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giovedì 26 gennaio 2017

La soluzione libertaria della controversia Rawls-Nozick.

Volendo introdurre una filosofia politica, la quale, come la nostra, afferma che si possa fare a meno del grande monopolista di tutto, della pre-risorsa forza, del diritto e della giustizia, scegliamo di prendere le mosse dal confronto, ormai classico, tra due autori di solito percepiti entrambi come “statalisti”, i due celebrati autori contemporanei John Rawls e Robert Nozick, che hanno rappresentato i due poli del dibattito nel corso degli ultimi quarant’anni. Il confronto ha assunto toni aspri tra gli opposti sostenitori, fino a giungere a livelli di tifo sportivo nella bassa forza, divisa tra una supposta destra e una supposta sinistra, in genere tra persone che non hanno letto i loro libri; tant’è che, a ben vedere, stando ai testi originari, si ha quasi l’impressione di un gioco delle parti, condotto tra due insigni esponenti di orientamenti massonici differenti -gli autori mettono nel sacco i committenti, non sarebbe la prima volta-, svolto all’insegna della gara tra chi vuole più Stato e chi ne vuole meno, per poi scoprire, a saper ben leggere non solo tra le righe, che in realtà non è ospite gradito da alcuno dei due, i quali lo fanno capire con un discreto grado di chiarezza.
Non solo; viene anche il dubbio che, tra i due, quello “di sinistra” sia semmai proprio Nozick, ma in generale si ravvisa una gara a chi dei due sia il più “libertario”. Per comodità espositiva ribaltiamo la cronologia, e parliamo prima del “liberista” di Harvard; Anarchia, stato e utopia può idealmente suddivirsi in tre parti fondamentali; nella prima, Nozick giustifica la formazione di uno stato minimo (nella traduzione con la “s” minuscola) sulla base di un processo che abbiamo analizzato nel primo volume; nella seconda dialoga con Rawls, proponendo una teoria del “titolo valido” e negando legittimità a ogni redistribuzione del reddito coatta; nella terza propone una descrizione meta-normativa di come potrebbero funzionare una varietà di comunità indipendenti, informate ai principi più disparati, ricorrendo a coloriture decisamente influenzate dal movement degli “anni ‘60”.
Gli strali si sono rivolti contro la prima parte, ad opera degli anarco-capitalisti, che erano i suoi esplicitati interlocutori; e contro la seconda parte, ad opera degli autori di sinistra, che ne hanno denunciato il carattere apologetico nei confronti del capitalismo inegualitario e più selvaggio; la terza parte, che è fondamentale, è passata piuttosto inosservata, o comunque non analizzata come si sarebbe dovuto.
Il punto debole dei critici di sinistra, esclusi i left-libertarians più avveduti, è il fatto che Nozick fa proprio il proviso di Locke, e lo fa ripetutamente, dopo avere addirittura satireggiato sui fondamenti stessi del titolo di proprietà, senza risolvere il busillis[1]. Sul lockean proviso non possiamo che rinviare a quanto da noi già scritto altrove[2], e ci limitiamo a ricordare che esso consiste nel fatto che, secondo John Locke, non è ammessa alcuna appropriazione di territorio che non lasci agli altri altrettanta terra e altrettanto buona; ne deriva un quadro di eguaglianza dei punti di partenza proprietari, con la conseguenza che un libero mercato, il quale si fondasse su un simile presupposto, non verrebbe a determinare nessuno dei rischi “selvaggi”, che di solito i critici imputano al mercato lasciato a se stesso; non è consentito discutere del liberismo economico in Nozick, se non si tiene costantemente conto di questo elemento, ossia che per Nozick il libero mercato prende le mosse da un piede di parità, e che i titoli di proprietà devono essere “rettificati”[3], non è ben chiaro da chi, per ricondurli a conformità al proviso.
