”, dato che, a questo punto, qualsiasi situazione di
oppressione, che fosse appena minore, potrebbe venir spacciata come tutto
sommato “liberale”. E’ del tutto evidente, a chiunque sia dotato di senno, che
un simile approccio “analitico” alla misurazione della libertà non conduce da
nessuna parte e non è di alcuna utilità, per chi, dotato di inclinazione
libertaria, abbia a cuore le sorti del futuro della libertà.
Indicazioni
bibliografiche.
Guido De Ruggiero, Storia del Liberalismo Europeo, Milano,
Feltrinelli, IV ed., 1977 (1925).
Isaiah Berlin, Due concetti di libertà, Feltrinelli,
Milano, 2000 (1958).
Salvo Vaccaro, Divenire anarchismo, in S. Vaccaro, a cura di Pensare altrimenti, Eleuthera, 2011.
Michael Bakunin, Dio e lo Stato, Pistoia, RL, 1974
Hillel Steiner, Libertà individuale, in L’idea di libertà, cit.
Immanuel Kant, Primi principi metafisici della dottrina del
diritto, Bari, Laterza, 2005 (1797), a cura di F. Gonnelli, Capitolo primo,
Del modo di avere qualcosa di esterno
come il proprio.
Aristotele, Etica Nicomachea, Milano, Rusconi, 1993.
Richard Cantillon, Saggio sulla natura del commercio in
generale, Torino, Einaudi, 1974 (1755).
Carl Menger, Principi di economia politica, a cura di
Elena Franco Nani, Torino, UTET, 1976 (1871).
6.
6.
Inclinazione libertaria e situazione originaria
Per capire quando ci
troviamo di fronte ad atti di effettiva coercizione, si rivela forse utile una
simulazione; immaginiamo che, in una situazione originaria alla Rawls, in cui
viga il velo di ignoranza, ma anche, come abbiamo rilevato in passato, “di
cultura”, soggetti tutti dotati di inclinazione libertaria debbano stabilire
quali condotte ammettere e quali proibire, in quanto ritenute “coercitive”, o
percepite come tali. Occorre infatti considerare che l’inclinazione libertaria
non ammette tutte le condotte, ma ne vieta alcune; vieta, in particolare, l’esercizio
di tutte quelle facoltà naturali che sarebbero viceversa riconducibili
all’inclinazione autoritaria. Siamo al limite del paradosso, perché, effettivamente,
l’inclinazione autoritaria ammette più condotte di quante non ne ammetta
l’inclinazione libertaria, volta alla costituzione di uno spazio comune aperto
nel quale tutte le parti coinvolte massimizzino simultaneamente le reciproche
facoltà compatibili tra le parti
stesse, laddove l’inclinazione autoritaria ammette anche condotte non
compatibili, ma ciò da una parte sola, a detrimento cioè delle potenzialità
espressive di una o più delle parti in causa.
In una situazione
originaria composta da soggetti tutti dotati di inclinazione autoritaria,
infatti, nessuna condotta sarebbe pregiudizialmente
vietata: questo sarebbe il paradossale esito dialettico del conato di
vietare più condotte possibili, dato che questo finirebbe con il legittimare
qualsiasi attività di impedimento, e quindi anche gli atti più lesivi e
aggressivi, e ogni decisione ultima verrebbe affidata al rapporto di forza: i
più forti prevarrebbero, scaturendo il loro predominio da un quadro che
possiamo definire di “anarchia negativa”.
I libertari, viceversa,
mirando all’obiettivo della reciprocità, sarebbero impegnati a individuare
–ecco il paradosso- le condotte vietate, e una tale operazione non pare davvero
agevole, dato che ognuno tenderebbe a riservare a sé la facoltà di adottare più
condotte possibili –ad esempio, nessuno rinuncerebbe alla facoltà di influenzare gli altri attraverso la
propria capacità di persuasione-, ma, al contempo, vorrebbe vietare agli altri
tutte le condotte incompatibili con la propria libertà personale, fino alla
soglia in cui si realizzi l’agognato obiettivo del rispettivo bilanciamento nella
reciprocità, dato che ogni regola che sto pensando per me, la sto concependo
sia nella mia veste di attore, sia nella mia veste di destinatario dell’azione
altrui; e questo è il vero senso, per noi, del velo di ignoranza, dato che, in
situazione originaria non so se, in un futuro caso particolare, sarò attore o
destinatario di una tipologia di condotta, e allora delibererò mettendomi nei
panni simultaneamente dell’attore e del destinatario: l’empatia nasce
dall’introspezione, perché se devo decidere il livello delle sanzioni penali,
in questa condizione, mi metterò simultaneamente nei panni della vittima e nei
panni dell’innocente ingiustamente accusato, oltre che del colpevole, sicché
cercherò in me una soluzione che tenga conto di ciascuna di queste esigenze:
agire in situazione originaria significa ponderare imparzialmente interessi
ipotetici.
Anzitutto, in situazione
originaria si stabilirebbe, in linea del tutto generale, che nessuno è legittimato a imporsi agli altri,
e verrebbero certamente messe al bando, in quanto non conformi con l’obiettivo,
attività come aggredire fisicamente gli altri, o minacciare l’aggressione
fisica. Ma siamo sicuri che ciò sia sufficiente? Non esistono altre condotte,
oltre l’aggressione fisica, che rappresentino violazioni di libertà? Una
risposta ci viene dalla scienza giuridica, che conosce sfumature spesso molto
maggiori di quelle proposte dai filosofi analitici; il diritto civile, ad
esempio, sanziona, nelle relazioni contrattuali, non solo la violenza, ma anche
il dolo, e attribuisce rilevanza all’errore, e impone costantemente il rispetto
del principio di buona fede; ma subordina la loro operatività all’iniziativa
dell’interessato, prevedendo l’annullamento del contratto su istanza di parte.
Allo stesso modo, nel diritto penale italiano, la minaccia è sottoposta alla
querela del minacciato, dato che il giudizio sul grado di serietà della
minaccia è, come si è visto, soggettivo.
Tutto ciò pare
indicativo di come l’inclinazione libertaria operi in situazione originaria:
essa indurrebbe a vietare non solo le condotte platealmente invasive della
sfera fisica, ma anche condotte fraudolente o potenzialmente dannose, ponendo a
proprio fondamento il principio di buona fede –occorre potersi fidare
dell’altro-, riservando però a ognuno la facoltà di decidere caso per caso
quando reagire e quando no, sulla base di valutazioni individuali di
opportunità e convenienza. Appare infatti eccessivamente restrittivo
l’approccio di Murray Rothbard, per il quale solo la minaccia di uso della
forza fisica (oltre che l’uso diretto) rappresenterebbe illegittima invasion: il concetto di aggressione al
corpo è troppo indeterminato, dato che non si comprende quanto vicino al corpo
si debba arrivare e con quale intensità, tanto più che, nell’impostazione
dell’anarco-capitalista, la medesima tutela accordata al corpo si estende ai
beni di proprietà (e all’adempimento contrattuale, in quanto articolazione del
diritto di proprietà); sicché la vaghezza diviene assoluta, se non si
condividono i presupposti indicati per
divenire “proprietari”.
Sul punto intendiamo
proporre un approccio diverso: dato che free,
in inglese, significa tanto “libero”, quanto “gratuito”, val la pena di
cogliere tale non casuale coincidenza terminologica, per accostare la nozione
di coercizione, quindi di situazione illibera, alla presenza di costi da sopportare per porre in essere
una certa condotta: costi vivi, costi di transazione, costi di transizione,
costi di informazione, costi-opportunità, costi irrecuperabili, etc. Senonché,
anche con riferimento a ciò che rappresenta “costo” i giudizi sono soggettivi,
potendo convivere preferenze diversificate tra le persone (e anche, per chi
nutre dubbi sul dogma della transitività, anche all’interno della persona
stessa), e comunque si dovrà pur sempre distinguere tra costi imposti
-minacciare comporta l’imposizione di un costo per il destinatario della
minaccia-, costi affrontati deliberatamente e costi naturali, con la
conseguenza che l’arbitro ultimo del sentirsi coartato è sempre l’interessato,
il quale è autorizzato a sottoporre al vaglio del mercato giuridico la propria
iniziativa di reazione agli atti che egli ritiene, non solo fisicamente invasivi,
ma anche infìdi.
Ciò non significa
estendere indefinitamente la nozione di coercizione, che va in effetti distinta
da altre situazioni, come ad esempio quella, poco convincente, introdotta da
Lindley M. Fraser, di “rapporto economico disproduttivo”, in quanto comunque
fondato sull’adesione volontaria delle parti allo scambio, non sulla
coercizione di una nei confronti dell’altra. L’esempio proposto è questo: lo
studioso Fraser, mentre lavora nella sua stanza, è disturbato da un organetto
che suona per la strada. Accetta allora di corrispondere al proprietario
dell'organetto denaro per farlo smettere. In tal caso, secondo Fraser, il
rapporto sarebbe “produttivo” per l'organettista, che ottiene del denaro per
non far nulla, e disproduttivo (disproductive) per lo studioso, il quale rinuncia a del denaro per rimanere nello
stato in cui si trovava prima dello scambio. La spiegazione non convince:
l'organettista aveva un diritto di suonare non inferiore a quello dello
studioso di studiare, dato che la strada è pubblica e non di proprietà dello
studioso. Pertanto si può immaginare la situazione esattamente inversa: che sia
l'organettista a pagare lo studioso per poter continuare a suonare, dato che
lui suonando può continuare a guadagnare da altri. Le parti, in entrambe le
ipotesi, darebbero vita a una valutazione di convenienza identica a quella che
avviene in qualsiasi scambio: se valga di più la somma di denaro corrisposta o
la prestazione che si consegue; e una prestazione può essere anche omissiva,
può cioè consistere in una rinuncia.
Se si entra in simili
ordini di idee, il concetto di coercizione diviene eccessivamente esteso,
finendo con il ricomprendere anche le mere situazioni di influenza, il cui
esercizio si vorrebbe invece salvaguardato. Si pensi alla vicenda del
“boicottaggio” subito da “Dolce & Gabbana”, per le dichiarazioni dei due
stilisti avverse all’adozione di minori da parte delle coppie omosessuali.
Sulla questione vi sono state polemiche pretestuose, dato che l’appello al
boicottaggio è una modalità lecita nel mercato, ne fa parte integrante, in
forma di exit e voice, per dirla con Albert O. Hirschmann.
Nel boicottaggio si
prospetta infatti un peggioramento di situazione –ad esempio, “non comprerò più
le tue giacche, e invito gli altri a fare altrettanto”- che rientra anzitutto
nella libertà di manifestazione del pensiero, dato che uno resta sempre libero
di non comprare una giacca, salvo che, con il boicottaggio, non si limita ad
agire o a non agire, ma anche lo dichiara
pubblicamente, sicché vietare il boicottaggio sarebbe anzitutto vietare una
libertà di parola.
Se comprare o non
comprare un prodotto è perfettamente lecito, è altrettanto lecito anche
dichiararlo, dichiararlo in pubblico, e quindi proporsi come esempio per gli
altri, i quali restano pienamente liberi a propria volta di accedere
all’invito, ovvero sottrarvisi: non v’è quindi coercizione nei loro confronti,
come non lo è nei confronti del venditore, il quale si sottopone al giudizio
del mercato, e quindi sconta il fatto che propri atteggiamenti possano
risultare sgraditi alla platea dei consumatori, o a una sua porzione.
In
generale, operate tali distinzioni, non si può che rassegnarsi al fatto che, per
valutare invece su quale focal point convergere, in situazione originaria, per
stabilire in che cosa consista la coercizione (illegittima), occorre sottrarsi
a considerazioni ideologiche o troppo restrittive, ma affidarsi all’id quod plerumque accidit, come
elaborato ab immemore, come detto,
dalla dottrina civilistica e penalistica, le quali hanno fornito nozioni di
violenza e di minaccia e di rispetto della buona fede molto articolate, che
tengono conto delle varianti soggettive: dato che anzitutto timore e paura sono il focus
attorno al quale la nozione di coercizione si sviluppa (che il potere sovrano
si fondi sulla paura è un luogo comune della più lucida letteratura
reazionaria), ma variano di grado a seconda degli individui.
Senonché, in situazione
originaria, i libertari non si limiterebbero a considerare la libertà dalla violenza
altrui o da altre forme di impedimento, come da concezione classica della
libertà negativa, ma estenderebbero il concetto alle questioni di sistema,
istituzionali ed economiche. Ogni individuo è dotato di forza psico-fisica, e
persone razionali, che fossero dotate di inclinazione antiautoritaria,
stabilirebbero anzitutto il principio dell’antitrust
preventivo, volto a delegittimare qualsiasi tentativo di affermazione del
monopolio della forza, in quanto consustanzialmente inconsistente con il carattere
pandesposta della titolarità della forza, e, dunque, della capacità di
effusione normativa. Si dirà che, nel caso in cui tutti i soggetti fossero dotati
di quell’inclinazione, di ciò non vi sarebbe bisogno, tuttavia occorre
considerare che quella relativa al monopolio della forza consiste in una
credenza costitutiva in ordine alla sua efficienza ed efficacia, sicché
tentazioni in tal senso sono sempre possibili, tanto più che vi sono gradazioni
diverse nell’inclinazione libertaria (ad esempio, alcuni libertari sostengono
lo “Stato minimo”); da qui l’esigenza di munirsi di strumenti di vigilanza,
anche in via preventiva, per non trovarsi di fronte a situazioni poi
insormontabili di consolidato monopolio della coercizione.
*****
In situazione
originaria, per altro verso, i libertari, dal principio, che possiamo
considerare l’architrave della dottrina libertaria quale conseguenza
dell’”inclinazione”, ossia quello del difetto di legittimazione in capo ad
alcuno del diritto di imporsi coercitivamente sugli altri, sarebbero in grado
di ricavare altresì implicazioni rilevanti dal punto di vista economico, in
quanto a propria volta articolazione della questione del potere e della sua
delegittimazione.
Ovviamente, i dotati di
inclinazioni libertaria non sono identici nel carattere, nei tratti psicologici
della personalità, quindi non avrebbe senso ipotizzare, come viceversa fa John
Rawls, che in situazione originaria si debba seguire necessariamente il criterio
del maximin –“minimizzare la massima
perdita”, che rischia di portare alla paralisi, e non risolve il dilemma del
prigioniero, dato che porterebbe a defezionare-, piuttosto che altri criteri di
azione di maggiore respiro, essendo molto diversificati tra gli individui gli
atteggiamenti di propensione o avversione al rischio.
In linea di massima,
però, pur con queste varianti individuali, il libertario non è un avventato, e
cercherebbe di garantirsi una qualche base di certezza, lasciando all’ulteriore
libero gioco le chances di
differenziazione, accettando di assumersi una certa dose di rischio: probabilmente,
da questo punto di vista, è per lui confacente una qualche combinazione tra il maximin, “massimizzare il minimo
guadagno”, elemento di relativa certezza,
e il criterio dell’expected value,
che introduce elementi di aleatorietà nel realizzarsi delle aspettative.
Come conciliare questa
duplice esigenza, senza imposizioni e rimanendo ancorati al principio di libertà?
Occorre muovere dalla considerazione che il tipo psicologico libertario rifiuta
per inclinazione di farsi imporre le cose, non riesce, dal punto di vista
morale, a dare fondamenti a “obblighi”, che non siano autofondati, che non
siano frutto di un sentimento interiore, con la conseguenza che può parlarsi di
obbligo solo fin quando perdura il sentimento di obbligazione; sono invece
esclusi obblighi di fonte esclusivamente eteronoma: il “tu devi” di A non
comporta mai obblighi –morali, giuridici- in capo a B. Il dotato di
inclinazione libertaria nega qualsiasi fondamento all’obbligazione, quindi
anche all’obbligazione politica, che non sia il proprio effettivo consenso alla
fonte del preteso obbligo, mentre l’autoritario, quando, come nella maggior
parte dei casi, non riesce ad assurgere a posizioni di comando, subisce
passivamente gli imperativi dell’autorità, almeno sin quando questi non vadano
platealmente contro il suo interesse, e allora si rivolterà: non però per
spirito libertario, ma per il rifiuto di subir danno, che è in capo a ogni
uomo, sia esso libertario o autoritario.
