Volendo introdurre una filosofia
politica, la quale, come la nostra, afferma che si possa fare a meno del grande
monopolista di tutto, della pre-risorsa forza, del diritto e della giustizia,
scegliamo di prendere le mosse dal confronto, ormai classico, tra due autori di
solito percepiti entrambi come “statalisti”, i due celebrati autori
contemporanei John Rawls e Robert Nozick, che hanno rappresentato i due poli
del dibattito nel corso degli ultimi quarant’anni. Il confronto ha assunto toni
aspri tra gli opposti sostenitori, fino a giungere a livelli di tifo sportivo
nella bassa forza, divisa tra una supposta destra e una supposta sinistra, in
genere tra persone che non hanno letto i loro libri; tant’è che, a ben vedere,
stando ai testi originari, si ha quasi l’impressione di un gioco delle parti,
condotto tra due insigni esponenti di orientamenti massonici differenti -gli
autori mettono nel sacco i committenti, non sarebbe la prima volta-, svolto
all’insegna della gara tra chi vuole più Stato e chi ne vuole meno, per poi
scoprire, a saper ben leggere non solo tra le righe, che in realtà non è ospite
gradito da alcuno dei due, i quali lo fanno capire con un discreto grado di
chiarezza.
Non solo; viene anche il dubbio che, tra
i due, quello “di sinistra” sia semmai proprio Nozick, ma in generale si
ravvisa una gara a chi dei due sia il più “libertario”. Per comodità espositiva
ribaltiamo la cronologia, e parliamo prima del “liberista” di Harvard; Anarchia, stato e utopia può idealmente
suddivirsi in tre parti fondamentali; nella prima, Nozick giustifica la
formazione di uno stato minimo (nella traduzione con la “s” minuscola) sulla
base di un processo che abbiamo analizzato nel primo volume; nella seconda
dialoga con Rawls, proponendo una teoria del “titolo valido” e negando
legittimità a ogni redistribuzione del reddito coatta; nella terza propone una
descrizione meta-normativa di come potrebbero funzionare una varietà di
comunità indipendenti, informate ai principi più disparati, ricorrendo a
coloriture decisamente influenzate dal movement
degli “anni ‘60”.
Gli strali si sono rivolti contro la
prima parte, ad opera degli anarco-capitalisti, che erano i suoi esplicitati
interlocutori; e contro la seconda parte, ad opera degli autori di sinistra,
che ne hanno denunciato il carattere apologetico nei confronti del capitalismo
inegualitario e più selvaggio; la terza parte, che è fondamentale, è passata
piuttosto inosservata, o comunque non analizzata come si sarebbe dovuto.
Il punto debole dei critici di sinistra,
esclusi i left-libertarians più
avveduti, è il fatto che Nozick fa
proprio il proviso di Locke, e lo
fa ripetutamente, dopo avere addirittura satireggiato sui fondamenti stessi del
titolo di proprietà, senza risolvere il busillis[1]. Sul
lockean proviso non possiamo che
rinviare a quanto da noi già scritto altrove[2], e
ci limitiamo a ricordare che esso consiste nel fatto che, secondo John Locke,
non è ammessa alcuna appropriazione di territorio che non lasci agli altri
altrettanta terra e altrettanto buona; ne deriva un quadro di eguaglianza dei
punti di partenza proprietari, con la conseguenza che un libero mercato, il
quale si fondasse su un simile presupposto, non verrebbe a determinare nessuno
dei rischi “selvaggi”, che di solito i critici imputano al mercato lasciato a
se stesso; non è consentito discutere del liberismo economico in Nozick, se non
si tiene costantemente conto di questo elemento, ossia che per Nozick il libero
mercato prende le mosse da un piede di parità, e che i titoli di proprietà
devono essere “rettificati”[3],
non è ben chiaro da chi, per ricondurli a conformità al proviso.
