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martedì 8 novembre 2016

LA MISURAZIONE DELLA LIBERTA’ TRA INDENNIZZO, COERCIZIONE SISTEMICA E SPAZIO COMUNE


Avv, Fabio Massimo Nicosia

1.     Premessa.
Il presente scritto prende le mosse dalla lettura dell’importante libro di Ian Carter “La libertà eguale”[1], che sviluppa l’approccio filosofico analitico al tema della “libertà”. Un ruolo centrale vi assume la questione della misurabilità di questa, ossia se esistano gradi diversi di libertà, dimodoché si possa affermare che, nel corso della propria vita, nello stesso contesto sociale, o in contesti diversi, la medesima persona o persone diverse affrontino o possano affrontare situazioni di maggiore o minore libertà personale; ovvero, se sia possibile confrontare contesti particolari, storici e sociali differenti, per poter concludere che nell’uno vi sia più “libertà” che in un altro. Una tale questione presuppone una definizione della nozione di libertà, in mancanza della quale non si può nemmeno fare questione di una sua possibile misurazione. Occorre dunque prendere le mosse dalla definizione di libertà accolta da Ian Carter, il quale fa propria quella, che egli definisce «canonica»[2], triadica di Gerald MacCallum: e allora vediamo direttamente quest’ultima:
      Ogni qualvolta è in discussione la libertà di un qualche agente o gruppo di agenti, si tratta sempre della libertà da qualche vincolo, restrizione, interferenza o barriera al fare, non fare, diventare o non diventare qualcosa. Tale libertà è dunque sempre di qualcosa (un agente o più agenti), da qualcosa, di fare, non fare, diventare o non diventare qualcosa; è una relazione triadica. Assumendo il modello ‘x è (non è) libero da y di fare (non fare, diventare o non diventare) z’, x sta per gli agenti, y per le condizioni di impedimento quali vincoli, restrizioni e barriere, e z per le azioni o condizioni di carattere o di circostanza. Quando in una discussione sulla libertà manca il riferimento a uno di questi tre termini, ciò dovrebbe avvenire solo perché si pensa che il riferimento sia comprensibile dal contesto della discussione[3]
Se però ci dovessimo limitare a considerare tale definizione, in essa il definiens conterrebbe il definiendum[4], quindi non sarebbe sufficiente, dato che rimanda a una nozione di già acquisita di “libertà”, che viene poi declinata sotto vari profili, ma restando ancora piuttosto misterioso in che cosa poi la “libertà” consista: che cos’è la “libertà”? La “libertà” di fare, o locuzioni sinonimiche, del tipo “facoltà di scelta”, salvo distinguere “libertà” da “scelta”[5], come se la libertà non consistesse nella sussistenza di condizioni che consentano di effettuare scelte[6]. D’altra parte quella libertà presuppone una “capacità di agire”, ossia l’essere in condizione, almeno potenziale, di compiere una determinata azione, che però viene in qualche modo impedita nel proprio svolgimento. Si apre così il vaso di Pandora della questione del libero arbitrio e del determinismo[7]: una discussione sulla nozione di libertà in termini analitici, la quale prescinda da tale questione, dà quindi già per risolto questo problema preliminare in favore della configurabilità del primo; accolgo per convenzione tale presupposto normativo, in mancanza del quale, in effetti, tutta la discussione perderebbe gran parte del proprio significato. Il terzo elemento viene però così riassorbito nel primo, perché è difficile contestare che, se si sta parlando di un agente, il quale ponga in essere una determinata azione, in forza della propria capacità di agire e sulla base del proprio libero arbitrio, egli, se è individuo razionale e non totalmente folle o completamente incapace di intendere e di volere, si proporrà un qualche scopo da raggiungere, dotandosi di un criterio di condotta, ponendo così una propria linea direttrice, il proprio “diritto”[8]. Altra questione è che poi vi sia coerenza tra mezzi e fini, dato che l’agente, in quanto essere umano, è sempre “fallibile” e, al di là della sua personale propensione a pianificare le proprie azioni, gli effetti inintenzionali di queste non sono nella sua disponibilità; ma ciò non può costituire pretesto per invocare limitazioni di libertà, dato che chi lo facesse non sarebbe meno fallibile di lui. Che poi la razionalità non sia inquinata da “residui” e “derivazioni” in senso paretiano, o da altre componenti irrazionali comunque denominate, diviene questione anche di condizionamenti, di livello di intelligenza e di cultura della persona, di psicologia, psicanalisi, talora di psichiatria, e si tratta probabilmente di questioni relativamente estranee alla nostra disamina. Semmai va sottolineato come, con riferimento al terzo elemento, Ian Carter sottolinei che la libertà abbia valore non-specifico[9], vale a dire indipendente dal contenuto particolare della direzione, verso la quale l’azione sia rivolta. Si tratta quindi di nozione formale, di meta-concetto onnicomprensivo, quindi liberale e non moralizzato, anche se non si comprende la necessità di ricorrere a un’espressione “negativa”, quando “specifico” possiede già un proprio contrario, che si attaglia perfettamente, ed è generico: la libertà è nozione “generica” (o generale) in quanto riferita a qualsiasi sorta di condotta si intenda porre in essere, al di là di arbitrari giudizi di valore, a loro volta intesi a limitare lo spazio di libertà; oltretutto eludendo l’onere di giustificazione, se non nel senso di arrogarsi diritto e potere di stabilire quando l’azione altrui sarebbe “autentica” o espressione di libertà davvero “significativa“ o virtuosa”[10]: come se ognuno non fosse arbitro e sovrano di quanto sia significativo per sé, dato che i giudizi di valore sono inevitabilmente soggettivi, il che peraltro non costituisce ostacolo all’intersoggettività e all’incontro. Ma se sono soggettivi i giudizi di valore di chi agisce, sono tali anche quelli di chi giudica dall’esterno, e quindi non godono di statuto superiore, tale da inficiare la capacità di azione del primo.
Precisato questo carattere formale della libertà, l’attenzione viene però di più attratta dal secondo elemento: il vincolo, la restrizione, l’interferenza o barriera. Ossia, in definitiva, dal concetto di coercizione: la libertà andrebbe perciò definita empiricamente, ex negativo, una volta individuato, attraverso un procedimento di demarcazione, in che cosa consista un atto o un fatto coercitivo, per distinguerlo da ciò che coercitivo non sarebbe, e che impedisce di compiere quella determinata azione che l’agente sarebbe intenzionato a compiere, o sta in atto compiendo. Ovvero la disturba, o pretende di punire una volta che sia stata compiuta. Una prima opera di pulizia consiste nell’eliminare, come correttamente intende Ian Carter, gli elementi naturali e materiali, in coerenza con una lunga tradizione: la forza di gravità, ad esempio, non limita la nostra libertà, perché fa parte del quadro naturale nel quale operiamo: così come il fatto che i più non possono stare un’ora sott’acqua senza respirare, o volare e nuotare contemporaneamente, od occupare lo stesso identico spazio occupato da un’altra persona, almeno fino a conquiste tecnologiche, per ora note, in parte,  solo alla fantascienza. Discorso leggermente diverso è quello relativo alle patologie, che minano la capacità di agire della persona, ma anche qui non faremmo questione di “libertà”, che formalmente resta la medesima, ma semmai della capacità, dell’essere in grado, di esplicare effettivo potere. A questo proposito, però, l’autore azzarda un confronto, a mio avviso impreciso, tra la posizione di von Hayek sul punto, e quella di alcuni teorici dello Stato sovietico[11]: l’uno e gli altri, infatti, avrebbero ricondotto a ostacolo prevedibile (come appunto la forza di gravità) l’immanenza dell’ordinamento giuridico. Su questo punto tornerò più diffusamente, anzi, il tema sarà qui centrale. Qui però sia consentito di rilevare una profonda differenza tra il modello, al quale faceva riferimento Hayek, quello di rule of law e di governo della legge generale e astratta (isonomia), e quello dei sovietici, fondato sull’economia di piano, quindi discrezionale, ossia sul ricorso generalizzato alla legge-provvedimento[12], l’esatto opposto della legge generale e astratta, il proprium di un ipotetico Stato di diritto ideale. Eliminati, quindi, dall’universo osservato, i fattori naturali limitanti l’agire dell’essere umano (forza di gravità, etc.), non rimane che far riferimento alle azioni limitanti o impedienti, provenienti da altri esseri umani; fermo restando che resta aperta la questione se anche l’incapace, il folle, e il minore godano di libertà di azione nel senso della “facoltà naturale”; sotto tale profilo, pare da rettificare l’affermazione che la persona agisce liberamente solo se “dotata di capacità di scelta”[13], se non si precisa che, o tutti gli esseri umani ne sono dotati, ognuno a proprio modo, ovvero si sta escludendo qualcuno; e allora occorre comprendere chi, e sulla base di quali criteri, che sarebbero soggettivi, oltre che discriminatori nei confronti di coloro i quali siano variamente considerati “minorati”.
Ecco allora che si torna al concetto di coercizione, che dovrebbe consentire, ex negativo, di comprendere in che cosa consista la “libertà”. Tale coercizione, quindi, è opera umana, non di fonte naturale: abbiamo fronte a fronte un soggetto che vorrebbe esprimere la propria capacità di agire, il proprio potere, e qualcuno che glielo impedisce o cerca di impedirglielo. Se così è, se questo è il quadro, esso va riguardato nel suo assieme, non solo dal punto di vista, che rischia di rivelarsi analiticamente asfittico, del singolo agente. In altri termini, va fotografata e compresa una situazione indivisibile[14]. Ed ecco allora che tale considerazione ci consente di aprire il discorso sulla misurazione della libertà; ma occorre preliminarmente passare dalla comprensione di che cosa debba intendersi per coercizione; ma anche tale discorso richiede a sua volta una premessa.
2.     L’indennizzo per lesione di libertà negativa e i cosiddetti “fattori economici impersonali”.
Val la pena di considerare una questione molto importante, che, come Ian Carter ricorda, viene posta in particolare dagli scrittori di orientamento che egli definisce “socialista”; e cioè se “fattori economici impersonali quali la disoccupazione o la povertà” costituiscano vincoli alla libertà[15]. A mio avviso, la questione va impostata diversamente. Soccorre in proposito il marxista analitico G. A. Cohen, il quale pone la questione della proprietà privata proprio come lesione della libertà negativa[16]. In effetti, in termini non moralizzati, prescindendo dalla pretesa di giustificare eticamente la proprietà (con il lavoro della terra o con l’homesteading comunque inteso), chi erige un muro di cinta non fa che limitare la libertà di circolazione (e, richiamando l’invocazione di Rousseau  nel “Discorso”, saremmo legittimati a demolire quel muro), quindi lede la libertà negativa. Occorre muovere da una premessa logica: le parole –né comportamenti materiali come l’impossessamento- di A non possono costituire mai unilateralmente obblighi morali o giuridici in capo a B[17]. Ciò non comporta che gl’impossessamenti individuali siano, sempre in una prospettiva non moralizzata, a loro volta “illegittimi”, semplicemente, inferendosi dall’assioma della non giustificazione dell’obbligo unilateralmente imposto che la Terra nasce res communis e non res nullius, gl’impossessamenti comportano indennizzo nei confronti di chi in ipotesi rimanga sprovvisto, in violazione del lockean proviso[18], di possesso. Ovvero, a contrariis, il fatto che la lesione di libertà negativa comporti necessariamente indennizzo, diversamente essa sarebbe priva di valore, implica che si stia indennizzando il mancato possesso di qualcosa che era già anche del beneficiario dell’indennizzo, dunque res communis[19].
