Avv, Fabio
Massimo Nicosia
1.
Premessa.
Il presente scritto
prende le mosse dalla lettura dell’importante libro di Ian Carter “La libertà
eguale”[1],
che sviluppa l’approccio filosofico analitico al tema della “libertà”. Un ruolo
centrale vi assume la questione della misurabilità di questa, ossia se esistano
gradi diversi di libertà, dimodoché si possa affermare che, nel corso della
propria vita, nello stesso contesto sociale, o in contesti diversi, la medesima
persona o persone diverse affrontino o possano affrontare situazioni di
maggiore o minore libertà personale; ovvero, se sia possibile confrontare
contesti particolari, storici e sociali differenti, per poter concludere che
nell’uno vi sia più “libertà” che in un altro. Una tale questione presuppone
una definizione della nozione di libertà, in mancanza della quale non si può nemmeno
fare questione di una sua possibile misurazione. Occorre dunque prendere le
mosse dalla definizione di libertà accolta da Ian Carter, il quale fa propria quella,
che egli definisce «canonica»[2],
triadica di Gerald MacCallum: e allora vediamo direttamente quest’ultima:
Ogni qualvolta è in
discussione la libertà di un qualche agente o gruppo di agenti, si tratta
sempre della libertà da qualche vincolo, restrizione, interferenza o barriera
al fare, non fare, diventare o non diventare qualcosa. Tale libertà è dunque
sempre di qualcosa (un agente o più
agenti), da qualcosa, di fare, non fare, diventare o non
diventare qualcosa; è una relazione triadica. Assumendo il modello ‘x è (non è) libero da y di fare (non fare, diventare o non
diventare) z’, x sta per gli agenti, y
per le condizioni di impedimento quali vincoli, restrizioni e barriere, e z per le azioni o condizioni di
carattere o di circostanza. Quando in una discussione sulla libertà manca il
riferimento a uno di questi tre termini, ciò dovrebbe avvenire solo perché si
pensa che il riferimento sia comprensibile dal contesto della discussione[3]
Se però ci dovessimo
limitare a considerare tale definizione, in essa il definiens conterrebbe il definiendum[4],
quindi non sarebbe sufficiente, dato che rimanda a una nozione di già acquisita
di “libertà”, che viene poi declinata sotto vari profili, ma restando ancora
piuttosto misterioso in che cosa poi la “libertà” consista: che cos’è la
“libertà”? La “libertà” di fare, o locuzioni sinonimiche, del tipo “facoltà di
scelta”, salvo distinguere “libertà” da “scelta”[5],
come se la libertà non consistesse nella sussistenza di condizioni che
consentano di effettuare scelte[6]. D’altra
parte quella libertà presuppone una “capacità di agire”, ossia l’essere in
condizione, almeno potenziale, di compiere una determinata azione, che però
viene in qualche modo impedita nel proprio svolgimento. Si apre così il vaso di
Pandora della questione del libero arbitrio e del determinismo[7]:
una discussione sulla nozione di libertà in termini analitici, la quale
prescinda da tale questione, dà quindi già per risolto questo problema
preliminare in favore della configurabilità del primo; accolgo per convenzione tale
presupposto normativo, in mancanza del quale, in effetti, tutta la discussione
perderebbe gran parte del proprio significato. Il terzo elemento viene però
così riassorbito nel primo, perché è difficile contestare che, se si sta
parlando di un agente, il quale ponga in essere una determinata azione, in
forza della propria capacità di agire e sulla base del proprio libero arbitrio,
egli, se è individuo razionale e non totalmente folle o completamente incapace
di intendere e di volere, si proporrà un qualche scopo da raggiungere,
dotandosi di un criterio di condotta, ponendo così una propria linea
direttrice, il proprio “diritto”[8]. Altra
questione è che poi vi sia coerenza tra mezzi e fini, dato che l’agente, in
quanto essere umano, è sempre “fallibile” e, al di là della sua personale propensione
a pianificare le proprie azioni, gli effetti inintenzionali di queste non sono
nella sua disponibilità; ma ciò non può costituire pretesto per invocare limitazioni
di libertà, dato che chi lo facesse non sarebbe meno fallibile di lui. Che poi la
razionalità non sia inquinata da “residui” e “derivazioni” in senso paretiano,
o da altre componenti irrazionali comunque denominate, diviene questione anche di
condizionamenti, di livello di intelligenza e di cultura della persona, di psicologia,
psicanalisi, talora di psichiatria, e si tratta probabilmente di questioni
relativamente estranee alla nostra disamina. Semmai va sottolineato come, con
riferimento al terzo elemento, Ian Carter sottolinei che la libertà abbia
valore non-specifico[9],
vale a dire indipendente dal contenuto particolare della direzione, verso la
quale l’azione sia rivolta. Si tratta quindi di nozione formale, di
meta-concetto onnicomprensivo, quindi liberale e non moralizzato, anche se non
si comprende la necessità di ricorrere a un’espressione “negativa”, quando
“specifico” possiede già un proprio contrario, che si attaglia perfettamente,
ed è generico: la libertà è nozione
“generica” (o generale) in quanto riferita a qualsiasi sorta di condotta si
intenda porre in essere, al di là di arbitrari giudizi di valore, a loro volta
intesi a limitare lo spazio di libertà; oltretutto eludendo l’onere di
giustificazione, se non nel senso di arrogarsi diritto e potere di stabilire
quando l’azione altrui sarebbe “autentica” o espressione di libertà davvero
“significativa“ o virtuosa”[10]:
come se ognuno non fosse arbitro e sovrano di quanto sia significativo per sé,
dato che i giudizi di valore sono inevitabilmente soggettivi, il che peraltro
non costituisce ostacolo all’intersoggettività e all’incontro. Ma se sono
soggettivi i giudizi di valore di chi agisce, sono tali anche quelli di chi
giudica dall’esterno, e quindi non godono di statuto superiore, tale da
inficiare la capacità di azione del primo.
Precisato questo
carattere formale della libertà, l’attenzione viene però di più attratta dal secondo
elemento: il vincolo, la restrizione, l’interferenza o barriera. Ossia, in
definitiva, dal concetto di coercizione:
la libertà andrebbe perciò definita empiricamente, ex negativo, una volta individuato, attraverso un procedimento di
demarcazione, in che cosa consista un atto o un fatto coercitivo, per
distinguerlo da ciò che coercitivo non sarebbe, e che impedisce di compiere quella
determinata azione che l’agente sarebbe intenzionato a compiere, o sta in atto
compiendo. Ovvero la disturba, o pretende di punire una volta che sia stata
compiuta. Una prima opera di pulizia consiste nell’eliminare, come
correttamente intende Ian Carter, gli elementi naturali e materiali, in
coerenza con una lunga tradizione: la forza di gravità, ad esempio, non limita
la nostra libertà, perché fa parte del quadro naturale nel quale operiamo: così
come il fatto che i più non possono stare un’ora sott’acqua senza respirare, o
volare e nuotare contemporaneamente, od occupare lo stesso identico spazio
occupato da un’altra persona, almeno fino a conquiste tecnologiche, per ora note,
in parte, solo alla fantascienza.
Discorso leggermente diverso è quello relativo alle patologie, che minano la
capacità di agire della persona, ma anche qui non faremmo questione di
“libertà”, che formalmente resta la medesima, ma semmai della capacità, dell’essere
in grado, di esplicare effettivo potere.
A questo proposito, però, l’autore azzarda un confronto, a mio avviso
impreciso, tra la posizione di von Hayek sul punto, e quella di alcuni teorici
dello Stato sovietico[11]:
l’uno e gli altri, infatti, avrebbero ricondotto a ostacolo prevedibile (come appunto la forza di
gravità) l’immanenza dell’ordinamento giuridico. Su questo punto tornerò più
diffusamente, anzi, il tema sarà qui centrale. Qui però sia consentito di
rilevare una profonda differenza tra il modello, al quale faceva riferimento
Hayek, quello di rule of law e di
governo della legge generale e astratta (isonomia),
e quello dei sovietici, fondato sull’economia di piano, quindi discrezionale,
ossia sul ricorso generalizzato alla legge-provvedimento[12],
l’esatto opposto della legge generale e astratta, il proprium di un ipotetico Stato di diritto ideale. Eliminati,
quindi, dall’universo osservato, i fattori naturali limitanti l’agire
dell’essere umano (forza di gravità, etc.), non rimane che far riferimento alle
azioni limitanti o impedienti, provenienti da altri esseri umani; fermo restando
che resta aperta la questione se anche l’incapace, il folle, e il minore godano
di libertà di azione nel senso della “facoltà naturale”; sotto tale profilo,
pare da rettificare l’affermazione che la persona agisce liberamente solo se
“dotata di capacità di scelta”[13],
se non si precisa che, o tutti gli esseri umani ne sono dotati, ognuno a
proprio modo, ovvero si sta escludendo qualcuno; e allora occorre comprendere
chi, e sulla base di quali criteri, che sarebbero soggettivi, oltre che
discriminatori nei confronti di coloro i quali siano variamente considerati
“minorati”.
Ecco allora che si
torna al concetto di coercizione, che dovrebbe consentire, ex negativo, di comprendere in che cosa consista la “libertà”. Tale
coercizione, quindi, è opera umana, non di fonte naturale: abbiamo fronte a
fronte un soggetto che vorrebbe esprimere la propria capacità di agire, il
proprio potere, e qualcuno che glielo impedisce o cerca di impedirglielo. Se
così è, se questo è il quadro, esso va riguardato nel suo assieme, non solo dal
punto di vista, che rischia di rivelarsi analiticamente asfittico, del singolo
agente. In altri termini, va fotografata e compresa una situazione indivisibile[14].
Ed ecco allora che tale considerazione ci consente di aprire il discorso sulla
misurazione della libertà; ma occorre preliminarmente passare dalla
comprensione di che cosa debba intendersi per coercizione; ma anche tale
discorso richiede a sua volta una premessa.
2.
L’indennizzo per lesione di libertà
negativa e i cosiddetti “fattori economici impersonali”.
Val la pena di
considerare una questione molto importante, che, come Ian Carter ricorda, viene
posta in particolare dagli scrittori di orientamento che egli definisce
“socialista”; e cioè se “fattori economici impersonali quali la disoccupazione
o la povertà” costituiscano vincoli alla libertà[15]. A
mio avviso, la questione va impostata diversamente. Soccorre in proposito il
marxista analitico G. A. Cohen, il quale pone la questione della proprietà
privata proprio come lesione della libertà negativa[16].
In effetti, in termini non moralizzati, prescindendo dalla pretesa di
giustificare eticamente la proprietà (con il lavoro della terra o con l’homesteading comunque inteso), chi erige un muro di cinta non fa che
limitare la libertà di circolazione (e, richiamando l’invocazione di Rousseau nel “Discorso”, saremmo legittimati a demolire
quel muro), quindi lede la libertà negativa. Occorre muovere da una premessa
logica: le parole –né comportamenti materiali come l’impossessamento- di A non possono
costituire mai unilateralmente obblighi morali o giuridici in capo a B[17]. Ciò
non comporta che gl’impossessamenti individuali siano, sempre in una
prospettiva non moralizzata, a loro volta “illegittimi”, semplicemente,
inferendosi dall’assioma della non giustificazione dell’obbligo unilateralmente
imposto che la Terra nasce res communis e
non res nullius, gl’impossessamenti
comportano indennizzo nei confronti di
chi in ipotesi rimanga sprovvisto, in violazione del lockean proviso[18],
di possesso. Ovvero, a contrariis, il
fatto che la lesione di libertà negativa comporti necessariamente indennizzo,
diversamente essa sarebbe priva di valore, implica che si stia indennizzando il mancato possesso di qualcosa che era già anche del beneficiario
dell’indennizzo, dunque res communis[19].