Il punto debole della critica
anarco-capitalista è invece non avere valorizzato il fatto che Nozick ammette la secessione individuale dallo
“stato” minimo, impalcatura di utopia, tant’è vero che prende le distanze
esplicitamente dalla tradizionale lettura weberiana dello Stato come
monopolista sul territorio; il problema è che Nozick lascia per strada molte
affermazioni impegnative, e poi non sempre si intravedono le implicazioni
concrete e precise delle affermazioni stesse, che tuttavia non possono essere
ignorate e considerate tamquam non essent;
e così leggiamo che “si pone il quesito
se dovremmo includere la condizione necessaria weberiana in modo che includa un
monopolio di fatto che sia l’unico giudice effettivo del territorio a decidere
sull’ammissibilità della violenza, con il diritto (certo, un diritto da tutti
posseduto) di pronunciare giudizi in merito e di agire in base a quelli
correnti. Le ragioni per farlo sono molto forti, e sarebbe del tutto
desiderabile e appropriato. Concludiamo pertanto che l’associazione protettiva
dominante su un territorio, così come descritta è uno stato. Tuttavia per
ricordare al lettore il nostro lieve indebolimento della condizione weberiana,
ci riferiremo di tanto in tanto all’agenzia protettiva dominante come a una
‘entità simile allo stato’, invece che semplicemente a uno ‘stato’”[4].
Non pare davvero poco, in un volume nato
per confutare l’anarco-capitalismo e legittimare lo Stato (o lo stato), e che
poi conclude con l’”indebolimento” del monopolio weberiano; e in che cosa
consiste poi, nei fatti, questo indebolimento? Consiste nel riconoscimento,
velato, del diritto alla secessione individuale (“interna”) dalla nazione;
questo concetto si ricava dalla discussione svolta da Nozick in relazione alle
restrizioni, che egli giudica legittime, che ciascuna comunità libera può
imporre al proprio interno; ad esempio, un kibbutz può imporre redistribuzione
del reddito, mentre non sarebbe consentito all’agenzia dominante di trasferire
reddito da una comunità e l’altra[5];
sicché una comunità redistributiva ad appartenenza libera non sarebbe “tenuta a offrire ai suoi membri
l’opportunità di sottrarsi a questi ordinamenti, continuando a restare un
membro della comunità. Eppure, così ho sostenuto, una nazione dovrebbe offrire
questa opportunità: la gente ha diritto di sottrarsi in questo modo alle
richieste di una nazione… Si assume che il calcolo dei costi per le nazioni è
tale da permettere la secessione interna”[6].
Sembra poco? Nozick, come si vedrà, muove dall’esigenza di impedire che gli
indipendenti pratichino la giustizia privata, e conclude il volume restituendo
agli indipendenti il diritto alla giustizia privata contro quelle che
considerano le eccessive pretese nei loro confronti da parte dello Stato,
distinguendo tra comunità “faccia a
faccia”[7],
nelle quali restrizioni, a certe condizioni, possono essere consentite, e
nazioni, nelle quali le stesse non vengono consentite; e su che cosa si fonda
questo divieto? Ancora una volta sul proviso
di Locke, che impedisce il dominio unilaterale sul territorio[8],
sicché le due nozioni si implicano reciprocamente: il comunismo originario
della Terra fonda la libertà di secessione individuale, oltre che una proprietà
fondata su basi egualitarie, e quindi l’impossibilità che tutto sia
“privatizzato”, data la sottolineata necessità che permangano spazi pubblici
per la circolazione e per altre attività[9].
Insomma, il Nozick “di destra” è un
urban myth, dato che ci troviamo di fronte, a saper
leggere tra le righe e nelle righe, a un quasi-anarchico quasi-comunista
(libertario e liberista), che oltretutto delinea le sue comunità di utopia in
termini da essere molto gradite, come si accennava, agli ambienti
controculturali a cavallo degli anni ’60 e ’70; si sarà trattato anche di
un’astuzia –fare accettare il liberismo ai comunisti e il comunismo ai liberisti-,
ma di sicuro Nozick non era personalmente insensibile a questi richiami: “Qualsiasi gruppo di persone può ideare un
modello e tentare di persuadere altri a partecipare all’avventura di una
comunità in quel modello. Visionari ed eccentrici, maniaci e santi, monaci e
libertini, capitalisti e comunisti e democratici partecipativi, fautori dei
falansteri (Fourier), palazzi del lavoro (Floria Tristan), villaggi di armonia
e cooperazione (Owen), magazzini del tempo (Josiah Warren), Bruderhorf, kibbutzim,
gli ashram di yoga kundalini, e così via, possono tutti fare il loro tentativo
di realizzare la loro visione e offrire un esempio allettante”[10].