Ne deriva
un’implicazione stretta fondamentale: dal punto di vista libertario, la Terra è
di proprietà comune agli uomini, i quali esercitano originariamente in comune
la propria potestà possessoria, attraverso un homesteading collettivo, corrispondente al fatto che ognuno, con il
proprio corpo, occupa immediatamente, alla nascita, uno spazio nel mondo, e
tutti lo fanno simultaneamente; dato che, a ben vedere, non v’è mai un “primo
occupante” (già Locke confutò Filmer su questo), ma un’occupazione collettiva e
comunitaria, che si tramanda di generazione in generazione, nell’ambito della
quale si vanno poi a inserire le valorizzazioni individuali di suolo, che non
sono mai “originarie”. Con la conseguenza che le appropriazioni individuali
sono frutto di convenzioni collettive, come rilevarono Pufendorf e Hume, sicché
possiamo dire che, da questo punto di vista, la proprietà non è un dato
presupposto del mercato, ma è essa stessa calata nel mercato.
Occorre infatti
considerare che le attività umane sono insediate, e inevitabilmente si svolgono,
sul territorio –questo il senso di una disciplina come l’urbanistica, che
disciplina esattamente l’insediamento degli interessi sul territorio-, con
l’implicazione immediata che ogni atto di autorità si rivela, implicitamente e in
ultima analisi, un atto di gestione imperativa e unilaterale del territorio,
fino al caso eclatante dello Stato, che sul territorio, e quindi sugli
insediati, rivendica nientedimeno che la “sovranità”. Icastico esempio analitico
è quello dell’erezione di un muro, volto a impedire il passaggio, come nel caso
di perimetrazione di un possesso, teso a volgerlo in proprietà inviolabile.
Orbene, se A erige un
muro con una tale finalità, perché B dovrebbe considerare “obbligatori” gli
effetti di quel muro, fuori da un suo attivo consenso? Può un bruto fatto come l’atto
di erezione di un muro essere fonte di obblighi? Non è forse l’erezione di quel
muro una lesione della libertà negativa di B? Si potrebbe dare il caso che tale
erezione sia volta a proteggere una porzione di suolo sulla quale A abbia
“lavorato”, e che con ciò egli, secondo la dottrina dell’homesteading, ne sarebbe divenuto “proprietario”, acquisendo il
pieno diritto di escludere gli altri dall’accesso in quel suolo, sicché il muro
assurgerebbe a evento eticamente connotato, da fatto bruto trasmuterebbe in
fatto istituzionale.
Osta all’accoglimento
di tale discorso il fatto che ciò che
per A è “lavoro”, per B potrebbe essere una semplice esternalità negativa, un
atto emulativo nell’accezione civilistica, ossia di puro danno per lui, magari
senza davvero avvantaggiarne l’autore: il giudizio sul carattere positivo o
negativo delle esternalità è infatti soggettivo, lo diceva già James Buchanan
trattando dei beni pubblici, come lo è il senso dell’utilità del lavoro altrui;
per cui, comparando il tuo vantaggio, derivante dall’erezione del muro, con il
danno da me subito dalla stessa, io potrei concludere che ne ricavo solo danni
o più danni che vantaggi, e quindi sarei perfettamente titolato ad oppormi a
tale erezione, fino a legittimarne la demolizione; legittimazione derivante
dall’assenza di alcun obbligo in mio capo a rispettare un muro che mi danneggia
–impedisce la mia circolazione, o lede il mio senso estetico-, senza che su di
me ricada alcun obbligo di rispettare l’esistenza del muro, che io posso
ritenere meramente bruta, a meno che io non ne riconosca a sua volta l’utilità;
e allora scatta l’onere, per A, di essere in qualche misura persuasivo nei confronti di B, al fine
di acquisirne il consenso: non basta l’intenzionalità unilaterale dell’autore.
Diversamente, si ricadrebbe altresì in fallacia naturalistica, dato che, dal
fatto che tu abbia svolto un certo lavoro, tu pretendi anche che su di me
ricada un dover essere, un dovere di rispetto per quello che tu ritieni, senza
dimostrarmelo, lavoro utile anche per me.
Ne deriva che una
proprietà privata, che a questo punto diventa un semplice usufrutto, in quanto
istituto relazionale, che sia legittimamente fondata dal punto di vista
libertario, non può che incardinarsi sul consenso degli altri; in altri
termini, sul proprietario ricade l’onere di dimostrare utile per gli altri la
sua proprietà, pena il mancato rispetto della stessa da parte della comunità.
Il “tu devi” di A non comporta obblighi morali e giuridici per B, si diceva,
men che meno hanno effetti normativi i comportamenti materiali di A nei
confronti di B, fatta salva la loro capacità di effettiva imposizione; ma
allora saremmo al di fuori dei derivati dell’inclinazione libertaria, per
ricadere nel mero rapporto di forza, proprio dell’inclinazione autoritaria. La
proprietà è quindi istituto ambivalente, dato che può essere fondato sia
dall’autorità –la maggior forza-, e allora è proprietà unilaterale, sia dalla libertà –il consenso del destinatario-, ma
in tal caso il consenso deriva da un giudizio di utilità condivisa da parte del
non proprietario.
Ora, perché B dovrebbe
mai attribuire il proprio consenso alla condotta materiale di A, a meno che A
non sia in possesso di una capacità di persuasione particolarmente spiccata,
che lo esenti da oneri ulteriori, al di fuori di uno specifico vantaggio anche
per lui in conseguenza di quella condotta? Il vantaggio potrebbe consistere anzitutto
nella reciprocità, come illustrata dal lockean
proviso: A diviene proprietario, ma altrettanto capita a B, dato che, nel
momento stesso in cui A erige il muro, riconosce il diritto di B di fare
altrettanto e di divenire proprietario di una porzione di terreno “altrettanta e altrettanto buona”. Ma non
solo, in una data situazione, la terra potrebbe essere scarsa, ovvero
potrebbero non esservi porzioni di pari valore, e quindi difettare il
presupposto per la realizzazione di una reciprocità reale sui possessi; ma B
potrebbe anche non avere alcun interesse a tale forma di compensazione,
preferendo poter circolare liberamente in tutti gli spazi (preferenza nomade), e quindi non appagandosi del riconoscimento a
uno spazio esclusivo assegnato a lui.
In tal caso il suo
consenso andrebbe “acquistato” con altre forme, in primis quella monetaria, dato che, come detto, il denaro
rappresenta un medium universale di
circolazione e di acquisizione dei beni. Ne deriva che B potrebbe acconsentire
alla proprietà di B esclusivamente ove indennizzato monetariamente per la
privazione di spazi liberi a sua disposizione.
Essere proprietario
diviene quindi costoso per il proprietario, a meno che la sua pretesa
possessoria non sia contenuta, ad esempio limitata ad esigenze essenziali
(l’abitazione, l’esercizio di un’attività imprenditoriali ritenuta utile dagli
altri), tale da consentire un effettivo grado di reciprocità accettabile da B,
sempre che B ne sia interessato.
Dal ragionamento che
precede deriva che A e B sono in origine parimenti
comproprietari del territorio, dato che il consenso di B è indispensabile
ad A per potere rivendicare un uso esclusivo di una porzione. La proprietà è quindi
istituto relazionale e ambivalente, dato che, da un lato, è desiderata per il
fatto di consentire quell’uso esclusivo, ma, dall’altro, comporta lesione della
libertà negativa per chi da quell’uso esclusivo viene privato della libertà di
circolazione, e la lesione di libertà negativa deve poter essere risarcita. In
tale quadro, la lesione di libertà negativa corrisponde ai diritti di
comproprietà di B, sicché il risarcimento del danno subito assume i caratteri
di una rendita, dovuta all’essere contitolare del suolo.
Posto che tale libertà
negativa –la libertà “da”, qui riferita alle appropriazioni unilaterali non
vantaggiose- è in capo a ciascun uomo, tale rendita compete a ogni individuo
per il fatto stesso di esistere, e quindi si tratta propriamente di una
“rendita di esistenza”, spettante a ciascuno in quanto comunista
(comproprietario) del suolo.
Quanto precede vale in
termini analitici ipotizzando una situazione originaria, dalla quale muovere i
primi passi: erezione del muro, compensazione conseguente. Ma vale anche a
invalidare, proponendo un sistema di rettificazioni, la situazione attuale, nel
momento in cui la grande parte degli uomini non viene compensata per il fatto
di essere tenuta a rispettare forzosamente le titolarità di beni di altri
privilegiati.
Emerge qui la classica
distinzione tra libertà negativa e libertà positiva. I libertari di scuola
liberale, infatti, vedono la lesione della libertà solo nelle violazioni di
libertà negativa, la libertà “da”, ossia appunto dalla costrizione; mentre la
libertà positiva sarebbe una condizione nella quale sia concreta la possibilità
“di” fare, di agire concretamente. Il fatto è, si dice, che essere dotati di
mezzi concreti per agire richiede un intervento che potrebbe essere coercitivo
su altri al fine di ottenere quei mezzi (ad esempio, attraverso
l’intermediazione dello Stato), e ciò non sarebbe compatibile con i principi
libertari, i quali quindi si limiterebbero a considerare la libertà “da”.
Esistono però situazioni nelle quali la libertà positiva è perfettamente
riconducibile alla libertà negativa, e ciò avviene tutte le volte in cui la
mancanza di mezzi concreti per agire deriva da lesioni di libertà negativa, con
la conseguenza che immaginare l’attribuzione di mezzi per agire materialmente
si configura come esito di un risarcimento del danno da lesione di libertà
negativa.
Ecco
allora che, ritornando alla simulazione della situazione originaria, noi
vediamo come persone razionali, pur dotate di inclinazione libertaria, non si
limiterebbero a prevedere per sé “diritti” intangibili, ma, consapevoli della
fallibilità dell’essere umano, e quindi dell’inverosimiglianza che i “diritti”
siano davvero sempre rispettati, introdurrebbero altresì il principio di risarcimento: nel caso che
trattiamo, del risarcimento delle violazioni di libertà negativa, e, quindi,
dello stabilimento di condizioni per l’effettivo esercizio della libertà
positiva, ossia della libertà “di”.
Attraverso
l’introduzione del principio di risarcimento, noi vediamo quindi come libertà negativa e libertà positiva finiscano
con il rivelarsi due facce della stessa medaglia, e non vi sia
contrapposizione analitica delle due nozioni.
Indicazioni
bibliografiche
Patrick
H. Nowell Smith, Etica, Firenze, La
Nuova Italia, 1974 (1954).
John Rawls, Una teoria della giustizia, a cura di S. Maffettone, Milano,
Feltrinelli, 1982 (1971)
R. Duncan Luce – Howard
Raiffa, Games and Decisions –
Introduction and Critical Survey, New York, Dover Publications Inc., 1957, ed.
1989.
Lindley M. Fraser, Economic Thought and Language – A Critique of Some Fundamental Economic
Concepts, London, A. & C. Black Ltd, 1937, 183.
Albert O. Hirschman, Exit, Voice and Loyalty – Responces to
Decline in Firms, Organizations, and States, Cambridge, Harvard University
Press, 1970.
7.
7.
Il risarcimento (o indennizzo) per lesione di libertà negativa e i cosiddetti
“fattori economici impersonali”.
Per
meglio comprendere tale approdo, val la pena di ricapitolare, considerando una
questione molto importante, che, come Ian Carter ricorda, viene posta in
particolare dagli scrittori di orientamento che egli definisce “socialista”; e
cioè se “fattori economici impersonali quali la disoccupazione o la povertà”
costituiscano vincoli alla libertà. La questione va impostata diversamente; soccorre
in proposito il marxista analitico G. A. Cohen, il quale pone la questione
della proprietà privata proprio come lesione della libertà negativa. In effetti,
in termini non moralizzati, prescindendo dalla pretesa di giustificare
eticamente la proprietà (con il lavoro della terra o con l’homesteading comunque inteso), si è già visto che chi erige un muro di cinta non fa che
limitare la libertà di circolazione (e, richiamando l’invocazione di
Rousseau nel “Discorso”, saremmo
legittimati a demolire quel muro), quindi lede la libertà negativa.
Occorre
muovere da una premessa logica: le parole –né comportamenti materiali come
l’impossessamento- di A non possono costituire mai unilateralmente obblighi
morali o giuridici in capo a B. Ciò non comporta che gl’impossessamenti
individuali siano, sempre in una prospettiva non moralizzata, a loro volta
“illegittimi”, semplicemente, inferendosi dall’assioma della non
giustificazione dell’obbligo unilateralmente imposto che la Terra nasce res communis e non res nullius, gl’impossessamenti comportano indennizzo nei confronti di chi in ipotesi rimanga sprovvisto, in
violazione del lockean proviso, di
possesso. Ovvero, a contrariis, il
fatto che la lesione di libertà negativa comporti necessariamente indennizzo,
diversamente essa sarebbe priva di valore, implica che si stia indennizzando il mancato possesso di qualcosa che era già anche del beneficiario
dell’indennizzo, dunque res communis.
Ragiona
in termini di “risarcimento” delle limitazioni di libertà Robert Nozick.
Preferiamo qui la dizione “indennizzo” a “risarcimento” nel rispetto
dell’approccio non moralizzato: la nozione indennizzo riguarda infatti atti
leciti (si pensi alla “responsabilità per atto lecito della pubblica
amministrazione”, che comporta indennizzo e non risarcimento del danno, come
nel caso dell’espropriazione per pubblica utilità), mentre quella di
risarcimento presuppone la qualificazione dell’atto in termini di illecito,
giuridico o morale. Senonché, indennizzare
i non possessori per la violazione della loro libertà negativa comporta il
superamento stesso della distinzione tra libertà negativa e libertà positiva
(nonché, si direbbe, della distinzione tra libertà e giustizia), dato che
questa viene tutelata immediatamente attraverso l’indennizzo del danno
procurato alla prima, consentendo al deprivato dei diritti sulla Terra, della
quale originariamente sarebbe “comunista in senso civilistico”, il sostentamento
(“rendita di esistenza”) e quindi una libertà di azione non solo in astratto,
ma concretamente tale, in una situazione di “giustizia”: la libertà negativa,
attraverso l’indennizzo della propria lesione, acquisisce sostanza materiale, e
si sottrae alla critica degli autori di sinistra o dei comunitaristi come
Charles Taylor.
Quelli
che ai “socialisti” appaiono “fattori economici impersonali” rappresentano
perciò vere e proprie lesioni, personali, di libertà negativa. Lo si ricava dal
ragionamento sotteso al capitolo XXIV del libro I del “Capitale”, nel quale
Karl Marx ricostruisce i processi dell’“accumulazione originaria”: il
capitalismo inglese sorgerebbe dalla spartizione privatistica dei commons attraverso le forzose enclosures; in conseguenza di tale
fenomeno, i contadini fuoriusciti venivano costretti all’urbanizzazione
forzata, al vagabondaggio e alla mendicità; ma, data la feroce legislazione vigente al riguardo, quei contadini
venivano di fatto trasformati costrittivamente in operai di fabbrica, e quindi
in schiavi del lavoro salariato. E non, si badi, in quanto il lavoro salariato
sarebbe in sé schiavitù, dato che potrebbe costituire in astratto espressione
di una preferenza, o di avversione al rischio; ma in quanto lo diviene in
conseguenza della costrizione che ne viene posta a fondamento: pace lo stesso Marx, quindi, lo
sfruttamento non ha fondamento “economico”, ma politico-giuridico e fondato
sulla forza, ossia la violazione generalizzata della libertà negativa di coloro
i quali vengono costretti a farsi “lavoratori salariati” e dar vita al dumping tra proletari, tenendo cioè il
salario a livelli di sussistenza, per guadagnarsi, in competizione, un “posto
di lavoro” indesiderabile nelle condizioni storiche date; cosa resa inevitabile
dall’assenza, ora come allora, di un indennizzo originario.
Senonché
tutto ciò non può essere liquidato come “fattore economico impersonale”, ma
come una serie di atti di forza e di violenza “personali” e puntuali, con
responsabili, se non determinati, almeno determinabili, anche alla luce
dell’insegnamento della public choice
e del suo individualismo metodologico, che vede dietro la lotta politica sempre
individui precisi, ognuno dei quali incentivato all’autointeresse (ad analoghe
conclusioni condurrebbe un approccio realista-politico). Quale sia poi la
ragione per la quale tale incentivo produca effetti opposti a quelli
dell’analogo incentivo nel mercato libero teorico, ossia effetti da “mano
invisibile alla rovescia”, deriva dal fatto che lo Stato non è un mercato
aperto, ma un’asta chiusa monopolistica, burocraticamente organizzata, che
verticalizza, distribuendole dall’alto verso il basso, le esternalità, invece
di internalizzarle, come vorrebbe la scuola dei property rights; e dal conseguente elemento che gli accordi che lo
costituiscono non sono scambi che avvantaggiano tutte le parti in causa, ma contratti in danno di terzo, in cui ogni
beneficio o privilegio viene accordato in funzione di un danno, di
un’esternalità negativa procurata ad altri ignari, dato che la legislazione non
correla in modo trasparente benefici e svantaggi, ma li scinde, dimodoché,
attraverso la lettura dell’alluvionale legislazione quotidianamente sfornata,
non siamo mai in grado di verificare, per ogni vantaggio legislativo, chi ne
sia il correlato danneggiato, e viceversa: mentre nei liberi contratti
stipulati nel mercato libero le parti sono consapevoli di sé e della propria
controparte, se il principio di risarcimento e il lockean proviso sono rispettati.