Ragiona in termini di
“risarcimento” delle limitazioni di libertà Robert Nozick[20].
Preferisco la dizione “indennizzo” a “risarcimento” nel rispetto dell’approccio
non moralizzato: la nozione indennizzo riguarda infatti atti leciti (si pensi
alla “responsabilità per atto lecito della pubblica amministrazione”, che
comporta indennizzo e non risarcimento del danno, come nel caso dell’espropriazione
per pubblica utilità), mentre quella di risarcimento presuppone la
qualificazione dell’atto in termini di illecito, giuridico o morale[21]. Senonché,
indennizzare i non possessori per la
violazione della loro libertà negativa comporta il superamento stesso della
distinzione tra libertà negativa e libertà positiva[22]
(nonché, si direbbe, della distinzione tra libertà e giustizia[23]),
dato che questa viene tutelata immediatamente attraverso l’indennizzo del danno
procurato alla prima, consentendo al deprivato dei diritti sulla Terra, della
quale originariamente sarebbe “comunista in senso civilistico”, il
sostentamento (“rendita di esistenza”) e quindi una libertà di azione non solo
in astratto, ma concretamente tale, in una situazione di “giustizia”: la
libertà negativa, attraverso l’indennizzo della propria lesione, acquisisce
sostanza materiale[24],
e si sottrae alla critica degli autori di sinistra o dei comunitaristi come Charles
Taylor.
Quelli che ai
“socialisti” appaiono “fattori economici impersonali” rappresentano perciò vere
e proprie lesioni, personali, di libertà negativa. Lo si ricava dal
ragionamento sotteso al capitolo XXIV del libro I del “Capitale”, nel quale
Karl Marx ricostruisce i processi dell’“accumulazione originaria”: il
capitalismo inglese sorgerebbe dalla spartizione privatistica dei commons attraverso le forzose enclosures; in conseguenza di tale
fenomeno, i contadini fuoriusciti venivano costretti all’urbanizzazione forzata,
al vagabondaggio e alla mendicità; ma, data la feroce legislazione vigente al
riguardo, quei contadini venivano di fatto trasformati costrittivamente in
operai di fabbrica, e quindi in schiavi del lavoro salariato. E non, si badi,
in quanto il lavoro salariato sarebbe in sé schiavitù, dato che potrebbe
costituire espressione di preferenza temporale e di avversione al rischio; ma
in quanto lo diviene in conseguenza della costrizione che ne viene posta a
fondamento[25]:
pace lo stesso Marx, quindi, lo
sfruttamento non ha fondamento “economico”, ma politico-giuridico e fondato
sulla forza[26],
ossia la violazione generalizzata della libertà negativa di coloro i quali
vengono costretti a farsi “lavoratori salariati” e dar vita al dumping tra proletari, tenendo cioè il
salario a livelli di sussistenza, per guadagnarsi, in competizione, un “posto
di lavoro” indesiderabile nelle condizioni storiche date; cosa resa inevitabile
dall’assenza, ora come allora, di un indennizzo originario (rendita di
esistenza). Senonché –vengo al punto- tutto ciò non può essere liquidato come
“fattore economico impersonale”, ma come una serie di atti di forza e di
violenza “personali” e puntuali, con responsabili, se non determinati, almeno
determinabili, anche alla luce dell’insegnamento della public choice e del suo individualismo metodologico, che vede
dietro la lotta politica sempre individui precisi, ognuno dei quali incentivato
all’autointeresse[27]
(ad analoghe conclusioni condurrebbe un approccio realista-politico). Quale sia
poi la ragione per la quale tale incentivo produca effetti opposti a quelli
dell’analogo incentivo nel mercato libero teorico, ossia effetti da “mano
invisibile alla rovescia”, deriva dal fatto che lo Stato non è un mercato
aperto, ma un’asta chiusa monopolistica, burocraticamente organizzata, che
verticalizza, distribuendole dall’alto verso il basso, le esternalità, invece
di internalizzarle, come vorrebbe la scuola dei property rights[28];
e dal conseguente elemento che gli accordi che lo costituiscono non sono scambi
che avvantaggiano tutte le parti in causa, ma contratti in danno di terzo, in cui ogni beneficio o privilegio
viene accordato in funzione di un danno, di un’esternalità negativa procurata
ad altri ignari, dato che la legislazione non correla in modo trasparente
benefici e svantaggi, ma li scinde, dimodoché, attraverso la lettura
dell’alluvionale legislazione quotidianamente sfornata, non siamo mai in grado
di verificare, per ogni vantaggio legislativo, chi ne sia il correlato danneggiato,
e viceversa: mentre nei liberi contratti stipulati nel mercato libero le parti
sono consapevoli di sé e della propria controparte.
3.
La nozione di “coercizione”.
E venuto il momento di
prendere di petto la nozione di coercizione,
come metro in grado di aiutarci a comprendere, per antitesi, in che cosa la
situazione di libertà consista. Robert Nozick, nel suo saggio Coercion[29],
propone una serie di casi (distinguendo minaccia da offerta[30] e
da avvertimento), ma il suo approccio, pur dettagliato, rimane indeterminato,
perché, pur ponendo la minaccia come
requisito necessario (e quindi però anche sufficiente) per potersi configurare
coercizione, non è molto chiaro se vi siano restrizioni di oggetto della minaccia: non è detto in termini sufficientemente nitidi
se si debba trattare di minaccia di atto di vera e propria violenza fisica,
psichica, o altro. Si veda anche la diversità di opinione tra lui e Walter
Block in materia di ricatto (non
violento, ossia in assenza di minaccia di ricorso all’uso della violenza), che
per Block sarebbe “scambio produttivo”, mentre per Nozick sarebbe
“improduttivo”; e dal fatto che sarebbe “improduttivo” Nozick ne ricava il
carattere illegittimo[31].Probabilmente,
il primo a parlare di “rapporti economici disproduttivi” fu Lindley M. Fraser,
ma propose un esempio poco convincente, in quanto comunque fondato
sull’adesione volontaria delle parti allo scambio, non sulla coercizione di una
nei confronti dell’altra. L’esempio è questo: lo studioso Fraser, mentre lavora
nella sua stanza, è disturbato da un organetto che suona per la strada. Accetta
allora di corrispondere al proprietario dell'organetto denaro per farlo
smettere. In tal caso, secondo Fraser, il rapporto sarebbe “produttivo” per
l'organettista, che ottiene del denaro per non far nulla, e disproduttivo (disproductive) per lo
studioso, il quale rinuncia a del denaro per rimanere nello stato in cui si
trovava prima dello scambio[32]. La
spiegazione non convince: l'organettista aveva un diritto di suonare non
inferiore a quello dello studioso di studiare, dato che la strada è pubblica e
non di proprietà dello studioso. Pertanto si può immaginare la situazione
esattamente inversa: che sia l'organettista a pagare lo studioso per poter
continuare a suonare, dato che lui suonando può continuare a guadagnare da
altri. Le parti, in entrambe le ipotesi, darebbero vita a una valutazione di
convenienza identica a quella che avviene in qualsiasi scambio: se valga di più
la somma di denaro corrisposta o la prestazione che si consegue; e una
prestazione può essere anche omissiva, può cioè consistere in una rinuncia. Se
si entra in simili ordini di idee, il concetto di coercizione diviene eccessivamente
esteso. Si pensi alla recente vicenda del “boicottaggio” subito da “Dolce &
Gabbana”, per le dichiarazioni dei due stilisti avverse all’adozione di minori
da parte delle coppie omosessuali. Sulla questione vi sono state polemiche pretestuose,
dato che l’appello al boicottaggio è una modalità lecita nel mercato, ne fa
parte integrante, in forma di exit e voice, per dirla con Albert O.
Hirschmann[33].
Per converso, appare eccessivamente restrittivo l’approccio di Murray Rothbard,
per il quale solo la minaccia di uso della forza fisica (oltre che l’uso
diretto) rappresenterebbe illegittima invasion[34]:
il concetto di aggressione al corpo è troppo indeterminato, dato che non si
comprende quanto vicino al corpo si debba arrivare e con quale intensità, tanto
più che, nell’impostazione dell’anarco-capitalista, la medesima tutela
accordata al corpo si estende ai beni di proprietà (e all’adempimento
contrattuale); sicché la vaghezza diviene assoluta, se non si condividono i
presupposti indicati per divenire
“proprietari”. Sul punto intendo proporre un approccio diverso: dato che free, in inglese, significa tanto
“libero”, quanto “gratuito”, val la pena di cogliere tale non casuale coincidenza
terminologica, per accostare la nozione di coercizione, quindi di situazione illibera,
alla presenza di costi da sopportare
per porre in essere una certa condotta: costi vivi, costi di transazione, costi
di transizione, costi di informazione, costi-opportunità, costi irrecuperabili,
etc. Senonché, anche con riferimento a ciò che rappresenta “costo”, possono convivere
preferenze diversificate tra le persone (e anche, per chi nutre dubbi sul dogma
della transitività, anche all’interno della persona stessa), e comunque si
dovrà pur sempre distinguere tra costi imposti -minacciare comporta
l’imposizione di un costo per il destinatario della minaccia-, costi affrontati
deliberatamente e costi naturali. E allora dobbiamo immaginare di collocarci in
una situazione originaria, nella quale però, a differenza che in Rawls, viga
non il “velo di ignoranza”, ma il “velo di consapevolezza”. Rawls, in
situazione originaria, sulla base del velo di ignoranza -che però ammette la
conoscenza dei principi fondamentali della politica, dell’economia, etc., e
quindi, sotto tale profilo, è un “velo di cultura”- fonda in definitiva due
scelte: il criterio del maximin valido
per tutti[35],
e lo Stato come strumento di garanzia delle “libertà” poste al primo posto
nell’ordinamento lessicografico, oltre che per implementare le politiche di
giustizia sociale di cui al secondo posto dell’ordinamento stesso. Così
facendo, però, Rawls –dimostrandosi pessimo filosofo politico, in quanto
prevalentemente filosofo morale- ribalta il suo ordinamento dato che lo Stato è
istituzione ad appartenenza necessaria per definizione di diritto
costituzionale (inoltre nessuno si sottrae all’accertamento costitutivo
dell’anagrafe), e quindi viola di per sé il principio di libera associazione,
che a rigore appartiene al primo grado dell’ordinamento lessicografico, che
pure, ove preso alla lettera, sarebbe foriero di importanti implicazioni, e in
effetti lo stesso Rawls allude all’ipotesi della non necessarietà del
monopolista della forza.