Si tratta di un approccio perfettamente coincidente a quello dell’ultimo
Malatesta sulla “libera sperimentazione”, della concorrenza tra modelli
alternativi di società e comunità da confrontare, sicché l’anarchia non è un
modello precostituito, ma una sede di libera ricerca di modelli diversi tra i
quali poter scegliere; e i modelli prefigurati da Nozick appaiono in effetti
tutti alquanto “alternativi” e progressisti.
*****
Se Nozick rappresenta la finta destra
–anche la sua critica alla nozione marxiana di sfruttamento[11]
viene riposizionata, se contestualizzata ricomprendendo nel modello il lockean proviso-, Rawls rappresenta uno
statalismo della sinistra a propria volta alquanto debole.
Abbiamo ripetutamente criticato John
Rawls, per il fatto di essere stato, molto probabilmente, l’unico filosofo
politico importante della storia della filosofia politica a non essersi posto
il problema della “grande tradizione”, ossia di quale sia la giustificazione
dello Stato, sempre che ve ne sia una; vale a dire che, da sempre, il filosofo
politico[12]
–fino a Nozick compreso-, si interroga sulla necessità o non necessità dello
Stato, vale a dire se sia imprescindibile la figura di un sovrano monopolista
della determinazione dei limiti della legittimità della coercizione sul
territorio; e solo dopo aver sciolto il dilemma in termini positivi, il
filosofo politico si interroga su quali siano i compiti auspicabilmente da
affidarsi al monopolista stesso.
In Rawls non si ravvisa nulla di simile,
il che evidenzierebbe un grave, gravissimo limite in un filosofo politico; se
non fosse che, a nostro avviso, Rawls non
è precipuamente un filosofo politico,
ma un filosofo morale; questo appare piuttosto evidente dalla considerazione
della struttura stessa di “Una teoria
della giustizia”, nonché dal tipo di linguaggio e di tematiche affrontate,
che sono di segno differente rispetto ai temi tipici del filosofo politico
analitico contemporaneo; e la netta impressione viene confermata dagli studi
successivi più importanti dell’autore, che sono sempre stati più volentieri
orientati piuttosto nella direzione dell’etica che non della politica in senso
stretto[13].
I fondamenti politici rawlsiani sono quindi anzitutto morali, e lo Stato è
dato, diciamo così, “per scontato”, perché egli non ritiene compito
istituzionale e accademico suo discuterlo; e tuttavia anche Rawls, come Nozick,
ha le sue felici ambiguità, le sue “astuzie”, quando prende di petto
l’argomento: “E’ ragionevole supporre che
anche in una società bene ordinata i poteri coercitivi del governo siano
necessari in una certa misura per la stabilità della cooperazione sociale.
Infatti, anche se gli uomini sanno di condividere un comune senso di giustizia
e ciascuno desidera aderire agli assetti esistenti, può tuttavia fare difetto
una completa fiducia reciproca… Perciò ad esempio è difficile immaginare, anche
in condizioni ragionevolmente ideali, uno schema valido di imposta sul reddito
base volontaria. Un simile assetto è instabile… Semplicemente per questa
ragione è presumibile che un potere
sovrano coercitivo sia sempre necessario, anche se in una società bene ordinata
le sanzioni non sono severe e potrebbero non essere mai imposte… La
costituzione di un’agenzia con poteri coercitivi è razionale solo se gli svantaggi sono minori della perdita
di libertà dovuta all’instabilità”[14]:
una presunzione iuris tantum, come si
vede, non certo iuris et de iure.