Tutto ciò non significa
però che, in situazione originaria, i libertari stabilirebbero che le ricchezze
debbano essere “uguali” tra gli uomini; abbiamo visto che la tipologia psicologica
libertaria ammette un certo grado di propensione al rischio, sicché l’uguaglianza,
qualsiasi cosa essa significhi, ad esempio di condizioni economiche, è una
pretesa eccessiva, che, oltretutto, conduce diritti a un paradosso: solo
un’autorità irresistibile potrebbe assicurare un’uguaglianza, che sia frutto di
un appiattimento, che non potrebbe che essere coercitivo; ma la presenza di una
simile autorità irresistibile costituirebbe già di per sé deroga all’uguaglianza (di potere), con la conseguenza che
l’uguaglianza è semplicemente impossibile, se non limitata agli appiattiti,
mentre l’appiattitore si ergerebbe sovrano sugli altri, appunto in deroga all’idea
dell’uguaglianza delle condizioni di tutti.
La diversità di
condizioni è quindi appropriata in un contesto libertario, e verrebbe ammessa
in situazione originaria, dato che, una volta garantitasi una base di certezza attraverso
il principio di risarcimento o indennizzo, ognuno rivendicherebbe per sé il
libero esercizio della facoltà di migliorare le proprie condizioni; se non ci
fosse la facoltà di differenziarsi, ciascuno in omaggio al proprio carattere,
non ci sarebbe libertà; ma questa diseguaglianza è attutita dalla premessa della
contitolarità del suolo a titolo di comproprietà comunista (in senso
civilistico), sicché, data l’attitudine del suolo a produrre una rendita, non
produce mai esiti devastanti, dato che anche il più svantaggiato tra gli uomini
dispone di una porzione di Terra pro
quota, e oltretutto, di conseguenza, di un retrostante monetario comune, che
diviene dialetticamente fondamento del principio del libero conio, del diritto
di ognuno di emettere moneta sulla base di quel capitale naturale, che diviene retrostante
comune (Earthstandard). Occorre
infatti considerare che la moneta, se non nasce come titolo rappresentativo di merci, però a un certo punto diviene
tale, ossia simbolo rappresentativo di un capitale: invece di recarsi al
mercato con un bue, il mercante vi si reca con un titolo, rappresentativo di
quel capitale retrostante, e lo scambia. Ne deriva che qualsiasi bene di valore
può proporsi come retrostante di moneta – lo è stato a lungo l’oro, e, come
sostiene Hayek, può esserlo qualsiasi paniere di beni-, e la Terra è il più
imponente capitale composto che conosciamo, ed è capitale, come si è visto, a
tutti comune. Ne derivano, come vedremo via via conseguenze non di poco conto.
Indicazioni bibliografiche.
Greg A. Cohen, Self-Ownership,
Freedom and Equality, Cambridge University Press, 1995
John. E. Roemer, Valore, Sfruttamento e Classe, Milano,
Giuffrè, 1993.
Friedrich Engels, Anti-Dühring, Roma, Editori Riuniti,
1985.
Harold Demsetz, Verso una teoria dei diritti di proprietà,
in AA. VV., La nuova economia politica
americana, a cura di Francesco Forte, Milano, Milano, SugarCo, 1980 (1967).
Friedrich von Hayek, La
denazionalizzazione della moneta – analisi teorica e pratica della competizione
tra valute, Milano, Etas, 2001 (1976).
8.
8.
L’utile universale
E’ venuto il momento di
affrontare un punto delicato e difficile, dato che pone non pochi problemi dal
punto di vista della realizzabilità pratica –tanto più se il tentativo è di
fornirne una rappresentazione non statalistica-, che rappresenta il portato
primario del principio di risarcimento, o di indennizzo, e che quindi, da
questo punto di vista, rappresenta un second
best libertario, dato che presuppone che determinati “diritti” siano stati
violati, con la conseguenza che il rimedio non può essere perfettamente
ripristinatorio –factum infectum fieri
nequit-, ossia la configurabilità di un utile
universale a vantaggio di ciascun individuo. L’utile universale è, più
precisamente, l’istituto in forza del quale qualsiasi attività produttiva ed
economica sia condotta con l’impiego di capitale naturale, che, per le ragioni
esposte, è capitale comune, comporta un riconoscimento di una quota di utile in
capo a tutti i comunisti, vale a dire a tutti gli individui viventi sul suolo
terrestre, i quali, in quanto comproprietari, hanno titolo a una compensazione
per l’utilizzo del loro capitale. Il che potrebbe anche indurre a ritenere che,
data la posta in gioco, in tal caso la violazione dei diritti sia addirittura
opportuna, in quanto motore della produzione e dello sviluppo, e che il
principio di risarcimento sia una risposta ottima a tale probabilmente
inevitabile violazione, salvo il caso che uno non consumi risorse naturali
esattamente per quanto ottiene (profitto zero).
A nostro avviso, si
tratta dell’unica modalità in grado di rispettare il principio lessicografico di
John Rawls, che impone il primato del principio di libertà, subordinando a esso
qualunque intervento di carattere “sociale”. Più esattamente, secondo Rawls,
che nella sua monumentale opera non fornisce indicazioni coerenti su come
realizzare l’ambizioso obiettivo, “la
libertà può essere limitata solo in nome della libertà”.
Secondo Rawls, infatti,
“Occorre distinguere diverse priorità.
Con priorità della libertà intendo la precedenza del principio dell’eguale
libertà rispetto al secondo principio di giustizia. I due principi sono
ordinati lessicalmente, e perciò le istanze della libertà devono essere
soddisfatte per prime” (210). Come è noto, il secondo principio di
giustizia afferma primariamente, per quanto a noi interessa, che “Le ineguaglianze economiche e sociali devono
essere… per il più grande beneficio dei meno svantaggiati…” (255), ed è
esattamente quanto avviene con la nostra proposta: non solo la libertà è al
primo posto nell’ordinamento lessicale, ma diremmo che è all’unico posto, dato
che la compensazione è fondata a sua volta su di un principio di libertà, in
quanto fondamento di libertà positiva, radicato sul risarcimento della
primitiva lesione della libertà negativa come sopra descritta. E si invera
anche il secondo principio, dato che quanto di vantaggio economico va al più
produttivo si ripercuote positivamente anche sullo svantaggiato, in quanto
ritenuto comproprietario del capitale naturale che il primo impiega. Siamo qui
di fronte a un’articolazione dell’ottimo paretiano (ognuno si avvantaggia dai
mutamenti di situazione, non solo “non peggiora”), che possiamo definire ottimo libertario, in quanto tale
massimizzazione si fonda sul primato della libertà e sulla coincidenza
concettuale tra libertà negativa e libertà positiva, in quanto la seconda sia
il riflesso della (violazione della) prima.
Occorre infatti
considerare che, una volta stabilito che, sulla base dell’assioma libertario (nessuno è legittimato a imporsi unilateralmente
sugli altri) la Terra è di proprietà comune agli uomini, ciò non vale per
il solo suolo, ma per tutto il cosiddetto capitale naturale. Ne deriva che
qualsiasi attività imprenditoriale, la quale faccia impiego di risorse naturali
–e tutte lo fanno- sta per ciò solo impiegando nel proprio processo produttivo
capitali di proprietà comune. Del resto, quella di “patrimonio comune
dell’umanità” è già oggi una nozione di diritto positivo, ma essa rientra tra
le nozioni di diritto spaziale, branca del diritto internazionale, sicché, in
base ai trattati, la Luna e Marte sono parte di questo patrimonio comune, ma la
Terra, che è il pianeta sul quale gli uomini vivono, paradossalmente non lo
sarebbe, se non parzialmente (ad esempio, lo sono i fondali degli oceani).
Introduciamo così la
nozione di capitale comune, che è
rappresentato da tutte le risorse naturali che un’impresa impiega nel proprio
processo produttivo: ad esempio, secondo la giurisprudenza della nostra Corte
Costituzionale, l’etere è demanio, quindi capitale comune, con la conseguenza
che un’impresa di radiodiffusione, o telefonica, o che faccia massiccio uso di
internet (si pensi ad Amazon, oltre evidentemente a Google o Facebook), è
impresa che fonda i propri profitti massimamente sull’uso di capitale comune,
ma non corrisponde alla comunità alcunché quale corrispettivo a tale titolo
“concessorio”. Anzi, assistiamo al paradosso che proprio tali colossi sono tra
i minori pagatori di imposte, ma non è sulle tasse che vogliamo fondare il
nostro ragionamento, dato che, come si è visto, le tasse sono un elemento
fondante della coercizione, che non vogliamo nemmeno indirettamente legittimare,
il che andrebbe a detrimento non solo dei grossi –i quali del resto sono
abilissimi a eludere-, ma soprattutto dei piccoli, più agevolmente vessabili.
Proponiamo, invece, che
ognuno, con riferimento alle risorse di capitale comune che impiega nel corso
della produzione, sia tenuto a corrispondere un canone, vale a dire un corrispettivo, che avrebbe natura
civilistica e non tributaria, non solo in quanto non destinato a uno Stato, il
quale decida discrezionalmente come ripartirne i proventi; ma in quanto
correlato e calcolato, non sul proprio reddito sulla base di aliquote
prestabilite, ma sul consumo di bene comune, ossia per l’intensità
dell’utilizzo, da parte di ciascun operatore economico, di suolo, sottosuolo e
sovrasuolo (etere); ciò determinerebbe anzitutto un chiaro contrappeso ecologista alla produzione, dato che gli imprenditori,
che non ne vengono aprioristicamente limitati nella propria ricerca di
profitto, sono indotti e incentivati al minor consumo possibile di capitale
comune, adottando le tecnologie più leggere possibili, proprio per evitare di
corrispondere una somma eccessivamente elevata di canone; come si vede, il tema
ecologico fa qui leva sull’interesse individuale e non sull’altruismo, il che
pare un punto a vantaggio della proposta, tanto più che, in regime di
concorrenza, l’imprenditore più ecologista può tenere più bassi i propri prezzi
e trionfare sul mercato rispetto a concorrenti meno rispettosi dell’ambiente;
si tratta di una declinazione libertaria del principio chi inquina paga, fondata primariamente sul principio dell’obbligo
di indennizzo, che accompagna le esternalità negative.
Si tratterebbe quindi
di operare dei conteggi, assegnando un valore globale al capitale comune
impiegato nel processo produttivo –e quindi emergerebbe il ruolo dei periti e
degli esperti di estimo, i quali fissino prezzi sulla base di un’econometria
simile a quella di Oskar Lange-, scomputandolo dal “prodotto mondiale lordo”, e
assegnando di conseguenza a ciascun cittadino mondiale la quota di propria
spettanza. Se l’operazione su macroscala non pone eccessivi problemi pratici,
se non di attribuzione della relativa competenza, più complicato è stabilire
quanto di canone, e a chi, debba versare ciascun imprenditore.
Una prima possibile
obiezione salta infatti all’occhio: una siffatta necessità non potrebbe che
finire con il restaurare l’autorità, vanificando il conato, operato in
situazione originaria, di dar vita a una situazione indivisibile libertaria e
non autoritaria: si tratta infatti di acquisire dati con modalità diffusa e di
elaborarli, nonché di stabilire in capo a ogni utilizzatore di risorse naturali
un obbligo di pagamento del relativo canone, pena la mancata convalidazione del
suo diritto reale, che quindi si esporrebbe alla contestazione, e sarebbe
affidato esclusivamente alla reputazione o al rapporto di forza: quest’ultimo
profilo non pone particolari difficoltà teoriche, dato che consegue de plano dal principio di risarcimento,
che abbiamo visto pacificamente accolto in sede di situazione originaria
libertaria. Più problemi pone l’aspetto organizzativo, dato che qualcuno
potrebbe sostenere che staremmo per ricostituire “lo Stato”, e che qualsiasi
alternativa allo Stato sarebbe comunque “uno Stato”, oltretutto particolarmente
intrusivo, sotto mentite spoglie.
In realtà si
tratterebbe di un’attività tecnica del tutto vincolata, priva di
discrezionalità o di libertà politica; ma se l’uomo (sia pure il libertario)
fosse non si dice un angelo, ma dotato, per impiegare un’espressione di
Baron-Cohen, di superempatia, ognuno
verserebbe sua sponte il canone di
propria spettanza, traguardo al quale ci si potrebbe avvicinare evolutivamente
per via consuetudinaria, attraverso punizioni alla reputazione per chi non paga;
ma noi siamo partiti da una premessa di “non utopia”, di relativa diffidenza
tra gli uomini, sicché abbiamo stabilito che nemmeno i dotati di inclinazione
libertaria siano eticamente perfetti, e quindi è logico che in situazione
originaria deliberino anche second best –per
meglio dire, si delibera il criterio dell’utilità
dei second best-, che prevedano
implementazione anche forzosa degli obblighi pattuiti a fronte di quelli che si
sono convenzionalmente stabiliti essere dei diritti, cercando al contempo di
massimizzare il quadro concorrenziale, nel quale queste implementazioni si
situino.
Se ci accontentassimo
di una contrattazione decentrata la questione sarebbe meno problematica, ma, se
si vuole un istituto che valga indistintamente per tutti, si tratta di
intendersi: l’inclinazione libertaria non esclude il formarsi di una qualsiasi
istituzione, ma solo di istituzioni che rivendichino il monopolio della
produzione giuridica, di istituzioni che ambiscano a divenire monopoliste
tendenzialmente di tutto sul territorio, ed è solo tale quidditas a caratterizzare lo Stato; non impedisce invece il
formarsi di istituzioni deputate a singoli scopi, le quali ammettano del resto concorrenza
nell’esercizio delle relative funzioni. Non c’è alcuna necessità, infatti, che
le istituzioni deputate alla raccolta dei dati siano in forma monopolistica,
dovendo i dati essere sempre “interpretati”, con la conseguenza che una
pluralità di opinioni in concorrenza non solo sarebbe ammissibile, ma
addirittura opportuna anche con riferimento a un’attività tecnica.
Si possono perciò
ipotizzare common Trust in sede
locale, le quali raccolgano autocertificazioni sul consumo di risorse naturali
e che le sottopongano a verifica a campione sulla base di parametri discussi e
noti, e che questi dati siano immessi in un elaboratore comune “confederativo”
che operi i conteggi; ma tale attività sarebbe comunque aperta alla
contestazione e alla concorrenza, dato che non si impedisce a nessuno di
proporre conteggi alternativi, sulla base dei quali aprire il confronto; né si
richiede un potere centrale di implementazione, perché questa potrebbe essere
anche diffusa, come lo sarebbero partecipazione e discussione sui conteggi
stessi.
Saremmo quindi al di fuori
delle pretese monopolistiche di uno Stato, il quale, come abbiamo rilevato
altrove, mira a divenire monopolista di ogni cosa e vieta la concorrenza nelle
funzioni sovrane. In tale contesto, invece, qualsiasi funzione sarebbe affidata
alla concorrenza –sul punto si tornerà-, compresa quella di calcolo, pur in
presenza di un elaboratore condiviso, nel quale confluiscano varie proposte, il
quale le compari sulla base di criteri discussi e partecipati, stabilendo quanto
i produttori debbano versare a titolo di canone e, di conseguenza, le quote
spettanti in capo a ciascuno.
Ovviamente, anche tale
esiti sarebbero contestabili, e ognuno potrebbe proporre conteggi alternativi,
aprendo la relativa discussione; si potrebbe anche ipotizzare che, su scala
locale, si avvii una contrattazione collettiva orientata dalle diverse fonti di
calcolo, che quindi avrebbero valore solo indicativo e non prescrittivo, se non
in via residuale, ossia per i casi di assenza di contrattazione locale: bisogna
fare il possibile perché questa “concessione” non comporti il formarsi di
un’autorità irresistibile su scala mondiale, sicché non sia attribuito alcun
potere imperativo, ma solo orientativo.