Rawls parrebbe quindi a
tutta prima condividere l’idea, poi espressa da Stiglitz, per la quale lo Stato
sarebbe un “monopolio naturale”[36];
ma si tratta di idea tecnicamente infondata (la forza è pre-risorsa pandespota,
a disposizione di ciascuno, e quindi non è appropriabile monopolisticamente[37],
come del resto riconosce il “jeffersoniano” II Emendamento della Costituzione
USA), e comunque storicamente superata, dato che persino il Trattato
dell’Unione Europea sostiene il contrario (basta scorrere la giurisprudenza
della Corte di Giustizia), e cioè che si tratta di un monopolio artificiale, che la tecnologia mostra di essere in grado
di superare e sostituire con la libera concorrenza. Il Trattato consente ancora
che alcune funzioni sovrane di servizio pubblico siano di attribuzione del
monopolio coattivo, ma non lo impone, lo autorizza,
incorrendo però in rischio di contraddizione, come ha riconosciuto esplicitamente
l’Avv. Generale Tesauro[38]. Posizioni
come quella di Stiglitz portano poi al paradosso, secondo il quale lo Stato
avrebbe la funzione di controllare i monopoli, ma lo Stato è il monopolio dei
monopoli, crea monopoli con i brevetti, i marchi, i copyrights, le concessioni. E chi controlla il monopolio Stato? I
pesi e contrappesi, si dirà, salvo che si tratta sempre delle stesse persone
che recitano le diverse parti in commedia. Resta l’appello al Cielo di Locke,
ma la rivoluzione è un bene pubblico indivisibile, che, in assenza di organismi
dall’alto in grado di implementarla, presenta costi di transazione piuttosto
elevati, ed è esposta a frustrazioni da free-riding.
In realtà il velo di
ignoranza non funziona perché le persone sono titolari di scale di preferenze
diverse; non si comprende, infatti, perché la società dovrebbe imporre il maximin a tutti: ad esempio, chi scrive
preferirebbe il criterio dell’expected
value[39],
ma Rawls proibirebbe tale atteggiamento, dato che, in situazione originaria, nella
quale avvengono le scelte fondamentali, il maximin
è “obbligatorio”. Ma visto che, per lo stesso Rawls, il velo di ignoranza è
in buona parte un “velo di cultura”, nessuno esprimerebbe, partendo da una
situazione originaria, una preferenza nella direzione del monopolista della
forza e del diritto (e quindi dell’unicità del criterio sulla base del quale
operare le scelta), perché trasferendo ad esso ogni potere, non vi sarebbe
alcun modo di garantire i diritti che ci si intende riservare, dato che la loro
protezione sarebbe comunque affidata al monopolista delegato non solo di
produrre diritto, ma anche di garantire, versando nel conflitto di interesse
proprio dei rapporti unisoggettivi e dei contratti con sé stesso, anche i
diritti che non gli sarebbero stati
affidati quanto a produzione diretta: lo Stato, dopo aver concentrato tutto il
potere che gli sarebbe stato delegato dagli individui in situazione originaria,
dovrebbe essere anche soggetto al controllo da parte di questi ultimi, ma non è
affatto chiaro come ciò sia logicamente sostenibile.
Sarebbe come un
confronto tra due persone armate, che passasse per il disarmo dell’una e il
trasferimento della sua arma nelle mani dell’altra, e si concludesse con la
capacità dell’armato di convincere il disarmato di stare tranquillo, perché
l’uso delle armi da parte sua, dell’armato, sarà soggetto al vigile controllo
da parte dell’altro, del disarmato. Per quanto poi riguarda le diverse funzioni
di servizio pubblico, dato che il velo di ignoranza ammette conoscenze sulla
base delle scienze economiche e politiche (escludendo solo quelle sulle
condizioni personali), qualcuno potrebbe informare le parti dell’ampia
letteratura sulla produzione di mercato o comunitaria dei beni e dei servizi
pubblici[40].
Per valutare invece su
quale focal point convergere, in situazione originaria, per
stabilire in che cosa consista la coercizione (illegittima), occorre sottrarsi
a considerazioni ideologiche o troppo restrittive, ma affidarsi all’id quod plerumque accidit, come
elaborato ab immemore dalla dottrina
civilistica e penalistica, le quali hanno fornito nozioni di violenza e di
minaccia molto articolate, che tengono conto delle varianti soggettive: dato
che timore e paura[41],
che a mio avviso sono il focus
attorno al quale la nozione di coercizione si sviluppa (che il potere sovrano si
fondi sulla paura è un luogo comune della più lucida letteratura reazionaria),
variano di grado a seconda degli individui. Così come il “fisicalismo”
rothbardiano non è integrale, dato che sanziona come illecita anche la fraud[42], civilisticamente
la violenza è soggetta allo stesso regime giuridico (annullamento e non
nullità) di errore e dolo, con ciò riconoscendo la sovranità del soggetto nell’attivarsi
e, quindi, sulla sussistenza in sé di un sentimento di coartazione subita oppure
no[43].
E lo stesso avviene nel diritto penale, dato che la minaccia è punita a querela
della persona offesa (art. 612 c.p.)[44].
4.
La coercizione sistemica nelle
relazioni con lo Stato.
L’approccio analitico mainstream risulta eccessivamente
concentrato sulle situazioni particolari, perdendo di vista le situazioni di
insieme, che vengono poco persuasivamente affrontate solo al livello
dell’esemplificazione. Si perde così di vista in buona parte la coercizione di
sistema dello Stato[45],
o comunque dell’ordinamento giuridico in generale (lo “Stato” non è menzionato
nell’indice analitico de “La libertà eguale”) e del sistema sociale[46]. Viceversa,
se si ammette che la “minaccia” dell’uso della violenza sia sufficiente a
individuare ipotesi coercitive[47],
l’ordinamento giuridico è minaccia sistematica e coercizione sistemica, dato
che ciascuna norma (il modello è la norma penale, il tipo che più di ogni altro
esprime il predominio dello Stato) che lo costituisce è linguisticamente conformata
nei termini della minaccia[48],
rivolta alla generalità delle persone, in senso tecnico e proprio: «Chiunque commette un fatto diretto a
sottoporre il territorio dello Stato o una parte di esso alla sovranità di uno
Stato straniero, ovvero a menomare l’indipendenza dello Stato, è punito con la
morte» (art. 241 originario del codice penale, non a caso il primo reato
della parte speciale del codice Rocco, il cui Titolo Primo si occupa esattamente
«Dei delitti contro la personalità dello
Stato»). Si potrebbe sostenere che una minaccia di per sé, in quanto non
costrittiva direttamente sul corpo fisico, ma solo sulla psiche delle persone,
non varrebbe a comportare coercizione o limitazione di libertà, che rimarrebbe
impregiudicata, dato che ognuno potrebbe
ritenersi autorizzato ad ignorare la minaccia stessa[49].
A mio avviso -pur ammesso che una minaccia comporti una comunicazione,
un’informazione nell’ambito del mercato della forza-, si tratta però di
distinguere la minaccia seria da
quella priva di tale carattere.
Occorre però ammettere
che la minaccia dello Stato, delle sue norme, del suo apparato militare, poliziesco
e burocratico[50], giudiziario,
carcerario, manicomiale, sia piuttosto “seria”, in quanto in grado di venir implementata direttamente con la violenza. Questo
non vale per ciascuna delle sue prescrizioni, date inefficienza e inflazione
normativa, sicché i mezzi di implementazione costituiscono risorsa scarsa
rispetto all’immensa vastità delle norme giuridiche che devono essere
applicate: un cartello stradale, dimenticato sull’autostrada dopo i lavori di
manutenzione, indicante il limite di 20 kilometri orari di velocità, non
sarebbe credibile e non esplicherebbe funzione deterrente. Ma, di regola, le
persone considerano credibile la minaccia normativa, pur variando la sua
capacità di impatto[51],
da norma a norma, da persona a persona.
Le norme giuridiche
dell’ordinamento statuale, per come sono conformate linguisticamente, rappresentano
proposizioni probabilistiche, descrittive e costitutive delle modalità
procedimentali e delle condizioni della loro propria realizzazione empirica: la
disposizione penale sopra indicata, nel concorrere a costituire l’ordinamento,
descrive un possibile stato delle cose, il cui inveramento è affidato agli
organi dello Stato incaricati dell’applicazione attraverso le procedure
previste (procedimento e processo); ma si tratta di un’ipotesi empirica,
subordinata alla capacità dell’enunciato di correlarsi fattualmente in forza della
sua adeguatezza, tanto nell’oggetto (che rivendica attitudine
all’universalizzazione), quanto nella sua capacità, collegandosi alle
disposizioni procedimentali e processuali, di radicarsi nella realtà[52].
Tutto ciò va quindi confermato sul campo, non è dato a priori: è quindi possibile che le disposizioni risultino “falsificate”
dalla disapplicazione, più o meno diffusa, data comunque la selettività
discriminatoria propria nell’implementazione ex officio[53]
e non su istanza della parte interessata. Discorso in parte diverso
potrebbe essere svolto per le disposizioni di diritto civile, quante volte esse
forniscano la descrizione di istituti, messi a disposizione del libero uso
delle parti, quali istruzioni e, proprio nel senso della teoria dei giochi,
“giochi risolti”[54]
a loro disposizione: ma anche in tal caso la loro adeguatezza viene verificata
nella loro capacità di adattarsi all’uso, sicché si tratta pur sempre di
enunciati empirici, oltre che analitici.
In ogni caso, in
presenza di un diffusa normazione conformata nei termini della minaccia
potenzialmente efficiente, la situazione generale, vista da tale punto di vista,
è puramente e semplicemente di non
libertà, ossia di coercizione generalizzata: vi potrà essere, di volta in
volta, maggiore o minore coercizione, maggiore o minore subordinazione, sia
complessiva che interindividuale, ma non si
dà situazione indivisibile di libertà: la libertà è un concetto
tutto/niente, e non è “misurabile”, e ciò che sarà misurabile è, semmai, il
tasso di coercizione presente, il tasso di subordinazione che l’accompagna
specularmente.
Ad esempio, secondo Felix
Oppenheim la tassazione non sarebbe indice di coercizione[55]. Tale
posizione ignora quanto espresso dalla cultura libertaria da almeno
centosettanta anni a questa parte. Si pensi (tralasciamo il riferimento
contestuale al diritto penale, che ci porterebbe troppo lontano[56]) alla
resistenza fiscale di Thoreau[57],
alla discussione di Lysander Spooner sul carattere non vincolante di una
Costituzione che nessun cittadino americano aveva mai sottoscritto e, di
conseguenza, sull’abusività della tassazione[58]; o
a Benjamin Tucker, che alcuni considerano un “socialista”, il quale considerava
però robbery la tassazione stessa[59]. Ma
già Pierre-Joseph Proudhon, in un saggio del 1849, ricollegava direttamente il
libero credito monetario, privo di ancoraggio aureo, all’abolizione delle
imposte, quali soluzioni congiunte del problema sociale[60]. Di
recente, è stato David Graeber (teorico di riferimento di Occupy Wall Street) a individuare nelle vicende fiscali,
intrecciate con quelle del debito, il fil
rouge dell’oppressione lungo il percorso storico[61].
