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lunedì 7 novembre 2016

La Centralità del Diritto - Lo Standard nel Caos

di Fabio Massimo Nicosia

Tratto da "L'automa edonista, il sadduceo sussiegoso e l'ingenuo libertino" (2015)

Il linguaggio è opera di argomentazione preparatoria alla formulazione del diritto, in quanto sua motivazione, e il diritto in senso oggettivo è l’emersione autoselezionata del linguaggio più adeguato nell’unità di tempo in relazione al fatto sottostante e alla sua espressione tecnologica raggiunta in una data epoca. Riprova si ha che, ogni qualvolta si discuta di una qualsiasi questione, la conversazione incontrerà immancabilmente un momento in cui qualcuno chiederà: “E allora che cosa proponi?”, perché è insita in quella discussione la propensione verso una qualche decisione, che può essere di volta in volta frutto di una scelta individuale e personale, e altre volte di gruppo e collettiva: diritto, quindi, sempre e comunque diritto.

Ognuno concorre dunque soggettivamente a tale elaborazione –diritto in senso soggettivo-, indirizzando la propria condotta privatamente o pubblicamente, avvenga ciò in modo più o meno inconsciamente condizionato, razionale, strategico o sincero.

La sociologia studia i contesti nei quali ciò avviene, i contesti che consentono, favoriscono o rallentano i processi di formazione di questo diritto, soggettivo e oggettivo, così come la teoria dei giochi si occupa di come avvengano le interazioni tra gli individui in tale contesto argomentativo e di tentativo di reciproca persuasione. Che poi tutto ciò rappresenti o no uno spettacolo, dipende dai gusti: per i situazionisti (Guy Debord), a oggi, si tratta di un brutto spettacolo, ma c’è anche chi si diverte: e non sempre è il regista.

Si noti, peraltro, che il termine “situazione” è stato recepito da Bruno Leoni esattamente per descrivere lo “stato” con la “s” minuscola, ossia l’assetto dei poteri e delle giuridicità in campo, senza alcuna implicazione monopolistica. Ma si tratta di situazione in bianco e nero, che i situazionisti vedono colorata; e, del resto, anche la “merce” marxiana, di cui essi pure si occupano, è indefettibilmente prodotto giuridico; e non alludiamo tanto al fatto che gli Stati disciplinino la merceologia in vario modo, ad esempio con finalità dichiarate di tutela sanitaria, ma al fatto più profondo che si tratta di beni oggetto di prestazione contrattuale, e dell’esito di un contratto e di un rapporto di lavoro, nel corso del quale la merce viene prodotta, e poi immessa nel mercato, guarda caso immancabilmente per il tramite di una serie e di una rete di contratti, tanto in distribuzione verticale, quanto in diffusione orizzontale. E il “capitale” non è forse un concetto giuridico? E il diritto lo distingue da “patrimonio”, dalla “rendita”, e lo specifica sempre di più, regolando le “azioni”, le “obbligazioni”, le “quote”, e così via. Non che non possano esistere accezioni autonome nella scienza economica, ma queste sono sempre costrette nel letto di Procuste delle norme, e se contengono sfumature diverse, per imporsi, devono chiedere una modifica normativa, non c’è via di scampo.

Non si deve però accedere a una visione asfittica, per la quale l’accezione giuridica di un concetto svolga semplicemente la funzione di normare, quasi a voler esercitare costrizione su nozioni desunte aliunde autoritativamente. Al contrario, una nozione assurge a giuridicità esattamente nel momento in cui raggiunge un livello di tecnicizzazione sufficiente a divenire modello adeguato di condotta, punto di riferimento per l’azione coordinata di molte persone. E ciò indipendentemente dall’elemento sanzionatorio, ma in quanto parametro, in quanto informazione in grado di suggerire come attendibile un determinato atteggiamento sociale o individuale. Insomma, uno standard, con riferimento al quale poi ognuno resta pienamente libero di assumere atteggiamenti trasgressivi a proprio rischio e pericolo; tanto sul piano delle eventuali conseguenze in termini di coercizione –nei casi più gravi-, quanto in termini di disapprovazione sociale. La norma scritta, quando esiste, in tali casi ha valore puramente indicativo, di suggerimento e consiglio, diciamo pure di avviso e di avvertimento su ipotetiche conseguenze, che poi sono tutte da verificare sul campo. Dato lo scarto che comunque sempre sussiste tra l’enunciato, comunque verbalizzato, e poi la conseguente capacità del sistema di darvi seguito. Gioca a tale proposito la psicologia della persona, ad esempio la sua attitudine a farsi leader, imprenditore del diritto in quanto innovatore sociale, creatore di nuovi livelli di common knowledge, e quindi di nuovi ordinamenti, di nuovi momenti organizzati, di nuovi istituti e di nuove istituzioni nell’ambito dei vari giochi di coordinamento che lo vedono partecipe (Maria Giovanna Devetag).