Si consideri, del
resto, che, come abbiamo anticipato, stiamo discutendo di un istituto di second best, oltre che di transizione verso una più matura
situazione di pieno libero conio, in cui ognuno, per così dire, emetta da sé il
proprio “utile universale” sulla base della propria reputazione, oltre che del
retrostante comune rappresentato dal capitale naturale, situazione alla quale
farebbe seguito dialetticamente, in regime di abbondanza e una volta che ognuno
potesse davvero emettere propria moneta, quella della gratuità. Tutti gli
istituti fondati sul principio di risarcimento sono dei second best, dato che partono dal presupposto che dei “diritti”, o
comunque delle situazioni giuridiche soggettive giudicate degne di protezione,
siano state violate; ma in situazione originaria si prende in considerazione
anche tale ipotesi, come si è visto, sicché elementi di imperfezione sono
inevitabili in una vita reale.
Per contro, non vi
sarebbe bisogno di alcuna organizzazione particolare, se il sistema dei prezzi
fosse posto in condizione di operare correttamente, ossia in modo tale da
introiettare anche tutti i costi dell’impronta ecologica, con la conseguenza
che l’acquisizione di risorse del capitale naturale possa rispecchiare
effettivamente nel prezzo il costo effettivo arrecato alla comunità: in tal
caso, l’utile universale emergerebbe spontaneamente proprio dal meccanismo di
formazione dei prezzi; ma ciò presuppone una qualche forma di predefinizione
dei diritti di proprietà, anche comunitaria, per evitare fenomeni come il land grabbing, e in modo tale che ogni deminutio
ambientale consenta di riconoscere il proprio danneggiato, che verrebbe
compensato, il che è un altro argomento a favore di una visione decentrata
dell’istituto, comunità per comunità: in tal caso, l’utile universale non
sarebbe uguale per tutti nel mondo, ma varierebbe in funzione del consumo
locale delle risorse naturali.
Se ciò semplifica il
quadro, per altri versi lo complica dal punto di vista dei principi, dato che
non è un “merito” vivere in zone ricche di capitale naturale, anche se è pur
vero che si instaura un legame affettivo humeano tra una comunità e il proprio
territorio, con l’implicazione che il depauperamento viene sentito come
sofferenza maggiore proprio al livello locale. Si tratta quindi di individuare
un punto di equilibrio tra le due esigenze, ossia quella di riconoscere ognuno
come comunista pro quota della Terra,
e quella di rispettare i legami tra l’individuo, la comunità, e il territorio
su cui vive, senza che ciò comporti l’istituzionalizzazione del territorio quale
elemento costitutivo degli ordinamenti in chiave monopolistica. Per ovviare a
questo inconveniente, si potrebbero allora imputare a dei Common trust globali i conteggi relativi al consumo di determinate
risorse tipo (petrolio, oceani, etc.), o addirittura la contrattazione diretta
con gli operatori, in modo tale che la compensazione sia poi ripartita pro quota tra tutti, e ognuno sia
abilitato a spendere il corrispettivo del consumato: l’universalizzazione
dell’istituto sarebbe, per così dire, un first
best del second best, e tuttavia
occorre stare attenti a che il meglio non sia nemico del bene.
Per altro verso, si
potrebbe obiettare: perché indennizzare un brasiliano per una risorsa consumata
in Africa e viceversa? Può apparire una forzatura, ma è questa una conseguenza
del ritenere patrimonio comune dell’umanità il mondo, con la conseguenza che l’Africa
è anche del brasiliano, così come il Brasile è anche dell’africano: il
vantaggio sta nella reciprocità delle compensazioni. Certo, di fronte a danni
ambientali plateali, le comunità direttamente lese rivendicheranno un
risarcimento ulteriore, ad esempio a titolo di danno morale, oltre che
patrimoniale, e qui vale quanto si è detto a proposito della configurabilità di
un più maturo sistema dei prezzi, più efficace nell’introiettare tutti i costi
locali, nonché i riflessi economici dei comportamenti illeciti.
Superate le difficoltà,
va detto, peraltro, ammettendo che a ognuno sia resa disponibile una carta di
credito, che lo ponga in grado di spendere la relativa quota di utile –ritratto
allo specchio del libero conio-, agire in tal senso non è certo “obbligatorio”;
non si impone cioè a nessuno un determinato stile di vita, non lo si impone ai
Pigmei o agli aborigeni australiani, i quali, volendo, potrebbero viaggiare per
il mondo, frontiere permettendo, ma anche starsene lì dove sono, a vivere come hanno
sempre vissuto. E’ questa una ipotesi di soluzione anche per i primitivisti
alla Zerzan, i quali rifiutano in toto l’odierna
società tecnologica e dei consumi, e vagheggiano un ritorno all’epoca dei
cacciatori e dei raccoglitori, al cui stile di vita vorrebbero improntare la
propria: potrebbero benissimo farlo, pur disponendo potenzialmente della
propria quota di utile universale, elaborata avendo in mente le capacità
produttive della società di oggi, in modo tale che la misura di quell’utile non
è autoritativamente prefissata, ma affidata totalmente alle dinamiche di
mercato: maggiore è il “prodotto mondiale lordo”, maggiore è il consumo di
capitale naturale, maggiore sarà la quota di utile universale spettante a
ciascuno.
Se tutto quanto precede
delinea un’ipotesi di strutturazione dell’istituto dell’utile universale in un
contesto libertario, va detto che già oggi, e non solo in chiave futuribile, operano
fondamenti che autorizzano il riconoscimento di qualcosa di simile (diciamo un basic income incondizionato), se non
altro perché il principio di risarcimento è già oggi vigente, anche se non ne
sono state indagate tutte le implicazioni.
Si tratta, in
particolare, di fondare su tale principio il contratto sociale, ipotetico e
virtuale, che si colloca alla base della costituzione di ciascuno Stato. Come
si è visto, Robert Nozick fonda sul principio di risarcimento nientedimeno che
la formazione stessa dello Stato, con ciò incorrendo in grave aporia, dato che
lo Stato, per chi lo percepisce come un’invasione, non rappresenta un
risarcimento, ma una doppia imposizione: la prima imposizione è il divieto di
farsi giustizia da sé per gli “indipendenti”, la seconda è l’imposizione dello
Stato come monopolistico fornitore del servizio vietato.
Si noti che, per
Nozick, un simile Stato sarebbe “minimo”, ma non si comprende in base a quale
ragionamento uno Stato “minimo” dovrebbe occuparsi “solo” di giustizia e
polizia a tutela dei diritti di proprietà, e non, magari, “solo” di sanità o di
assistenza agli anziani, trattandosi in ciascun caso di “beni pubblici”, che si
pretende sottostiano identicamente, o comunque non con differenze apprezzabili,
alla dottrina economica; con la conseguenza che lo Stato, una volta che si sia
appropriato del monopolio della produzione giuridica e si sia incaricato di
realizzare i “beni pubblici”, finirà con l’occuparsi di ciascuno di essi, e
cesserà di essere “minimo”, per la tendenza insita nel dominio a espandere il
proprio potere, legge bronzea che conosciamo dai tempi di Botero.
Tanto più che Nozick
ammette il lockean proviso e il
conseguente principio di rettificazione della validità dei titoli di proprietà
vigenti, con la conseguenza che il suo Stato “minimo” non si limiterebbe a
“tutelare” i diritti di proprietà, ma passerebbe il tempo in tale operazione di
rettificazione, e quindi non sarebbe particolarmente timido sul piano
dell’intrusività, al di là delle intenzioni del filosofo, che non spiega come si
possano implementare altrimenti quei principi in un contesto statualizzato.
Ne deriva che la
costituzione dello Stato, il massimo violatore istituzionalizzato della libertà
negativa, dovrebbe comportare un risarcimento netto sul piano dell’attribuzione
a ciascuno dei presupposto per l’esercizio della libertà positiva, attraverso
la corresponsione di una somma di denaro, unico “risarcimento” immaginabile,
essendo l’unico che consente a ognuno di esprimere poi le proprie preferenze
sul mercato, acquistando altresì, sempre sulla pase delle proprie preferenze,
quote di bene pubblico, oltre che di bene privato.
Possiamo definirlo
questo il “fondamento democratico” dell’utile universale, o comunque del basic income, strettamente connesso alla
costrizione, che viene operata nei confronti di tutti, a partecipare allo
Stato, ente per eccellenza ad “appartenenza necessaria”, il quale non solo non
compensa questa privazione, ma, anzi, pretende esso di essere compensato con la tassazione. Ora, è interessante
notare che anche tale fondamento democratico riposa su di un capitale comune,
il demanio, che, in regime di sovranità popolare, appartiene pro quota a ciascun cittadino.
Superando antiche
concezioni, che consideravano il demanio non contabilizzabile in quanto
espressione della sovranità –e la sovranità sarebbe extra commercium-, contabilizzando
il fair value del demanio statale, e
degli altri enti territoriali, nello stato patrimoniale dei relativi bilanci,
si darebbe emersione a un formidabile (cfr. art. 822 c.c.) retrostante
monetario di proprietà comune, il quale autorizza, sulla base del principio di
eguaglianza di fronte alla legge, la corresponsione a ciascun cittadino
–comproprietario, per la ragione detta, del demanio- di una rendita, o
addirittura di un utile, se il demanio viene reso in qualche modo profittevole
(royalties sui marchi, derivati, o
altre soluzioni finanziarie), com’era del resto ai tempi dello Stato
patrimoniale, quando il sovrano traeva rendite da esso e poteva trattenersi dal
premere sulla tassazione; salvo che oggi il demanio, da capitale personale del
sovrano, è divenuto capitale comune al popolo, a sua volta sovrano, il quale
però, a oggi, non ne trae alcun beneficio. Nell’odierna realtà, tale proposta
sconta una difficoltà pratica, se stiamo alla Repubblica Italiana, ossia che lo
Stato è privo di sovranità monetaria attuale, essendo l’emissione monetaria
riservata alla Banca Centrale Europea, espressione suprema di quello Stato
finanziario che si è costituito con la denominazione di Unione Europea.
Ma ciò introduce
immediatamente un altro piano di discussione: tale rivendicazione di monopolio,
infatti, è platealmente lesiva della libertà di libero conio, sicché, semmai,
ricade sulla BCE –tanto più che, attraverso il Quantitative Easing, essa è divenuta creditrice dello Stato
italiano, il cui demanio opera di fatto quale garanzia del debito- l’obbligo del relativo risarcimento,
attraverso il principio detto dell’helicopter
money, della quale pure gli economisti hanno discusso, trovando eco persino
nella stessa BCE.
La centralità, nel
nostro disegno, dell’istituto dell’utile universale è rappresentata dalla vexata quaestio dei beni pubblici, alla
quale si è già accennato.
La necessità che questi
siano realizzati diviene infatti public
goods argument for the State, consistente nella diffusa convinzione che il
mercato e la comunità spontanea siano destinati a fallire nella produzione dei
beni pubblici, e quindi sia indispensabile un’autorità centrale coercitiva
hobbesiana per realizzarli; si tratta, a nostro modo di vedere, di un falso
problema.
La realizzazione dei
beni pubblici diviene il fondamento giustificativo moderno della sovranità,
dato l’estendersi a infiniti settori della relativa nozione. Ma l’idea che gli
uomini, da soli –quindi la dottrina dei fallimenti del mercato è non dissimile
di quella della tragedy of commons-,
non siano in grado di realizzare quello che viene ritenuto il bene pubblico
primario per difetto di fiducia reciproca, la sicurezza, risale, nella
modernità, quantomeno a Hobbes, secondo il quale gli uomini, constatata questa
loro incapacità, danno vita a un patto costituente del potere sovrano, al quale
sottomettersi in vista di un bene superiore, il bene pubblico, appunto.
La concezione moderna
di bene pubblico come giustificativo dell’intervento dell’autorità risale
almeno al classico lavoro del Samuelson del 1954, per il quale per beni
pubblici –l’economista fa ricorso alla dizione “beni collettivi”- si intendono
i beni indivisibili, inescludibili nella fruizione e privi di rivalità nel consumo,
producenti esternalità; se ne è ricavato che, mentre il mercato sarebbe
efficiente nella realizzazione di beni privati divisibili, non riuscirebbe
invece nella realizzazione di beni a fruizione superindividuale, in quanto si
scontrerebbe coi limiti di capacità di cooperazione da parte degli individui,
con trionfo viceversa del free-riding
e del dilemma del prigioniero paralizzante.
Senonché esiste ampia
letteratura su modalità di realizzazione del bene pubblico da parte della
comunità e del mercato, tanto più alla luce dell’evoluzione tecnologica, che
consente di rendere divisibile e spartibile ciò che un tempo non si riteneva
tale, sicché la nozione diviene relativa e non cogente; dando vita all’esito
paradossale, che, una volta che la tecnologia renda escludibile una risorsa (ad
esempio l’acqua), proprio la dottrina samuelsiana diviene giustificativa del
contrario delle intenzioni, ossia della privatizzazione.
Molta di questa
letteratura proviene da ambienti libertarian,
che mettono al centro la funzione imprenditoriale nella realizzazione di tale
tipologia di beni e, del resto, il leitmotiv
del pensiero anarco-capitalista è che non
esiste funzione svolta dallo Stato, che non possa essere affidata al mercato,
e noi condividiamo tale impostazione, del resto condivisa, nei fondamenti,
dagli anarchici classici, salvo sostituire il termine “mercato” con il termine
“comunità”: ma sempre di realizzazione spontanea e non coercitiva si tratta.
Dove però invece cade
l’argomentazione anarco-capitalista, quando parla di libero acquisto della
propria quota di bene pubblico sul mercato? Cade sul punto che, a oggi, molti
non dispongono delle risorse necessarie per accedervi: sanità, previdenza, ma
anche giustizia: non c’è dubbio che l’anarco-capitalista è sufficientemente
persuasivo, quando argomenta che ciascuno di tali servizi può benissimo essere
fornito in regime di libera concorrenza, ma resta silente quando gli si fa
notare che i più non dispongono delle risorse necessarie a tale scopo; sicché il
vero public goods argument for the State
finisce con il divenire la povertà; e lo Stato si giova di tale più moderna
giustificazione, l’andare in soccorso ai poveri, pur essendo inevitabilmente dominato
dai forti.
Occorre quindi dare una
risposta al problema della miseria e delle più radicali disparità di reddito,
che sia condotta con argomenti di libertà, ed è quanto ci siamo sforzati di
fare delineando i presupposti della nostra proposta di utile universale: solo
su tale base, e non su altre, si potrà finalmente discutere senza pregiudizi di
un libero mercato dei beni e dei servizi pubblici.
Indicazioni
bibliografiche.
Thomas Paine, La giustizia agraria (1797), in AA.VV., Reddito di cittadinanza, a cura di
Nunziante Mastrolia e Maria Teresa Sanna, 2015, Licosia Edizioni.
Philippe Van Parjis, Reddito di cittadinanza. Ragioni a confronto
(1992), in Reddito di cittadinanza,
cit.
Vilfredo Pareto, Compendio di sociologia generale,
Torino, Einaudi, 1978.
Paul Samuelson, The
Pure Theory of Public Expenditure, in The
Review of Economics and Statistics, Vol. 36. N. 4, Nov. 1954.
9.
9.
La questione del diritto naturale e il problema della morale.
E’ noto come sia
diffuso tra libertari di tendenze anche diverse appellarsi al “diritto
naturale” a sostegno delle proprie tesi. In realtà, l’idea del diritto naturale
è un’idea antica, poi molto diffusa nel pensiero cattolico, per la quale
esistono principi morali ultimi immutabili, derivanti dalla natura dell’uomo e delle
cose, dai quali sarebbe possibile ricavare more
geometrico, attraverso il retto uso della ragione, le regole della giusta
convivenza umana; si tratta, come si vede anche solo da questa descrizione, di
una dottrina troppo ambiziosa, per non dire pretenziosa.
Come sottolineò
Norberto Bobbio, il giusnaturalismo si fonda su poche proposizioni, forse di
una sola, e tutto il resto è corollario. Se è una sola, essa è molto
probabilmente “fai il bene, evita il male”,
una formulazione fatta apposta per mettere d’accordo tutti, come certi
enunciati della politica internazionale, che impiegano termini deliberatamente
generici per ottenere l’assenso di controparti agguerrite. Ciò in quanto
sarebbe nella natura dell’uomo perseguire il bene, con la conseguenza che un
principio supremo che ribadisse questo concetto sarebbe inevitabilmente
conforme a essa, e a quello occorrerebbe tenersi ancorati. Emergono
immediatamente due obiezioni: a) Non
tutti sono necessariamente votati al bene; se, per un libertario, il “bene”
è la libertà e il “male” la coercizione, abbiamo visto come solo una parte
degli uomini siano dotati di inclinazione libertaria, con la conseguenza che
molti uomini, più o meno carenti di empatia, sono votati al “male” della
coercizione e della supremazia.