Ragiona in termini di “risarcimento” delle limitazioni di libertà Robert Nozick[20]. Preferisco la dizione “indennizzo” a “risarcimento” nel rispetto dell’approccio non moralizzato: la nozione indennizzo riguarda infatti atti leciti (si pensi alla “responsabilità per atto lecito della pubblica amministrazione”, che comporta indennizzo e non risarcimento del danno, come nel caso dell’espropriazione per pubblica utilità), mentre quella di risarcimento presuppone la qualificazione dell’atto in termini di illecito, giuridico o morale[21]. Senonché, indennizzare i non possessori per la violazione della loro libertà negativa comporta il superamento stesso della distinzione tra libertà negativa e libertà positiva[22] (nonché, si direbbe, della distinzione tra libertà e giustizia[23]), dato che questa viene tutelata immediatamente attraverso l’indennizzo del danno procurato alla prima, consentendo al deprivato dei diritti sulla Terra, della quale originariamente sarebbe “comunista in senso civilistico”, il sostentamento (“rendita di esistenza”) e quindi una libertà di azione non solo in astratto, ma concretamente tale, in una situazione di “giustizia”: la libertà negativa, attraverso l’indennizzo della propria lesione, acquisisce sostanza materiale[24], e si sottrae alla critica degli autori di sinistra o dei comunitaristi come Charles Taylor.
Quelli che ai “socialisti” appaiono “fattori economici impersonali” rappresentano perciò vere e proprie lesioni, personali, di libertà negativa. Lo si ricava dal ragionamento sotteso al capitolo XXIV del libro I del “Capitale”, nel quale Karl Marx ricostruisce i processi dell’“accumulazione originaria”: il capitalismo inglese sorgerebbe dalla spartizione privatistica dei commons attraverso le forzose enclosures; in conseguenza di tale fenomeno, i contadini fuoriusciti venivano costretti all’urbanizzazione forzata, al vagabondaggio e alla mendicità; ma, data la feroce legislazione vigente al riguardo, quei contadini venivano di fatto trasformati costrittivamente in operai di fabbrica, e quindi in schiavi del lavoro salariato. E non, si badi, in quanto il lavoro salariato sarebbe in sé schiavitù, dato che potrebbe costituire espressione di preferenza temporale e di avversione al rischio; ma in quanto lo diviene in conseguenza della costrizione che ne viene posta a fondamento[25]: pace lo stesso Marx, quindi, lo sfruttamento non ha fondamento “economico”, ma politico-giuridico e fondato sulla forza[26], ossia la violazione generalizzata della libertà negativa di coloro i quali vengono costretti a farsi “lavoratori salariati” e dar vita al dumping tra proletari, tenendo cioè il salario a livelli di sussistenza, per guadagnarsi, in competizione, un “posto di lavoro” indesiderabile nelle condizioni storiche date; cosa resa inevitabile dall’assenza, ora come allora, di un indennizzo originario (rendita di esistenza). Senonché –vengo al punto- tutto ciò non può essere liquidato come “fattore economico impersonale”, ma come una serie di atti di forza e di violenza “personali” e puntuali, con responsabili, se non determinati, almeno determinabili, anche alla luce dell’insegnamento della public choice e del suo individualismo metodologico, che vede dietro la lotta politica sempre individui precisi, ognuno dei quali incentivato all’autointeresse[27] (ad analoghe conclusioni condurrebbe un approccio realista-politico). Quale sia poi la ragione per la quale tale incentivo produca effetti opposti a quelli dell’analogo incentivo nel mercato libero teorico, ossia effetti da “mano invisibile alla rovescia”, deriva dal fatto che lo Stato non è un mercato aperto, ma un’asta chiusa monopolistica, burocraticamente organizzata, che verticalizza, distribuendole dall’alto verso il basso, le esternalità, invece di internalizzarle, come vorrebbe la scuola dei property rights[28]; e dal conseguente elemento che gli accordi che lo costituiscono non sono scambi che avvantaggiano tutte le parti in causa, ma contratti in danno di terzo, in cui ogni beneficio o privilegio viene accordato in funzione di un danno, di un’esternalità negativa procurata ad altri ignari, dato che la legislazione non correla in modo trasparente benefici e svantaggi, ma li scinde, dimodoché, attraverso la lettura dell’alluvionale legislazione quotidianamente sfornata, non siamo mai in grado di verificare, per ogni vantaggio legislativo, chi ne sia il correlato danneggiato, e viceversa: mentre nei liberi contratti stipulati nel mercato libero le parti sono consapevoli di sé e della propria controparte.

3.     La nozione di “coercizione”.
E venuto il momento di prendere di petto la nozione di coercizione, come metro in grado di aiutarci a comprendere, per antitesi, in che cosa la situazione di libertà consista. Robert Nozick, nel suo saggio Coercion[29], propone una serie di casi (distinguendo minaccia da offerta[30] e da avvertimento), ma il suo approccio, pur dettagliato, rimane indeterminato, perché, pur ponendo la minaccia come requisito necessario (e quindi però anche sufficiente) per potersi configurare coercizione, non è molto chiaro se vi siano restrizioni di oggetto della minaccia: non è detto in termini sufficientemente nitidi se si debba trattare di minaccia di atto di vera e propria violenza fisica, psichica, o altro. Si veda anche la diversità di opinione tra lui e Walter Block in materia di ricatto (non violento, ossia in assenza di minaccia di ricorso all’uso della violenza), che per Block sarebbe “scambio produttivo”, mentre per Nozick sarebbe “improduttivo”; e dal fatto che sarebbe “improduttivo” Nozick ne ricava il carattere illegittimo[31].Probabilmente, il primo a parlare di “rapporti economici disproduttivi” fu Lindley M. Fraser, ma propose un esempio poco convincente, in quanto comunque fondato sull’adesione volontaria delle parti allo scambio, non sulla coercizione di una nei confronti dell’altra. L’esempio è questo: lo studioso Fraser, mentre lavora nella sua stanza, è disturbato da un organetto che suona per la strada. Accetta allora di corrispondere al proprietario dell'organetto denaro per farlo smettere. In tal caso, secondo Fraser, il rapporto sarebbe “produttivo” per l'organettista, che ottiene del denaro per non far nulla, e disproduttivo (disproductive) per lo studioso, il quale rinuncia a del denaro per rimanere nello stato in cui si trovava prima dello scambio[32]. La spiegazione non convince: l'organettista aveva un diritto di suonare non inferiore a quello dello studioso di studiare, dato che la strada è pubblica e non di proprietà dello studioso. Pertanto si può immaginare la situazione esattamente inversa: che sia l'organettista a pagare lo studioso per poter continuare a suonare, dato che lui suonando può continuare a guadagnare da altri. Le parti, in entrambe le ipotesi, darebbero vita a una valutazione di convenienza identica a quella che avviene in qualsiasi scambio: se valga di più la somma di denaro corrisposta o la prestazione che si consegue; e una prestazione può essere anche omissiva, può cioè consistere in una rinuncia. Se si entra in simili ordini di idee, il concetto di coercizione diviene eccessivamente esteso. Si pensi alla recente vicenda del “boicottaggio” subito da “Dolce & Gabbana”, per le dichiarazioni dei due stilisti avverse all’adozione di minori da parte delle coppie omosessuali. Sulla questione vi sono state polemiche pretestuose, dato che l’appello al boicottaggio è una modalità lecita nel mercato, ne fa parte integrante, in forma di exit e voice, per dirla con Albert O. Hirschmann[33]. Per converso, appare eccessivamente restrittivo l’approccio di Murray Rothbard, per il quale solo la minaccia di uso della forza fisica (oltre che l’uso diretto) rappresenterebbe illegittima invasion[34]: il concetto di aggressione al corpo è troppo indeterminato, dato che non si comprende quanto vicino al corpo si debba arrivare e con quale intensità, tanto più che, nell’impostazione dell’anarco-capitalista, la medesima tutela accordata al corpo si estende ai beni di proprietà (e all’adempimento contrattuale); sicché la vaghezza diviene assoluta, se non si condividono i presupposti  indicati per divenire “proprietari”. Sul punto intendo proporre un approccio diverso: dato che free, in inglese, significa tanto “libero”, quanto “gratuito”, val la pena di cogliere tale non casuale coincidenza terminologica, per accostare la nozione di coercizione, quindi di situazione illibera, alla presenza di costi da sopportare per porre in essere una certa condotta: costi vivi, costi di transazione, costi di transizione, costi di informazione, costi-opportunità, costi irrecuperabili, etc. Senonché, anche con riferimento a ciò che rappresenta “costo”, possono convivere preferenze diversificate tra le persone (e anche, per chi nutre dubbi sul dogma della transitività, anche all’interno della persona stessa), e comunque si dovrà pur sempre distinguere tra costi imposti -minacciare comporta l’imposizione di un costo per il destinatario della minaccia-, costi affrontati deliberatamente e costi naturali. E allora dobbiamo immaginare di collocarci in una situazione originaria, nella quale però, a differenza che in Rawls, viga non il “velo di ignoranza”, ma il “velo di consapevolezza”. Rawls, in situazione originaria, sulla base del velo di ignoranza -che però ammette la conoscenza dei principi fondamentali della politica, dell’economia, etc., e quindi, sotto tale profilo, è un “velo di cultura”- fonda in definitiva due scelte: il criterio del maximin valido per tutti[35], e lo Stato come strumento di garanzia delle “libertà” poste al primo posto nell’ordinamento lessicografico, oltre che per implementare le politiche di giustizia sociale di cui al secondo posto dell’ordinamento stesso. Così facendo, però, Rawls –dimostrandosi pessimo filosofo politico, in quanto prevalentemente filosofo morale- ribalta il suo ordinamento dato che lo Stato è istituzione ad appartenenza necessaria per definizione di diritto costituzionale (inoltre nessuno si sottrae all’accertamento costitutivo dell’anagrafe), e quindi viola di per sé il principio di libera associazione, che a rigore appartiene al primo grado dell’ordinamento lessicografico, che pure, ove preso alla lettera, sarebbe foriero di importanti implicazioni, e in effetti lo stesso Rawls allude all’ipotesi della non necessarietà del monopolista della forza.