La psicologia studia dunque i processi di formazione conscia e inconscia, comunque interiore del pensiero che conduce poi a quell’elaborazione linguistica destinata a produrre diritto, così come l’economia fornisce gli strumenti di misurazione, matematica o in linguaggio naturale, dei fenomeni relazionali, sicché il diritto che ne scaturisce risente di quelle pulsioni inconsce, ma queste ultime esistono in società esattamente attraverso il diritto, ovviamente prescindendo da un’accezione formalistica, ma accogliendo una visione realistica ed effettuale, di questo. E staremmo per dire “naturale”, se non fosse che il giusnaturalismo è storicamente connotato nel senso di esprimere un determinato orientamento etico, per quanto Leoni ne abbia evidenziato le potenzialità empiriche; e allora la sfida è di trovare altra espressione, sinonimica, ma non inquinata, fisiarchismo, ad esempio, se fisiocrazia sa di tirannia: non però di tirannia dei fatti si tratta, se il “fatto” già è gravido di teoria, ma di ineludibile necessità della compatibilità dell’atto, del negozio, del contratto, con la realtà fisica o fisicalista (Otto Neurath) delle cose, con la logica intrinseca loro, che non è mai logica a priori astratta come credono i logici, ma sempre logica concreta e materiale: perché nemmeno la matematica sarebbe nata, se non ci fossero state cose da contare.

E alla psicologia si affiancano oggi le neuroscienze, che poi finiscono per pretendere a propria volta di avere voce in capitolo nell’elaborazione del giuridico, oltre che dell’etico, se l’etico assume significato in quanto si trasformi in regola sociale e quindi in diritto oggettivo, e non solo come linea di condotta soggettiva, che in quanto tale è del tutto irrilevante, almeno per chi nutra inclinazioni liberali e non intrusive nei confronti delle preferenze delle altre persone, che siano eventualmente preferenze diverse dalle nostre.

Il tema finisce allora per essere quello  che nelle società, che conoscono un soggetto, il quale rivendichi il monopolio della produzione giuridica, finisce con l’affermarsi l’opinione diffusa che solo quella produzione rappresenti il diritto vigente, laddove questo convive con infinite altre manifestazioni che condividono il carattere essenziale della giuridicità, prive però di quell’elemento di rivendicazione monopolistica (rectius: di abuso di posizione dominante), che è proprio del diritto di fonte statuale.

Kelsen, ad esempio, non respinge in toto la dottrina di Erlich del “diritto vivente”, ammettendo che anche la consuetudine possa far parte della sua idea di diritto positivo, e tuttavia ne subordina la vigenza al suo recepimento da parte dei “tribunali”, che, si deve ritenere, sarebbero solo quelli dello Stato, o comunque del soggetto più forte in campo; ma ciò è scorretto, perché anche i soggetti meno forti producono diritto, e il fatto che siano meno forti non rende il loro meno diritto dell’altro: solo diritto meno forte, di minore intensità cardinale, il che non significa ancora diritto inesistente, e quindi giuridicamente void.

Poi si può procedere a un livello sempre più microscopico, e avremo le scienze naturali, chimica, biologia, ancora neuroscienze, o macroscopico, fino a ricomprendere il cosmo intero. Ma si badi che le scienze naturali, non solo sono oggetto di attenzione normativa, ma costituiscono altresì fonte diretta di normazione, se anche la morte rileva in entrambe le accezioni e da entrambi i punti di vista -dato che non solo esistono norme sull’inumazione-, oltre che per la metafisica e la teologia: la consapevolezza della morte influenza evidentemente ogni condotta umana (William M. Spellman), almeno a partire da una certa età, e il legislatore appartiene sovente a queste classi di età. A parte ciò, anche solo il fatto che di “pena di morte” si discuta lo dimostra, come di ogni altra questione che riguardi il corpo umano, e quindi le sue cellule, e quindi l’universo di cui fa parte.