Ne deriva che dalla
“natura umana” non sono ricavabili univocamente precetti di libertà, ma tanto
precetti di libertà, quanto precetti di autorità, senza che si possa dire che
gli uni siano “naturali” e gli altri no: se è naturale, nel senso di conforme alla
natura umana, la libertà, è altrettanto naturale, per le ragioni dette,
l’autorità, la quale si nutre oltretutto di credenze costitutive diffuse, come
quella, ad esempio, che il monopolio sarebbe la forma efficiente di soluzione
del nodo gordiano politico: lo Stato, per dirne una. Non è dunque alla “natura”,
tantomeno a quella umana, che ci si possa affidare per invocare il carattere
normativamente precettivo della libertà, ma, semmai, a un’attività di dinamica
posizione del diritto in senso libertario. V’è poi una seconda obiezione, e
cioè che b) Se anche tutti fossero dotati
di inclinazione libertaria –e quindi votati a quello che per i libertari è
il bene- quella generica indicazione non
sarebbe di alcun ausilio nella soluzione dei casi concreti dubbi e limite, tant’è vero che vi sono
una grande quantità di risposte diverse al riguardo, e solo il concorso delle
diverse ipotesi in un libero dibattito può condurre a un qualche risultato utile,
che non consente affatto di fare affidamento su principi eterni e “immutabili”;
dato che, se questi sono tali, è ciò solo in virtù della loro vaghezza e, in
definitiva, inutilità, se non nei limiti dell’indicazione di una buona
intenzione di partenza.
A non migliori
risultati si perverrebbe se gli enunciati, invece di uno, fossero tre, ad
esempio honeste vivere, neminem laedere,
unicuique suum tribuere: anche a
tale proposito, infatti, i consensi sarebbero prima facie universali, salvo dividersi, quando si tratta di
stabilire, nei casi concreti, che cosa sia “onesto” nella vita di oggi, in cui
i contesti sono pregiudicati rispetto a un’ipotetica situazione di giustizia
originaria, che cosa rappresenti di conseguenza “lesione”, e che cosa spetti a
ciascuno in una “giusta” ripartizione delle risorse in contesti simili.
Vero è, invece, che
ogni qualvolta principi riconducibili ai principi giusnaturalisti, segnatamente
a quelli relativi ai “diritti naturali individuali”, sono stati solennemente
affermati, si è dovuto ricorrere al diritto positivo: si pensi alle dichiarazioni
dei diritti delle due rivoluzioni, l’americana e la francese, o alla
dichiarazione universale dei diritti umani dell’ONU, che ha segnato, secondo
un’opinione diffusa, l’irrompere del “diritto naturale” (cioè di alcuni
principi supremi di ragione, però di fatto non ancora vigenti) nel diritto
positivo.
Fermo restando che,
anche oggi che si tratta teoricamente di diritto positivo, quei principi sono
largamente disapplicati, il che revoca in serio dubbio il loro carattere di
“naturalità”, dato che la loro implementazione è viceversa oggetto di una
difficilissima, e alterna, battaglia politica. Perché possano essere ritenute
effettivamente vigenti, infatti, quei principi dovrebbero non solo invalidare
in astratto le scelte normative che vi si pongano in contrasto, ma anche vedere
riconosciuta nei fatti tale invalidazione, tanto sul piano formale, quanto su
quello materiale: il che qualche volta avviene, ma nella più parte dei casi no,
dato che non si ha certo l'impressione che i diritti umani siano davvero
rispettati, nel nostro mondo.
La legge in vigore
nella realtà ha quindi ben poco a che vedere con quei principi fondamentali di
libertà, e, quindi, con i principi di diritto naturale, dei quali sono
incarnazione. Non c’è nessun nesso, quindi, contrariamente a quanto sosteneva
l’ottimista libertario americano del XIX secolo Lysander Spooner, tra legge
naturale, che in sé non vige, o comunque non ha forza autosufficiente per
potere vigere, e legge di gravità, o altre leggi esse sì naturali (ad esempio,
velocità della luce), che invece vigono di necessità.
In ambito libertario
moderno, una certa fortuna ha arriso all’”assioma di non aggressione” formulato
da Murray Rothbard, salvo che, se il postulato iniziale è indovinato come
illustrazione dei contorni di un principio ricavabile dall’inclinazione
libertaria, non lo sono altrettanto tutte le implicazioni che l’autore ne
ricava geometricamente, tanto sul fronte dell’attribuzione e del riconoscimento
storico dei diritti di proprietà, quanto su quello dell’individuazione di che
cosa debba intendersi per “aggressione”, eccessivamente connotata in senso
“fisicalistico”: ossia ignorando tutta una serie di questioni riguardanti
l’incidenza sulla psiche di possibili azioni coercitive, che tuttavia hanno
innegabilmente ricadute a loro volta fisiche di sofferenza anche grave: si
pensi ai casi della diffamazione e della violazione del diritto morale
d’autore, che un libertarian “fisicalista”
non potrebbe condannare sul piano del diritto naturale, se non ricorrendo a escamotages contrattualistici, che non
risolvono il problema di fondo, ossia quello se sia in sé lecito o illecito
procurare danni a terzi, anche gravi, attraverso queste modalità.
Tuttavia non si tratta
più che di opinioni, a ulteriore dimostrazione che un’ultima parola non è mai
pronunciabile, nemmeno quando si pretende di formulare con rigore le
implicazioni di un supposto principio di diritto naturale come l’assioma di non
aggressione, che, per altro verso, può anche essere un principio gradito ai
libertari, salvo il permanere di casi dubbi, ma che non può, per le ragioni
dette, radicarsi su alcuna “natura umana” universale e inequivoca, essendo questa
pluralistica, contraddittoria e non univoca.
L’invocazione della
retta ragione come metodo di indagine, per ricavare regole specifiche da quei
principi generalissimi, è poi insufficiente, se si tralascia che i nostri
sentimenti morali sono anzitutto frutto irrazionale, o almeno non razionale, delle
nostre emozioni; e, per quanto vi sia simiglianza tra gli uomini, queste
emozioni sono soggettive e differiscono da individuo a individuo, sempre alla
luce dell’inclinazione fondamentale di ciascuno; sicché poi ognuno agirà
ponendo proprio diritto, coerente e consistente con la propria inclinazione,
che, evidentemente, non è necessariamente quella libertaria.
Riteniamo che la morale
si radichi infatti sugli stati emotivi, sull’impatto che sul nostro sistema
neuronale e sulla psiche hanno determinati eventi nei quali ci immedesimiamo,
non tanto come “osservatore imparziale”, ma proprio direttamente in quanto
soggetto coinvolto, se non personalmente, almeno emotivamente. Tali emozioni
danno vita a sentimenti, che vengono via via elaborati dalla ragione cognitiva,
la quale consente di formulare linguisticamente delle massime morali. Ma, e in
questo Hume ha la meglio su Kant, la ragione è al servizio della passione, dell’emozione
e del sentimento, non li sostituisce; con la conseguenza che, essendo soggettivi
passione, emozione e sentimento, l’elaborazione razionale dei loro portati
morali è del pari soggettiva, sicché l’ambizione all’universalizzazione dei
relativi enunciati paga uno scotto in termini di inadeguatezza dell’esito
linguistico ultimo. Ne consegue che, nella realtà pratica, si instaura un
“mercato” dei giudizi morali, e la morale oggettiva effettivamente vigente è
un’emersione risultante, che sconta la diversità dei punti di partenza,
mescolando orientamenti anche molto diversi, proiezione, come al solito, della
convivenza di personalità autoritarie e libertarie, combinate oltretutto in
varia misura in ciascuno di noi. Sicché verrebbe da chiedersi se, in
un’ipotetica società di post-umani, che fossero totalmente privi di emozioni,
potrebbe parlarsi di discorsi morali, che, in tal caso, sarebbero affidati
interamente al ragionamento, un ragionamento, però, che sarebbe totalmente
gelido e distaccato dal profondo dell’uomo.
Soccorre in proposito
la considerazione che, a porre attenzione, i dilemmi morali sono sempre funzioni della scarsità della
risorsa (in senso lato e anche metaforico) da assegnare. Si tratta di un
carattere comune a tutte le istituzioni, a ben vedere, dato che lo stesso vale
per il diritto, lo Stato e il mercato, ossia ogni qualvolta vi sia qualcosa da
ripartire che non sia abbondante, perché in tal caso tutti ne potrebbero
attingere liberamente. La situazione soggettiva che emerge, in questi casi, non
è il diritto soggettivo, ma l’interesse legittimo, ossia un’aspettativa volta
al sacrificio fisiologico, data l’assenza di risorse sufficienti a soddisfare
tutte le pretese in campo. Emerge così la questione dei casi dubbi e dei casi
limite, quelli che rappresentano un rompicapo per tutti i filosofi morali, e
che non è detto che una filosofia libertaria sia meglio di altre in grado di
risolvere, non certo in base a incerti e contestabili diritti preliminari di
proprietà. Siamo ai limiti dello stato di necessità, che risolve tutti i
rapporti preesistenti, in quanto è in gioco la sopravvivenza, e quindi
assistiamo a una sorta di “liberi tutti”, in cui ognuno si ritiene legittimato
ad agire come meglio crede, senza in alcun modo considerare interessi e pretese
altrui.
Irrompiamo così nelle questioni dette del trolley problem, situazioni in cui si è
costretti a scegliere tra due mali, uno supposto maggiore e uno supposto
minore, e non tra bene e male. Per esempio, nel classico esperimento mentale
della triste scelta del fare morire –con azione od omissione- una persona –trattata,
direbbe Kant, come mezzo, e non come fine in sé- per salvarne cinque, una
macchina o un post-umano senza sentimenti opterebbero meccanicamente per il
sacrificio dell’uno sulla base di un principio quantitativo, mentre un essere
senziente non potrebbe prescindere dall’emozione, e, in particolare, dal
sentimento che lo lega a quella persona: e se fosse suo figlio? Nessuno
potrebbe rimproverarlo di averlo salvato, anche sulla base della considerazione
che il valore di una vita umana è infinito, e ha poco senso opporre che quello
di cinque persone varrebbe cinque infiniti. Anche se si potrebbe opporre che,
salvando più persone, si limita la sofferenza complessiva, dato il più elevato
numero di familiari e amici, che verrebbero complessivamente coinvolti.
Il caso limite è ben poco ipotetico, se si considera che su
queste questioni si stanno interrogando i progettisti della nuova automobile
senza pilota Google, e una delle
opzioni in campo è quella di sacrificare il trasportato, che in genere sarebbe
il proprietario dell’auto, per
salvare un numero superiore di persone in potenziale pericolo (ammettiamo che
quell’uomo fossi io: avrei da ridire
in radice su come viene in genere impostato il trolley problem): quindi, la fredda razionalità dei progettisti,
che somiglia a quella della più ottusa macchina di intelligenza artificiale,
giunge a sacrificare la vita del proprio cliente, il quale aveva fatto
affidamento sull’acquisto di quel prodotto non certo per venirne ucciso da una
decisione, presa sulla base di una “razionalità” semicolta da istituto tecnico;
come dimostra anche il fatto che queste automobili sono programmate per
rispettare alla lettera il codice della strada, quando la sociologia del
diritto ci racconta della maggiore efficienza di una certa quota di
trasgressione rispetto a segnaletiche poco razionali, che non di rado
accompagnano il nostro percorso, così come in genere è funzionale un certo
grado di trasgressione alla rigidità della legge: cosa che una macchina di
intelligenza artificiale faticherebbe a comprendere, a meno che non fosse
programmata anche per sindacare la ragionevolezza della norma che deve
rispettare.
A parte tale caso limite, in cui il “proprietario” è
nientedimeno che la vittima designata della scelta, non si deve però pensare che
il criterio proprietario sia di per sé un criterio valido per risolvere i casi
limite, come ritiene Rothbard, e ciò per la semplice ragione che i titoli di
proprietà oggi esistenti sono molto dubbi nei fondamenti storici, sicché pare
ardito attribuire al proprietario addirittura un potere di vita o di morte.
Semplicemente, nei casi limite, non
esiste soluzione nell’ambito della dottrina dei diritti, se non nei
limitati termini dell’indennizzo per il danneggiato: i diritti sono tutti
risolti dall’inesigibilità, e scatta la lotta bruta per la sopravvivenza,
ovvero il senso morale soggettivo dell’agente decisore, quando questi sia
estraneo alla contesa. E nemmeno l’utilitarismo originario ci fornisce una
soluzione, in quanto filosofia espansiva, sulla ripartizione di risorse
positive –per John Stuart Mill, il massimo numero di persone possibili, delle
quali si doveva volere la felicità, erano “tutti”-, ma non ci dà risposte, se
non grevemente quantitative, su giochi a somma zero o negativa.
In realtà, l’esempio principe proposto, quello di Churchill
nella seconda guerra mondiale, ci dice che il vero carattere di questo tipo di
scelte –ossia se fare morire una persona o un certo gruppo di persone in quanto
“quantitativamente” inferiore rispetto a un altro gruppo di persone- ha valenza
di guerra, o comunque politica, dato
che, come notò Locke, “politica” è, in ultima analisi, decidere della vita e
della morte delle persone. Ma ben di rado la scelta politica e di guerra si fa
condizionare dalla morale: se Churchill ha scelto, in una data occasione, di
fare morire “meno persone” l’ha fatto per “contenere le perdite”, per motivi
strategici e non etici, quindi, non certo per scrupolo morale.
L’estrema difficoltà di soluzione nei casi limite analitici
si coglie da questo esempio: qualcuno ha installato una bomba talmente potente
da fare saltare il pianeta; il responsabile viene fermato, e si tratta di
decidere se torturarlo per fargli rivelare dove ha collocato la bomba. Si
tratta di un dilemma molto problematico, dal punto di vista libertarian mainstream, che, in quanto teoria deontologica sui diritti,
dovrebbe tutelare anche il diritto dell’attentatore a non essere torturato,
benché ci sia un dubbio su questo, dato che, pur in quell’ambito si potrebbe
individuare una proporzione tra il
danno subito attraverso la tortura, e il danno da evitare dell’esplosione del
pianeta. In realtà la vera soluzione al dilemma etico ci è fornito, ancora una
volta, dai principi del diritto, dato che il caso indicato sembra proprio
rientrare nella legittima difesa come anche oggi codificata. Semmai, ci si
dovrà sforzare di contenere al massimo possibile il danno per il torturato,
limitando il male allo stretto indispensabile.
Ma proviamo a chiederci se invece si tratti di torturare un
innocente, il quale sia però informato sulla collocazione della bomba. Si può
danneggiare un innocente? I principi del diritto ci dicono che ci troviamo in
una situazione di stato di necessità, e lo stato di necessità risolve i
diritti, riportandoci alla lotta per la sopravvivenza. In stato di necessità,
secondo il codice penale, anche l’innocente perde i propri diritti, perché si
tratta di una situazione da “stato di natura” pre-attribuzione dei diritti:
come si vede, la scienza del diritto ha individuato una soluzione, alla quale i
filosofi morali non sono giunti con altrettanta chiarezza e lucidità. Questo in
linea di pura astrazione, perché ovviamente, ammettere la tortura in concreto
darebbe vita a un piano inclinato, che non ci consente di attribuire poteri
simili a poteri che, nella pratica, rinforzerebbero la violenza dello Stato in
modo indiscriminato; ma, naturalmente, il dilemma etico non presuppone
necessariamente che si stia parlando dello Stato, potendosi riferire a
qualsiasi soggetto agente, al quale compete, semmai, di non oltrepassare determinati
confini all’atto di compiere l’atto difensivo.
Estremizzando, si potrebbe sostenere che, anche fuori dai
casi limite, qualsiasi scelta dell’uomo della strada, anche quelle minute,
abbia rilevanza etica, dato che, per ogni scelta, ci si potrebbe chiedere se
non ve ne sia una migliore dal punto di vista morale, ad esempio una che aumenti
il tasso di libertà complessiva –o, per meglio dire, riduca il livello di
coercizione-, rispetto a una acquiescente nei confronti di un sistema di non
libertà. Ogni agente morale si trova quindi nella condizione di dovere
comparare due o più stati del mondo ipotetici e sceglierne uno, benché la
maggior parte delle scelte quotidiane avvengano con una certa meccanicità.