Rawls parrebbe quindi a tutta prima condividere l’idea, poi espressa da Stiglitz, per la quale lo Stato sarebbe un “monopolio naturale”[36]; ma si tratta di idea tecnicamente infondata (la forza è pre-risorsa pandespota, a disposizione di ciascuno, e quindi non è appropriabile monopolisticamente[37], come del resto riconosce il “jeffersoniano” II Emendamento della Costituzione USA), e comunque storicamente superata, dato che persino il Trattato dell’Unione Europea sostiene il contrario (basta scorrere la giurisprudenza della Corte di Giustizia), e cioè che si tratta di un monopolio artificiale, che la tecnologia mostra di essere in grado di superare e sostituire con la libera concorrenza. Il Trattato consente ancora che alcune funzioni sovrane di servizio pubblico siano di attribuzione del monopolio coattivo, ma non lo impone, lo autorizza, incorrendo però in rischio di contraddizione, come ha riconosciuto esplicitamente l’Avv. Generale Tesauro[38]. Posizioni come quella di Stiglitz portano poi al paradosso, secondo il quale lo Stato avrebbe la funzione di controllare i monopoli, ma lo Stato è il monopolio dei monopoli, crea monopoli con i brevetti, i marchi, i copyrights, le concessioni. E chi controlla il monopolio Stato? I pesi e contrappesi, si dirà, salvo che si tratta sempre delle stesse persone che recitano le diverse parti in commedia. Resta l’appello al Cielo di Locke, ma la rivoluzione è un bene pubblico indivisibile, che, in assenza di organismi dall’alto in grado di implementarla, presenta costi di transazione piuttosto elevati, ed è esposta a frustrazioni da free-riding.
In realtà il velo di ignoranza non funziona perché le persone sono titolari di scale di preferenze diverse; non si comprende, infatti, perché la società dovrebbe imporre il maximin a tutti: ad esempio, chi scrive preferirebbe il criterio dell’expected value[39], ma Rawls proibirebbe tale atteggiamento, dato che, in situazione originaria, nella quale avvengono le scelte fondamentali, il maximin è “obbligatorio”. Ma visto che, per lo stesso Rawls, il velo di ignoranza è in buona parte un “velo di cultura”, nessuno esprimerebbe, partendo da una situazione originaria, una preferenza nella direzione del monopolista della forza e del diritto (e quindi dell’unicità del criterio sulla base del quale operare le scelta), perché trasferendo ad esso ogni potere, non vi sarebbe alcun modo di garantire i diritti che ci si intende riservare, dato che la loro protezione sarebbe comunque affidata al monopolista delegato non solo di produrre diritto, ma anche di garantire, versando nel conflitto di interesse proprio dei rapporti unisoggettivi e dei contratti con sé stesso, anche i diritti che non gli sarebbero stati affidati quanto a produzione diretta: lo Stato, dopo aver concentrato tutto il potere che gli sarebbe stato delegato dagli individui in situazione originaria, dovrebbe essere anche soggetto al controllo da parte di questi ultimi, ma non è affatto chiaro come ciò sia logicamente sostenibile.
Sarebbe come un confronto tra due persone armate, che passasse per il disarmo dell’una e il trasferimento della sua arma nelle mani dell’altra, e si concludesse con la capacità dell’armato di convincere il disarmato di stare tranquillo, perché l’uso delle armi da parte sua, dell’armato, sarà soggetto al vigile controllo da parte dell’altro, del disarmato. Per quanto poi riguarda le diverse funzioni di servizio pubblico, dato che il velo di ignoranza ammette conoscenze sulla base delle scienze economiche e politiche (escludendo solo quelle sulle condizioni personali), qualcuno potrebbe informare le parti dell’ampia letteratura sulla produzione di mercato o comunitaria dei beni e dei servizi pubblici[40].
Per valutare invece su quale focal point  convergere, in situazione originaria, per stabilire in che cosa consista la coercizione (illegittima), occorre sottrarsi a considerazioni ideologiche o troppo restrittive, ma affidarsi all’id quod plerumque accidit, come elaborato ab immemore dalla dottrina civilistica e penalistica, le quali hanno fornito nozioni di violenza e di minaccia molto articolate, che tengono conto delle varianti soggettive: dato che timore e paura[41], che a mio avviso sono il focus attorno al quale la nozione di coercizione si sviluppa (che il potere sovrano si fondi sulla paura è un luogo comune della più lucida letteratura reazionaria), variano di grado a seconda degli individui. Così come il “fisicalismo” rothbardiano non è integrale, dato che sanziona come illecita anche la fraud[42], civilisticamente la violenza è soggetta allo stesso regime giuridico (annullamento e non nullità) di errore e dolo, con ciò riconoscendo la sovranità del soggetto nell’attivarsi e, quindi, sulla sussistenza in sé di un sentimento di coartazione subita oppure no[43]. E lo stesso avviene nel diritto penale, dato che la minaccia è punita a querela della persona offesa (art. 612 c.p.)[44].

4.     La coercizione sistemica nelle relazioni con lo Stato.
L’approccio analitico mainstream risulta eccessivamente concentrato sulle situazioni particolari, perdendo di vista le situazioni di insieme, che vengono poco persuasivamente affrontate solo al livello dell’esemplificazione. Si perde così di vista in buona parte la coercizione di sistema dello Stato[45], o comunque dell’ordinamento giuridico in generale (lo “Stato” non è menzionato nell’indice analitico de “La libertà eguale”) e del sistema sociale[46]. Viceversa, se si ammette che la “minaccia” dell’uso della violenza sia sufficiente a individuare ipotesi coercitive[47], l’ordinamento giuridico è minaccia sistematica e coercizione sistemica, dato che ciascuna norma (il modello è la norma penale, il tipo che più di ogni altro esprime il predominio dello Stato) che lo costituisce è linguisticamente conformata nei termini della minaccia[48], rivolta alla generalità delle persone, in senso tecnico e proprio: «Chiunque commette un fatto diretto a sottoporre il territorio dello Stato o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero, ovvero a menomare l’indipendenza dello Stato, è punito con la morte» (art. 241 originario del codice penale, non a caso il primo reato della parte speciale del codice Rocco, il cui Titolo Primo si occupa esattamente  «Dei delitti contro la personalità dello Stato»). Si potrebbe sostenere che una minaccia di per sé, in quanto non costrittiva direttamente sul corpo fisico, ma solo sulla psiche delle persone, non varrebbe a comportare coercizione o limitazione di libertà, che rimarrebbe impregiudicata, dato che ognuno  potrebbe ritenersi autorizzato ad ignorare la minaccia stessa[49]. A mio avviso -pur ammesso che una minaccia comporti una comunicazione, un’informazione nell’ambito del mercato della forza-, si tratta però di distinguere la minaccia seria da quella priva di tale carattere.
Occorre però ammettere che la minaccia dello Stato, delle sue norme, del suo apparato militare, poliziesco e  burocratico[50], giudiziario, carcerario, manicomiale, sia piuttosto “seria”, in quanto in grado di venir  implementata direttamente con la violenza. Questo non vale per ciascuna delle sue prescrizioni, date inefficienza e inflazione normativa, sicché i mezzi di implementazione costituiscono risorsa scarsa rispetto all’immensa vastità delle norme giuridiche che devono essere applicate: un cartello stradale, dimenticato sull’autostrada dopo i lavori di manutenzione, indicante il limite di 20 kilometri orari di velocità, non sarebbe credibile e non esplicherebbe funzione deterrente. Ma, di regola, le persone considerano credibile la minaccia normativa, pur variando la sua capacità di impatto[51], da norma a norma, da persona a persona.
Le norme giuridiche dell’ordinamento statuale, per come sono conformate linguisticamente, rappresentano proposizioni probabilistiche, descrittive e costitutive delle modalità procedimentali e delle condizioni della loro propria realizzazione empirica: la disposizione penale sopra indicata, nel concorrere a costituire l’ordinamento, descrive un possibile stato delle cose, il cui inveramento è affidato agli organi dello Stato incaricati dell’applicazione attraverso le procedure previste (procedimento e processo); ma si tratta di un’ipotesi empirica, subordinata alla capacità dell’enunciato di correlarsi fattualmente in forza della sua adeguatezza, tanto nell’oggetto (che rivendica attitudine all’universalizzazione), quanto nella sua capacità, collegandosi alle disposizioni procedimentali e processuali, di radicarsi nella realtà[52]. Tutto ciò va quindi confermato sul campo, non è dato a priori: è quindi possibile che le disposizioni risultino “falsificate” dalla disapplicazione, più o meno diffusa, data comunque la selettività discriminatoria propria nell’implementazione ex officio[53] e non su istanza della parte interessata. Discorso in parte diverso potrebbe essere svolto per le disposizioni di diritto civile, quante volte esse forniscano la descrizione di istituti, messi a disposizione del libero uso delle parti, quali istruzioni e, proprio nel senso della teoria dei giochi, “giochi risolti”[54] a loro disposizione: ma anche in tal caso la loro adeguatezza viene verificata nella loro capacità di adattarsi all’uso, sicché si tratta pur sempre di enunciati empirici, oltre che analitici.
In ogni caso, in presenza di un diffusa normazione conformata nei termini della minaccia potenzialmente efficiente, la situazione generale, vista da tale punto di vista, è puramente e semplicemente di non libertà, ossia di coercizione generalizzata: vi potrà essere, di volta in volta, maggiore o minore coercizione, maggiore o minore subordinazione, sia complessiva che interindividuale, ma non si dà situazione indivisibile di libertà: la libertà è un concetto tutto/niente, e non è “misurabile”, e ciò che sarà misurabile è, semmai, il tasso di coercizione presente, il tasso di subordinazione che l’accompagna specularmente.
Ad esempio, secondo Felix Oppenheim la tassazione non sarebbe indice di coercizione[55]. Tale posizione ignora quanto espresso dalla cultura libertaria da almeno centosettanta anni a questa parte. Si pensi (tralasciamo il riferimento contestuale al diritto penale, che ci porterebbe troppo lontano[56]) alla resistenza fiscale di Thoreau[57], alla discussione di Lysander Spooner sul carattere non vincolante di una Costituzione che nessun cittadino americano aveva mai sottoscritto e, di conseguenza, sull’abusività della tassazione[58]; o a Benjamin Tucker, che alcuni considerano un “socialista”, il quale considerava però robbery la tassazione stessa[59]. Ma già Pierre-Joseph Proudhon, in un saggio del 1849, ricollegava direttamente il libero credito monetario, privo di ancoraggio aureo, all’abolizione delle imposte, quali soluzioni congiunte del problema sociale[60]. Di recente, è stato David Graeber (teorico di riferimento di Occupy Wall Street) a individuare nelle vicende fiscali, intrecciate con quelle del debito, il fil rouge dell’oppressione lungo il percorso storico[61].