D’altra parte, se
Oppenheim non ravvisa “coercizione” né nell’imposizione fiscale, né nel carcere[62], non
si comprende proprio di che cosa parli: forse delle liti di vicinato. La
negazione della libertà come spazio comune alle parti conduce a un certo punto
l’autore a ritenere che Hitler sarebbe stato l’uomo più “libero” del suo tempo[63]. Semmai,
si dirà che il dittatore è dotato di potere
coercitivo particolarmente intenso[64],
non certo fonte di manifestazione di libertà, tanto più che il carcere incatena
anche il secondino; ma un abbaglio simile è proprio il frutto del non aver
compreso come la libertà sia piano indivisibile tra più soggetti, tra tutti gli
individui dell’umanità, e non può essere verificata esclusivamente
appuntando l’attenzione sull’agire di un unico uomo, senza verificare le
ricadute sugli altri della sua condotta.
A proposito di tassazione,
riteniamo di fare un passo ulteriore, muovendo da un errore logico di Robert
Nozick a proposito di applicazione del principio di risarcimento. Nozick[65]
immagina che, in una situazione simile allo stato di natura di Locke, agli
“indipendenti” free riders sia
impedito l’esercizio della giustizia privata, sulla base della supposta
pericolosità delle loro procedure. Di ciò si farebbe carico l’”agenzia
dominante” (che darebbe così vita però a una fattispecie di abuso di posizione dominante), costituendosi
in monopolio di fatto. Un monopolio di fatto, il quale concentri in proprie
mani tutte le armi, possiede però un formidabile incentivo a divenire monopolio
di diritto, tant’è che l’agenzia dominante trasmuta in Stato ultraminimo. Lo
Stato ultraminimo fornisce servizi solo agli acquirenti delle sue polizze: ma,
dato che il servizio di protezione, in quanto bene pubblico, viene ritenuto da
Nozick indivisibile, lo Stato ultraminimo, in lettura edulcorata, “fornisce a
tutti il servizio di protezione”, e diviene Stato minimo vero e proprio; e ciò
con un salto indietro di oltre un secolo rispetto a Gustave de Molinari[66],
il quale riteneva invece che il servizio di protezione fosse divisibile e
ammettesse concorrenza. Nozick esce dall’empasse
affermando che, poiché il servizio di protezione sarebbe appunto indivisibile,
lo Stato ultraminimo sarebbe “moralmente obbligato” a trasformarsi in Stato
minimo, e quindi a fornire il servizio stesso anche agli indipendenti, ai quali
era stato proibito l’esercizio della giustizia privata. Ecco quindi che la
proibizione verrebbe “risarcita” mediante la prestazione di quel servizio.
Senonché il
risarcimento deve andare a vantaggio del danneggiato, non a svantaggio; invece
qui siamo di fronte al cumulo di due svantaggi: la proibizione dell’esercizio
della giustizia privata e l’imposizione di un servizio non richiesto –il
giudizio se le esternalità siano da considerarsi positive o negative è
soggettivo-, a pretesa compensazione di quella primitiva proibizione. Non si
comprende, infatti, come l’autore del danno possa stabilire unilateralmente il
contenuto della prestazione risarcitoria, indipendentemente dalle preferenze
del danneggiato che andrebbe risarcito. A questo punto, se tale presunto
risarcimento vale a fondare la validità della proibizione iniziale, sarebbe
stato preferibile che gli indipendenti fossero stati risarciti in moneta: medium universale, che avrebbe consentito loro di scegliere sul
mercato, sulla base delle loro effettive preferenze, in quale modo, con quali
beni della vita, riparare il danno subito. Ciò in quanto le persone sono
titolari di scale di preferenze diverse, mentre Nozick presume che tutti
accettino di buon grado, quale risarcimento, un servizio di protezione armato
che potrebbe essere non gradito loro (ad esempio in quanto pacifisti
nonviolenti), nel senso che qualcuno potrebbe ritenere negativa
quell’esternalità, che Nozick dà per scontato sia considerata positiva da tutti.
Sicché, in definitiva,
l’agenzia dominante, nel suo processo di trasformazione in Stato minimo,
finisce con l’esercitare coercizione verso gli indipendenti due volte: quando proibisce, e quando
impone una modalità risarcitoria non richiesta, che potrebbe essere ritenuta
addirittura dannosa: protezione e oppressione si identificano e si
sovrappongono, perché l’indivisibilità, se c’è, vale anche da tale punto di
vista[67]
Soluzione paternalistica, dato che Nozick sostituisce proprie valutazioni sul
carattere positivo o negativo delle esternalità al giudizio degli interessati. E
sempre che abbia poi senso una protezione anche “scelta”, dato che comunque si
tratta pur sempre di delegare l’armamento a qualcuno, e quindi legarsi mani e
piedi a lui, una volta che gli hai delegato l’uso delle armi; difficoltà che lo
stesso pensiero anarco-capitalista sulle agenzie di protezione non supera, ove
non giunga alla conclusione di armare –almeno in senso metaforico- la comunità direttamente.
Ecco allora che analogo
discorso possiamo svolgere con riferimento alla tassazione, a sua volta fondata
su di una circolarità paradossale: che il cittadino non solo è subordinato allo
Stato predatore[68]
e al potere che lo esprime, ma “paga” anche (le “imposte”) per esserlo; viene così
coartato due volte: in origine, e quando viene costretto a pagare per tenere in
piedi l’apparato di coercizione, sicché lo Stato concentra su di sé le due
funzioni di controllo e di servizio, finendo con il sovrapporle e col farle
coincidere, dato che l’oggetto del servizio è elaborato unilateralmente;
mentre, a rigore, visto che presta il proprio consenso all’autorità, il cittadino non dovrebbe pagare, ma andrebbe
compensato in cambio del consenso che
presta; e ciò in soluzione del
mistero di Etienne de La Boétie, per il quale il consenso viene prestato gratis per ragioni incomprensibili («quale orribile vizio vedere un numero
infinito di uomini non obbedire ma servire”[69]).
Diversamente non vi sarebbe “scambio”, né “contratto sociale”, nemmeno
metaforico: fondamento logico della rendita di esistenza, ulteriore rispetto
alla sola perdita del compossesso sul territorio nelle relazioni tra privati[70]. Ora,
se questo è il quadro, per cui la coercizione va considerata in quanto sistema, e non come relazione binaria
tra un soggetto A e un soggetto B, lo stesso vale per la nozione di “libertà”
in quanto tale, che è una situazione, uno spazio, un bene pubblico
indivisibile, nel senso proprio in cui si parla di bene pubblico nella scienza
economica, anzi, in un’accezione ulteriormente evoluta.
5.
La libertà come spazio comune
incommensurabile.
Secondo Isaiah Berlin,
nella società ideale, costituita da
esseri pienamente responsabili, le regole scomparirebbero lentamente, perché
sarei a malapena consapevole della loro esistenza. Un solo movimento sociale fu
abbastanza audace da rendere del tutto esplicita questa assunzione e da
accettarne le conseguenze, quello degli anarchici. Ma tutte le forme di
liberalismo fondate su una metafisica razionalistica sono versioni più o meno annacquate di questo articolo di fede[71].
La libertà negativa di
cui trattano i filosofi politici analitici, dei quali Ian Carter si propone
come punta, si direbbe la versione liberale annacquata della libertà. Ma
annacquata non solo rispetto a quella anarchica, ma anche rispetto a quella
liberale bene intesa. Andiamo per gradi. Secondo lo studioso anarchico Salvo
Vaccaro,
il pensiero anarchico effettua da sempre
uno scarto teorico rispetto al liberalismo proprio sulla questione della
libertà: il liberalismo assegna uno spazio predeterminato di libertà a ciascuno
in relazione alla delimitazione più o meno statica dell’analogo spazio assegnato all’altro con cui si entra in
contatto, con l’effetto di ridimensionare la libertà, riducendola per entrambi
i partner. Al contrario, rinarrata sotto la luce convergente di teoria
anarchica e postmoderno, la libertà si deessenzializza per rilanciarsi come processo
espansivo di liberazione che mai raggiunge una saturazione stabile e definitiva
–nemmeno nel regno dell’anarchia…- e pertanto in tale gioco agonale non si dà
limite precostituito (costituzionalizzato, direbbero i liberal-democratici),
bensì ogni spinta produce beneficio diffuso e gli eventuali conflitti tra tali
dinamiche verrebbero a trovare un punto provvisorio di equilibrio autoregolato
proprio nella relazione di ciascuno con l’altro che costituirà, nonostante ogni
deriva individualistica e solipsistica della matrice proprietaria borghese, il
reale nucleo umano: io/altro, con un topos
libertario di responsabilità relazionale e reciproca[72].
Se gli anarchici di
estrazione classica, rispetto agli anarco-capitalisti, hanno il vantaggio della
critica a ogni forma di dominio,
proprietario, sociale, di genere, nel costume, gli anarco-capitalisti possono
vantare di avere fondato, attraverso il richiamo alla teoria del mercato, i
lineamenti di una società senza Stato, che possa invece prescindere dalla costruzione
del famoso “uomo nuovo”: sicché anche l’uomo comune, il quale pure nutra
sentimenti conservatori, può trovarsi a proprio agio nel modello di società
delineato agli anarco-capitalisti, che gli propongono semplicemente lo
smantellamento di uno Stato ormai ridotto a rudere inefficiente. Con tutti i
rischi che ciò comporti l’affermarsi di un’idiocrazia
(dominio di privati, da idion, privato in greco)[73],
la quale tuttavia, pretendendo di fondare il proprio predominio sul diritto
civile, scava la terra sotto i propri piedi, dato che non è obbligatorio
intrattenere rapporti con un soggetto privato, sicché lo Stato idiocratico
tende dialetticamente alla propria estinzione: per dirla al modo del sito internet satirico “Lercio”, “Lo Stato si privatizza per diventare
efficiente, ma i cittadini disdicono il contratto e si estingue”.
Gli anarco-capitalisti,
al di là del descritto rischio di fruttuosa degenerazione, hanno una concezione
della libertà vicina a quella della tradizione liberale, però questa viene descritta
da Vaccaro in termini riduttivi, come vedremo. E’ vero che, il punto di vista
che egli evidenzia (la libertà liberale come ognuno nel proprio ambito spaziale
limitato), si ravvisa nella concezione della proprietà di Kant, come convivenza
tra un “mio” e un finitimo “tuo”, che si “costringono” reciprocamente[74]. Ma
la teoria del mercato va oltre: la cooperazione nell’ordine esteso della
catallassi, per dirla con Hayek. Tuttavia, se il liberalismo ha mostrato
anzitutto quella faccia “difensiva”, e fornito un’immagine ristretta nella
propria concezione della libertà, ciò si deve a ragioni di carattere storico,
dato che, in origine, si trattava di elaborare soprattutto una dottrina di
“limitazione” del potere dispotico[75],
prima che fosse consentito immaginare l’espansione a tutto tondo
dell’individualità nella comunità dei liberi e degli eguali. Certo, la
concezione di libertà di un Michail Bakunin è più attraente e convincente[76],
dato che consente di superare il vieto luogo comune, per il quale la mia libertà finisce dove inizia la tua:
Io non sono veramente
libero che quando tutti gli esseri umani che mi circondano, uomini e donne, non
sono ugualmente liberi: posso dirmi libero solo in presenza di altri uomini e
in rapporto con loro. Io stesso sono umano e libero solo nella misura in cui
riconosco la libertà e l’umanità di tutti gli uomini che mi circondano. La
libertà degli altri, lungi dall’essere un limite o una negazione della mia
libertà, ne è al contrario la condizione necessaria e la conferma. Non divengo
veramente libero se non attraverso la libertà degli altri, così che più
numerosi sono gli uomini liberi che mi circondano, più profonda e più ampia è
la loro libertà, più estesa e più profonda e più ampia diviene la mia libertà.