Il punto debole della critica anarco-capitalista è invece non avere valorizzato il fatto che Nozick ammette la secessione individuale dallo “stato” minimo, impalcatura di utopia, tant’è vero che prende le distanze esplicitamente dalla tradizionale lettura weberiana dello Stato come monopolista sul territorio; il problema è che Nozick lascia per strada molte affermazioni impegnative, e poi non sempre si intravedono le implicazioni concrete e precise delle affermazioni stesse, che tuttavia non possono essere ignorate e considerate tamquam non essent; e così leggiamo che “si pone il quesito se dovremmo includere la condizione necessaria weberiana in modo che includa un monopolio di fatto che sia l’unico giudice effettivo del territorio a decidere sull’ammissibilità della violenza, con il diritto (certo, un diritto da tutti posseduto) di pronunciare giudizi in merito e di agire in base a quelli correnti. Le ragioni per farlo sono molto forti, e sarebbe del tutto desiderabile e appropriato. Concludiamo pertanto che l’associazione protettiva dominante su un territorio, così come descritta è uno stato. Tuttavia per ricordare al lettore il nostro lieve indebolimento della condizione weberiana, ci riferiremo di tanto in tanto all’agenzia protettiva dominante come a una ‘entità simile allo stato’, invece che semplicemente a uno ‘stato’[4].
Non pare davvero poco, in un volume nato per confutare l’anarco-capitalismo e legittimare lo Stato (o lo stato), e che poi conclude con l’”indebolimento” del monopolio weberiano; e in che cosa consiste poi, nei fatti, questo indebolimento? Consiste nel riconoscimento, velato, del diritto alla secessione individuale (“interna”) dalla nazione; questo concetto si ricava dalla discussione svolta da Nozick in relazione alle restrizioni, che egli giudica legittime, che ciascuna comunità libera può imporre al proprio interno; ad esempio, un kibbutz può imporre redistribuzione del reddito, mentre non sarebbe consentito all’agenzia dominante di trasferire reddito da una comunità e l’altra[5]; sicché una comunità redistributiva ad appartenenza libera non sarebbe “tenuta a offrire ai suoi membri l’opportunità di sottrarsi a questi ordinamenti, continuando a restare un membro della comunità. Eppure, così ho sostenuto, una nazione dovrebbe offrire questa opportunità: la gente ha diritto di sottrarsi in questo modo alle richieste di una nazione… Si assume che il calcolo dei costi per le nazioni è tale da permettere la secessione interna[6]. Sembra poco? Nozick, come si vedrà, muove dall’esigenza di impedire che gli indipendenti pratichino la giustizia privata, e conclude il volume restituendo agli indipendenti il diritto alla giustizia privata contro quelle che considerano le eccessive pretese nei loro confronti da parte dello Stato, distinguendo tra comunità “faccia a faccia[7], nelle quali restrizioni, a certe condizioni, possono essere consentite, e nazioni, nelle quali le stesse non vengono consentite; e su che cosa si fonda questo divieto? Ancora una volta sul proviso di Locke, che impedisce il dominio unilaterale sul territorio[8], sicché le due nozioni si implicano reciprocamente: il comunismo originario della Terra fonda la libertà di secessione individuale, oltre che una proprietà fondata su basi egualitarie, e quindi l’impossibilità che tutto sia “privatizzato”, data la sottolineata necessità che permangano spazi pubblici per la circolazione e per altre attività[9].
Insomma, il Nozick “di destra” è un urban myth, dato che ci troviamo di fronte, a saper leggere tra le righe e nelle righe, a un quasi-anarchico quasi-comunista (libertario e liberista), che oltretutto delinea le sue comunità di utopia in termini da essere molto gradite, come si accennava, agli ambienti controculturali a cavallo degli anni ’60 e ’70; si sarà trattato anche di un’astuzia –fare accettare il liberismo ai comunisti e il comunismo ai liberisti-, ma di sicuro Nozick non era personalmente insensibile a questi richiami: “Qualsiasi gruppo di persone può ideare un modello e tentare di persuadere altri a partecipare all’avventura di una comunità in quel modello. Visionari ed eccentrici, maniaci e santi, monaci e libertini, capitalisti e comunisti e democratici partecipativi, fautori dei falansteri (Fourier), palazzi del lavoro (Floria Tristan), villaggi di armonia e cooperazione (Owen), magazzini del tempo (Josiah Warren), Bruderhorf, kibbutzim, gli ashram di yoga kundalini, e così via, possono tutti fare il loro tentativo di realizzare la loro visione e offrire un esempio allettante[10]. Si tratta di un approccio perfettamente coincidente a quello dell’ultimo Malatesta sulla “libera sperimentazione”, della concorrenza tra modelli alternativi di società e comunità da confrontare, sicché l’anarchia non è un modello precostituito, ma una sede di libera ricerca di modelli diversi tra i quali poter scegliere; e i modelli prefigurati da Nozick appaiono in effetti tutti alquanto “alternativi” e progressisti.