D’altra parte, se Oppenheim non ravvisa “coercizione” né nell’imposizione fiscale, né nel carcere[62], non si comprende proprio di che cosa parli: forse delle liti di vicinato. La negazione della libertà come spazio comune alle parti conduce a un certo punto l’autore a ritenere che Hitler sarebbe stato l’uomo più “libero” del suo tempo[63]. Semmai, si dirà che il dittatore è dotato di potere coercitivo particolarmente intenso[64], non certo fonte di manifestazione di libertà, tanto più che il carcere incatena anche il secondino; ma un abbaglio simile è proprio il frutto del non aver compreso come la libertà sia piano indivisibile tra più soggetti, tra tutti gli individui dell’umanità, e non può essere verificata esclusivamente appuntando l’attenzione sull’agire di un unico uomo, senza verificare le ricadute sugli altri della sua condotta.
A proposito di tassazione, riteniamo di fare un passo ulteriore, muovendo da un errore logico di Robert Nozick a proposito di applicazione del principio di risarcimento. Nozick[65] immagina che, in una situazione simile allo stato di natura di Locke, agli “indipendenti” free riders sia impedito l’esercizio della giustizia privata, sulla base della supposta pericolosità delle loro procedure. Di ciò si farebbe carico l’”agenzia dominante” (che darebbe così vita però a una fattispecie di abuso di posizione dominante), costituendosi in monopolio di fatto. Un monopolio di fatto, il quale concentri in proprie mani tutte le armi, possiede però un formidabile incentivo a divenire monopolio di diritto, tant’è che l’agenzia dominante trasmuta in Stato ultraminimo. Lo Stato ultraminimo fornisce servizi solo agli acquirenti delle sue polizze: ma, dato che il servizio di protezione, in quanto bene pubblico, viene ritenuto da Nozick indivisibile, lo Stato ultraminimo, in lettura edulcorata, “fornisce a tutti il servizio di protezione”, e diviene Stato minimo vero e proprio; e ciò con un salto indietro di oltre un secolo rispetto a Gustave de Molinari[66], il quale riteneva invece che il servizio di protezione fosse divisibile e ammettesse concorrenza. Nozick esce dall’empasse affermando che, poiché il servizio di protezione sarebbe appunto indivisibile, lo Stato ultraminimo sarebbe “moralmente obbligato” a trasformarsi in Stato minimo, e quindi a fornire il servizio stesso anche agli indipendenti, ai quali era stato proibito l’esercizio della giustizia privata. Ecco quindi che la proibizione verrebbe “risarcita” mediante la prestazione di quel servizio.
Senonché il risarcimento deve andare a vantaggio del danneggiato, non a svantaggio; invece qui siamo di fronte al cumulo di due svantaggi: la proibizione dell’esercizio della giustizia privata e l’imposizione di un servizio non richiesto –il giudizio se le esternalità siano da considerarsi positive o negative è soggettivo-, a pretesa compensazione di quella primitiva proibizione. Non si comprende, infatti, come l’autore del danno possa stabilire unilateralmente il contenuto della prestazione risarcitoria, indipendentemente dalle preferenze del danneggiato che andrebbe risarcito. A questo punto, se tale presunto risarcimento vale a fondare la validità della proibizione iniziale, sarebbe stato preferibile che gli indipendenti fossero stati risarciti in moneta: medium universale, che avrebbe consentito loro di scegliere sul mercato, sulla base delle loro effettive preferenze, in quale modo, con quali beni della vita, riparare il danno subito. Ciò in quanto le persone sono titolari di scale di preferenze diverse, mentre Nozick presume che tutti accettino di buon grado, quale risarcimento, un servizio di protezione armato che potrebbe essere non gradito loro (ad esempio in quanto pacifisti nonviolenti), nel senso che qualcuno potrebbe ritenere negativa quell’esternalità, che Nozick dà per scontato sia considerata positiva da tutti.
Sicché, in definitiva, l’agenzia dominante, nel suo processo di trasformazione in Stato minimo, finisce con l’esercitare coercizione verso gli indipendenti due volte: quando proibisce, e quando impone una modalità risarcitoria non richiesta, che potrebbe essere ritenuta addirittura dannosa: protezione e oppressione si identificano e si sovrappongono, perché l’indivisibilità, se c’è, vale anche da tale punto di vista[67] Soluzione paternalistica, dato che Nozick sostituisce proprie valutazioni sul carattere positivo o negativo delle esternalità al giudizio degli interessati. E sempre che abbia poi senso una protezione anche “scelta”, dato che comunque si tratta pur sempre di delegare l’armamento a qualcuno, e quindi legarsi mani e piedi a lui, una volta che gli hai delegato l’uso delle armi; difficoltà che lo stesso pensiero anarco-capitalista sulle agenzie di protezione non supera, ove non giunga alla conclusione di armare –almeno in senso metaforico- la comunità direttamente.
Ecco allora che analogo discorso possiamo svolgere con riferimento alla tassazione, a sua volta fondata su di una circolarità paradossale: che il cittadino non solo è subordinato allo Stato predatore[68] e al potere che lo esprime, ma “paga” anche (le “imposte”) per esserlo; viene così coartato due volte: in origine, e quando viene costretto a pagare per tenere in piedi l’apparato di coercizione, sicché lo Stato concentra su di sé le due funzioni di controllo e di servizio, finendo con il sovrapporle e col farle coincidere, dato che l’oggetto del servizio è elaborato unilateralmente; mentre, a rigore, visto che presta il proprio consenso all’autorità, il cittadino non dovrebbe pagare, ma andrebbe compensato in cambio del consenso che presta;  e ciò in soluzione del mistero di Etienne de La Boétie, per il quale il consenso viene prestato gratis per ragioni incomprensibili («quale orribile vizio vedere un numero infinito di uomini non obbedire ma servire[69]). Diversamente non vi sarebbe “scambio”, né “contratto sociale”, nemmeno metaforico: fondamento logico della rendita di esistenza, ulteriore rispetto alla sola perdita del compossesso sul territorio nelle relazioni tra privati[70]. Ora, se questo è il quadro, per cui la coercizione va considerata in quanto sistema, e non come relazione binaria tra un soggetto A e un soggetto B, lo stesso vale per la nozione di “libertà” in quanto tale, che è una situazione, uno spazio, un bene pubblico indivisibile, nel senso proprio in cui si parla di bene pubblico nella scienza economica, anzi, in un’accezione ulteriormente evoluta.    

5.     La libertà come spazio comune incommensurabile.
      Secondo Isaiah Berlin,
      nella società ideale, costituita da esseri pienamente responsabili, le regole scomparirebbero lentamente, perché sarei a malapena consapevole della loro esistenza. Un solo movimento sociale fu abbastanza audace da rendere del tutto esplicita questa assunzione e da accettarne le conseguenze, quello degli anarchici. Ma tutte le forme di liberalismo fondate su una metafisica razionalistica sono versioni più o meno annacquate di questo articolo di fede[71].
La libertà negativa di cui trattano i filosofi politici analitici, dei quali Ian Carter si propone come punta, si direbbe la versione liberale annacquata della libertà. Ma annacquata non solo rispetto a quella anarchica, ma anche rispetto a quella liberale bene intesa. Andiamo per gradi. Secondo lo studioso anarchico Salvo Vaccaro,
       il pensiero anarchico effettua da sempre uno scarto teorico rispetto al liberalismo proprio sulla questione della libertà: il liberalismo assegna uno spazio predeterminato di libertà a ciascuno in relazione alla delimitazione più o meno statica dell’analogo spazio assegnato all’altro con cui si entra in contatto, con l’effetto di ridimensionare la libertà, riducendola per entrambi i partner. Al contrario, rinarrata sotto la luce convergente di teoria anarchica e postmoderno, la libertà si deessenzializza per rilanciarsi come processo espansivo di liberazione che mai raggiunge una saturazione stabile e definitiva –nemmeno nel regno dell’anarchia…- e pertanto in tale gioco agonale non si dà limite precostituito (costituzionalizzato, direbbero i liberal-democratici), bensì ogni spinta produce beneficio diffuso e gli eventuali conflitti tra tali dinamiche verrebbero a trovare un punto provvisorio di equilibrio autoregolato proprio nella relazione di ciascuno con l’altro che costituirà, nonostante ogni deriva individualistica e solipsistica della matrice proprietaria borghese, il reale nucleo umano: io/altro, con un topos libertario di responsabilità relazionale e reciproca[72].
Se gli anarchici di estrazione classica, rispetto agli anarco-capitalisti, hanno il vantaggio della critica a ogni forma di dominio, proprietario, sociale, di genere, nel costume, gli anarco-capitalisti possono vantare di avere fondato, attraverso il richiamo alla teoria del mercato, i lineamenti di una società senza Stato, che possa invece prescindere dalla costruzione del famoso “uomo nuovo”: sicché anche l’uomo comune, il quale pure nutra sentimenti conservatori, può trovarsi a proprio agio nel modello di società delineato agli anarco-capitalisti, che gli propongono semplicemente lo smantellamento di uno Stato ormai ridotto a rudere inefficiente. Con tutti i rischi che ciò comporti l’affermarsi di un’idiocrazia (dominio di privati, da idion, privato in greco)[73], la quale tuttavia, pretendendo di fondare il proprio predominio sul diritto civile, scava la terra sotto i propri piedi, dato che non è obbligatorio intrattenere rapporti con un soggetto privato, sicché lo Stato idiocratico tende dialetticamente alla propria estinzione: per dirla al modo del sito internet satirico “Lercio”, “Lo Stato si privatizza per diventare efficiente, ma i cittadini disdicono il contratto e si estingue”.
Gli anarco-capitalisti, al di là del descritto rischio di fruttuosa degenerazione, hanno una concezione della libertà vicina a quella della tradizione liberale, però questa viene descritta da Vaccaro in termini riduttivi, come vedremo. E’ vero che, il punto di vista che egli evidenzia (la libertà liberale come ognuno nel proprio ambito spaziale limitato), si ravvisa nella concezione della proprietà di Kant, come convivenza tra un “mio” e un finitimo “tuo”, che si “costringono” reciprocamente[74]. Ma la teoria del mercato va oltre: la cooperazione nell’ordine esteso della catallassi, per dirla con Hayek. Tuttavia, se il liberalismo ha mostrato anzitutto quella faccia “difensiva”, e fornito un’immagine ristretta nella propria concezione della libertà, ciò si deve a ragioni di carattere storico, dato che, in origine, si trattava di elaborare soprattutto una dottrina di “limitazione” del potere dispotico[75], prima che fosse consentito immaginare l’espansione a tutto tondo dell’individualità nella comunità dei liberi e degli eguali. Certo, la concezione di libertà di un Michail Bakunin è più attraente e convincente[76], dato che consente di superare il vieto luogo comune, per il quale la mia libertà finisce dove inizia la tua:
Io non sono veramente libero che quando tutti gli esseri umani che mi circondano, uomini e donne, non sono ugualmente liberi: posso dirmi libero solo in presenza di altri uomini e in rapporto con loro. Io stesso sono umano e libero solo nella misura in cui riconosco la libertà e l’umanità di tutti gli uomini che mi circondano. La libertà degli altri, lungi dall’essere un limite o una negazione della mia libertà, ne è al contrario la condizione necessaria e la conferma. Non divengo veramente libero se non attraverso la libertà degli altri, così che più numerosi sono gli uomini liberi che mi circondano, più profonda e più ampia è la loro libertà, più estesa e più profonda e più ampia diviene la mia libertà. Io intendo quella libertà per cui ciascuno, anziché sentirsi limitato dalla libertà degli altri vi trova al contrario la sua conferma e la sua estensione all’infinito.