Del resto, che la teologia sia fonte di diritto è del tutto fuori discussione, dato che Dio, in tutte le religioni, non fa altro che “normare”, in un senso o nell’altro, salvo poi stabilire se anche Dio non sia a propria volta vincolato al bene, o non ne sia piuttosto arbitrariamente fonte onnivolente: e quindi il diritto emerge anche alla luce di questo, e il punto di intersezione tra le diverse discipline, diritto immediatamente essa stessa, è la tecnologia (non solo la Kunsthlere di Husserl), in quanto fatto materiale indivisibile, bene pubblico in accezione stretta, che conforma il mondo, imponendo direttamente sé, in quanto diritto, oltre che fonte di diritto: si pensi agli sforzi di internalizzazione di un software, che si scontrano con la fisiologia della cosa, che consente molto difficilmente siffatte internalizzazioni, misurando validità o invalidità della relativa disciplina sotto il profilo dell’essenziale adeguatezza, come discutemmo nel “Sovrano occulto”).

Si  consideri l’impatto ambientale di un prodotto tecnico, e come ciò comporti immediatamente produzione normativa in risposta, o a come, invece in positivo, un’innovazione tecnologica come la rete porti con sé nuovi cyberspazi giuridici, o come un telefono cellulare implichi l’interrogativo diffuso di quale sia la natura giuridica di una app.

Non v’è nulla al mondo, della quale non ci si chieda quale sia la “natura giuridica”, è impossibile sottrarsi a questa condanna. Persino un atomo ha una natura giuridica e, ovviamente, come tutti sanno, un embrione umano può ricevere una disciplina giuridica di un tipo o di un altro; i filosofi morali hanno qui la funzione ancillare esclusivamente di consulenti tecnici del legislatore e del giudice, su questo, perché le loro conclusioni non sono mai suscettibili di trasformazione diretta in norma, se la norma prevede applicazione coattiva, che va autonomamente determinata, oltre a costituire questione da sottoporre a giudizio etico a propria volta, giudizio etico formale autonomo, rispetto al contenuto e all’oggetto di quella che si pretenderebbe essere la prescrizione morale materiale.

Semmai l’etica può incidere a livello individuale, e allora in tal caso sì, è diritto, ma diritto soggettivo di chi lo pone, senza alcuna attitudine a costituire vincolo in capo ad altri e chicchessia, perché l’etica è sempre etica per sé, mai per l’altro, perché l’altro fa altrettanto, e al più comunicheranno, con due ipotesi conclusive: che ognuno rimarrà con la propria opinione, o che, trattandosi di decisione indivisibile, si troverà un qualche punto di convergenza –diritto oggettivo-, pena il conflitto extra-giuridico, che sempre diritto vede in campo, ossia i contrapposti diritti, in questo caso incompatibili.
La tecnologia rappresenta il punto di intersezione tra scienze naturali e scienze sociali più immediato, cartina di tornasole della validità positiva di una teoria scientifica e di un’epistemologia, come il diritto lo è rispetto a un’ermeneutica sociale, incorporando l’ancella economia, la più evoluta e sviluppata delle scienze sociali. E diritto e tecnologia, come detto, sì incontrano, non solo sotto il profilo della “norma tecnica” (Ravà) di azionamento del meccanismo, ma proprio in quanto lo strumento tecnico avrà una propria destinazione d’uso, conforme a una qualche direttiva, individuale o collettiva a propria volta, oltre che, come detto, impattare direttamente sul mondo, modificandolo, intenzionalmente e inintenzionalmente.

La scienza economia è ancillare, si diceva: non aveva tutti i torti l’economista fascista Carli, quando sosteneva che la ricostruzione economica deve ricomprendere e incorporare lo Stato, se lo Stato è un dato di realtà, che obiettivamente incide sulle vicende dell’economia: anzi, da questo punto di vista, lo Stato è un epifenomeno “economico” a tutto tondo, salvo poi cercare di capire come possa essere ricompreso all’interno di una teoria del mercato, che non prevede “stati” di sorta, trattandosi di situazione perpetuamente dinamica.