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Se Nozick rappresenta la finta destra –anche la sua critica alla nozione marxiana di sfruttamento[11] viene riposizionata, se contestualizzata ricomprendendo nel modello il lockean proviso-, Rawls rappresenta uno statalismo della sinistra a propria volta alquanto debole.
Abbiamo ripetutamente criticato John Rawls, per il fatto di essere stato, molto probabilmente, l’unico filosofo politico importante della storia della filosofia politica a non essersi posto il problema della “grande tradizione”, ossia di quale sia la giustificazione dello Stato, sempre che ve ne sia una; vale a dire che, da sempre, il filosofo politico[12] –fino a Nozick compreso-, si interroga sulla necessità o non necessità dello Stato, vale a dire se sia imprescindibile la figura di un sovrano monopolista della determinazione dei limiti della legittimità della coercizione sul territorio; e solo dopo aver sciolto il dilemma in termini positivi, il filosofo politico si interroga su quali siano i compiti auspicabilmente da affidarsi al monopolista stesso.
In Rawls non si ravvisa nulla di simile, il che evidenzierebbe un grave, gravissimo limite in un filosofo politico; se non fosse che, a nostro avviso, Rawls non è precipuamente un filosofo politico, ma un filosofo morale; questo appare piuttosto evidente dalla considerazione della struttura stessa di “Una teoria della giustizia”, nonché dal tipo di linguaggio e di tematiche affrontate, che sono di segno differente rispetto ai temi tipici del filosofo politico analitico contemporaneo; e la netta impressione viene confermata dagli studi successivi più importanti dell’autore, che sono sempre stati più volentieri orientati piuttosto nella direzione dell’etica che non della politica in senso stretto[13]. I fondamenti politici rawlsiani sono quindi anzitutto morali, e lo Stato è dato, diciamo così, “per scontato”, perché egli non ritiene compito istituzionale e accademico suo discuterlo; e tuttavia anche Rawls, come Nozick, ha le sue felici ambiguità, le sue “astuzie”, quando prende di petto l’argomento: “E’ ragionevole supporre che anche in una società bene ordinata i poteri coercitivi del governo siano necessari in una certa misura per la stabilità della cooperazione sociale. Infatti, anche se gli uomini sanno di condividere un comune senso di giustizia e ciascuno desidera aderire agli assetti esistenti, può tuttavia fare difetto una completa fiducia reciproca… Perciò ad esempio è difficile immaginare, anche in condizioni ragionevolmente ideali, uno schema valido di imposta sul reddito base volontaria. Un simile assetto è instabile… Semplicemente per questa ragione è presumibile che un potere sovrano coercitivo sia sempre necessario, anche se in una società bene ordinata le sanzioni non sono severe e potrebbero non essere mai imposte… La costituzione di un’agenzia con poteri coercitivi è razionale solo se gli svantaggi sono minori della perdita di libertà dovuta all’instabilità[14]: una presunzione iuris tantum, come si vede, non certo iuris et de iure.