Tuttavia, si badi che, se troppo spesso la libertà liberale viene declinata in quei termini asfittici soprattutto dai mass-media e tra la gente comune, sul piano della teoria economica del mercato essa si sovrappone a ben vedere a quella di Bakunin, il che non deve sorprendere. Da quando gli economisti hanno superato il dogma aristotelico, per il quale lo scambio avviene trasferendo il «tanto quanto»[77], ossia rimanendo inalterate le condizioni di benessere degli scambisti, da quando cioè, insinuandosi la nozione soggettivistica del valore[78], si inizia a comprendere che lo scambio è fatto per migliorare le condizioni degli scambisti, e non per lasciarle inalterate, la nozione “liberale” di libertà già si propone, in Carl Menger piuttosto chiaramente, nella prospettiva di considerare l’esaltazione delle condizioni dell’uno come co-condizione per l’esaltazione di quelle dell’altro[79]; il che avviene, ad esempio, nel cosiddetto “ottimo paretiano”[80]; ciò sul presupposto che la nozione di libertà sia grosso modo riconducibile a quella di “benessere”, ma la libertà si presume utile iuris et de iure, in quanto quadro meta-normativo, all’interno del quale ogni scelta, volta alla soddisfazione di un bisogno[81], si rende possibile, sicché è immaginabile, da tale punto di vista, un utilitarismo (formale) libertario: qualsiasi forma di utilitarismo, che non fosse tale, comporterebbe sacrificio di libertà, e quindi danni incommensurabili allo stesso benessere[82].  La questione non era affatto ignota a Isaiah Berlin, il quale poneva Adam Smith tra i dotati di “una visione ottimistica della natura umana, (i quali) credono nella possibilità di armonizzare gli interessi”[83]; esattamente il presupposto della teoria del mercato, che, collegando in rete tutti gli scambi, posto che, almeno idealmente, uno scambio avvantaggia i coinvolti, in rete verrebbe avvantaggiata l’umanità intera: la libertà, ossia la potenzialità di ciascuno, anche in questo ordine di idee, come per gli anarchici, si accresce con il contatto con gli altri, non viene limitata da questo[84]: anticipazioni di quella che poi sarebbe stata la teoria dei giochi, con riferimento però ai giochi a somma positiva e cooperativi, sicché, nel mercato ideale, la strategia di cooperazione vince su quella di defezione. Quantomeno nel senso che, in regime di concorrenza, a ogni caso di defezione corrisponde un’ipotesi alternativa di cooperazione, sicché lo scambio non è mai un monopolio bilaterale A vs. B, ma sempre un modello trilaterale d’asta, una rete di aste interconnesse[85].
Ma la libertà che si esalta nell’incontro intersoggettivo cessa di essere vicenda personale, per diventare  bene pubblico puro, in un’accezione come accennavo ulteriore, rispetto a quella accolta dalla scienza economica. Intendo infatti per puro il bene pubblico, il quale, facendone uso, non si consuma e anzi si riproduce, si mantiene vivo invece di  consumarsi. Ad esempio, la lingua è soggetta al principio di abbondanza, non di scarsità: più viene utilizzata più è viva e si ravviva, mentre se non se ne fa uso muore. Lo stesso vale per tutti i beni immateriali, come il software, in sé replicabile all’infinito; come l’informazione e la cultura: non solo chi impara a memoria una poesia non impedisce ad altri di fare altrettanto –quindi non si dà rivalità nel consumo-, ma tutti sono in grado di diffondere ulteriormente quella poesia, autoriproducendo, e consentendo di riprodurre tendenzialmente all’infinito quel bene pubblico. Lo stesso vale allora per la libertà-bene pubblico indivisibile, perché per ogni interazione possibile, che massimizza l’utilità di chi interagisce, vi sono una quantità potenzialmente infinita di interazioni in rete, che ulteriormente massimizzerà l’utilità di tutti: e nell’interazione la libertà viene alimentata, invece che ridursi. Anche a voler limitare l’osservazione alla relazione a due, la libertà-bene indivisibile può rappresentarsi come uno spazio corrispondente a un angolo piatto, nel quale i partners della relazione occupino ciascuno un angolo retto l’uno adiacente all’altro, sicché la relazione è in equilibrio. Laddove nelle relazioni coercizione/subordinazione, supremazia/soggezione, l’angolo è rispettivamente ottuso e acuto, di modo che quanto vien “misurato” è l’oscillazione del lato in comune, sicché l’angolo ottuso sarà più o meno ottuso, e altrettanto l’acuto: mentre si ha piena libertà solo in corrispondenza dei due angoli retti, nella prospettiva, però, del reciproco insinuarsi l’uno nello spazio dell’altro. In altro modo, la relazione può essere rappresentata da una bilancia a due piatti (o da un’altalena a due seggiole contrapposte): quando scende un piatto, sale l’altro, all’incremento da un lato corrisponde la riduzione dell’altro: ma, fuoriuscendo dall’equilibrio stabile, si esce dalla “libertà comune”, per entrare in un rapporto, che non è di libertà aumentata da un lato e di libertà diminuita dall’altro, ma di coercizione da un lato e di sottomissione dall’altro, di supremazia da un lato e di soggezione dall’altro, come nei rapporti potestà/interesse legittimo nella scienza del diritto amministrativo.
La libertà, in quanto spazio comune, è cioè gioco a somma positiva, un win-win game, diversamente ne faremmo un gioco a somma zero, dato che ogni spazio che andasse a vantaggio dell’uno andrebbe a detrimento dell’altro: esattamente ciò che avviene, al contrario, non nelle relazioni di libertà, scambiste o associative che siano, ma piuttosto nelle relazioni coercitive, caratterizzate da un rapporto supremazia/soggezione, sicché l’angolo ottuso, espandendosi, preme l’acuto adiacente, che ulteriormente si riduce; il piatto della bilancia più pesante si abbassa e l’altro si alza.
Chi ritenesse che questa costituisca una situazione di libertà, che si possa misurare nelle oscillazioni –sfuggendogli che si tratta invece di una situazione di rapporto tra una coercizione e una subordinazione- sarebbe prigioniero di una zero-sum mentality, per la quale in ogni relazione –quindi non solo in una caratterizzata dal confronto tra supremazia e soggezione- debbano necessariamente riconoscersi un winner ed un looser[86].
La libertà relazionale-intersoggettiva trova invece, come detto, espressione nello scambio, nel quale tutte le parti coinvolte mirano a migliorare le proprie condizioni, e si tratta di gioco a somma positiva. Che poi la relazione abbia luogo sotto forma di contratto in senso proprio o di associazione, vale a dire di scambio di mercato o di relazioni comunitarie, non cambia di molto; perché tale distinzione non sembra avere altro senso che retorico, dato che anche il momento associativo è costituito da scambi. E’ pur vero che, di solito, si sottolinea che, in uno scambio, ognuna delle parti, dopo l’incontro per la conclusione del contratto, prosegue autonomamente per la propria strada, perché i rispettivi interessi, consumato lo scambio, si divaricano, mentre nell’associazione gli interessi restano comuni e il legame perdura indefinitamente nel tempo[87]; ma anche l’associazione, se è volontaria e libera nell’adesione, è precaria, e le parti possono riprendere la propria strada in qualsiasi momento, e la relazione perdurerà solo fin quando le parti, non meno che nello scambio istantaneo, la riterranno utile. Quindi, un’associazione rappresenta nulla più uno scambio continuato o relativamente permanente; e, del resto, Kant, sia pure in tutt’altri contesti, accostava il termine Gemeinshaft  a quello commercium[88]. A questo punto, libertà e giustizia, in una relazione, coincidono, perché può ritenersi “giusta” solo una relazione nella quale non si evidenzino rapporti di soggezione che non siano consensuali. In presenza di consenso, viceversa, qualsiasi invasion è permessa (si pensi a un rapporto sado/maso volontario, o al pugilato, o al duello, pur non consentito dal nostro ordinamento): nel senso che è assentita e autorizzata dall’interessato, sicché i terzi saranno indotti a intervenire solo nel caso in cui ravvisino esternalità negative nei loro confronti, ad esempio nel danno che procura loro la diffusione di un comportamento chicken[89], in quanto consolidante l’indivisibile autorità non deliberatamente e consapevolmente accettata dal terzo estraneo al rapporto specifico. La libertà positiva, a propria volta, va ricondotta null’altro che al riempimento, attraverso l’esercizio del potere di ciascuno, del vuoto libero all’interno dello spazio comune, e nella pressione sull’altro a partecipare allo scambio, nel quale il consenso permette ogni reciproca invasion, sulla base di quello che in diritto penale si chiama “consenso dell’avente diritto”: suggello al fatto che non esistono condotte aprioristicamente “illecite”, potendo essere lecita qualsiasi condotta che non incontri obiezione altrui, fintanto che obiezione non arrivi, e allora si aprirà la discussione.
Non voglio nascondere però le difficoltà. L'idea che uno scambio, secondo il modello dell'ottimo paretiano, avvantaggi gli scambisti, e quindi che il mercato, essendo una rete di scambi tra n coppie, in cui ognuno si avvantaggia, dovrebbe avvantaggiare quindi tutti, è sottoposta a una restrizione. Ciò infatti presuppone che le persone che scambiano agiscano su di un piede di parità, almeno di partenza, e che quindi la loro scelta sia effettivamente libera e non viziata dal bisogno. Oltretutto, gli scambi non avvengono tra angeli, ma sulla base di rapporti di forza e della pressione delle reciproche pretese, anche collettive, come nelle relazioni sindacali e di cartello. Ma se io sono un misero deprivato dei miei diritti originari sulla Terra, minacciato da norme repressive inique che mi costringono al salario, quando cedo in uno scambio la mia forza-lavoro, peggioro e non miglioro la mia condizione, rispetto alla fase precedente di autonomia. Quindi, in tal caso, la mia volontà nello scambio è viziata e, in un caso simile, un “contratto di lavoro” sarebbe stipulato in stato di bisogno, e quindi tecnicamente rescindibile (art. 1448 c.c.), oltre a comportare indennizzo la deprivazione originaria.