Nozick ci ha provato, avanzando l’ipotesi, molto contestata, che lo Stato possa nascere da un processo “a mano invisibile”, sicché il mercato negherebbe se stesso, vittima del proprio eccessivo successo nella realizzazione, non del “bene pubblico”, cosa di cui si dice essere incapace, ma nientedimeno che del fornitore monopolistico del bene pubblico; ma, a parte i voli pindarici, il rischio di tale approccio è di risultare eccessivamente appiattiti sull’attualità momentanea, come capita ad esempio talora a James Buchanan e alla sua scuola, perché non solo lo Stato è un dato, sì, di realtà, ma transeunte nella storia, e quindi nemmeno merita di essere caricato di valenze, non solo moralizzate, ma nemmeno cristallizzate, ipostatizzate, in definitiva definitive, in ordine al suo possibile ruolo all’interno dei meccanismi del funzionamento economico.

Anche perché le forme assunte dallo Stato sono mutevoli, e quindi non è tanto allo “Stato” che bisogna guardare allorché si forniscono ricostruzioni, semmai a questa o quella modalità di declinazione, ma sapendo trarne insegnamenti sull’essenza ultima, senza farsi troppo coinvolgere, a livello scientifico, dal contingente.

E allora sarebbe molto più corretto dire che non “lo Stato” la scienza economica deve introiettare, allorché si appresta alle ricostruzioni, quanto piuttosto il diritto –di cui lo Stato è solo una manifestazione storicamente connotata-, che non è transeunte –salvo sviluppi eto-etico-tecnologici prossimi venturi-, a prescindere dall’accezione di diritto accolta, sicché la scienza economica finisce con il sovrapporsi ad esso, o, quantomeno, con l’analisi economica del diritto, se è vero che un economista non può dire assolutamente nulla, se non impiegando e far ricorso, esplicitamente o implicitamente, a concetti e nozioni giuridiche, riferendosi a istituti giuridici esistenti in un dato momento storico, ossia già individuati e selezionati come tali, o comunque suscettibili di essere individuati quali frutto ed esito emerso, intenzionalmente e inintenzionalmente, dagli attriti presenti nel mercato: in realtà l’emersione è inintenzionale, mentre l’individuazione è opera dell’intelletto attivo.

Si pensi alla nozione di contratto, che è in buona sostanza immanente a qualsiasi discussione di carattere economico, anche quando il termine non viene pronunciato: che cosa si fa, in borsa, se non stipulare contratti? Perché tutto ciò che riguarda l’economia è, o, in presenza del soggetto Stato, frutto dello Stato stesso, o, in sua assenza, o nella sua indifferenza, frutto di contratti o di reti di contratti, perché dietro ogni constatazione di fenomeni sociali ci sono soggetti in coppia o in rete che hanno stipulato contratti –o contatti, nozione a propria volta giuridicamente rilevante, in quanto “rapporto”-, posti a fondamento ultimo di quei fenomeni.

E l’economista cercherà piuttosto di “spiegare” modi e motivi della formazione del contratto, così come il filosofo politico e lo scienziato politico fanno con riferimento al contratto sociale: è un misuratore (di volatilità, di varianze) degli eventi che sorgono sulla base del fatto che gl’istituti giuridici vengono maneggiati, ovvero degli atteggiamenti che i diversi soggetti assumono, individualmente o interagendo, allorché si accostano a essi o mentre li maneggiano: scuola austriaca, public choice, teoria della scelta razionale, teoria dei giochi, analisi economica del diritto, hanno sempre per oggetto la condotta umana riferita a fatti istituzionali, salvo che, nella società moderna, e in quella antica, ogni fatto è istituzionale e giuridicamente qualificato o qualificabile, pur quando non ve ne sia consapevolezza: il rapporto tra coniugi è giuridicamente qualificato momento dopo momento, ma non lo è da meno, non da oggi, quello scaturente da  una coppia di fatto (Vincenzo Franceschelli).