Io intendo quella libertà per cui ciascuno, anziché sentirsi limitato dalla
libertà degli altri vi trova al contrario la sua conferma e la sua estensione
all’infinito.
Tuttavia, si badi che,
se troppo spesso la libertà liberale viene declinata in quei termini asfittici
soprattutto dai mass-media e tra la
gente comune, sul piano della teoria economica del mercato essa si sovrappone a
ben vedere a quella di Bakunin, il che non deve sorprendere. Da quando gli
economisti hanno superato il dogma aristotelico, per il quale lo scambio
avviene trasferendo il «tanto quanto»[77],
ossia rimanendo inalterate le condizioni di benessere degli scambisti, da
quando cioè, insinuandosi la nozione soggettivistica del valore[78],
si inizia a comprendere che lo scambio è fatto per migliorare le condizioni degli scambisti, e non per lasciarle
inalterate, la nozione “liberale” di libertà già si propone, in Carl Menger
piuttosto chiaramente, nella prospettiva di considerare l’esaltazione delle
condizioni dell’uno come co-condizione per l’esaltazione di quelle dell’altro[79];
il che avviene, ad esempio, nel cosiddetto “ottimo paretiano”[80];
ciò sul presupposto che la nozione di libertà sia grosso modo riconducibile a quella di “benessere”, ma la libertà si
presume utile iuris et de iure, in
quanto quadro meta-normativo, all’interno del quale ogni scelta, volta alla
soddisfazione di un bisogno[81],
si rende possibile, sicché è immaginabile, da tale punto di vista, un
utilitarismo (formale) libertario: qualsiasi forma di utilitarismo, che non
fosse tale, comporterebbe sacrificio di libertà, e quindi danni
incommensurabili allo stesso benessere[82]. La questione non era affatto ignota a Isaiah
Berlin, il quale poneva Adam Smith tra i dotati di “una visione ottimistica
della natura umana, (i quali) credono nella possibilità di armonizzare gli
interessi”[83];
esattamente il presupposto della teoria del mercato, che, collegando in rete
tutti gli scambi, posto che, almeno idealmente, uno scambio avvantaggia i
coinvolti, in rete verrebbe avvantaggiata l’umanità intera: la libertà, ossia la
potenzialità di ciascuno, anche in questo ordine di idee, come per gli
anarchici, si accresce con il contatto con gli altri, non viene limitata da
questo[84]:
anticipazioni di quella che poi sarebbe stata la teoria dei giochi, con riferimento
però ai giochi a somma positiva e cooperativi, sicché, nel mercato ideale, la strategia
di cooperazione vince su quella di defezione. Quantomeno nel senso che, in
regime di concorrenza, a ogni caso di defezione corrisponde un’ipotesi
alternativa di cooperazione, sicché lo scambio non è mai un monopolio
bilaterale A vs. B, ma sempre un
modello trilaterale d’asta, una rete di aste interconnesse[85].
Ma la libertà che si
esalta nell’incontro intersoggettivo cessa di essere vicenda personale, per
diventare bene pubblico puro, in un’accezione come accennavo ulteriore,
rispetto a quella accolta dalla scienza economica. Intendo infatti per puro il bene pubblico, il quale, facendone
uso, non si consuma e anzi si riproduce,
si mantiene vivo invece di consumarsi. Ad
esempio, la lingua è soggetta al principio di abbondanza, non di scarsità: più viene
utilizzata più è viva e si ravviva, mentre se non se ne fa uso muore. Lo stesso
vale per tutti i beni immateriali, come il software,
in sé replicabile all’infinito; come l’informazione e la cultura: non solo chi
impara a memoria una poesia non impedisce ad altri di fare altrettanto –quindi
non si dà rivalità nel consumo-, ma tutti sono in grado di diffondere ulteriormente
quella poesia, autoriproducendo, e consentendo di riprodurre tendenzialmente
all’infinito quel bene pubblico. Lo stesso vale allora per la libertà-bene
pubblico indivisibile, perché per ogni interazione possibile, che massimizza
l’utilità di chi interagisce, vi sono una quantità potenzialmente infinita di
interazioni in rete, che ulteriormente massimizzerà l’utilità di tutti: e nell’interazione
la libertà viene alimentata, invece che ridursi. Anche a voler limitare
l’osservazione alla relazione a due, la libertà-bene indivisibile può
rappresentarsi come uno spazio corrispondente a un angolo piatto, nel quale i partners della relazione occupino
ciascuno un angolo retto l’uno adiacente all’altro, sicché la relazione è in
equilibrio. Laddove nelle relazioni coercizione/subordinazione, supremazia/soggezione,
l’angolo è rispettivamente ottuso e acuto, di modo che quanto vien “misurato” è
l’oscillazione del lato in comune, sicché l’angolo ottuso sarà più o meno
ottuso, e altrettanto l’acuto: mentre si ha piena libertà solo in
corrispondenza dei due angoli retti, nella prospettiva, però, del reciproco insinuarsi l’uno nello spazio
dell’altro. In altro modo, la relazione può essere rappresentata da una
bilancia a due piatti (o da un’altalena a due seggiole contrapposte): quando
scende un piatto, sale l’altro, all’incremento da un lato corrisponde la
riduzione dell’altro: ma, fuoriuscendo dall’equilibrio stabile, si esce dalla
“libertà comune”, per entrare in un rapporto, che non è di libertà aumentata da
un lato e di libertà diminuita dall’altro, ma
di coercizione da un lato e di sottomissione dall’altro, di supremazia da
un lato e di soggezione dall’altro, come nei rapporti potestà/interesse
legittimo nella scienza del diritto amministrativo.
La libertà, in quanto
spazio comune, è cioè gioco a somma positiva, un win-win game, diversamente ne faremmo un gioco a somma zero, dato
che ogni spazio che andasse a vantaggio dell’uno andrebbe a detrimento
dell’altro: esattamente ciò che avviene, al contrario, non nelle relazioni di
libertà, scambiste o associative che siano, ma piuttosto nelle relazioni
coercitive, caratterizzate da un rapporto supremazia/soggezione, sicché
l’angolo ottuso, espandendosi, preme l’acuto adiacente, che ulteriormente si
riduce; il piatto della bilancia più pesante si abbassa e l’altro si alza.
Chi ritenesse che questa
costituisca una situazione di libertà, che si possa misurare nelle oscillazioni
–sfuggendogli che si tratta invece di una situazione di rapporto tra una coercizione
e una subordinazione- sarebbe prigioniero di una zero-sum mentality, per la quale in ogni relazione –quindi non solo in una caratterizzata dal
confronto tra supremazia e soggezione- debbano necessariamente riconoscersi un winner ed un looser[86].
La libertà
relazionale-intersoggettiva trova invece, come detto, espressione nello
scambio, nel quale tutte le parti coinvolte mirano a migliorare le proprie
condizioni, e si tratta di gioco a somma positiva. Che poi la relazione abbia
luogo sotto forma di contratto in senso proprio o di associazione, vale a dire
di scambio di mercato o di relazioni comunitarie, non cambia di molto; perché
tale distinzione non sembra avere altro senso che retorico, dato che anche il
momento associativo è costituito da scambi. E’ pur vero che, di solito, si
sottolinea che, in uno scambio, ognuna delle parti, dopo l’incontro per la
conclusione del contratto, prosegue autonomamente per la propria strada, perché
i rispettivi interessi, consumato lo scambio, si divaricano, mentre
nell’associazione gli interessi restano comuni e il legame perdura
indefinitamente nel tempo[87];
ma anche l’associazione, se è volontaria e libera nell’adesione, è precaria, e
le parti possono riprendere la propria strada in qualsiasi momento, e la
relazione perdurerà solo fin quando le parti, non meno che nello scambio
istantaneo, la riterranno utile. Quindi, un’associazione rappresenta nulla più uno
scambio continuato o relativamente permanente; e, del resto, Kant, sia pure in
tutt’altri contesti, accostava il termine Gemeinshaft a quello commercium[88].
A questo punto, libertà e giustizia, in una relazione, coincidono, perché può
ritenersi “giusta” solo una relazione nella quale non si evidenzino rapporti di
soggezione che non siano consensuali. In presenza di consenso, viceversa,
qualsiasi invasion è permessa (si
pensi a un rapporto sado/maso volontario, o al pugilato, o al duello, pur non
consentito dal nostro ordinamento): nel senso che è assentita e autorizzata
dall’interessato, sicché i terzi saranno indotti a intervenire solo nel caso in
cui ravvisino esternalità negative nei loro confronti, ad esempio nel danno che
procura loro la diffusione di un comportamento chicken[89],
in quanto consolidante l’indivisibile autorità non deliberatamente e
consapevolmente accettata dal terzo estraneo al rapporto specifico. La libertà
positiva, a propria volta, va ricondotta null’altro che al riempimento,
attraverso l’esercizio del potere di ciascuno, del vuoto libero all’interno
dello spazio comune, e nella pressione sull’altro a partecipare allo scambio, nel
quale il consenso permette ogni reciproca invasion,
sulla base di quello che in diritto penale si chiama “consenso dell’avente
diritto”: suggello al fatto che non esistono condotte aprioristicamente
“illecite”, potendo essere lecita qualsiasi condotta che non incontri
obiezione altrui, fintanto che obiezione non arrivi, e allora si aprirà la
discussione.
Non voglio nascondere però
le difficoltà. L'idea che uno scambio, secondo il modello dell'ottimo
paretiano, avvantaggi gli scambisti, e quindi che il mercato, essendo una rete
di scambi tra n coppie, in cui ognuno
si avvantaggia, dovrebbe avvantaggiare quindi tutti, è sottoposta a una
restrizione. Ciò infatti presuppone che le persone che scambiano agiscano su di
un piede di parità, almeno di partenza, e che quindi la loro scelta sia
effettivamente libera e non viziata dal bisogno. Oltretutto, gli scambi non
avvengono tra angeli, ma sulla base di rapporti di forza e della pressione
delle reciproche pretese, anche collettive, come nelle relazioni sindacali e di
cartello. Ma se io sono un misero deprivato dei miei diritti originari sulla
Terra, minacciato da norme repressive inique che mi costringono al salario, quando
cedo in uno scambio la mia forza-lavoro, peggioro
e non miglioro la mia condizione, rispetto alla fase precedente di
autonomia. Quindi, in tal caso, la mia volontà nello scambio è viziata e, in un
caso simile, un “contratto di lavoro” sarebbe stipulato in stato di bisogno, e
quindi tecnicamente rescindibile (art. 1448 c.c.), oltre a comportare indennizzo
la deprivazione originaria.