Pur con tale precisazione, resta il fatto che l’idea che la libertà si possa misurare, e che non sia una condizione di equilibrio tra le parti in uno spazio comune, può portare a conclusioni assurde e contrarie al senso comune, a meno di non considerarle paradossi o autoironia da filosofo. Ci riferiamo al caso limite proposto da Hillel Steiner, dell’uomo rinchiuso in un sarcofago (ventilato, precisa l’autore, in vena di spiritosaggini), per il quale il malcapitato avrebbe pur sempre la “libertà” di «strofinarsi il piede contro la superficie interna di un sarcofago». Non solo: questa sarebbe per il soggetto una conquista e un’acquisizione, perché prima di essere rinchiuso nel sarcofago, questa facoltà gli era preclusa[90]! Sempre Steiner propone un altro confronto, per “misurare” la libertà: «un individuo è più libero se è incatenato al muro di una cella con una catena legata a un solo polso che non avendo entrambi i polsi legati»[91]. E un uomo sarebbe totalmente illibero solo nel caso in cui il suo sistema nervoso fosse controllato da altri[92]; il che rappresenta certo una situazione di annientamento della sua volontà, ma l’argomento finisce “per fare il gioco dell’avversario”, dato che, a questo punto, qualsiasi situazione di oppressione, che fosse appena minore, potrebbe venir spacciata come tutto sommato “liberale”. E’ del tutto evidente, a chiunque sia dotato di senno, che un simile approccio “analitico” alla misurazione della libertà non conduce da nessuna parte e non è di alcuna utilità, per chi, dotato di inclinazione libertaria[93], abbia a cuore le sorti del futuro della libertà.
Fabio Massimo Nicosia
Avvocato - Milano




[1] I. Carter, La libertà eguale, Feltrinelli Editori, Milano, 2005.
[2] Ivi, 21.
[3] Gerald C. MacCallum, jr., Negative and Positive Freedom, in «Philosofical Review», LXXVI, 1967, pp. 312 ss., trad. it.  Libertà negativa e positiva, in I. Carter e M. Ricciardi, a cura di, L’idea di libertà, Milano, Feltrinelli Editore, 1996, pp. 19 ss., 21.
[4] I. M. Copi, Introduction to Logic, The Macmillan Company, New York, 1961, trad. it.,  Introduzione alla logica, Bologna, Il Mulino, 1964, pp. 119 ss.
[5] I. Carter, cit., 72.
[6] Ivi, 96, ove si legge che la libertà ha valore per i soggetti capaci di effettuare scelte. Per il concetto di scelta nell’ambito della teoria della “scelta razionale”, si veda AA.VV., La teoria della scelta – Una guida critica, Bari, Laterza, 1996.
[7] Si chiede se sia possibile volere ciò che si vuole, «se il volere stesso fosse libero», in quanto conforme alla propria volontà, A. Schopenhauer, La libertà del volere umano, Bari, Laterza, 1994 (1838), pp. 46 ss., ove s’introduce la nozione di libertà in senso “empirico”, alla quale Ian Carter si rifà volentieri (ma non cita Schopenhauer). Si vedano anche G. H. von Wright, Freedom and Determination, Helsinki, The Philophical Society of Finland, 1980, trad. it. Libertà e determinazione, Parma, Pratiche Editrice, 1984; T. Honderich, How free are you, 1993, trad. it. Sei davvero libero? – Il problema del determinismo, Milano, Il Saggiatore, 1996; Mario De Caro, Massimo Mori ed Emidio Spinelli, a cura di, Libero arbitrio, Roma, Carocci Editore, 2014.
[8] Rinvio, per tale impostazione, al mio Beati possidentes, Macerata, Liberilibri, passim.
[9] I. Carter, cit., 36 ss.
[10] C. Taylor, What’s Wrong with Negative Liberty, in A. Ryan, a cura di, The Idea of Freedom, Oxford, Oxford University Press, 1979, trad. it., Cosa c’è che non va nella libertà negativa, in L’idea di libertà, cit., pp. 75 ss.
[11] I. Carter, cit., 157.
[12] Cfr. Ernst Forsthoff, Stato di diritto in traformazione, Milano, Giuffrè, 1973, in particolare il saggio Concetto e natura dello Stato sociale di diritto (1953), 29 ss., e il saggio Le leggi provvedimento (1955), 101 ss.; cfr. altresì G. Guarino, Profili costituzionali, amministrativi e processuali delle leggi per l’Altopiano silano e sulla riforma agraria e fondiaria, in «Foro Italiano», 1952, pp. IV, 76 ss. Si veda anche M.S. Giannini, Divieto di leggi singolari ed eccezionali, in «Giurisprudenza Costituzionale», 1958, pp. 918 ss.
[13] I. Carter, cit., 23
[14] Mi esprimevo in questo senso già in Beati possidentes, cit., pp. 161 ss.
[15] I. Carter, ult. loc. cit.
[16] G. A. Cohen, Capitalism, Freedom and the Proletariat, in D. Miller, a cura di, Liberty, Oxford, Oxford University Press, 1991, trad. it., Capitalismo, libertà e proletariato, in L’idea di libertà, cit., pp. 161 ss.
[17] Arg. ex P. H. Nowell Smith, Ethics, Harmondsworth, Penguin Books Ltd., 1954, trad. it., Etica, Firenze, 1974, pp. 211 e 215.
[18] R. Nozick, Anarchy, State and Utopia, New York, Basic Book, 1974, trad. it. Anarchia, Stato e Utopia – I fondamenti filosofici dello “Stato minimo”, Firenze, Le Monnier, 1981, (1974), pp. 185 ss. Si veda sul proviso anche il mio Il Locke conteso. I diritti di proprietà tra libertarians e left-libertarians, in «Rivista di Politica », fasc. n. 2, 2013, pp. 119 ss. Per una lettura più forte, per la quale, attenendomi alla lettera del testo inglese originale, avevo ritenuto che Locke immaginasse che la violazione del proviso comportasse indennizzo, cfr. invece Il dittatore libertario – anarchia analitica tra comunismo di mercato, rendita di esistenza e sovranity share, Giappichelli, Torino, 2011, pp. 204-205.
[19] Non solo i right-wings libertarians negano tale assunto (J. Narveson, The Libertarian Idea, Philadelphia, Temple University Press, 1988, pp. 83, 93 e 100), ma anche R. Dworkin, che affida l’assegnazione originaria delle risorse a un meccanismo d’asta dall’alto, in cui però non è spiegato sulla base di quale criterio sia stato scelto il banditore (What is Equality? Part 2: Equality of Resource, in «Philosophy and Public Affaire», 10, 1981, pp. 283 ss., trad. it. Eguaglianza di risorse, in I. Carter, a cura di, L’idea di eguaglianza, Milano Feltrinelli, 2001, 1981, pp. 194 ss.). L’opposto del banditore impersonale walrasiano, che invece consente di configurare, con qualche restrizione, l’ordine spontaneo anarchico, conseguente all’incontro delle libere domande e di offerte nel mercato (AA.VV. La teoria della scelta, cit., pp. 239 ss., in particolare pp. 247 ss).
[20] R. Nozick, cit., 60, in cui si precisa che il risarcimento della lesione di un diritto deve consentire al titolare del diritto di “non stare peggio” di prima della lesione. Si vedrà più avanti come Nozick applicherà male tale principio, per tentare di giustificare la trasformazione dell’agenzia dominante in Stato, ultraminimo prima e presunto minimo poi.
[21] I. Carter affronta anche il tema del carattere intrinsecamente “moralizzato” del termine stesso “libertà”, perché quando in una discussione politica o filosofica si parla di libertà con riferimento a una persona o a una situazione, l’accezione di valore positivo impressa a quella persona o situazione è ineludibile. (cit., pp. 49 ss.).
[22] Il primo a proporre la distinzione tra libertà negativa e libertà positiva è stato probabilmente G. De Ruggiero, il quale, nella Storia del Liberalismo Europeo (Milano, Feltrinelli, IV ed., 1977, il lavoro fu originariamente pubblicato nel 1925), così scrive, al paragrafo intitolato proprio Libertà negativa e libertà positiva: la libertà «acquisisce consistenza e rilievo nella sua espressione storica e polemica, cioè come libertà da qualche cosa come insofferenza di un’esterna imposizione, che impedisce la libera espansione storica e polemica» (p. 338); la libertà positiva, invece «è quella dell’uomo che vive nella società civile, con tutti i suoi legami e i suoi pesi, dalla cui servitù egli si riscatta continuamente, col fatto stesso che li riconosce come mezzi necessari all’attuazione della sua personalità morale» (p. 343). Secondo I. Berlin, il senso “positivo” della libertà consiste nel fatto che l’individuo si senta padrone di sé stesso, che le decisioni della sua vita dipendano da lui e non da altri (Two Concepts of Liberty, 1958, in Four Essays on Liberty, Oxford University Press, 1969, trad. it. Due concetti di libertà, Feltrinelli, Milano, 2000, 1958, pp. 24 ss.).
[23] Isaiah Berlin ammoniva a non ricondurre tutto alla nozione di libertà, dando vita a confusioni, perché una cosa sarebbe la libertà, un’altra la giustizia, un’altra l’uguaglianza, la cultura, la felicità, e così via (Ivi, p. 17).
[24] H. Steiner (Individual Liberty¸ in «Proceedings of the Aristotelian Society», vol.  XCIV, 1983, pp. 66 ss., trad. it., Libertà individuale, in L’idea di libertà, cit., pp. 100 ss,) supera implicitamente la distinzione tra libertà negativa e positiva rivendicando il «possesso personale di beni fisici» (p. 116) come presupposto per l’azione libera. Sono partito a mia volta da analogo presupposto, sostenendo che la Terra sia res communis, precisando che, in caso di perdita del possesso ad opera altrui, questa vada indennizzata, e ciò costituisce la garanzia che alla libertà negativa corrisponda poi effettivamente la libertà positiva, riconducendo la seconda nozione alla prima. Del resto, il denaro conseguito come indennizzo può essere per il soggetto più importante del bene perduto, se può essere speso sul mercato per conseguire beni anche preferiti rispetto a quello perduto.
[25] Su tale approccio all’argomento in parte divergono i due marxisti analitici G. A. Cohen, Self-Ownership, Freedom and Equality, Cambridge University Press, 1995, pp. 195 ss., e J. E. Roemer, Value, Exploitation and Class, Harwood Academic Publishers GHBH, anno non indicato, trad. it.  Valore, Sfruttamento e Classe, Milano, Giuffrè, 1993, pp. 56 e 87-88.
[26] Friedrich Engels, nella sua celebre filippica contra Dühring, entra in contraddizione, dato che, pur insistendo che lo scopo finale dello sfruttamento sarebbe “economico” e non politico, ammette che lo sfruttamento è reso possibile solo da un atto di forza preliminare (Anti-Dühring, Roma, Editori Riuniti, 1985, pp. 151 ss.).