Il diritto in senso oggettivo emerge quindi come un’ipostasi, come linguaggio dei fatti, descrittivo degli stessi, e al contempo costitutivo dell’ordinamento sociale, performativo di nuovi fatti istituzionali, di credenze a loro volta incessantemente riproduttive della costituzione istituzionale. Il linguaggio del diritto rappresenta il punto di intersezione tra essenza ed esistenza, tra forma analitica e rapporto con la realtà empirica sottostante, tra la struttura e la sovrastruttura marxiane, delle quali è sintesi, ed incorpora e riassorbe, come detto, la scienza economica, ridotta a proprio servo nell’analisi descrittiva dei fenomeni della costituzione del sistema in atto, di cui lo Stato rappresenta solo una superfetazione, eventualmente pleonastica o dannosa.

In verità, il diritto sta alle scienze sociali, come la realizzazione tecnologica –a propria volta ius in civitate positum, "opera pubblica" e bene-male pubblico- sta alle scienze naturali: la cartina di tornasole della fondatezza di una teoria, e ciò anche per un’altra saliente ragione: che, così come la tecnologia ci informa del proprio modo di operare e di incidere indivisibilmente sulla realtà circostante, allo stesso modo il linguaggio normativo ci informa delle conseguenze della sua propria applicazione, del proprio autoreferenziale inveramento empirico, che viene sottoposto al vaglio del campo sotto il profilo dell’adeguatezza all’incardinamento ideale-fattuale, linguaggio di sintesi di forma e materia, esattamente come capita alla tecnologia, con riferimento alla teoria scientifica, della quale rappresenti materiale espressione: diritto e realizzazione tecnologica sono, tanto l’uno quanto l’altra, dispositivi (Foucault) ai quali non possiamo fare a meno di appartenere, non possiamo prescinderne.

Ciò comporta che un enunciato assume i pieni caratteri della giuridicità quanto più esso si mostra analiticamente preciso e coerente, e al contempo aderente e corrispondente al mondo dei fatti, modalità di adesione agli stessi comprese (“adeguatezza del procedimento”), e solo in presenza piena di tali caratteristiche può essere definito “vero” e resistente alla falsificazione: il che, evidentemente, avviene di rado nel suo massimo grado, ma un simile ideale è inattingibile, nemmeno concettualmente, in altre discipline, mentre il diritto quantomeno ideale realizza questo obiettivo, perché il concetto del diritto consiste esattamente in ciò: la perfezione del linguaggio descrittivo, e al contempo indicativo (e prescrittivo solo in senso funzionalmente soggettivo).

Pur nell’imperfezione del diritto materiale-reale, quello vigente in un dato momento storico, tanto formale quanto informale, registra sempre evolutivamente i rapporti di forza in atto momento dopo momento, sicché gli stessi famosi “rapporti di produzione” marxiani meglio vengono compresi osservando da vicino un contratto collettivo di lavoro, un contratto individuale, un ordine di fornitura, un bilancio, un semplice dare/avere contabile o bancario, un provvedimento amministrativo conformativo dell’attività produttiva, una pronuncia giudiziaria su di una questione qualsiasi, ossia tutti eventi normativamente rilevanti, in luogo dell’approcciare statistiche a volte di dubbia fonte e di incerto significato, che richiedono non di rado funamboliche interpretazioni di dati e di eventi, che viceversa appaiono piuttosto trasparenti dagli atti giuridici, che risultino oggetto di considerazione sufficientemente attenta e approfondita.

Il che non esclude affatto, ovviamente, formulazioni teoriche d’insieme più ampie, ove dalle vicende normative sia dato di riscontrare regolarità, che consentano di azzardare, più o meno fondatamente, un’ipotesi piuttosto che un’altra sull’andamento e l’andazzo delle cose del mondo. E del resto si è già argomentato ampiamente in passato come il “Mercato” altro non sia che un istituto, o meglio un sistema giuridico vero e proprio, il cui modello è quello alternativo al modello “Stato”: la rete negoziale.

Se comprendere le implicazioni logiche di ogni evento giuridico significa prevedere il futuro, o almeno il futuro possibile, le norme e gli atti in senso lato normativo, però, non sono tutte coerenti tra loro, e qualche volta nemmeno con se stesse, sicché il “futuro” implicato dall’una può essere diverso, o anche opposto rispetto al “futuro” implicato da un’altra.