Ora, se si combinano tale “perplesse” e
dubbiose affermazioni, per le quali la necessità del sovrano sarebbe solo “presumibile”, con il principio, in forza del quale, in posizione
originaria, le persone “comprendono i
problemi politici e i principi della teoria economica; conoscono le basi
dell’organizzazione sociale e le leggi della psicologia umana. In realtà si
presume che le parti siano a conoscenza di tutti i fatti generali che
influenzano la scelta dei principi di giustizia”[15], il
“velo di ignoranza” trasmuta in “velo di cultura”, e gli spiragli lasciati
aperti da Rawls lasciano spazio a ogni possibile evoluzione tecnica e ideale
futura, quanto alla produzione dei beni pubblici e, quindi, alla non necessità,
pur ventilata, del monopolista della
coercizione; in altri termini, la necessità dello Stato non viene data per
assoluta, ma subordinata all’eventualità che la non necessità possa essere
dimostrata dall’evoluzione delle scienze umane e sociali, sicché gli argomenti
di stampo hobbesiano, molto sommari, con i quali Rawls sembra giustificare lo
Stato, sono proposti in termini transeunti e caduchi, se si considera che essi
sono fortemente messi in dubbio dalla teoria dei giochi più recente.
A questo occorre aggiungere che Rawls
difende la disobbedienza civile in termini molto radicali, sicché si accosta a
Nozick nel ventilare l’ipotesi della secessione individuale tout court, il che mette in discussione
radicalmente la legittimità stessa dello Stato, nel momento in cui esso dovesse
rivelarsi ingiusto e “inefficiente”: “Se
però la disobbedienza civile giustificata sembra minacciare la concordia
civile, la responsabilità non ricade su coloro che protestano, ma su coloro il
cui abuso dell’autorità e del potere giustifica una simile opposizione.
Infatti, impiegare l’apparato coercitivo dello stato allo scopo di mantenere
istituzioni chiaramente ingiuste è di per sé una forma di violenza illegittima
cui gli uomini hanno il diritto di opporre resistenza nei modi opportuni”[16]:
come si vede, gli spazi sono molto ampi: responsabilità del potere per la
propria ingiustizia e i propri abusi; la sua è violenza illegittima; v’è
diritto di opporre resistenza, e all’uopo si scelgono i modi più opportuni: c’è
tanto movement anni ’60 in Rawls
quanto, per i versi che si sono visti, ve n’è in Nozick, e questo è quanto ne
viene tramandato fuori dagli ambiti specifici, ricongiungendo quella cultura
alle sue proprie radici liberali e libertarie, come sarebbe piaciuto del resto
a un Paul Goodman.
In definitiva, l’argomento fondativo
hobbesiano perde grande parte della sua pregnanza, dato che se, da un lato, si
assume la necessità del monopolista sovrano sull’inaffidabilità delle persone
nel rispettare le promesse, ma poi si attribuisce alle persone stesse il
diritto di svincolarsi dal sovrano, Hobbes, il quale prevede ciò solo
eccezionalmente, ne viene confutato, o quantomeno nei fatti accantonato, e si
istituzionalizza e “routinizza” l’appello al cielo lockeano, che viene
direttamente introiettato nel sistema.
Il punto fondamentale però consiste in
altro, e cioè nella rilevanza assoluta dell’ordinamento lessicografico o
lessicale[17]
nella collocazione dei due principi di giustizia, con la primazia riconosciuta
all’elemento libertario: la libertà può
essere limitata solo in nome della libertà, e non si dà alcuna ipotesi di
utilità presunta, che possa andare a discapito di quella primazia[18].
Il principio di libertà, una volta che sia in qualche modo “accertato”, opera
dunque un effetto “preclusivo” sugli
altri, che impone il silenzio su qualunque alternativa[19],
che intenda porlo in discussione, dato che viene postergata in quanto
deteriore; il che non significa che il principio di equità non rilevi, solo che
si impone sia reso compatibile, nel suo operare, con il principio di libertà
preordinato come in una rigorosa gerarchia delle fonti normative; sicché
libertà negativa e libertà positiva si ricongiungono, il che, sul piano
pratico, avviene riconoscendo come comune il capitale naturale, quindi
produttivo di utili per tutti i comunisti, ossia comproprietari della Terra in
senso civilistico.