Ora, se si combinano tale “perplesse” e dubbiose affermazioni, per le quali la necessità del sovrano  sarebbe solo “presumibile”, con il principio, in forza del quale, in posizione originaria, le persone “comprendono i problemi politici e i principi della teoria economica; conoscono le basi dell’organizzazione sociale e le leggi della psicologia umana. In realtà si presume che le parti siano a conoscenza di tutti i fatti generali che influenzano la scelta dei principi di giustizia[15], il “velo di ignoranza” trasmuta in “velo di cultura”, e gli spiragli lasciati aperti da Rawls lasciano spazio a ogni possibile evoluzione tecnica e ideale futura, quanto alla produzione dei beni pubblici e, quindi, alla non necessità, pur  ventilata, del monopolista della coercizione; in altri termini, la necessità dello Stato non viene data per assoluta, ma subordinata all’eventualità che la non necessità possa essere dimostrata dall’evoluzione delle scienze umane e sociali, sicché gli argomenti di stampo hobbesiano, molto sommari, con i quali Rawls sembra giustificare lo Stato, sono proposti in termini transeunti e caduchi, se si considera che essi sono fortemente messi in dubbio dalla teoria dei giochi più recente.
A questo occorre aggiungere che Rawls difende la disobbedienza civile in termini molto radicali, sicché si accosta a Nozick nel ventilare l’ipotesi della secessione individuale tout court, il che mette in discussione radicalmente la legittimità stessa dello Stato, nel momento in cui esso dovesse rivelarsi ingiusto e “inefficiente”: “Se però la disobbedienza civile giustificata sembra minacciare la concordia civile, la responsabilità non ricade su coloro che protestano, ma su coloro il cui abuso dell’autorità e del potere giustifica una simile opposizione. Infatti, impiegare l’apparato coercitivo dello stato allo scopo di mantenere istituzioni chiaramente ingiuste è di per sé una forma di violenza illegittima cui gli uomini hanno il diritto di opporre resistenza nei modi opportuni[16]: come si vede, gli spazi sono molto ampi: responsabilità del potere per la propria ingiustizia e i propri abusi; la sua è violenza illegittima; v’è diritto di opporre resistenza, e all’uopo si scelgono i modi più opportuni: c’è tanto movement anni ’60 in Rawls quanto, per i versi che si sono visti, ve n’è in Nozick, e questo è quanto ne viene tramandato fuori dagli ambiti specifici, ricongiungendo quella cultura alle sue proprie radici liberali e libertarie, come sarebbe piaciuto del resto a un Paul Goodman.
In definitiva, l’argomento fondativo hobbesiano perde grande parte della sua pregnanza, dato che se, da un lato, si assume la necessità del monopolista sovrano sull’inaffidabilità delle persone nel rispettare le promesse, ma poi si attribuisce alle persone stesse il diritto di svincolarsi dal sovrano, Hobbes, il quale prevede ciò solo eccezionalmente, ne viene confutato, o quantomeno nei fatti accantonato, e si istituzionalizza e “routinizza” l’appello al cielo lockeano, che viene direttamente introiettato nel sistema.
Il punto fondamentale però consiste in altro, e cioè nella rilevanza assoluta dell’ordinamento lessicografico o lessicale[17] nella collocazione dei due principi di giustizia, con la primazia riconosciuta all’elemento libertario: la libertà può essere limitata solo in nome della libertà, e non si dà alcuna ipotesi di utilità presunta, che possa andare a discapito di quella primazia[18]. Il principio di libertà, una volta che sia in qualche modo “accertato”, opera dunque un effetto “preclusivo” sugli altri, che impone il silenzio su qualunque alternativa[19], che intenda porlo in discussione, dato che viene postergata in quanto deteriore; il che non significa che il principio di equità non rilevi, solo che si impone sia reso compatibile, nel suo operare, con il principio di libertà preordinato come in una rigorosa gerarchia delle fonti normative; sicché libertà negativa e libertà positiva si ricongiungono, il che, sul piano pratico, avviene riconoscendo come comune il capitale naturale, quindi produttivo di utili per tutti i comunisti, ossia comproprietari della Terra in senso civilistico.