Si tratta del problema dell’incoerenza degli ordinamenti giudici (Tarello), che dovrebbe trovare soluzione attraverso il ricorso ai cosiddetti criteri di risoluzione delle antinomie. Solo che tali criteri non operano automaticamente, ma richiedono sempre pronunce giurisdizionali, che sopravvengono in un secondo momento, spesso tardivo, con incertezze e timidezze, sicché per l’intanto l’ordinamento rimane incoerente, anche molto incoerente; ad esempio, attraverso un uso “oculato” della norma speciale rispetto a quella generale, derogata sovente a tutela di determinati interessi importanti, non sempre riuscendo a mediare tra i contrapposti, sicché se ne dolgono i sacrificati.

Si pensi, ad esempio, che dare un calcio a un cane, o tenere esposto un astice sul ghiaccio al mercatino, comporta l’incorrere nel reato di maltrattamento; mentre introdurre elettrodi nel cervello di una scimmia, non solo non è illecito, ma è addirittura sussidiato, in nome della centralità delle politiche pubbliche nella ricerca scientifica, dallo stesso Stato, che al contempo condanna penalmente il soggetto, il quale abbia inferto il calcio al cane, o appoggiato l’astice al ghiaccio.

Ecco che allora, in un simile contesto –si pensi anche alle gustose antinomie esistenti in materia di reati sessuali-, vien meno l’essenza stessa della giuridicità, che consiste nella prevedibilità delle conseguenze del proprio agire in funzione dell’implementazione di proposizioni dal contenuto analitico-empirico “certo” (“adeguato”, quindi relativamente certo nei limiti della capacità predittiva degli eventi conseguenti) e realizzabile, anzi, stante il principio di eguaglianza e parità di trattamento, anche universalmente realizzabile, pena l’incorrere nella tragedia del capro espiatorio, se l’ordinamento è ordinamento dall’alto, in cui l’azione è officiale, e non autoselezionata dalla parte interessata.

E se c’è prevedibilità delle conseguenze normativamente descritte, in funzione però dell’efficienza e dell’adeguatezza, non solo del descritto, ma altresì dell’apparato di implementazione, in quanto coerente col descritto, sarà prevedibile la pronuncia sulla controversia interpretativa sul descritto. Però il linguaggio della legge –ma anche del contratto- è spesso anche “mafioso”, perché dice e non dice, e qualche volta afferma se stesso e il proprio contrario, è sempre ambivalente, perché una minaccia è sempre una promessa, non solo nel senso dell’”offertaccia” di Steiner, né solo nel senso che al vantaggio per l’uno corrisponde lo svantaggio per l’altro, ma proprio nel senso dell’ambiguità del linguaggio in generale, e di quello normativo in particolare, perché l’indicazione di una conseguenza è positiva o negativa alla luce del giudizio del fruitore, del destinatario, dato che ogni giudizio è soggettivo, e non può essere diversamente: anche la norma giuridica è “opera aperta” (Eco).

Si tratta sempre e solo, principalmente, di un’informazione, l’informazione sulle possibili conseguenze di una condotta, solo possibili perché la sanzione potrebbe anche realisticamente, e statisticamente, non arrivare. Ma l’informazione, se è pura, è sempre “mafiosa” e ambivalente, perché se io ti telefono e ti dico: “Sono andato a trovare il Presidente”, sto passando il tempo, ti sto promettendo qualcosa, o ti sto minacciando di qualcosa?

Ad esempio, la norma che punisce l’omicidio rappresenta apparentemente una minaccia per gli omicidi e una promessa di protezione per le potenziali vittime; e quindi la norma costituisce al contempo una minaccia e una promessa. Ma attenzione: data la fallibilità della pronuncia giudiziaria e dell’attività di prevenzione e di polizia, è più che frequente che venga accusato di omicidio anche il non omicida; vale a dire che l’immanenza della sanzione è simultaneamente promessa e minaccia per le medesime persone, indipendentemente dal fatto che si tratti di omicidi o no, le quali incentrano in sé le contrapposte pretese simultaneamente, e non si tratta di un paradosso, ma della sintesi dialettica propria dell’unisoggettività sottesa alla giuridicità.