Tuttavia, ragionando in linea puramente teorica, per ogni scelta compiuta ve ne
potrebbe essere un’altra migliore, tanto più in situazioni in cui
l’assegnazione di diritti scontasse gravi limiti, dovuti all’impossibilità che
una tale assegnazione non sconti il sacrificio di posizioni astrattamente non
meno degne, e quindi ci si trovi innanzi a situazioni in cui vi siano “beni” da
bilanciare, uno o più dei quali vada sacrificato.
Ciascuno effettua, anche inconsapevolmente, confronti
interpersonali o interreali di utilità ogni qualvolta agisce, ma, se ciò
avviene nel rispetto del quadro “libertario” delineato, tali azioni sono
rilevanti o irrilevanti dal punto di vista etico? Se esse sono libere e non
comportano coercizione nei confronti di terzi, ha senso porsi il problema della
loro moralità astratta, o la morale, rispetto a tal genere di azione, non ha
assolutamente nulla da dire?
Tali atti restano pienamente leciti, tuttavia nulla esclude
che si possa dar vita a esperimenti mentali per comparare azioni possibili, per
ragionare attorno l’ipotesi che una di esse, e non un’altra, aumenti il grado
di libertà o di cooperazione complessivo, e allora emergono le categorie del
ribelle e dell’acquiescente, perché l’acquiescente non sarà contestativo nei
confronti del mondo come lo conosciamo, e allora non contribuirà a migliorare
le condizioni di tutti, anzi, rischia di peggiorarlo, perché, nel momento in
cui avalla lo status quo, lo rinforza,
concorrendo alla formazione di una situazione indivisibile illibera.
Con ciò non si vuole pretendere che ognuno sia investito dal
sacro fuoco dell’impegno in ogni propria azione, tuttavia non si può fare a
meno di notare che le sorti della libertà sono più affidate all’iniziativa, se
intelligente e non controproducente, del ribelle, che non a quella
rinunciataria dell’acquiescente, il quale, per altro verso, è vincente, in
quanto più dotato della capacità di adattarsi al mondo, anche a costo di
soffocare, quando posseduta, la propria naturale vocazione libertaria.
Tuttavia, un giudizio comparativo su condotte, tutte
astrattamente “lecite”, ma dalla conseguenze diverse, e per certi versi opposte,
pare configurabile. Il consequenzialismo prende qui una rivincita dal punto di
vista libertario; vale a dire che, comparando due condotte, entrambe rispettose
dei principi libertari come li abbiamo delineati, si può concludere che una sia
preferibile all’altra proprio per quanto comporti in termini di incremento o
diminuzione della coercizione complessiva, ovvero per il fatto di lasciarla
inalterata; del resto, ogni comportamento incide sulla reputazione, quindi la
scelta dell’uno o dell’altro assume significato anche sotto tale profilo.
Normalmente, il punto di vista etico, come del resto il
diritto penale, attribuisce importanza alle intenzioni dell’agente, in funzione
della previsione sulle conseguenze attese, ma qui stiamo parlando
dell’efficacia dell’azione, che può travalicare le intenzioni, dato che
un’azione ribelle, adottata con le migliori intenzioni libertarie, può
rivelarsi nella pratica totalmente inefficace, quando non dannosa (ad esempio
un atto di ribellione fallimentare), mentre, al contrario, un’azione
apparentemente neutra, adottata senza alcuna intenzione particolare dall’uomo
della strada, può ottenere risultati superiori da quel punto di vista, anche al
di là del proposito.
Ma il vero problema è quello delle scelte tragiche, in cui
emerge prepotentemente il profilo della scarsità: come assegnare le risorse,
quando ciò comporta il beneficio di qualcuno in danno di qualcun altro? Conosciamo
un ampio dibattito in tal senso, ma esiste una risposta libertaria al dilemma?
Libertario è rispettare la dignità di tutte le persone coinvolte in un calcolo
morale, ma può ben capitare che una tutela integrale di ciascuno si riveli
impossibile all’atto pratico: ad esempio, ammettiamo che un ospedale disponga
di un solo posto letto libero, o di una sola incubatrice libera, mentre i
pretendenti sono più di uno. L’assegnazione della risorsa scarsa inevitabilmente
premia qualcuno a discapito di un altro. C’entra la libertà in questo
ragionamento, o essa vale solo ad attribuire al decisore il pieno diritto di
decidere sulla base delle sue proprie
intuizioni morali? Ad esempio, la risorsa potrebbe essere assegnata in ordine
di arrivo, o sulla base di chi ha più bisogno; ma ammettiamo che due persone
siano giunte contemporaneamente e abbiano identico bisogno; a questo punto, il
decisore potrebbe agire sulla base della simpatia, o magari dell’estetica,
degli interessati. Oppure potrebbe odiare i ricchi (o i poveri) e assegnare la
risorsa al povero (o al ricco).
Si tratta certo di criteri contestabili, od opinabili, ma
occorre ammettere che la “libertà” ha poco da dirci, è poco utile come criterio
ultimo in grado di giudicare il criterio adottato, e ciò deriva dal suo
carattere prettamente formale, che riguarda la condizione di chi effettua una scelta, e non la scelta direttamente;
sicché si apre la strada per dibattiti in cui valgono altri criteri, dato che l’inclinazione
libertaria non spiega tutto, limitandosi a rilevare in quanto dottrina della competenza, ossia
sull’attribuzione della facoltà di decidere, oltre che come dottrina della
condizione di libertà del decisore.
Ad esempio, in materia di bioetica, si pongono non di rado
problemi su chi sia competente a decidere sulle sorti di malati terminali, come
è stato nel caso del piccolo Alfie. Qui emergono i due distinti problemi
morali: a) la scelta da effettuare; b) la competenza a prendere la decisione.
Se il criterio libertario principe è quello di rispettare la volontà, ove
espressa o ricostruita, dell’interessato, di fronte però a un neonato, che non
è in grado di esprimere la propria opinione, quanto alla scelta occorrerebbe
trovare un criterio che simulasse l’opinione che non c’è, immedesimandosi nel
soggetto, e le risposte possono essere le più diverse: ad esempio, si potrebbe ritenere
che l’interessato non avrebbe alcuna intenzione di vivere nella sofferenza e
preferirebbe morire, oppure che potrebbe esprimere un desiderio di vita
comunque, nel momento in cui stia lottando biologicamente per la sopravvivenza.
Nel formulare il giudizio, ognuno non può quindi che parlare per sé,
immaginando che cosa vorrebbe per sé in quella situazione.
Quanto alla competenza, il problema che si pone è se
attribuire primario rilievo alla volontà dei genitori, o a quella dei medici, o
di istituzioni pubbliche come i tribunali. Il tribunale simula l’ipotesi del
decisore imparziale, che quindi dovrebbe tenere conto dell’opinione dei medici,
ma anche di quella dei genitori; un’altra opzione è quella di attribuire un
qualche ruolo alla comunità, estendendo la partecipazione alla decisione a
soggetti, che si sentono comunque coinvolti in quanto potenzialmente
interessati, e che si immedesimano, ad esempio, nella situazione dei genitori.
Il limite di questi coinvolti è il difetto di competenza tecnica, tuttavia
l’unica soluzione possibile, che sia per un minimo coerente con principi
libertari, è che si apra il più ampio dibattito tra i competenti, nella
consapevolezza, a sua volta “libertaria”, però, che anche l’uomo della strada è
portatore di intuizioni morali che potrebbero rivelarsi valide, o comunque
rispettabili. Se ne trae conferma in letteratura dalla cosiddetta filosofia
sperimentale, che dimostra come le opinioni morali dell’uomo della strada non
si rivelano necessariamente “peggiori” di quelle dei filosofi morali di
professione.
Un caso limite, prospettato dal filosofo morale Derek Parfit,
è quello della donna incinta di due gemelli, uno dei quali, si scopre, è privo
di entrambi gli occhi. Il quesito che viene posto è se si debba, potendo,
operare i due feti, in modo da attribuire a ciascuno un occhio, sapendo che ciò
consentirà a entrambi di vivere una vita abbastanza soddisfacente, mentre la
vita del bambino senza occhi sarebbe pessima (così la prospettazione del caso).
Il libertario mainstream
dirà che il gemello con entrambi gli occhi ha il diritto a conservarli, e
peggio per l’altro. L’egualitario opterà per l’opzione un occhio per uno. Parfit
non nota, però, che si dà un’altra opzione, quella che la donna abortisca selettivamente
il gemello senza occhi, evitandogli ab
origine una vita disperata. Come si vede, riemerge qui il profilo della
competenza, che, nel caso dell’aborto viene attribuita interamente alla donna,
in quanto soggetto interessato dalla gravidanza, e quindi titolare della facoltà
di decidere se portarla innanzi. Imporre a una persona uno stato fisico
indesiderato sarebbe infatti un’opzione peggiore, dal punto di vista
libertario, dato che implicherebbe un grado di coercizione intollerabile, e ciò
anche indipendentemente dallo statuto da attribuire al feto, questione del
resto metafisica.
Che cosa succede, però, se la donna è contraria all’aborto?
Possiede questa il diritto di ripartire gli occhi tra i due gemelli? E’ sua la
competenza di decidere, o di entrambi i genitori? La comunità ha qualcosa da
dire al riguardo? Dal punto di vista dell’intuizione morale, chi scrive opererebbe
un bilanciamento tra le due condizioni e, tutto considerato, opterebbe per
l’opzione “egualitaria” in considerazione delle sue conseguenze (attribuire a
entrambi una vita degna di essere vissuta pare uno stato del mondo migliore che
lasciare uno dei due in stato di disperazione); ma, si ripete, dal punto di
vista libertario il primo tema è quello della competenza, che un libertario
molto obtorto collo attribuirebbe a
organi dello Stato come i tribunali, in quanto ciò comporterebbe, di fatto,
l’attribuzione allo Stato della proprietà del corpo umano, il che pare
indesiderabile. Quale sia, indipendentemente dalla competenza, la scelta
“giusta”, invece, resta sempre questione molto opinabile, in casi come questi,
e dottrine deontologiche e consequenzialiste continueranno a confrontarsi senza
sosta. Ma il nostro punto è che non esiste alcun “diritto naturale” che possa
fornire indicazioni utili a risolvere casi appena complicati, se non nel
limitatissimo senso di prescrivere di sforzarsi di agire e di decidere nel modo
che si sente essere il migliore possibile (fai
il bene, evita il male).
Certo, se il decisore è vincolato da uno schema normativo,
come ad esempio un giudice, egli ne sarà orientato, ma nella più parte dei casi
egli opererà correttamente se procederà attraverso una comparazione e un
bilanciamento degli interessi, tenendo conto dei principi di rango superiore,
che sono, come detto, i diritti umani, una volta che questi siano entrati, per
via internazionale, nell’ordinamento giuridico di ciascun paese; ovvero, nel
caso degli USA, spetterà alla Corte Suprema dire l’ultima parola, sulla base
dei principi costituzionali, che comprendono i diritti previsti dai vari
“emendamenti”: tutto ciò non rappresenta ancora “diritto libertario”, ma certo
dovrebbe, o potrebbe essere, almeno in teoria, diritto libertariamente orientato,
stante il contenuto di quei diritti supremi e dei criteri previsti per il bilanciamento
degli interessi, quando questi introiettino i supremi diritti umani.
V’è poi l’etica libertaria minimale, rispettare gli impegni
presi, adempiere ai contratti –ovviamente nei limiti della loro validità: un
codice civile ha molto da insegnare a certi libertarian,
feticisti della firma apposta-, e così via. Non si deve pensare, però, che
tutto ciò sia affidato alla sola morale; anche chi fosse intenzionato ad agire
in contrasto con tali principi, infatti, sarebbe sottoposto alla reazione
altrui, e meglio lo si vedrà affrontando la questione del diritto. Ma v’è anche
una morale positiva ulteriore? Ad esempio, quanto da noi sostenuto sull’utile
universale è implicazione stretta dell’inclinazione libertaria come da noi
intesa, ma è anche esito di un’intuizione morale; ma un anarco-capitalista
contrario alla rendita di esistenza e all’utile universale, che affida la
tutela del povero esclusivamente alla beneficenza del ricco, a nostro avviso
dovrebbe prendere in seria considerazione il dovere morale dei ricchi di fare
beneficenza ai poveri; e ciò per due fondamentali ragioni, proprio dal punto di vista anarco-capitalista: in primo luogo, come
ammette Rothbard, oltre a Nozick, i titoli di proprietà attuali dei più ricchi
sono nella più parte dei casi illegittimi, in quanto frutto di favoritismi
storici da parte delle istituzioni statuali: Nozick e Rothbard, in modo
diverso, ammettono addirittura la rettificazione di questi titoli, sia pure con
notevole difficoltà; ma allora, se non si vuole giungere al loro esproprio,
quantomeno si radichi in capo a questi ricchi il dovere morale di contribuire a
favore dei poveri; ma c’è di più: è anche loro interesse procedere in tal
senso, dato che lo Stato si nutre, tra le altre giustificazioni più o meno
mistificatorie, proprio di quella della tutela del debole. E allora, se non si
vuole che lo Stato si ricostituisca o si alimenti, che almeno gli si tolga
questo profilo di legittimazione, il che, oltretutto “terrebbe buoni” i poveri.
Ma la verità è che, se gli anarco-capitalisti sono contrari allo Stato per
ragioni ideologiche, non lo sono affatto i capitalisti reali, che dallo Stato
traggono primaria tutela. E quindi il secondo profilo è solo teorico, forse valido
per un anarco-capitalista coerente, ma non per un detentore di ricchezze
attuali, salvo che non sia moralmente motivato in modo significativo.
Indicazioni bibliografiche.
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Cortina Editore, 2014 (2014).
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storia della filosofia morale, Milano, Feltrinelli, 2004 (2000).
László
Mérö, Calcoli morali – Teoria dei giochi,
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Fabio Massimo Nicosia, L’interesse
legittimo come pretesa a una quota del bene comune in regime di scarsità,
in Materiali per una storia della cultura
giuridica, 2012.
10.
10.
Problemi libertari nel diritto.
Al di là delle
simulazioni analitiche delle varie situazioni intersoggettive, se c’è qualcuno
che pretende di imporre i propri contenuti normativi agli altri, questo è
evidentemente il soggetto Stato, la cui legislazione ha la pretesa non comune
di costituire unilateralmente (e quindi dovrebbe applicarsi il principio dell’interpretatio contra stipulatorem) obblighi nei confronti dei cittadini, e
non solo. Si è detto che, in linea generale, il “tu devi” di A non costituisce
obblighi in capo a B. Ovviamente, ciò vale, anche e soprattutto, se A è lo
Stato e B il cittadino; da questo punto di vista, lo Stato è l’istituzione
consacrata alla negazione del principio di reciprocità: lo Stato, infatti, a
differenza di ogni altro agente del mercato, pretende di imporre le proprie
esternalità verticali, dall’alto verso il basso, senza accollarsene i costi, e
senza corrispondere alcun risarcimento o indennizzo, e ciò attraverso la
normazione, che esso vive come fossero degli “imperativi”.
L’imperativismo, ossia
la concezione, per la quale la legge rappresenterebbe un comando del sovrano, è
un’antica concezione (si pensi a John Austin), che, considerata valida oggi, sarebbe
espressione di un modo alquanto volgare di intendere il positivismo giuridico. Pare
evidente che subito ci si interrogherebbe sul fondamento di legittimazione politica di questo comando -oltre che
sulla possibilità di sindacarlo-, e che cosa lo autorizzi a porsi come fonte di
obblighi in capo ai cittadini e, in genere, agli individui. Evidentemente, la
formula politica democratica non è sufficiente a risolvere la questione, dato
che, da un punto di vista libertario, non può essere il fatto di promanare da
una maggioranza –o, per meglio dire, da una minoranza che si assume in
rappresentanza della maggioranza- che un “comando” possa ritenersi vincolante
per un individuo, il quale non ne condivida in pieno fonte e contenuti.
Si entra qui in
questioni di teoria generale del diritto, che qui ricostruiamo molto
sommariamente; e allora la mente vola subito a quello che è considerato il
teorizzatore principe del positivismo giuridico, vale a dire Hans Kelsen,
secondo il quale il carattere di obbligatorietà della norma giuridica si fonda
sulla sua “validità”, e una norma è valida quando si inserisce in un
ordinamento giuridico a sua volta valido, vale a dire “autorizzato” (da chi?),
che è quanto lo distingue da una qualsiasi banda di briganti; la quale, dotata
di solo senso soggettivo e non oggettivo, esercita coercizione senza essere
autorizzata. Ma su cosa si fonda l’ordinamento giuridico autorizzato? Sulla
propria efficacia, prosegue Kelsen,
vale a dire sulla propria valenza effettiva, la propria “vigenza”, sulla
propria capacità di esistere nel mondo dei fatti in quanto ordinamento
giuridico, ossia su di una Grundnorm.