Pur con tale
precisazione, resta il fatto che l’idea che la libertà si possa misurare, e che
non sia una condizione di equilibrio tra le parti in uno spazio comune, può
portare a conclusioni assurde e contrarie al senso comune, a meno di non
considerarle paradossi o autoironia da filosofo. Ci riferiamo al caso limite
proposto da Hillel Steiner, dell’uomo rinchiuso in un sarcofago (ventilato,
precisa l’autore, in vena di spiritosaggini), per il quale il malcapitato
avrebbe pur sempre la “libertà” di «strofinarsi
il piede contro la superficie interna di un sarcofago». Non solo: questa
sarebbe per il soggetto una conquista e un’acquisizione, perché prima di essere
rinchiuso nel sarcofago, questa facoltà gli era preclusa[90]! Sempre
Steiner propone un altro confronto, per “misurare” la libertà: «un individuo è più libero se è incatenato al
muro di una cella con una catena legata a un solo polso che non avendo entrambi
i polsi legati»[91]. E
un uomo sarebbe totalmente illibero solo nel caso in cui il suo sistema nervoso
fosse controllato da altri[92];
il che rappresenta certo una situazione di annientamento della sua volontà, ma l’argomento
finisce “per fare il gioco dell’avversario”, dato che, a questo punto,
qualsiasi situazione di oppressione, che fosse appena minore, potrebbe venir
spacciata come tutto sommato “liberale”. E’ del tutto evidente, a chiunque sia
dotato di senno, che un simile approccio “analitico” alla misurazione della
libertà non conduce da nessuna parte e non è di alcuna utilità, per chi, dotato
di inclinazione libertaria[93], abbia
a cuore le sorti del futuro della libertà.
Fabio Massimo
Nicosia
Avvocato - Milano
[1] I. Carter, La libertà eguale, Feltrinelli Editori,
Milano, 2005.
[2] Ivi, 21.
[3] Gerald C. MacCallum, jr., Negative and Positive Freedom, in «Philosofical Review», LXXVI,
1967, pp. 312 ss., trad. it. Libertà negativa
e positiva,
in I. Carter e M. Ricciardi, a cura di, L’idea
di libertà, Milano, Feltrinelli Editore, 1996, pp. 19 ss., 21.
[4] I. M. Copi, Introduction to Logic, The Macmillan
Company, New York, 1961, trad. it., Introduzione alla logica, Bologna, Il
Mulino, 1964, pp. 119 ss.
[5] I. Carter, cit.,
72.
[6] Ivi, 96, ove si
legge che la libertà ha valore per i soggetti capaci di effettuare scelte. Per
il concetto di scelta nell’ambito della teoria della “scelta razionale”, si
veda AA.VV., La teoria della scelta – Una
guida critica, Bari, Laterza, 1996.
[7] Si chiede se
sia possibile volere ciò che si vuole, «se
il volere stesso fosse libero», in quanto conforme alla propria volontà, A.
Schopenhauer, La libertà del volere umano,
Bari, Laterza, 1994 (1838), pp. 46 ss., ove s’introduce la nozione di libertà
in senso “empirico”, alla quale Ian Carter si rifà volentieri (ma non cita
Schopenhauer). Si vedano anche G. H. von
Wright, Freedom and Determination,
Helsinki, The Philophical Society of Finland, 1980, trad. it. Libertà
e determinazione,
Parma, Pratiche Editrice, 1984; T. Honderich, How free are you, 1993, trad. it. Sei davvero libero? – Il problema del determinismo, Milano, Il
Saggiatore, 1996; Mario De Caro, Massimo Mori ed Emidio Spinelli, a cura di, Libero arbitrio, Roma, Carocci Editore,
2014.
[8] Rinvio, per
tale impostazione, al mio Beati
possidentes, Macerata, Liberilibri, passim.
[9] I. Carter, cit.,
36 ss.
[10] C. Taylor, What’s Wrong with Negative Liberty, in
A. Ryan, a cura di, The Idea of Freedom,
Oxford, Oxford University Press, 1979, trad. it., Cosa c’è che non va nella libertà negativa, in L’idea di libertà, cit., pp. 75 ss.
[11] I. Carter,
cit., 157.
[12] Cfr. Ernst
Forsthoff, Stato di diritto in
traformazione, Milano, Giuffrè, 1973, in particolare il saggio Concetto e natura dello Stato sociale di diritto
(1953), 29 ss., e il saggio Le leggi
provvedimento (1955), 101 ss.; cfr. altresì G. Guarino, Profili costituzionali, amministrativi e processuali delle leggi per
l’Altopiano silano e sulla riforma agraria e fondiaria, in «Foro Italiano»,
1952, pp. IV, 76 ss. Si veda anche M.S. Giannini, Divieto di leggi singolari ed eccezionali, in «Giurisprudenza
Costituzionale», 1958, pp. 918 ss.
[13] I. Carter,
cit., 23
[14] Mi esprimevo in
questo senso già in Beati possidentes,
cit., pp. 161 ss.
[15] I. Carter, ult. loc. cit.
[16] G. A. Cohen, Capitalism, Freedom and the Proletariat,
in D. Miller, a cura di, Liberty,
Oxford, Oxford University Press, 1991, trad. it., Capitalismo, libertà e proletariato, in L’idea di libertà, cit., pp. 161 ss.
[17] Arg. ex P. H. Nowell Smith, Ethics, Harmondsworth, Penguin Books Ltd., 1954, trad. it., Etica, Firenze, 1974, pp. 211 e 215.
[18] R. Nozick, Anarchy,
State and Utopia, New York, Basic Book, 1974, trad. it. Anarchia, Stato e Utopia – I fondamenti filosofici
dello “Stato minimo”,
Firenze, Le Monnier, 1981, (1974), pp. 185 ss. Si veda sul proviso anche il mio Il Locke
conteso. I diritti di proprietà tra libertarians e left-libertarians, in «Rivista
di Politica », fasc. n. 2, 2013, pp. 119 ss. Per una lettura più forte, per la
quale, attenendomi alla lettera del testo inglese originale, avevo ritenuto che
Locke immaginasse che la violazione del proviso
comportasse indennizzo, cfr. invece Il
dittatore libertario – anarchia analitica tra comunismo di mercato, rendita di
esistenza e sovranity share, Giappichelli, Torino, 2011, pp. 204-205.
[19] Non solo i right-wings libertarians negano tale
assunto (J. Narveson, The Libertarian Idea,
Philadelphia, Temple University Press, 1988, pp. 83, 93 e 100), ma anche R. Dworkin,
che affida l’assegnazione originaria delle risorse a un meccanismo d’asta dall’alto,
in cui però non è spiegato sulla base di quale criterio sia stato scelto il banditore
(What is Equality? Part 2: Equality
of Resource, in «Philosophy and Public
Affaire», 10, 1981, pp. 283 ss., trad. it. Eguaglianza
di risorse,
in I. Carter, a cura di, L’idea di
eguaglianza, Milano Feltrinelli, 2001, 1981, pp. 194 ss.). L’opposto del
banditore impersonale walrasiano, che invece consente di configurare, con
qualche restrizione, l’ordine spontaneo anarchico, conseguente all’incontro delle
libere domande e di offerte nel mercato (AA.VV. La teoria della scelta, cit., pp. 239 ss., in particolare pp. 247
ss).
[20] R. Nozick, cit., 60, in cui si precisa che il
risarcimento della lesione di un diritto deve consentire al titolare del
diritto di “non stare peggio” di prima della lesione. Si vedrà più avanti come
Nozick applicherà male tale principio, per tentare di giustificare la
trasformazione dell’agenzia dominante in Stato, ultraminimo prima e presunto
minimo poi.
[21] I. Carter
affronta anche il tema del carattere intrinsecamente “moralizzato” del termine
stesso “libertà”, perché quando in una discussione politica o filosofica si
parla di libertà con riferimento a una persona o a una situazione, l’accezione
di valore positivo impressa a quella persona o situazione è ineludibile. (cit., pp. 49 ss.).
[22] Il primo a
proporre la distinzione tra libertà negativa e libertà positiva è stato
probabilmente G. De Ruggiero, il quale, nella Storia del Liberalismo Europeo (Milano, Feltrinelli, IV ed., 1977,
il lavoro fu originariamente pubblicato nel 1925), così scrive, al paragrafo
intitolato proprio Libertà negativa e
libertà positiva: la libertà «acquisisce
consistenza e rilievo nella sua espressione storica e polemica, cioè come
libertà da qualche cosa come insofferenza di un’esterna imposizione, che
impedisce la libera espansione storica e polemica» (p. 338); la libertà
positiva, invece «è quella dell’uomo che
vive nella società civile, con tutti i suoi legami e i suoi pesi, dalla cui
servitù egli si riscatta continuamente, col fatto stesso che li riconosce come mezzi
necessari all’attuazione della sua personalità morale» (p. 343). Secondo I.
Berlin, il senso “positivo” della libertà consiste nel fatto che l’individuo si
senta padrone di sé stesso, che le decisioni della sua vita dipendano da lui e
non da altri (Two Concepts of Liberty,
1958, in Four Essays on Liberty,
Oxford University Press, 1969, trad. it. Due
concetti di libertà, Feltrinelli, Milano, 2000, 1958, pp. 24 ss.).
[23] Isaiah Berlin
ammoniva a non ricondurre tutto alla nozione di libertà, dando vita a confusioni,
perché una cosa sarebbe la libertà, un’altra la giustizia, un’altra
l’uguaglianza, la cultura, la felicità, e così via (Ivi, p. 17).
[24] H. Steiner (Individual
Liberty¸ in «Proceedings of the
Aristotelian Society», vol. XCIV, 1983, pp.
66 ss., trad. it., Libertà individuale,
in L’idea di libertà, cit., pp. 100
ss,) supera implicitamente la distinzione tra libertà negativa e positiva
rivendicando il «possesso personale di
beni fisici» (p. 116) come presupposto per l’azione libera. Sono partito a
mia volta da analogo presupposto, sostenendo che la Terra sia res communis, precisando che, in caso di
perdita del possesso ad opera altrui, questa vada indennizzata, e ciò
costituisce la garanzia che alla libertà negativa corrisponda poi effettivamente
la libertà positiva, riconducendo la seconda nozione alla prima. Del resto, il
denaro conseguito come indennizzo può essere per il soggetto più importante del
bene perduto, se può essere speso sul mercato per conseguire beni anche preferiti rispetto a quello perduto.
[25] Su tale approccio all’argomento in parte divergono i
due marxisti analitici G. A. Cohen, Self-Ownership,
Freedom and Equality, Cambridge University Press, 1995, pp. 195 ss., e J.
E. Roemer, Value, Exploitation and Class,
Harwood Academic Publishers GHBH, anno non indicato, trad. it. Valore,
Sfruttamento e Classe,
Milano, Giuffrè, 1993, pp. 56 e 87-88.
[26] Friedrich
Engels, nella sua celebre filippica contra
Dühring, entra in contraddizione, dato che, pur insistendo che lo scopo finale
dello sfruttamento sarebbe “economico” e non politico, ammette che lo
sfruttamento è reso possibile solo da un atto di forza preliminare (Anti-Dühring, Roma, Editori Riuniti, 1985,
pp. 151 ss.).