Se attorno a un illecito vi sono perciò delle regole, ciò significa che il reo ne soffrirà, ma in parte se ne avvantaggerà, ed è questo un piccolo segno di laicità: in fondo, non essere beccati significa quantomeno che la società ha altro di cui occuparsi, prima di porre al centro dell’attenzione pubblica i tuoi casi personali: parafrasando Oscar Wilde, il garantismo è l’omaggio che la legalità rende all’illegalità, o viceversa. E, del resto, anche l’omicida rivendica protezione rispetto all’essere ucciso da altri, sicché ogni individuo vive sistematicamente in conflitto di interessi, perché la norma lo tutela e lo mette a repentaglio contemporaneamente, ed è costretto a stipulare quotidianamente contratti con se stesso, se vogliamo, annullabili su domanda di se stesso ai sensi del codice civile, in questo paradossale, perpetuo, rapporto unisoggettivo con il proprio io multiplo, alla ricerca di un difficilissimo equilibrio interiore ed esterno, nello sforzo formidabile di fissare la propria linea di condotta, il più possibile, per quanto possibile, razionale e incondizionata.

Ma proprio tale radicale ambiguità rappresenta motivo di rafforzamento, non di indebolimento, del sistema, giacché rende la norma ambivalente ancor più resistente alle intemperie della storia, indicando l’equilibrio possibile tra le opposte preferenze, anche interiori di ciascuno, mentre è l’enunciato univoco ad essere più agevolmente confutato nel contenuto dell’asserzione, mentre l’ambiguo (il generico, il vago, l’allusivo), talora, resiste di più, e ancor più se le pretese avvantaggiate e quelle danneggiate abbiano modo di celarsi dietro l’enunciato. Ma allora, questo è il punto, se così stanno le cose, il “diritto” non assurge a diritto, ma diviene qualcosa d’altro, ossia potere sovrano: il puro diritto è invece pura anarchia, perché solo la vigenza di una meta-norma libertaria impersonale garantisce il requisito della coerenza assoluta dell’ordinamento materiale sottostante; ce lo suggerisce la “presa alla lettera” del purismo kelseniano, che poi è la “sovranità del diritto” di Hugo Krabbe. Ma la sovranità del diritto è antitetica alla sovranità dell’uomo, perché se l’uomo è sovrano e non la legge si ha Schmitt e non Kelsen; per cui Schmitt ha dalla sua il “realismo”, ma non però il “diritto” nell’accezione pura, che esclude altro sovrano da sé, e tra politica e diritto c’è una “terra di nessuno”, che poi è di tutto e della loro guerra di coesistenza, occupata dalla forza bruta e irresistibile dei fatti.

Se questo è l’ideale astratto, ciò non toglie che anche il diritto concreto, accatastamento di interessi contraddittori tra loro, non sia per questo privo di capacità ricognitiva e predittiva, almeno in una qualche misura, perché alla contraddittorietà del diritto corrisponde esattamente la contraddittorietà degli interessi in conflitto compresenti nella società. Per cui, se il diritto vigente non è coerente, non c’è da menar scandalo, perché è la realtà a non essere coerente in alcun modo: basti pensare al laboratorio sociale principe del mondo, gli Stati Uniti d’America, dove convivono le pulsioni più diverse ed opposte, dal massimo di libertà nell’espressione  al massimo del militarismo esterno (con gravi ricadute interne: si veda il Patriot Act, la cui vigenza pone nei fatti i diritti costituzionali al livello ottriato) e della repressione carceraria interna, come ha riconosciuto esplicitamente lo stesso presidente Obama, che ha reso pubblico il dato che vi sono percentualmente di gran lunga più detenuti negli Usa che nella dittatoriale Cina.

E, del resto, se il diritto, punta dell’iceberg dell’emersione formalizzata e materiale del conflitto sociale, è così contraddittorio, quale cartina di tornasole della fondatezza della teoria sociale sottostante, non meno contradditoria è la tecnologia, dato che ciascuna realizzazione tecnologica, a propria volta cartina di tornasole derivato della fondatezza della teoria di scienza naturale sottostante, si colloca in un quadro in cui convivono tecnologie avanzate e sofisticate, virtuali ad esempio, con tecnologie arretrate e inquinanti, ognuna delle quali espressioni di interessi diversi e contrapposti, così come visioni del bene pubblico diverse e contrapposte, ma conviventi in un modo o nell’altro, contraddicendo in fondo l’idea che la co-possibilità imponga coerenza tra i co-possibili, benché questo rimanga l’ideale astratto ultimo: concordia discors, però è la regola, perfetta armonia, e tutto avviene secondo contesa (Eraclito).