Ecco allora che non si
elude la questione: la validità e, quindi, l’obbligatorietà dell’ordinamento e
delle sue norme, si fondano sulla forza, sulla loro capacità di imporsi nei
fatti. Con la conseguenza che una costruzione che si vuole teoricamente molto
sofisticata finisce con il ricadere nell’imperativismo bruto: un ordinamento è
obbligatorio in quanto abbia forza sufficiente per imporsi, tanto è vero che
l’obbligatorietà della norma giuridica viene ricondotta al fatto che essa
preveda una sanzione, che però l’ordinamento deve essere in grado di
implementare, di inverare nel mondo dei fatti, attraverso la loro trasformazione
nei termini indicati dalla norma.
La norma valida è
infatti “vincolante”, e l’uomo “deve” comportarsi nel modo previsto dalla
norma. Tale modo di vedere la questione è stato osteggiato dai realisti
giuridici, in primo luogo da Alf Ross, che vedeva in tali dichiarazioni di
doverosità degli elementi spuri, nel mondo del diritto, tanto da fargli parlare
in proposito di “quasi positivismo”, e non di positivismo laico e razionale. In
realtà, affermare che la norma dello Stato va “obbedita” –spiegheremo presto il
senso delle virgolette-, solo in quanto il suo ordinamento è dotato della forza
irresistibile per imporsi, sfocia nel legalismo etico, per cui lo Stato (per
Kelsen il diritto si identifica con lo Stato) diviene fonti di imperativi
morali, ai quali attenersi. Kelsen lo nega, ma nel momento in cui fonda la
validità sull’efficacia, efficacia in quanto effettiva vigenza del sistema, non
sfugge alla critica di fare del soggetto empiricamente più forte la fonte, solo
in quanto soggetto effettivamente forte, di obblighi e di doveri per i suoi
destinatari: una doverosità fondata interamente sulla forza sembra davvero una
cattiva morale.
A onor del vero, Kelsen
non sostiene che esista un obbligo morale di obbedire alle leggi, né un obbligo
giuridico distinto dal mero fatto della previsione di una sanzione, perché
ragiona dal punto di vista interno all’ordinamento e non da quello dei
destinatari; tuttavia introdurre il linguaggio della doverosità, trattando di
norme giuridiche, dà vita a un inquinamento concettuale non da poco; dato che,
al di là del fatto che l’ordinamento, dal suo punto di vista, preveda una
sanzione a fronte di una data condotta, non spiega ancora in che senso uno
dovrebbe non adottare quella condotta, al di là del consenso, da un lato, o del
rapporto di forza, dall’altro.
A nostro avviso, il
problema trova soluzione sul piano dell’analisi del linguaggio, che ci consente
di escludere che le norme giuridiche pretendano obbedienza ai propri enunciati.
Prendiamo in esame una qualsiasi norma giuridica, la quale concorra a
costituire, con le altre, un ordinamento giuridico; ebbene, noi non vi
troveremo pressoché mai enunciati formulati attraverso la forma linguistica
dell’imperativo, o della doverosità, se non negli esempi più arcaici o in casi
marginali, ma per lo più proposizioni vergate con la forma descrittiva.
La norma giuridica non
dice mai “Ti comando di non uccidere”,
ovvero “E’ obbligatorio, è doveroso non
uccidere” (questo avviene con la religione), ma, semmai, “Chi uccide è punito alla pena x”. Si
tratta della “descrizione” di un fatto ipotetico futuro, di un’ipotesi
empirica, che va poi verificata sul campo. Lo Stato indica a se stesso, non ai consociati, come reagire nel caso in cui i
consociati adottino una determinata condotta. Va sottolineato che la gran parte
dei teorici del diritto mainstream non
ha mai preso sul serio siffatta forma dichiarativa, asserendo che la
“dichiarazione” reca con sé un imperativo implicito, ma si tratta di un modo
per eludere la questione e fare un passo indietro rispetto a quella che è una
conquista di ragione.
Semmai, affermare “Chi uccide è punito” rappresenta una
minaccia (se uccidi, ti punirò), ma
la minaccia non ha alcuna forza obbligante, semmai costrittiva (la distinzione
è netta) nei confronti del destinatario, al di là del consenso con il suo
contenuto (i più condivideranno l’idea di non uccidere, ma si pensi a molte
altre previsioni normative che possono vantare molto minore consenso), ovvero,
più spesso, del rapporto di forza. Non solo il libero arbitrio resta intatto,
ma anche dallo stesso punto di vista
dell’ordinamento, non si dà alcun obbligo giuridico o morale riconnesso di
per sé alla norma, ma solo avvertimenti su possibili conseguenze, tutte da
verificare. E allora il contenuto della norma dovrà essere sufficientemente adeguato, in quanto formulazione
linguistica, alla realtà empirica, in modo che il suo impatto sia conforme a
quell’autodescrizione, mostrandosi così disposizione dotata di efficacia.
Il diritto è adeguato in quanto sia in grado, tanto
in quanto articolazione linguistica, quanto per il suo essere rappresentativo
degli stati di cose sui quali si propone di incidere, di collegarsi
efficacemente con il mondo, consentendo la propria effettiva vigenza con il
successo della scelta più opportuna rispetto all’indicazione normativa; e il
punto è che il sindacato dell’adeguatezza può condurre a esiti imprevedibili,
alla luce dei sacri principi contenuti nelle norme di rango superiore. Emerge
qui la questione della gerarchia delle fonti, sulla quale non ci possiamo
soffermare, tuttavia si è già ricordato che, con la codificazione
internazionale dei diritti umani, al primo posto della gerarchia si vengono a
collocare proprio questi, con l’apertura di importanti prospettive dal nostro
punto di vista. Salvo che, tra i diritti umani codificati, v’è proprio quello
di non essere costretti a fare parte di associazioni (art. 20, c. 2, della
dichiarazione dell’ONU), il che vorrebbe dire avere messo teoricamente fuorilegge
lo Stato come lo conosciamo (“ente ad appartenenza necessaria”), con tutti i
problemi di implementazione di un simile generalissimo principio, che è facile
immaginare.
Ma immaginiamo che,
come vorrebbe l’idea pura di “Stato di diritto”, in cui, come in Hugo Krabbe,
il governo del diritto prevalesse su quello degli uomini, il diritto
formalmente vigente lo fosse anche effettivamente: molto probabilmente, un
simile esito sarebbe possibile solo se all’”uomo” (al governante, al giudice,
all’amministratore, al politico)
fosse sostituito un elaboratore di intelligenza artificiale, incaricato di
attuare davvero tutto il diritto
formalmente in vigore in un dato momento nell’ordinamento giuridico; si possono
immaginare due risultati: o l’ordinamento imploderebbe sotto il carico delle
sue contraddizioni, rivelando l’ineffettività dell’ordinamento stesso, nel
conato stesso di bilanciare davvero tutti gli interessi, astrattamente presi in
considerazione dalle sue norme; ovvero, se l’elaboratore fosse ben programmato nell’assicurare
il rispetto delle norme di rango supremo, l’ordinamento stesso, ai livelli più
bassi, verrebbe invalidato nel suo complesso per contrasto inevitabile con quei
sacri principi, tanto elevati da non potere essere inverati da un ordinamento
materiale fondato sulla minaccia contraddittoria a rispettare gli interessi più
disparati: sicché resterebbero solo i principi supremi in quanto coerenti, da
chiunque attingibili in concorrenza, e si tratterebbe di ordinamento
libertario, proprio alla luce del contenuto astratto, che è in grande parte di
libertà, di quei principi supremi.
A parte tale
considerazione, che evidenzia il carattere utopico dell’idea che il governo
della legge possa essere altro da un governo degli uomini –sicché dal punto di
vista descrittivo Carl Schmitt prevale su Kelsen-, tanto più in un contesto
pretesamente monopolistico, va detto che, riducendo il contenuto della norma
giuridica sanzionatoria ad attestazione di una minaccia, il cittadino –il
consociato, l’individuo- resta totalmente libero di agire come ritiene,
valutando le conseguenze pratiche del proprio operato: abbiamo introdotto, a
tale proposito, la nozione di disobbedienza
incivile, per intendere l’atteggiamento non eroico di chi, sulla base di un
calcolo costi/benefici, si assuma il rischio di non ottemperare alla minaccia
normativa, falsificando sul campo la relativa pretesa. Ma in realtà non si
tratta di disobbedienza in senso proprio, non rappresentando la norma un
imperativo o altrimenti una fonte di obblighi, ma di un agire volto a eludere
il suo contenuto minaccioso, sicché la relazione non è tra ordinamento e
uomini, ma rapporto, solo mediato da quell’articolazione linguistica che sono
le norme, tra uomini di potere, da un lato, e uomini che ne sono privi,
dall’altro.
Altro è l’ordinamento
dello Stato, altro sono io, e viaggiamo su binari diversi, dato che io potrò
sempre scegliermi, sempre che ne abbia la forza, criteri di azione difformi –o
solo eventualmente conformi- rispetto a quelli previsti dalle sue norme, e
potrei sempre costituire ordinamenti alternativi –Santi Romano ha mostrato come
anch’essi siano fonte di diritto-, che si propongano di fare concorrenza, sul
mercato giuridico, rispetto all’ordinamento dello Stato, che è “impresa”
dominante, ma presume eccessivamente di sé, quando pretende di essere l’unica fonte del diritto. E questo vale
non solo nel modello ideale, ma già oggi, in regime di statualità.
*****
I teorici del diritto mainstream, in genere e con poche
eccezioni (si pensi a Bruno Leoni), non mettono in discussione il monopolio
nella legittimazione della produzione giuridica, con la conseguenza che, in
tale materia, si è formato un senso comune, che tende a escludere che il diritto
possa essere materia di concorrenza. Nostra idea, a tale proposito, è che, al
contrario, ciascun singolo individuo sia
fonte diretta e immediata di produzione giuridica, per la semplice ragione
che la “capacità giuridica”, la capacità di effusione normativa, è un attributo
proprio di qualsiasi individuo: ognuno è dotato dei requisiti fondamentali per
“porre diritto”, una ragione e una dotazione di forza fisica, volta a fare
rispettare quanto deliberato, a minacciare sanzioni e a punire, oltre che a
stipulare. Ogni atto fondato sulla ragione è atto di posizione di diritto, è
diritto di fonte individuale autonoma, “diritto soggettivo”, quindi. Diritto
invece “oggettivo” è l’esito inintenzionale, dall’emersione, delle interazioni
tra gli individui, che si scambiano minacce e proposte di astensione sull’uso
della forza.
Il monopolio è
consustanzialmente inefficace e inefficiente a porre diritto oggettivo –in
realtà si tratta del diritto “soggettivo” dell’agente Stato-, proprio perché la
capacità giuridica, ed etica, è propria di ciascun singolo individuo, e solo
fittiziamente può essere concentrata in un soggetto collettivo, mentre il
mercato (libertario) è la rete delle interazioni negoziali tra gli individui.
Ogni individuo, nell’interagire con gli altri, avanza una propria ipotesi
normativa e la sottopone al vaglio altrui; il diritto oggettivo che emerge dal confronto con gli altri
è quindi frutto e risultante dal bombardamento reciproco dei diritti soggettivi,
che si ripercuote a propria volta sulla realtà sottostante, proponendosi quale insieme
di standards orientativi nel caos delle
condotte individuali, che vanno alla ricerca di parametri di certezza, ai quali
ancorare la propria iniziativa.
Ognuno, per altro
verso, produce esternalità, ma in misura infinitamente inferiore di quanto
possa fare un monopolista del diritto, dato che le esternalità interindividuali
vengono contrattate e ricontrattate, mentre quelle del preteso monopolista –preteso,
perché essendo la forza una risorsa diffusa, la sua concentrazione risulterà
ineffettiva, per cui non siamo di fronte a un vero monopolio, ma, come abbiamo
argomentato altrove, a un mero abuso di posizione dominante nel mercato della
forza e della legittimazione- sono imposte unilateralmente.
Il monopolista è quindi
solo preteso, dato che la forza, e la ragione in grado di elaborare criteri di
legittimazione del suo impiego, sono risorse pandesposte, ossia appartenenti a ciascuno
degli uomini. Il realismo giuridico ci dice che per diritto deve intendersi
quanto prevediamo sarà stabilito dai giudici; ma tutti siamo “giudici”, sicché
la scienza giuridica dovrebbe anzitutto occuparsi dell’azione umana in quanto
fonte di atti ricostruibili in termini giuridici. Del resto, il linguaggio giuridico
non è che linguaggio comune tecnicizzato (autorizzazione, assicurazione, pena, etc.),
e ognuno agisce in modo riconducibile a quelle categorie: ognuno autorizza,
assicura, punisce (o prova pena) e così via.
Non solo: l’uomo può
associarsi, e dare più forza al proprio diritto unendosi con altri, ponendo la
propria proposta normativa e confrontandola con quella di altri individui e
associazioni. Certo, se ragioniamo in termini di inclinazione libertaria, il
discorso viene agevolato: le differenze di contenuto normativo tra un gruppo e
l’altro non saranno radicali, e in caso di contrasto non sarà difficile trovare
un componimento arbitrale. Su questo assunto, si fonda la proposta
anarco-capitalista delle cosiddette “agenzie di protezione”, ognuna delle quali
sarebbe incaricata di implementare un sostanzialmente identico, tranne i
particolari, “codice libertario” (in genere riconducibile alle proposte del
nume Murray Rothbard). Ma quid iuris se
le proposte normative delle diverse agenzie si rivelano del tutto
incompatibili? La libera concorrenza, che presuppone, nella sua forma pura, il
carattere identico del servizio fornito (quindi la concorrenza perfetta sarebbe
possibile solo tra agenzie normative volte a implementare codici libertari),
sarebbe sostituita da un conflitto permanente, e l’esito sarebbe la
ricostituzione dello Stato, con un processo di formazione e di consolidamento dell’agenzia
dominante meno edulcorato di come crede di potere illustrare Robert Nozick.
Quale esempio di
conflitto possibile, si può indicare il fatto che gli anarco-capitalisti mainstream non considerano che le loro
agenzie di protezione, volte alla tutela dei diritti proprietari, implicano
come riflesso l’anarco-sindacalismo, dato che i non proprietari, anche dallo
stesso punto di vista anarco-capitalista, non hanno minore diritto di
coalizzarsi e di tutelare i propri interessi, e di contrattare con le agenzie
incaricate di tutelare i proprietari: i proprietari, a differenza di quanto
ritengono gli anarco-capitalisti, sarebbero particolarmente deboli, in un
simile contesto, ossia privi della tutela della proprietà fornita dallo Stato;
si tratterebbe di un conflitto aperto, con periodici scontri tra agenzie,
alternati a momenti di tregua, senza che
i proprietari possano chiamare a propria tutela la polizia del monopolista
della forza. L’anarco-capitalista risponde che i diritti di proprietà sono
diritti naturali, però non solo non è persuasivo sulla loro protezione, ma è anche
evidente che altri possano avere concezioni diverse della proprietà (ad esempio
una proprietà fondata sul consenso e che non implichi sfruttamento) e battersi
per esse. Del resto, si è visto che gli anarco-capitalisti non propongono
alcuna soluzione al problema sociale, che non sia la discrezionale beneficenza
volontaria del ricco nei confronti del povero, ed è per porre rimedio a tale
grave lacuna, che abbiamo elaborato il concetto sopra illustrato di utile
universale, che si rivela soluzione a tutto campo –l’importanza del denaro…-,
anche cioè ai fini normativi che qui ci occupano: è evidente, infatti, che
minori disparità di reddito avvicinerebbero anche i contenuti normativi delle
diverse agenzie in campo, le soluzioni contrattuali e arbitrali ne verrebbero agevolate,
e i conflitti di gran lunga ridotti.
Certo, resteranno
differenze anche profonde di carattere culturale, ma sarà rimossa la prima
causa di conflitto, che è quella tra chi ha qualcosa da difendere e chi non ha
nulla da perdere.
Indicazioni
bibliografiche.
Hans Kelsen, La dottrina pura del diritto, a cura di
Mario G. Losano, Torino, Einaudi, 1966, ed. 1990.
Alf Ross, Diritto e giustizia, a cura di G.
Gavazzi, Torino, Einaudi, 1965, II ed.
Herbert Hart, Il concetto del diritto, a cura di M.
Cattaneo, Milano, Giuffrè, 1991.