[27] J. Buchanan e G. Tullock, The Calculus of Consent. Logical Foundations of Constitutional
Democracy, The University of Michigan Press, 1965, trad. it. Il
calcolo del consenso – Fondamenti logici della democrazia costituzionale, Bologna, Il
Mulino, 1988 (1962), passim; si veda
anche il pionieristico A. Downs, An
Economic Theory of Democracy, New York, Harper & Row, 1957. Trad. it. Teoria economica della
democrazia, Bologna, Il Mulino, 1988 (1957).
[28] Cfr. H. Demsetz, Towards
a Theory of Property Rights, in «American Economic Review», LVII,
n. 2, 1967, trad. it. Verso una teoria
dei diritti di proprietà, in F. Forte ed E. Gramaglia, a cura di, La nuova economia politica americana,
Milano, Milano, SugarCo, 1980 (1967), pp. 132 ss.
[29] R. Nozick, Coercion,
in Socratic Puzzles, London, Harvard
University Press, 1977, pp. 15 ss. Il saggio risale al 1969.
[30] Sull’”offerta”
si sofferma H. Steiner, cit., 103 ss., che di fatto la ricostruisce in termini
di costo-opportunità da affrontarsi dal suo destinatario quando la riceve e
deve decidere se accettarla oppure no. Nota anche la sua analisi della throffer, offertaccia (pp. 105 ss.), l’”offerta
che non si può rifiutare” della filmografia mafiosa. Una throffer tecnicizzata può forse
individuarsi nel reato, di recente introdotto, di “concussione per induzione”
(art. 319 quater c.p.).
[31] R. Nozick, Anarchia, Stato e Utopia, cit., 88. W. Block, The
Blackmailer, in Defending The
Undefendable, San Francisco, Fox & Wilkes, 1991 (1976), pp. 44 ss.
[32] L. M. Fraser, Economic
Thought and Language – A Critique of
Some Fundamental Economic Concepts, London, A. & C. Black Ltd, 1937,
183.
[33] A. O. Hirschman, Exit,
Voice and Loyalty – Responces to Decline in Firms, Organizations, and States,
Cambridge, Harvard University Press, 1970.
Sulle
alterne vicende normative nel mondo dell’istituto del boicottaggio, cfr. G. A.
Brioschi, ad vocem, Enc. Dir., V, 1959, pp. 493
ss.
[34] M. N. Rothbard, The
Ethics of Liberty, Atlantic Islands, Humanities Press, 1982, trad. it. L’etica
della libertà,
Macerata, Liberilibri, 1996 (1982), passim.
[35] J. Rawls, A Theory of Justice, Cambridge, Harvard
University Press, 1971, trad. it. Una
teoria della giustizia, a cura di S. Maffettone, Milano, Feltrinelli, 1982,
p. 137.
[36] J. E. Stiglitz, The
Economic Role of the State, Oxford, Basil Blackwell. 1989, trad. it. Il ruolo economico dello Stato,
Bologna, Il Mulino, 1992, p. 73; il concetto è familiare all’ideologia
economica del corporativismo fascista: «…lo Stato non esercita più una azione
di carattere occasionale ed empirico, bensì necessaria
e logica, sull’equilibrio economico, e che quindi esso rientra per
necessità logica nel quadro della teoria pura. A questo punto, peraltro, è
necessario fare il passo decisivo, e trasferire lo Stato alla base della
teoria, ponendolo tra le premesse, cosa che il Keynes non fa, e che invece noi
facciamo perché è nella logica dei fatti e delle dottrine» (F. Carli, Le basi storiche e dottrinali dell’Economia
Corporativa, Padova, 1938, p. 147, cit. in Lorenzo Ornaghi, Stato e corporazione, Milano, Giuffrè,
1984, p. 80).
[37] Cfr. il mio Beati possidentes, cit., pp. 221 ss.
[38] Citata
estesamente nel mio “Modello Consip” tra
Stato e Mercato, in Rivista Italiana
di Diritto Pubblico Comunitario, Anno XII, 4, 2002, pp. 711 ss., 723.
[39] R. Duncan Luce – H. Raiffa, Games and Decisions – Introduction and Critical Survey, New York, Dover
Publications Inc., 1957, 1989, p. 20. Rawls richiama il cap. XIII di tale
fondamentale lavoro (pp. 278 ss, dell’edizione qui indicata), ma questo contiene
una pluralità di ipotesi di possibili criteri di azione in stato di incertezza:
non si comprende su quali basi Rawls ritenga che tutto il mondo dovrebbe
seguire il suo preferito personale, in una situazione in cui, evidentemente,
sarebbe lui il “dittatore di Arrow”.
[40] Si vedano, per
tutti, M. Taylor e H. Ward, La fornitura
dei beni pubblici: un’applicazione della teoria dei giochi, in G.E. Rusconi,
a cura di, Giochi e paradossi in politica,
Torino, Einaudi, 1989, 73 ss. e F. Foldvary, Public Goods and Private Communities – The Market Provision of Social
Services, Brookfield, Edward Elgar, 1994. Per quanto riguarda la produzione
di mercato di diritto, giustizia e moneta, si rinvia a D. Friedman, The Machinery of Freedom - Guide to a
Radical Capitalism, La Salle, Open Court, 1973, L’ingranaggio della libertà, Macerata, Liberilibri, 1997, ove si
rinviene un approccio sufficientemente avalutativo, a mio avviso più persuasivo
di quello giusnaturalistico di M. Rothbard. Per quanto riguarda la moneta, si veda però soprattutto F. A. von Hayek,
The Denazionalization of Money: An
Analysis of the Theory and Practice of Concurrent Currencies, London,
Institutes of Economic Affairs, 1976, trad. it. La
denazionalizzazione della moneta – analisi teorica e pratica della competizione
tra valute,
Milano, Etas, 2001 (1976).
[41] «La minaccia,
in ogni caso, deve essere idonea a turbare la tranquillità della persona: in
altri termini, ad intimidirla. Tale
idoneità, peraltro, non va scambiata, come qualche volta accade, con
l’effettiva intimidazione. Ed invero la persona a cui la minaccia è rivolta, può essere dotata di non comune forza
d’animo e restare, quindi, impassibile
di fronte all’azione del colpevole e non
si vede il motivo per cui di tale qualità della persona stessa debba avvantaggiarsi il reo» (F. Antolisei,
Manuale di diritto penale – Parte
speciale, I, VII ed. aggiornata a cura di Luigi Conti, Milano, Giuffrè,
1977, p. 130).
[42] M. N. Rothbard, Man,
Economy, and State – A Treatise On Economic Principles, Auburn, Ludwig von
Mises Institute, ed. 1993 (1962), pp. 157, 702, 941.
[43] Per una ampia
rassegna cfr. C. Cicero, La violenza nel
negozio giuridico, Padova, Cedam, 2000. Sul dolo come violenza psichica,
pp. 52-53; sulle varianti soggettive, riferite alla “condizione delle persone”,
pp. 70-71; sulla violenza d’ambiente e politica (metus ab extrinseco), pp. 94 ss.; sulla “violenza mafiosa” («basta
mezza parola») pp. 98-99; sull’“avvertimento mafioso” (per il quale occorrono
autorevolezza e notorietà del soggetto, nonché una serie di circostanze
ambientali e oggettive), p. 100; etc.
[44] Invece la
violenza privata è perseguita d’ufficio (art. 610 c.p.).
[45] D. Graeber
critica in proposito chi fa ricorso all’espressione «violenza strutturale», occultando
come l’ordinamento giuridico sia fondato in
toto sulla minaccia della violenza Dead
zones of the imagination, in «HAU: Journal of Ethnographic Theory», n. 2,
2012, trad. it. Le zone morte
dell’immaginazione - Su violenza, burocrazia e lavoro interpretativo, in Id.,
Contro il potere e la burocrazia, Milano,
Elèuthera, 2013, pp. 35 e 53. «Violenza strutturale» pare però espressione
calzante.
[46] Il motto sessantottino
«E’ colpa della società», è passato
di moda, travolto dallo scherno
benpensante, ma metterebbe d’accordo gli opposti Rousseau e Stirner.
[47] H. Steiner, cit.,
100.
[48] Cfr. il mio Il Sovrano Occulto – Lo stato di diritto tra
governo dell’uomo e governo della legge, Milano, Franco Angeli, 2000, pp. 196 ss. e 296 ss.
[49] Ian Carter
esprime così questa posizione: «Di fronte a ogni azione, un agente è o
completamente libero o completamente non libero di compierla. Un ostacolo al
compimento di x o lo lascia tuttavia
possibile (sebbene difficile), nel qual caso l’agente è libero di fare x, o lo rende impossibile, nel qual caso
l’agente è non-libero di farlo. La punibilità di x, d’altro lato non rendendo
mai x impossibile, non rende mai
l’agente non-libero di fare x» (cit., 62).
[50] Secondo D. Graeber,
«Sostanzialmente, i poliziotti sono burocrati armati» (Le zone morte dell’immaginazione, cit., 43).
[51] L. Friedman, The
Legal System. A Social Science Perspective, New York, Russell Sage
Foundation, 1975, trad. it. Il sistema
giuridico nella prospettiva delle scienze sociali, Bologna, Il
Mulino, 1978, pp. 101 ss. e 191 ss.
[52] Cfr. ancora Il
mio Il Sovrano Occulto, cit., pp. 179
ss. e Cap. VI, pp. 220 ss.
[53] Che
l’obbligatorietà dell’azione penale sia una dichiarazione di principio, fonte
di possibile arbitrio, è sostenuto da C. Guarnieri e P. Pederzoli, La democrazia giudiziaria, Bologna, Il
Mulino, 1997 e da G. Di Federico, Obbligatorietà
dell’azione penale, coordinamento delle attività del pubblico ministero e loro
rispondenza alle aspettative della comunità, in Giust. penale, III, 1991, pp.
147 ss.
[54] Cfr. ancora il
mio Beati possidentes, p. 193.
[55] F. E. Oppenheim, Dimentions
of Freedom, New York, St. Martin Press, 1961, trad. it. Dimensioni della
libertà,
Milano, Feltrinelli, 1982, p. 252.
[56] Sicché rinvio
solo al mio intervento Il Diritto penale:
un diritto irrazionale, in Abolire il
Carcere: un’utopia concreta, Atti del
Convegno, Milano, 4 aprile 1995, Roma, Notizie Radicali, 1997, p. 8 ss.
[57] H. D. Thoreau, Resistence
to a Civil Governmnent, in «Aesthetic Papers», Maggio 1849 poi
Civil Disobedience, trad. it. La
disobbedienza civile,
in Id., Walden ovvero la vita nei boschi e il saggio la disobbedienza civile Milano, Mondadori, 1977. L’orazione,
pubblicata nel 1849, e che avrebbe successivamente ispirato Gandhi, si apre
rimodulando il motto liberale «Il miglior
governo è quello che governa meno» (risalente a Thomas Paine) in «Il miglior governo è quello che non governa
affatto» (p. 377).
[58] Lysander Spooner, No
Treason: The Constitution Of No Authority, VI, (1870), Fox & Wilkes,
1992, 71 ss. Non
sfuggirà, peraltro, che alla base della guerra d’indipendenza americana si pose
esattamente una vicenda di carattere fiscale, il Boston Tea Party del 16
dicembre 1773. Eppure, Felix Oppenheim, pur essendo tedesco, ha insegnato a
lungo negli Stati Uniti.