Ci si chiederà se una tale primazia del principio di libertà possa patire eccezioni; in realtà le eventuali eccezioni, che si volessero prospettare, sarebbero solo apparenti, in quanto o meramente lesive del principio, e quindi da rigettare; ovvero consistenti semplicemente nel non considerare ammesse, “non libere”, esclusivamente le azioni, le quali a propria volta impongano “non libertà”, negandosi reciprocamente in quanto negazione della libertà le azioni che la negano, e che quindi, come tali, vanno negate in nome della primazia della libertà da tutelarsi; naturalmente, occorrerà disporre di un criterio per distinguere le azioni ammesse in quanto libere da quelle da impedire in quanto impedienti, ma a tale proposito preferiremmo sottrarci alla discussione metafisica, e rinviare a tutte le considerazioni pratiche che si possono svolgere con riferimento alle nozioni codificate e consolidate di violenza, di minaccia, e così via; ferma restando la rilevanza del contributo al riguardo di John Stuart Mill sulla distinzione di fondo tra atti che danneggiano gli altri da atti che danneggiano se stessi, che esclude i proibizionismi dal novero degli impedimenti ammessi[20], pur se la nozione non soddisfa totalmente, dato che non considera il tema delle esternalità. Sicché l’impossibilità di conciliare i diritti umani che richiedono astensione da parte del potere da quelli che ne richiedono l’intervento si rivela una soluzione dottrinaria debole, perché vede i diritti umani di carattere sociale come perseguibili solo attraverso l’intervento, non essendo esplorata un’ipotesi alternativa rispettosa dell’ordinamento lessicografico, benché sia  evidente che un percorso di transizione dovrà pure essere individuato.
In definitiva, possiamo dire di avere provato ad avanzare un’ipotesi di componimento di una querelle quasi cinquantennale, dato che, come abbiamo visto, Nozick e Rawls, a dispetto delle apparenze, finiscono entrambi con l’indebolire lo Stato, e dato che anche Nozick è più che sensibile all’elemento sociale dell’argomentazione, diversamente non avrebbe recepito il proviso di Locke, fino al punto da prevedere la rettificazione dei titoli che non lo rispettino: il che fa però anche avanzare il sospetto che Nozick finisca con il rivelarsi, magari inintenzionalmente, addirittura più “interventista” di Rawls, dato che rettificare tutti i titoli di proprietà illegittimi è un’attività di certo non poco impegnativa: ma il punto è un altro, ossia che entrambi sentono la necessità, costante nella tradizione anarchica, di massimizzare contestualmente libertà ed eguaglianza, magari con soluzioni che danno più peso a un ingrediente nell’uno, e più peso all’altro ingrediente nell’altro, ma forse non è nemmeno questo è vero.




[1] Robert Nozick, Anarchia, stato e utopia, Milano, Il Saggiatore, 2000 (1974), 186 ss.
[2] Il Locke conteso. I diritti di proprietà tra libertarians e left-libertarians, in Rivista di Politica, n. 2, aprile-giugno 2013, 119 ss.
[3] Robert Nozick, op. cit., 167,
[4] Ivi, 133
[5] Ivi, 325-326
[6] Ivi, 326
[7] Ivi, 327.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] Ivi, 321.
[11] Ivi, 260 ss.
[12] “Il problema dello storico delle dottrine politiche, che nella lunga durata dell’Occidente europeo ricerca il senso di tutta un’epoca, è sempre lo stesso: definire quell’idea forza, matrice originaria, che riguarda la natura della sovranità, intesa come autorità suprema da cui deriva ogni tipo di potere esistente” (Massimo Terni, La pianta della sovranità –Teologia e politica tra medioevo ed età moderna, Bari, Laterza, 1995, 3).
[13] Cfr. ad esempio l’importante Lezioni di storia della filosofia morale, Milano, Feltrinelli, 2004 (2000).
[14] John Rawls, Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, II ed., 1983 (1971), 206-207.
[15] Ivi, 126.
[16] Ivi, 323.
[17] Ivi, 52.
[18] Ivi, 255.
[19][19] Sull’impositio silentii nell’effetto preclusivo dell’accertamento, cfr. Angelo Falzea, Accertamento (teoria generale), in Enc. Dir., vol. I, 1958, 205 ss., 212.
[20] Cfr. John Stuart Mill, Saggio sulla libertà, Prefazione di Giulio Giorello e Marco Mondadori, Milano, Il Saggiatore, 1981 (1858).

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