[27] J. Buchanan e G. Tullock, The Calculus of Consent. Logical Foundations of Constitutional Democracy, The University of Michigan Press, 1965, trad. it. Il calcolo del consenso – Fondamenti logici della democrazia costituzionale, Bologna, Il Mulino, 1988 (1962), passim; si veda anche il pionieristico A. Downs, An Economic Theory of Democracy, New York, Harper  & Row, 1957. Trad. it. Teoria economica della democrazia, Bologna, Il Mulino, 1988 (1957).
[28] Cfr. H. Demsetz, Towards a Theory of Property Rights, in «American Economic Review»,  LVII, n. 2, 1967, trad. it. Verso una teoria dei diritti di proprietà, in F. Forte ed E. Gramaglia, a cura di, La nuova economia politica americana, Milano, Milano, SugarCo, 1980 (1967), pp. 132 ss.
[29] R. Nozick, Coercion, in Socratic Puzzles, London, Harvard University Press, 1977, pp. 15 ss. Il saggio risale al 1969.
[30] Sull’”offerta” si sofferma H. Steiner, cit., 103 ss., che di fatto la ricostruisce in termini di costo-opportunità da affrontarsi dal suo destinatario quando la riceve e deve decidere se accettarla oppure no. Nota anche la sua analisi della throffer, offertaccia (pp. 105 ss.), l’”offerta che non si può rifiutare” della filmografia mafiosa. Una throffer tecnicizzata può forse individuarsi nel reato, di recente introdotto, di “concussione per induzione” (art. 319 quater c.p.).
[31] R. Nozick, Anarchia, Stato e Utopia, cit., 88. W. Block, The Blackmailer, in Defending The Undefendable, San Francisco, Fox & Wilkes, 1991 (1976), pp. 44 ss.
[32] L. M. Fraser, Economic Thought and Language – A Critique of Some Fundamental Economic Concepts, London, A. & C. Black Ltd, 1937, 183.
[33] A. O. Hirschman, Exit, Voice and Loyalty – Responces to Decline in Firms, Organizations, and States, Cambridge, Harvard University Press, 1970. Sulle alterne vicende normative nel mondo dell’istituto del boicottaggio, cfr. G. A. Brioschi, ad vocem, Enc. Dir., V, 1959, pp. 493 ss.
[34] M. N. Rothbard, The Ethics of Liberty, Atlantic Islands, Humanities Press, 1982, trad. it. L’etica della libertà, Macerata, Liberilibri, 1996 (1982), passim.
[35] J. Rawls, A Theory of Justice, Cambridge, Harvard University Press, 1971, trad. it. Una teoria della giustizia, a cura di S. Maffettone, Milano, Feltrinelli, 1982, p. 137.
[36] J. E. Stiglitz, The Economic Role of the State, Oxford, Basil Blackwell. 1989, trad. it. Il ruolo economico dello Stato, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 73; il concetto è familiare all’ideologia economica del corporativismo fascista: «…lo Stato non esercita più una azione di carattere occasionale ed empirico, bensì necessaria e logica, sull’equilibrio economico, e che quindi esso rientra per necessità logica nel quadro della teoria pura. A questo punto, peraltro, è necessario fare il passo decisivo, e trasferire lo Stato alla base della teoria, ponendolo tra le premesse, cosa che il Keynes non fa, e che invece noi facciamo perché è nella logica dei fatti e delle dottrine» (F. Carli, Le basi storiche e dottrinali dell’Economia Corporativa, Padova, 1938, p. 147, cit. in Lorenzo Ornaghi, Stato e corporazione, Milano, Giuffrè, 1984, p. 80).
[37] Cfr. il mio Beati possidentes, cit., pp. 221 ss.
[38] Citata estesamente nel mio “Modello Consip” tra Stato e Mercato, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, Anno XII, 4, 2002, pp. 711 ss., 723.
[39] R. Duncan Luce – H. Raiffa, Games and Decisions – Introduction and Critical Survey, New York, Dover Publications Inc., 1957, 1989, p. 20. Rawls richiama il cap. XIII di tale fondamentale lavoro (pp. 278 ss, dell’edizione qui indicata), ma questo contiene una pluralità di ipotesi di possibili criteri di azione in stato di incertezza: non si comprende su quali basi Rawls ritenga che tutto il mondo dovrebbe seguire il suo preferito personale, in una situazione in cui, evidentemente, sarebbe lui il “dittatore di Arrow”.
[40] Si vedano, per tutti, M. Taylor e H. Ward, La fornitura dei beni pubblici: un’applicazione della teoria dei giochi, in G.E. Rusconi, a cura di, Giochi e paradossi in politica, Torino, Einaudi, 1989, 73 ss. e F. Foldvary, Public Goods and Private Communities – The Market Provision of Social Services, Brookfield, Edward Elgar, 1994. Per quanto riguarda la produzione di mercato di diritto, giustizia e moneta, si rinvia a D. Friedman, The Machinery of Freedom - Guide to a Radical Capitalism, La Salle, Open Court, 1973, L’ingranaggio della libertà, Macerata, Liberilibri, 1997, ove si rinviene un approccio sufficientemente avalutativo, a mio avviso più persuasivo di quello giusnaturalistico di M. Rothbard. Per quanto riguarda la moneta, si veda però soprattutto F. A. von Hayek, The Denazionalization of Money: An Analysis of the Theory and Practice of Concurrent Currencies, London, Institutes of Economic Affairs, 1976, trad. it.  La denazionalizzazione della moneta – analisi teorica e pratica della competizione tra valute, Milano, Etas, 2001 (1976).
[41] «La minaccia, in ogni caso, deve essere idonea a turbare la tranquillità della persona: in altri termini, ad intimidirla. Tale idoneità, peraltro, non va scambiata, come qualche volta accade, con l’effettiva intimidazione. Ed invero la persona a cui la minaccia è rivolta, può essere dotata di non comune forza d’animo e restare, quindi, impassibile di fronte all’azione del colpevole e non si vede il motivo per cui di tale qualità della persona stessa debba avvantaggiarsi il reo» (F. Antolisei, Manuale di diritto penale – Parte speciale, I, VII ed. aggiornata a cura di Luigi Conti, Milano, Giuffrè, 1977, p. 130).
[42] M. N. Rothbard, Man, Economy, and State – A Treatise On Economic Principles, Auburn, Ludwig von Mises Institute, ed. 1993 (1962), pp. 157, 702, 941.
[43] Per una ampia rassegna cfr. C. Cicero, La violenza nel negozio giuridico, Padova, Cedam, 2000. Sul dolo come violenza psichica, pp. 52-53; sulle varianti soggettive, riferite alla “condizione delle persone”, pp. 70-71; sulla violenza d’ambiente e politica (metus ab extrinseco), pp. 94 ss.; sulla “violenza mafiosa” («basta mezza parola») pp. 98-99; sull’“avvertimento mafioso” (per il quale occorrono autorevolezza e notorietà del soggetto, nonché una serie di circostanze ambientali e oggettive), p. 100; etc.
[44] Invece la violenza privata è perseguita d’ufficio (art. 610 c.p.).
[45] D. Graeber critica in proposito chi fa ricorso all’espressione «violenza strutturale», occultando come l’ordinamento giuridico sia fondato in toto sulla minaccia della violenza Dead zones of the imagination, in «HAU: Journal of Ethnographic Theory», n. 2, 2012, trad. it. Le zone morte dell’immaginazione - Su violenza, burocrazia e lavoro interpretativo, in Id., Contro il potere e la burocrazia, Milano, Elèuthera, 2013, pp. 35 e 53. «Violenza strutturale» pare però espressione calzante.
[46] Il motto sessantottino «E’ colpa della società», è passato di moda, travolto dallo scherno  benpensante, ma metterebbe d’accordo gli opposti Rousseau e Stirner.
[47] H. Steiner, cit., 100.
[48] Cfr. il mio Il Sovrano Occulto – Lo stato di diritto tra governo dell’uomo e governo della legge, Milano, Franco Angeli, 2000,  pp. 196 ss. e 296 ss.
[49] Ian Carter esprime così questa posizione: «Di fronte a ogni azione, un agente è o completamente libero o completamente non libero di compierla. Un ostacolo al compimento di x o lo lascia tuttavia possibile (sebbene difficile), nel qual caso l’agente è libero di fare x, o lo rende impossibile, nel qual caso l’agente è non-libero di farlo. La punibilità di x, d’altro lato non rendendo mai x impossibile, non rende mai l’agente non-libero di fare x» (cit., 62).
[50] Secondo D. Graeber, «Sostanzialmente, i poliziotti sono burocrati armati» (Le zone morte dell’immaginazione, cit., 43).
[51] L. Friedman, The Legal System. A Social Science Perspective, New York, Russell Sage Foundation, 1975, trad. it.  Il sistema giuridico nella prospettiva delle scienze sociali, Bologna, Il Mulino, 1978, pp. 101 ss. e 191 ss.
[52] Cfr. ancora Il mio Il Sovrano Occulto, cit., pp. 179 ss. e Cap. VI, pp. 220 ss.
[53] Che l’obbligatorietà dell’azione penale sia una dichiarazione di principio, fonte di possibile arbitrio, è sostenuto da C. Guarnieri e P. Pederzoli, La democrazia giudiziaria, Bologna, Il Mulino, 1997 e da G. Di Federico, Obbligatorietà dell’azione penale, coordinamento delle attività del pubblico ministero e loro rispondenza alle aspettative della comunità, in Giust. penale, III, 1991, pp. 147 ss.
[54] Cfr. ancora il mio Beati possidentes, p. 193.
[55] F. E. Oppenheim, Dimentions of Freedom, New York, St. Martin Press, 1961, trad. it. Dimensioni della libertà, Milano, Feltrinelli, 1982, p. 252.
[56] Sicché rinvio solo al mio intervento Il Diritto penale: un diritto irrazionale, in Abolire il Carcere: un’utopia concreta, Atti del Convegno, Milano, 4 aprile 1995, Roma, Notizie Radicali, 1997, p. 8 ss.
[57] H. D. Thoreau, Resistence to a Civil Governmnent, in «Aesthetic Papers», Maggio 1849  poi Civil Disobedience, trad. it. La disobbedienza civile, in Id., Walden ovvero la vita nei boschi e il saggio la disobbedienza civile Milano, Mondadori, 1977. L’orazione, pubblicata nel 1849, e che avrebbe successivamente ispirato Gandhi, si apre rimodulando il motto liberale «Il miglior governo è quello che governa meno» (risalente a Thomas Paine) in «Il miglior governo è quello che non governa affatto» (p. 377).
[58] Lysander Spooner, No Treason: The Constitution Of No Authority, VI, (1870), Fox & Wilkes, 1992, 71 ss. Non sfuggirà, peraltro, che alla base della guerra d’indipendenza americana si pose esattamente una vicenda di carattere fiscale, il Boston Tea Party del 16 dicembre 1773. Eppure, Felix Oppenheim, pur essendo tedesco, ha insegnato a lungo negli Stati Uniti.