Hugo Krabbe, The
Modern Idea of the State, New York, London, D. Appleton, 1922.
Bruno Leoni, Oscurità e incongruenze nella dottrina
kelseniana del diritto, in Rivista
internazionale di filosofia del diritto, 1960.
Fabio Massimo Nicosia, Il sovrano occulto – Lo “stato di diritto”
tra governo dell’uomo e governo della legge, Milano, Franco Angeli, 2000.
Fabio Massimo Nicosia, Beati possidentes, Macerata,
Liberilibri, 2004.
Fabio Massimo Nicosia, L’abusiva legittimità – Dallo Stato ai
common trust, Genova, De Ferrari, 2017.
11.
11.
Conclusione: quadro di oggi e prospettive.
Da quanto precede,
emerge come l’inclinazione libertaria contempli il mercato. Il mercato è la rete dei negozi giuridici, intessuta tra
tutti gli individui che occupano il globo. Esso non presuppone che siano
predefiniti diritti di proprietà, dato che, come abbiamo visto, esistono
interazioni economiche già in regime di comunione della Terra. I diritti di
proprietà individuali, infatti, scaturiscono da quelle interazioni, attraverso
la compensazione del sacrificato dagli impossessamenti individuali. Più
esattamente, quindi, il proprietario individuale è un usufruttuario rispetto a una proprietà che l’assioma libertario
(l’impossibilità per A di imporre unilateralmente obblighi a B) vuole comune.
Il mercato, però, è una
funzione della scarsità. Ipotizzando infatti che ci sia tanta terra a
disposizione di chiunque, consentendo a ciascuno di impossessarsene di una
porzione, non ci sarebbe bisogno di questa compensazione. Il mercato è una
modalità di spartizione di risorse scarse, come dimostra il fatto che se di un
bene –in ipotesi, il pane- vi fosse piena abbondanza, non ci sarebbe bisogno di
spartirlo tra gli individui, potendo ognuno appropriarsene liberamente, secondo
il modello della presa nel mucchio comunista.
Questo è un approdo al
quale potrà giungersi solo quando l’automazione delle macchine, sostituendo la
pena del lavoro, potrà produrre beni in abbondanza, in modo tale che ognuno
possa appropriarsene senza necessità di compensare altri; ancora per un lungo
periodo, tuttavia, ciò non sarà, se non gradualmente per alcuni beni e non per
altri, ma, a quel punto, sarà giunto il momento di riverificare la legittimità
dei titoli di proprietà delle macchine, e così eventualmente “rettificarli” a
vantaggio di tutti, come del resto ammettevano tanto Nozick quanto Rothbard. Fino
ad allora, per i beni che continueranno a essere scarsi, nella nostra proposta continuerebbe
a operare il criterio di ripartizione del mercato, con ogni conseguente
disuguaglianza anche economica –ossia, non solo dovuta a elementi di carattere
personale- tra gli individui, con il rimedio dell’utile universale, che rende
non devastanti le conseguenze della diseguaglianza. Ma anche ipotizzando che,
un giorno, tutti i beni divengano abbondanti nella società delle macchine, e
che ciò renda possibile il comunismo (libertario), di mercato potrà continuare
a parlarsi, con riferimento alle azioni umane, al loro scambio, alle
interazioni personali, alle effusioni individuali di carattere e di forza sulla
base delle differenti personalità: anche il comunismo (libertario) –si pensi a
Luigi Galleani- ammetterebbe le più articolate differenziazioni di preferenze.
Di “mercato” si possono
però proporre due nozioni distinte, una prescrittiva,
corrispondente al mercato libertario, nel quale siano rispettate tutte le
restrizioni sopra indicate, e una descrittiva,
che abbia a mente il mercato come oggi lo conosciamo. V’è poi un’accezione epistemologica, che emerge quando si
studiano le relazioni umane come relazioni di mercato, utilizzando il relativo
linguaggio degli economisti: si veda il caso di Gary Becker, che ricostruisce
sulla base di categorie economiciste qualsiasi interazione umana. Ma il mercato
è anche la sede, intendendo la concorrenza in un’accezione non necessariamente
economicista, anche della compresenza di stili di vita diversi, di
epistemologie diverse in competizione, la sede della tolleranza nei confronti
di visioni diverse dalle nostre. Persino l’anarchico Errico Malatesta fece
l’apologia del “libero commercio”, cogliendovi proprio questo elemento
costitutivo della libera sperimentazione.
Il “mercato” attuale, però,
ha ben poco a che vedere con quello libertario, dato che le assegnazioni dei
titoli di proprietà, nella storia, non sono avvenute nel rispetto delle
restrizioni libertarie, ma sono avvenute sulla base di appropriazioni forzose,
favorite da istituzioni come lo Stato, che rivendicano il monopolio della
coercizione, sulla base di proprie leggi, che sono, nella più parte dei casi,
vere e proprie leggi-provvedimento a vantaggio ora di questo ora di quello. Lo
Stato, in particolare, favorisce il costituirsi di monopoli e di situazioni
protette nel mercato, e si propone direttamente come soggetto suo, ma con
l’inefficienza propria di chi rivendica l’esclusiva forzosa in molti settori:
brevetti, concessioni, copyrights,
marchi, industria bellica, industria della realizzazione delle opere pubbliche,
sono tutte forme di capitalismo sostanzialmente di Stato, o, quantomeno, che
non potrebbe prosperare senza il forte ausilio dello Stato: è estremamente
complesso, nell’attuale stato di cose, di compenetrazione tra capitalismo reale
e istituzioni pubbliche, distinguere le interazioni davvero volontarie da
quelle inquinate dalla coercizione, essendo la presenza attiva dello Stato
pervasiva in ogni settore, dato l’alimentarsi della credenza dell’irrinunciabilità
del monopolio come soluzione ultima del dilemma giuridico e politico, che
attrae e seleziona domande sociali di ogni tipo, favorendone alcune e
sacrificandone altre, in base a una turnazione, che dipende per lo più dalle
scelte politiche.
Il mercato reale,
quindi, ricomprende lo stesso Stato, che è soggetto attore nell’ambito del
moderno diritto della concorrenza, e una grande quantità di istituzioni; siamo
poi di fronte a un sistema del credito oligopolistico, con al vertice una banca
centrale e, via via, una serie di vassalli privati protetti gerarchicamente
ordinati, ognuno dei quali concessionario di fatto del potere discrezionale di
emettere moneta bancaria monopolistica a corso forzoso, nulla a che vedere con
un’autentica libera concorrenza nel conio. Il sistema idiocratico della
compenetrazione tra grande privato e Stato trova proprio nel sistema
finanziario il proprio culmine, dato che le banche centrali, organismi di
diritto pubblico, sono possedute privatamente; ma non mai viene meno il ruolo
centrale dello Stato quale impalcatura, attorno alla quale questi poteri si
organizzano.
Val la pena, a tale
proposito, spendere qualche parola su come Marx abbia inteso il rapporto tra
Stato e capitale. Marx considerava lo Stato una mera sovrastruttura dei
rapporti di produzione, destinato ad estinguersi, una volta che i rapporti di
forza tra le classi avessero condotto il “proletariato”, o, per meglio dire, i
suoi autonominatisi rappresentarsi, ad impadronirsene. Eccezion fatta per il
capitolo XXIV del Libro primo del “Capitale”, nella parte in cui descrive i
processi di accumulazione originaria, Marx, però, ha sostanzialmente ignorato
il ruolo dello Stato come giocatore autonomo nei processi di riproduzione
dell’accumulazione; così come non ha previsto il suo ruolo come grande
burocrate nelle società socialiste, e ciò a differenza degli anarchici suoi
coevi, in primo luogo Bakunin, lungo un percorso che conduce poi alla critica
di Castoriadis all’Unione Sovietica.
Non vi sarebbe stata
nessuna rivoluzione industriale, molto probabilmente, senza il ruolo
propulsivo, “keynesiano” ante litteram,
dello Stato inglese nella realizzazione delle infrastrutture di comunicazione, delle
strade e delle ferrovie: il ruolo dello Stato di simbiosi con il capitalismo
reale perdura tuttora, come si è visto. C’è una ragione di fondo, in tutto
questo: lo Stato, rivendicando il monopolio del controllo del territorio –e,
quindi, delle persone che vi si situano- controlla di fatto l’uso della terra,
che è però capitale in senso tecnico,
anzi, il capitale preliminare, dato che tutte le attività produttive si insediano
e si svolgono sul territorio, e non potrebbero insediarvisi in assenza di una
concessione d’uso di quel territorio oggetto di potere sovrano, sicché la
sovranità è immediata sovranità sul capitale (non a caso Carl Schmitt parlava
di “plusvalore della sovranità”). In
regime di statualità, quindi, il capitalismo non può che sorgere e svilupparsi,
se non con il supporto decisivo dello Stato, e lo stesso vale oggi per i
brevetti, il cui ruolo centrale nel capitalismo contemporaneo consegue al loro
costituire una concessione pubblica sovrana.
Ne deriva che il
“capitalismo” che ne scaturisce ha sempre molto poco a che vedere con il
modello astratto del mercato imperturbato dell’accezione “prescrittiva”, anche
perché tale mercato sconta le diseguaglianze di partenza, favorite dal
controllo monopolistico del potere e dalle sue concessioni patrimoniali. Ci
troviamo quindi di fronte a un complesso integrato, in cui “pubblico” e
“privato” recitano parti in commedia solo formalmente differenziate, ma
convergenti nella costituzione del più generale sistema, nel quale ci troviamo
a vivere, peraltro caratterizzato oggi da processi di scheletrizzazione degli Stati;
i quali, non contabilizzando il proprio possente demanio, a sua volta capitale
in senso tecnico trattato da res nullius e
non valorizzato, sono barche leggere in balia delle tempeste dei mercati
finanziari.
Senonché vi è un
ulteriore limite nel mercato come lo conosciamo: l’idea prescrittiva non è
infatti realizzata nemmeno sotto il profilo che il sistema dei prezzi si
propone come veicolo di raccolta delle informazioni, ma le informazioni possono
essere alterate: ad esempio, nel caso già indicato dei prezzi riguardanti i
costi ecologici, molti di questi costi assurgono a informazioni significative
per il formarsi del sistema dei prezzi attuale, che sottostima quei costi in
danno di popolazioni depredate, oltretutto: il prezzo viene formato sulla base di
ben precisi rapporti di forza, e sono semmai queste le informazioni che ne
vengono veicolate; sicché si evidenzia la necessità di un’opera di
rettificazione dei prezzi, e quindi con un’interferenza correttiva che rimanda
al discorso che abbiamo svolto a proposito dell’utile universale, che si fonda
proprio sulla necessità di indennizzare quei costi, che, in ultima analisi,
sono costi di libertà, ma anche materiali, per i sacrificati.
Ora, se questa è la
complessità del quadro, viene quindi da chiedersi come il libertario per
inclinazione si trovi a dovere convivere con un simile sistema; così come,
nella storia dell’evoluzione, la vita nasce dalle sue forme più semplici, lo
stesso vale per le società, e così come in esito dell’evoluzione forme semplici
e forme complesse convivono, perché i batteri non sono certo diminuiti rispetto
all’origine, però infine è emerso l’uomo, così il formarsi di organismi sociali
complessi non è in grado di annientare la forma più “semplice”, che è
l’individuo e la sua ansia di separatezza, il suo volersi ritagliare spazi in
questa crescente complessità: in effetti, il “sentirsi liberi” in una società
complessa è in buona parte una percezione soggettiva, conseguente al modo in
cui si ricostruisce questa società nella propria mente, e dipende molto dal
grado di spirito critico che impieghiamo all’atto di questa ricostruzione.
E’ plausibile che il
dotato di inclinazione libertaria sia anche il più critico, in quanto più
sensibile, più idoneo a cogliere il senso di costrizione che deriva da certe
articolazioni sociali dell’autoritario, tanto più se acquiescente, per cui il
libertario vivrà con maggiore difficoltà il proprio adattamento sociale, fino
al limite della sociopatia; tale carattere è massimo nei già ricordati
primitivisti, che rifiutano in toto il
moderno consesso sociale, caratterizzato oltretutto da una pervasività di
regole sconosciuta nel passato, per cui è una sfida sostenere che oggi si sia
più liberi (rectius: più autonomi) di venti, cinquanta, cento, mille, o
centomila anni fa; anche se le possibilità sono aumentate, ma sono aumentate a
dismisura anche le occasioni di coercizione: l’ambivalenza della rete di internet lo sta a dimostrare, in quanto sede di relazioni
nuove, ma forse anzitutto di controllo dall’alto. E i liberal “progressisti” danno il loro contributo dannoso, con la
loro mania del politicamente corretto a tutti i costi, lesivo della prima delle
libertà, la libertà di manifestazione del pensiero.
La teoria
evoluzionistica della “sopravvivenza del più adatto” lascia perciò dubbi
sull’avvenire, in prospettiva, della libertà e sulla fortuna della stessa
inclinazione libertaria, dato che, se nella società convivono elementi di
autorità e di libertà, la selezione dovrebbe premiare i più capaci di adattamento
all’attuale quadro, che sono gli acquiescenti, la cui condotta lo consolida, ma
anche gli “autoritari ribelli” che realizzano se stessi con la scalata per il
potere. Il soggetto adattivo nei confronti dell’esistente esprime ben sì una
propria capacità di cooperazione, ma di cooperazione con un quadro pregiudicato
in termini di defezione istituzionalizzata, rinforzando il quadro stesso. La
teoria dei giochi evolutivi (in particolare la strategia del tit for tat delineata da Robert Axelrod),
che prevede, sul medio-lungo periodo, il prevalere della cooperazione, non
autorizza peraltro soverchi ottimismi per le ragioni esposte: ossia, quando si
parla di “cooperazione”, occorre chiedersi cooperazione rispetto a che cosa;
dato che, se un determinato quadro, in ipotesi, è “autoritario”, cooperare
significa cooperare con il quadro “autoritario”, rinvigorendolo, e allora il
libertario dovrà più defezionare che non cooperare con quel contesto. Il tit for tat funziona, teoricamente, in
chiave libertaria, a partire dallo stato di situazione originaria, semmai, ma
non in un contesto già pregiudicato, in cui la cooperazione non sarebbe tra
pari, ma tra colombe rispetto a falchi in un gioco falchi/colombe.
Sicché si porrebbe il
problema di uscire dal gioco per entrare in un altro, ma è ciò possibile per
via meramente evolutiva, ignorando totalmente gli insegnamenti della teoria
delle catastrofi? Il problema è che le catastrofi, come nelle estinzioni di
massa di specie, sovente accentuano tendenze evolutive già in atto, sicché si
richiede comunque un processo in una determinata direzione, per quanto sia
possibile accelerarlo. E allora il libertario può adottarre varie strategie: può
operare la propria secessione individuale e passare al bosco, come il ribelle
di Jünger, che ci ricorda la vita nei
boschi di Thoreau; oppure creare spazi autonomi di resistenza individuale o
collettiva alternativi all’esistente, creando comunità volontarie non
territoriali, “agearchiche”, modello antimonopolistico di una possibile società
futura; o adattarsi e rinunciare, tanto più che la sfida è globale, attendendo,
semmai, il crollo spontaneo e improvviso del sistema, che sempre la teoria
delle catastrofi ci consente di non escludere a priori, anche se un crollo improvviso lascerebbe solo di per sé
macerie, in assenza di un’adeguata consapevolezza anche teorica; ovvero ancora,
prendere il potere e imporsi agli autoritari in nome dell’”impedimento
dell’impedimento”: le cose da fare sarebbero davvero molte, ma della figura e
della strategia del dittatore libertario
abbiamo già parlato in altra sede, e a quella rimandiamo. Si badi bene che
tutte queste ipotesi non si escludono reciprocamente, dato che l’azione dal
basso non esclude un contestuale, benché complicato, intervento dall’alto: in
ogni caso, anche queste scelte sono personali e soggettive, e ognuno opera la
propria.
Indicazioni
bibliografiche.
Carl Schmitt, Legalità e legittimità (1932), in Le categorie del “politico”, a cura di
Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera, Bologna, Il Mulino, 1972.
Errico Malatesta, A proposito di “revisionismo anarchico”
(1924), in Idem, Pensiero e volontà,
vol. 3, Carrara, 1975.
Alan Barnard, Storia del pensiero antropologico,
Bologna, Il Mulino, 2002 (2000).
Robert Axelrod, Giochi di reciprocità, Milano,
Feltrinelli, 1985 (1984).
Fabio Massimo Nicosia, Il ‘comunismo libertario’ di Luigi Galleani,
in A – Rivista anarchica, aprile
2014.
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