[59] B. Tucker, Instead
Of A Book By A Man Too Busy To Write One – A Fragmetary Exposition Of
Philosophical Anarchism, 1897, pp. 420-421, 62 e passim. Tucker
è in realtà una figura piuttosto complessa, di rilievo assolutamente primario
nella storia dell’anarchismo in generale. Si può dire che, con la sua
rivendicazione dell’autonomia individuale a tutti i livelli, combinata con la
sua critica ai “quattro monopoli” (fondiario, doganale, monetario e dei
brevetti), egli rappresenta un punto di intersezione tra l’individualismo di
Max Stirner e il socialismo libertario di Proudhon (nel senso della critica
della metafisica della proprietà, unita però, come in Proudhon, alla difesa del
possesso individuale fondato sull’occupazione attuale e l’uso), al di là di
ogni liberal-socialismo alla camomilla. Sulla sua figura si soffermava già E. Zoccoli,
L’anarchia – Gli agitatori – Le idee – I
fatti, Torino, Fratelli Bocca, 1907, pp. 203 ss.; si veda poi l’attenta
rassegna ragionata, dedicata al liberalismo e all’anarchismo americani autoctoni,
R. Rocker, Pioneers of American Freedom,
1949, trad. it. Pionieri della libertà –
Le origini del pensiero liberale e libertario negli Stati Uniti, Milano, Edizioni
Antistato, 1982 (1949), dove si possono rivenire capitoli su Tucker, Spooner,
Josiah Warren, Stephen P. Andrews, William P. Greene, ma anche su Thomas
Jefferson, Thomas Paine ed Henry David Thoreau. Si veda anche J. J. Martin, Men
Against The State, The Expositors of Individualist Anarchism in America,
1827-1908, Colorado, Ralph Myles Publisher, 1970. Dedica un certo
spazio all’anarchismo americano del XIX secolo anche G. D. H. Cole, Socialism Thought: Marxism and Anarchism (1850-1890), London,
Macmillan, trad. it. Storia del pensiero
socialista, vol. II, Marxismo e
Anarchismo 1850-1890, Bari, Laterza, II ed. 1974 (1954).
[60] P. J. Proudhon,
Organisation du Crèdit et de la
Circulation, et Solution du Problème social sans Impot, Parigi, Garnier
Frères, 1849.
[61] D. Graeber, Debt, Brooklin, Melville House, 2000, trad.
it. Debito
– I primi 5000 anni,
Milano, Il Saggiatore, 2012, p. 60. In realtà, in regime di monopolio
dell’emissione fiat della virtualità
monetaria, nonché di incontrollato debito pubblico, determinato anche dal “falso
in bilancio” della mancata contabilizzazione nello stato patrimoniale del
valore degli immani beni immobili demaniali (cfr. art. 822 c.c.), si potrebbe
anche arrivare alla conclusione che gli
Stati non hanno alcun bisogno di tassazione, e se vi ricorrono, dando vita
a una partita di giro, è per ragioni soprattutto di controllo sociale.
[62] Si veda questa
perla: «L’imposizione di una sanzione
legale non costituisce necessariamente un’assegnazione di pena nel senso
comportamentistico. Della gente è così povera che è soddisfatta anziché
frustrata dall’essere messa in carcere» (F. E. Oppenheim, cit., p. 83).
[63] F. E.
Oppenheim, cit., 226. Si noti che una tale posizione trova eco nel film di Pier
Paolo Pasolini Salò e le 120 giornate di
Sodoma, nel corso del quale un protagonista afferma: «Noi fascisti siamo i veri anarchici, perché siamo totalmente liberi, ma
per essere anarchici abbiamo dovuto prima impadronirci dello Stato». Si
racconta anche che Mussolini affermasse che un dittatore altro non è che un
anarchico fallito (cfr. nota seguente).
[64] Distinguendo, però,
il “dittatore libertario” meta-normativo, il quale, impegnato a impedire gli
impedimenti, attiva dialetticamente una situazione controcoercitiva, impeditiva
dell’impedimento, e quindi libertaria, secondo lo schema «vietato vietare»
(Cfr. il nostro Il dittatore libertario,
cit., pp. 364 ss.).
[65] R. Nozick, Anarchia, Stato e Utopia, cit. capitolo
quinto. Lo Stato minimo di Nozick non è per nulla “minimo”, oltre che per il
fatto di essere uno “Stato di polizia” (che non è nemmeno detto comporti
tassazione minore di uno Stato che fornisse solo “servizi sociali”), anche
perché incaricato di “rettificare” i titoli di proprietà a fondamento invalido
sulla base del criterio del lockean
proviso: tanto si deve ritenere, visto che Nozick accoglie il proviso.
[66] G. de Molinari,
De la production de la sécurité, in «Journal
des Economist», 1849, trad. it. Sulla produzione della sicurezza, in
Bastiat-de Molinari, Contro lo statalismo,
Macerata, Liberilibri, 1994, pp. 77 ss..
[67] R. Childs (The Invisible Hand Strikes Back, 1977,
in Id., Liberty Against Power, San
Francisco, Fox & Wilkes, 1994, 157 ss.) ha contestato che il processo
delineato da Nozick possa essere definito, come egli ritiene, “a mano
invisibile”, trattandosi al contrario di un processo a pugno di ferro («iron fist»,
p. 159): Secondo Childs, lo Stato minimo sarebbe una «private tyranny» dell’agenzia dominante (p. 175).
[68] Si veda il fondamentale lavoro di M. Levi, Of Rule and Revenue, The Regent of the
University of California, 1988, trad. it.
Teoria dello stato predatore, Milano,
Edizioni di Comunità, 1997 (1988), dove si ricostruisce la vicenda storica
della tassazione a far data dall’antica Roma (i publicani), e si conclude con una rassegna molto puntuale di
teoriche dello Stato al riguardo.
[69] E. de La Boétie,
La Servitude Volontaire, Paris,
Federic Morel, 1571 trad. it. Discorso
sulla servitù volontaria, Torino, La Rosa Editrice, 1995 (1548), p. 5.
[70] Ci si potrebbe
obiettare che la nostra proposta di rendita di esistenza presuppone comunque
uno Stato distributore, come ad esempio in Van Parijs (cfr. I. Carter, Reddito di base e giustizia libertaria:
conversazione con Philippe Van Parijs, in Politeia, Anno 11, Numeri
39/40, 1995, pp. 24 ss.). In realtà abbiamo ripetutamente argomentato come, non
solo la nostra proposta non sia “statalista”, ma, al contrario, determini
estinzione dello Stato organizzato burocraticamente (cfr. Il dittatore libertario, cit., pp. 274 ss. e, più approfonditamente,
Beni demaniali, beni immateriali dello
Stato, rendita di esistenza e groundstandard, in www.radicalianachici.it, 2015).
[71] I. Berlin,
cit., p. 47
[72] S. Vaccaro, Divenire anarchismo, in S. Vaccaro, a cura di Pensare altrimenti, Eleuthera, 2011, p. 20.
[73] Sulla nozione
di idiocrazia, cfr. il mio Il dittatore
libertario, cit., pp. 325 ss.
[74] I. Kant, Metaphisische Anfangsgründe der Rectslehre, 1797, Primi principi metafisici della dottrina del diritto, Bari,
Laterza, 2005, a cura di F. Gonnelli, Capitolo primo, Del modo di avere qualcosa di esterno come il proprio, pp. 79 ss.
[75] «Nel secolo
XVIII l’individuo e la nuova società che nasce da lui hanno un comune nemico da
combattere: lo stato dispotico» (G. De Ruggiero, cit., p. 52).
[76] M. Bakunin, Dio e lo Stato, Pistoia, RL, 1974, p. 124.
[77] Aristotele, Etica Nicomachea, Milano, Rusconi, 1993,
p. 339.
[78] R. Cantillon, Essai sur la nature du commerce en général,
1775, trad. it. Saggio sulla natura del
commercio in generale, Torino, Einaudi, 1974 (1755), con prefazione di L. Einaudi;
si veda ad esempio lo spunto in p. 74.
[79] «Con il passaggio dei beni da A a B e di
quelli da B ad A, i bisogni di
entrambi gli individui verrebbero soddisfatti meglio che se tale scambio
non avvenisse». C. Menger, Grundsätze,
1871, trad. it. Principi di economia politica, a cura di
Elena Franco Nani, Torino, UTET, 1976, (1871) p. 264.
[80] Di solito,
l’ottimo paretiano viene inteso nel senso che, data un’interazione, devono
migliorare le condizioni di almeno di uno dei due coinvolti, fermo restando che
la condizione dell’altro non deve peggiorare. Tuttavia, quand’anche le
condizioni del secondo non peggiorassero, questi perderebbe comunque dal punto
di vista della povertà relativa,
sicché s’impone che entrambi migliorino
le proprie condizioni. Se così non fosse, si legittimerebbe la schiavitù, se al
miglioramento delle condizioni del padrone non corrisponde il peggioramento di
quelle dello schiavo. L’ottimo però va collocato in situazione originaria, in
cui non ci sono schiavi. Un frammento paretiano sembra confutare la tesi
prevalente: «si può determinare
l’equilibrio con la condizione che ogni individuo consegua il massimo di ofemilità» (V. Pareto, Compendio di sociologia generale, Torino, Einaudi, 1978, v. 871, p.
372.
[81] Sul fatto che
anche nel comunismo si distinguerà tra portatori di bisogni “alti” e portatori
di bisogni “bassi”, cfr. il mio “Il
‘comunismo libertario’ di Luigi Galleani, in A – Rivista anarchica, aprile 2014.
[82] Questo,
naturalmente, sul presupposto che le persone siano effettivamente interessate
alla propria libertà.
[83] I. Berlin, cit., p. 17.
[84] Cfr. anche P. A. Kropotkin, Mutual Aid, 1902, trad. it. Il
mutuo appoggio, Roma, Salerno editrice, 1982 (1902), ove si elabora un’ipotesi
evolutiva alternativa a quella darwiniana.
[85] Cfr. il mio Beati possidentes, cit., pp. 205 ss.
[86] A. Dixit e B. Nalebuff, Thinking Strategically, Dixit-Nalebuff, 1991, trad. it. Io
vinco tu perdi - Strategie di successo nel businnes e nella vita, Milano, Il
Sole 24 ore, 2000 (1991).
[87] W. Cesarini
Sforza, Il diritto dei privati,
Milano, Giuffrè, 1963, p. 53.
[88] I. Kant, cit., 140.
[89] Sul tema, sia pure da una prospettiva diversa, si
veda P. Danielson, The Rights of
Chickens: Rational Foundations for Libertarianism?, in AA.VV. For and against the State, edited by J. T.
Sanders and J. Narveson, Boston, Rowman & Littlefield Publishers Inc.,
1996, pp. 171 ss.
[90] H. Steiner, cit.,
p. 113.
[91] Ivi, 114.
[92] Ivi, 117.
[93] Su tale
nozione, cfr. ancora il mio Il dittatore
libertario, cit. pp. 138 ss.
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