Ci si chiederà se una tale primazia del
principio di libertà possa patire eccezioni; in realtà le eventuali eccezioni,
che si volessero prospettare, sarebbero solo apparenti, in quanto o meramente
lesive del principio, e quindi da rigettare; ovvero consistenti semplicemente
nel non considerare ammesse, “non libere”, esclusivamente le azioni, le quali a
propria volta impongano “non libertà”, negandosi reciprocamente in quanto negazione
della libertà le azioni che la negano, e che quindi, come tali, vanno negate in
nome della primazia della libertà da tutelarsi; naturalmente, occorrerà
disporre di un criterio per distinguere le azioni ammesse in quanto libere da
quelle da impedire in quanto impedienti, ma a tale proposito preferiremmo
sottrarci alla discussione metafisica, e rinviare a tutte le considerazioni
pratiche che si possono svolgere con riferimento alle nozioni codificate e
consolidate di violenza, di minaccia, e così via; ferma restando la rilevanza
del contributo al riguardo di John Stuart Mill sulla distinzione di fondo tra
atti che danneggiano gli altri da atti che danneggiano se stessi, che esclude i
proibizionismi dal novero degli impedimenti ammessi[20],
pur se la nozione non soddisfa totalmente, dato che non considera il tema delle
esternalità. Sicché l’impossibilità di conciliare i diritti umani che
richiedono astensione da parte del potere da quelli che ne richiedono
l’intervento si rivela una soluzione dottrinaria debole, perché vede i diritti
umani di carattere sociale come perseguibili solo attraverso l’intervento, non
essendo esplorata un’ipotesi alternativa rispettosa dell’ordinamento
lessicografico, benché sia evidente che
un percorso di transizione dovrà pure essere individuato.
In definitiva, possiamo dire di avere
provato ad avanzare un’ipotesi di componimento di una querelle quasi cinquantennale, dato che, come abbiamo visto, Nozick
e Rawls, a dispetto delle apparenze, finiscono entrambi con l’indebolire lo
Stato, e dato che anche Nozick è più che sensibile all’elemento sociale
dell’argomentazione, diversamente non avrebbe recepito il proviso di Locke, fino al punto da prevedere la rettificazione dei
titoli che non lo rispettino: il che fa però anche avanzare il sospetto che
Nozick finisca con il rivelarsi, magari inintenzionalmente, addirittura più
“interventista” di Rawls, dato che rettificare tutti i titoli di proprietà
illegittimi è un’attività di certo non poco impegnativa: ma il punto è un
altro, ossia che entrambi sentono la necessità, costante nella tradizione
anarchica, di massimizzare contestualmente libertà ed eguaglianza, magari con
soluzioni che danno più peso a un ingrediente nell’uno, e più peso all’altro
ingrediente nell’altro, ma forse non è nemmeno questo è vero.
[1] Robert Nozick, Anarchia, stato e utopia, Milano, Il
Saggiatore, 2000 (1974), 186 ss.
[2] Il Locke conteso. I diritti di proprietà tra libertarians e left-libertarians, in Rivista di Politica, n. 2, aprile-giugno
2013, 119 ss.
[3]
Robert Nozick, op. cit., 167,
[4]
Ivi, 133
[5] Ivi, 325-326
[6] Ivi, 326
[7] Ivi, 327.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] Ivi, 321.
[11] Ivi, 260 ss.
[12] “Il problema dello storico delle
dottrine politiche, che nella lunga durata dell’Occidente europeo ricerca il
senso di tutta un’epoca, è sempre lo stesso: definire quell’idea forza, matrice originaria, che
riguarda la natura della sovranità, intesa come autorità suprema da cui deriva
ogni tipo di potere esistente” (Massimo Terni, La pianta della sovranità –Teologia e politica tra medioevo ed età
moderna, Bari, Laterza, 1995, 3).
[13] Cfr. ad esempio l’importante Lezioni di storia della filosofia morale,
Milano, Feltrinelli, 2004 (2000).
[14] John Rawls, Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, II ed., 1983
(1971), 206-207.
[15] Ivi, 126.
[16] Ivi, 323.
[17] Ivi, 52.
[18] Ivi, 255.
[19][19] Sull’impositio silentii nell’effetto preclusivo dell’accertamento, cfr.
Angelo Falzea, Accertamento (teoria
generale), in Enc. Dir., vol. I,
1958, 205 ss., 212.
[20] Cfr. John Stuart Mill, Saggio sulla libertà, Prefazione di
Giulio Giorello e Marco Mondadori, Milano, Il Saggiatore, 1981 (1858).
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