[59] B. Tucker, Instead Of A Book By A Man Too Busy To Write One – A Fragmetary Exposition Of Philosophical Anarchism, 1897, pp. 420-421, 62 e passim. Tucker è in realtà una figura piuttosto complessa, di rilievo assolutamente primario nella storia dell’anarchismo in generale. Si può dire che, con la sua rivendicazione dell’autonomia individuale a tutti i livelli, combinata con la sua critica ai “quattro monopoli” (fondiario, doganale, monetario e dei brevetti), egli rappresenta un punto di intersezione tra l’individualismo di Max Stirner e il socialismo libertario di Proudhon (nel senso della critica della metafisica della proprietà, unita però, come in Proudhon, alla difesa del possesso individuale fondato sull’occupazione attuale e l’uso), al di là di ogni liberal-socialismo alla camomilla. Sulla sua figura si soffermava già E. Zoccoli, L’anarchia – Gli agitatori – Le idee – I fatti, Torino, Fratelli Bocca, 1907, pp. 203 ss.; si veda poi l’attenta rassegna ragionata, dedicata al liberalismo e all’anarchismo americani autoctoni, R. Rocker, Pioneers of American Freedom, 1949, trad. it. Pionieri della libertà – Le origini del pensiero liberale e libertario negli Stati Uniti, Milano, Edizioni Antistato, 1982 (1949), dove si possono rivenire capitoli su Tucker, Spooner, Josiah Warren, Stephen P. Andrews, William P. Greene, ma anche su Thomas Jefferson, Thomas Paine ed Henry David Thoreau. Si veda anche J. J. Martin, Men Against The State, The Expositors of Individualist Anarchism in America, 1827-1908, Colorado, Ralph Myles Publisher, 1970. Dedica un certo spazio all’anarchismo americano del XIX secolo anche  G. D. H. Cole, Socialism Thought: Marxism and Anarchism (1850-1890), London, Macmillan, trad. it. Storia del pensiero socialista, vol. II, Marxismo e Anarchismo 1850-1890, Bari, Laterza, II ed. 1974 (1954).
[60] P. J. Proudhon, Organisation du Crèdit et de la Circulation, et Solution du Problème social sans Impot, Parigi, Garnier Frères, 1849.
[61] D. Graeber, Debt, Brooklin, Melville House, 2000, trad. it. Debito – I primi 5000 anni, Milano, Il Saggiatore, 2012, p. 60. In realtà, in regime di monopolio dell’emissione fiat della virtualità monetaria, nonché di incontrollato debito pubblico, determinato anche dal “falso in bilancio” della mancata contabilizzazione nello stato patrimoniale del valore degli immani beni immobili demaniali (cfr. art. 822 c.c.), si potrebbe anche arrivare alla conclusione che gli Stati non hanno alcun bisogno di tassazione, e se vi ricorrono, dando vita a una partita di giro, è per ragioni soprattutto di controllo sociale.
[62] Si veda questa perla: «L’imposizione di una sanzione legale non costituisce necessariamente un’assegnazione di pena nel senso comportamentistico. Della gente è così povera che è soddisfatta anziché frustrata dall’essere messa in carcere» (F. E. Oppenheim, cit., p. 83).
[63] F. E. Oppenheim, cit., 226. Si noti che una tale posizione trova eco nel film di Pier Paolo Pasolini Salò e le 120 giornate di Sodoma, nel corso del quale un protagonista afferma: «Noi fascisti siamo i veri anarchici, perché siamo totalmente liberi, ma per essere anarchici abbiamo dovuto prima impadronirci dello Stato». Si racconta anche che Mussolini affermasse che un dittatore altro non è che un anarchico fallito (cfr. nota seguente).
[64] Distinguendo, però, il “dittatore libertario” meta-normativo, il quale, impegnato a impedire gli impedimenti, attiva dialetticamente una situazione controcoercitiva, impeditiva dell’impedimento, e quindi libertaria, secondo lo schema «vietato vietare» (Cfr. il nostro Il dittatore libertario, cit., pp. 364 ss.).
[65] R. Nozick, Anarchia, Stato e Utopia, cit. capitolo quinto. Lo Stato minimo di Nozick non è per nulla “minimo”, oltre che per il fatto di essere uno “Stato di polizia” (che non è nemmeno detto comporti tassazione minore di uno Stato che fornisse solo “servizi sociali”), anche perché incaricato di “rettificare” i titoli di proprietà a fondamento invalido sulla base del criterio del lockean proviso: tanto si deve ritenere, visto che Nozick accoglie il proviso.
[66] G. de Molinari, De la production de la sécurité, in  «Journal des Economist», 1849, trad. it. Sulla produzione della sicurezza, in Bastiat-de Molinari, Contro lo statalismo, Macerata, Liberilibri, 1994, pp. 77 ss..
[67] R. Childs (The Invisible Hand Strikes Back, 1977, in Id., Liberty Against Power, San Francisco, Fox & Wilkes, 1994, 157 ss.) ha contestato che il processo delineato da Nozick possa essere definito, come egli ritiene, “a mano invisibile”, trattandosi al contrario di un processo a pugno di ferroiron fist», p. 159): Secondo Childs, lo Stato minimo sarebbe una «private tyranny» dell’agenzia dominante (p. 175).
[68] Si veda il fondamentale lavoro di M. Levi, Of Rule and Revenue, The Regent of the University of California, 1988, trad. it. Teoria dello stato predatore, Milano, Edizioni di Comunità, 1997 (1988), dove si ricostruisce la vicenda storica della tassazione a far data dall’antica Roma (i publicani), e si conclude con una rassegna molto puntuale di teoriche dello Stato al riguardo.
[69] E. de La Boétie, La Servitude Volontaire, Paris, Federic Morel, 1571 trad. it. Discorso sulla servitù volontaria, Torino, La Rosa Editrice, 1995 (1548), p. 5.
[70] Ci si potrebbe obiettare che la nostra proposta di rendita di esistenza presuppone comunque uno Stato distributore, come ad esempio in Van Parijs (cfr. I. Carter, Reddito di base e giustizia libertaria: conversazione con Philippe Van Parijs, in Politeia, Anno 11,  Numeri 39/40, 1995, pp. 24 ss.). In realtà abbiamo ripetutamente argomentato come, non solo la nostra proposta non sia “statalista”, ma, al contrario, determini estinzione dello Stato organizzato burocraticamente (cfr. Il dittatore libertario, cit., pp. 274 ss. e, più approfonditamente, Beni demaniali, beni immateriali dello Stato, rendita di esistenza e groundstandard, in www.radicalianachici.it, 2015).
[71] I. Berlin, cit., p. 47
[72] S. Vaccaro, Divenire anarchismo, in S. Vaccaro, a cura di Pensare altrimenti, Eleuthera, 2011, p. 20.
[73] Sulla nozione di idiocrazia, cfr. il mio Il dittatore libertario, cit., pp. 325 ss.
[74] I. Kant, Metaphisische Anfangsgründe der Rectslehre, 1797, Primi principi metafisici della dottrina del diritto, Bari, Laterza, 2005, a cura di F. Gonnelli, Capitolo primo, Del modo di avere qualcosa di esterno come il proprio,  pp. 79 ss.
[75] «Nel secolo XVIII l’individuo e la nuova società che nasce da lui hanno un comune nemico da combattere: lo stato dispotico» (G. De Ruggiero, cit., p. 52).
[76] M. Bakunin, Dio e lo Stato, Pistoia, RL, 1974, p. 124.
[77] Aristotele, Etica Nicomachea, Milano, Rusconi, 1993, p. 339.
[78] R. Cantillon, Essai sur la nature du commerce en général, 1775, trad. it. Saggio sulla natura del commercio in generale, Torino, Einaudi, 1974 (1755), con prefazione di L. Einaudi; si veda ad esempio lo spunto in p. 74.
[79] «Con il passaggio dei beni da A a B e di quelli da B ad A, i bisogni di entrambi gli individui verrebbero soddisfatti meglio che se tale scambio non avvenisse». C. Menger, Grundsätze, 1871, trad. it.  Principi di economia politica, a cura di Elena Franco Nani, Torino, UTET, 1976, (1871) p. 264.
[80] Di solito, l’ottimo paretiano viene inteso nel senso che, data un’interazione, devono migliorare le condizioni di almeno di uno dei due coinvolti, fermo restando che la condizione dell’altro non deve peggiorare. Tuttavia, quand’anche le condizioni del secondo non peggiorassero, questi perderebbe comunque dal punto di vista della povertà relativa, sicché s’impone che entrambi migliorino le proprie condizioni. Se così non fosse, si legittimerebbe la schiavitù, se al miglioramento delle condizioni del padrone non corrisponde il peggioramento di quelle dello schiavo. L’ottimo però va collocato in situazione originaria, in cui non ci sono schiavi. Un frammento paretiano sembra confutare la tesi prevalente: «si può determinare l’equilibrio con la condizione che ogni individuo consegua il massimo di ofemilità» (V. Pareto, Compendio di sociologia generale, Torino, Einaudi, 1978, v. 871, p. 372.
[81] Sul fatto che anche nel comunismo si distinguerà tra portatori di bisogni “alti” e portatori di bisogni “bassi”, cfr. il mio “Il ‘comunismo libertario’ di Luigi Galleani, in A – Rivista anarchica, aprile 2014.
[82] Questo, naturalmente, sul presupposto che le persone siano effettivamente interessate alla propria libertà.
[83] I. Berlin, cit., p. 17.
[84] Cfr. anche P. A. Kropotkin, Mutual Aid, 1902, trad. it. Il mutuo appoggio, Roma, Salerno editrice, 1982 (1902), ove si elabora un’ipotesi evolutiva alternativa a quella darwiniana.
[85] Cfr. il mio Beati possidentes, cit., pp. 205 ss.
[86] A. Dixit e B. Nalebuff, Thinking Strategically, Dixit-Nalebuff, 1991, trad. it. Io vinco tu perdi - Strategie di successo nel businnes e nella vita, Milano, Il Sole 24 ore, 2000 (1991).
[87] W. Cesarini Sforza, Il diritto dei privati, Milano, Giuffrè, 1963, p. 53.
[88] I. Kant, cit., 140.
[89] Sul tema, sia pure da una prospettiva diversa, si veda P. Danielson, The Rights of Chickens: Rational Foundations for Libertarianism?, in AA.VV. For and against the State, edited by J. T. Sanders and J. Narveson, Boston, Rowman & Littlefield Publishers Inc., 1996, pp. 171 ss.
[90] H. Steiner, cit., p. 113.
[91] Ivi, 114.
[92] Ivi, 117.
[93] Su tale nozione, cfr. ancora il mio Il dittatore libertario, cit. pp. 138 ss.

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