I co-possibili hanno una forma tipica di espressione, ed è il negozio-contratto atipico, attraverso le quali le parti private ricercano il bene a loro comune, qual confluenza delle rispettive originariamente opposte volontà, anche al di fuori dei tipi contrattuali stessi indicati dall’ordinamento, che fornisce la ludoteca dei giochi risolti (il mio Beati possidentes), ma non pretende di occupare tutti gli spazi dello scaffale. E si noti che, data per fondata la tesi di filosofia economica, per la quale nello scambio si esaltano le soddisfazioni delle parti, ognuna delle quali migliora le proprie condizioni di libertà e di benessere, rispetto allo statu quo ante, quell’approdo comune occorre intendersi quale migliorativo tanto delle condizioni di libertà, quanto di benessere delle parti: questa è la filosofia del contratto e del “contratto sociale”, salvo che la dottrina  argomenta sempre nei termini di un “ordinamento” che autorizzerebbe l’espressione dell’autonomia negoziale, mentre pare evidente che questa preceda, dal punto di vista logico, l’instaurarsi dell’ordinamento, e non possa ricavare legittimazione da questo, pena l’inversione autoritaria e malamente totalitaria, per la quale l’espressione della mia autonomia morale sia subordinata a una concessione unilaterale e imperativa di un potere organizzato, il quale abbia previamente concentrato tutta la forza morale delle autonome volontà degli individui, il che è, tanto fattualmente, quanto logicamente impossibile: quantomeno, le due cose avverranno simultaneamente, uno e molteplice inseparabili (omnesismo).

In realtà, anche quello da bar è diritto, se si accede all’idea della libera ricerca del diritto  in ogni meandro della società, dove le persone si esprimono con maggiore o minore disinvoltura di espressione, perché ogni espressione rappresenta direttrice della propria condotta, e quindi costituisce, a tutti gli effetti, diritto: da qui la difficoltà per l’ordinamento stabilito di cogliere tutte queste nuances normative, che si insinuano nella realtà, pervadendola, in fili contradditori e visibili come frattali in perpetua diramazione, innervatura e skeleton del mondo.

A questo punto, ci sentiamo di dire che la scienza che studia tutti questi fenomeni, scienza giuridica, o giurisprudenza da jurisprudence, si propone alla stregua della scienza unificata delle scienze umane e sociali, punto di intersezione -attraverso lo studio combinato e contestuale, tanto del linguaggio giuridico e dei giuristi, quanto degli apparati umani, incaricati in coordinazione del compito di renderlo pratico ricorrendo a forza e a energia, quanto ancora delle modalità linguistico-organizzative di collegamento procedimentale dall’uno agli altri- di ogni scienza umana e sociale, dall’analisi del linguaggio all’economia, dall’etica alla logica, mentre alla scienza politica va affidato lo studio delle modalità della produzione e dis-produzione del diritto, perché altro la politica non fa, se non produrre diritto o derogare ad esso, formalmente e informalmente.

Il competitor maggiore della scienza giuridica, nell’approccio allo studio della società, è rappresentato da tempo da quello economico, normalmente il più accreditato, al punto che si è spesso parlato di “imperialismo dell’economia”. E’ ciò vale tanto per i marxisti, dato l’errore capitale del secondo Marx, quanto per i tecnocrati di ogni risma e i loro cantori a piè di lista.
Tuttavia, non sfuggirà che –a parte ogni considerazione sul fatto se sia nato prima l’uovo o la gallina- valutare oggi, l’andamento dei cicli economici e dei cicli finanziari, senza la consapevolezza che questi si sviluppano nell’alveo di quadri giuridici e normativi ben definiti appare miope, sia da parte degli economisti, che del resto non conoscono il diritto e quindi sono giustificati, ma anche da parte dei giuristi, che subiscono il fascino dell’imperialismo economico, come se in borsa non si stipulassero contratti (perché quando l’economista parla di “scambi” sta parlando di “contratti”) aventi per oggetto incarnati di istituti giuridici (le azioni, le obbligazioni, i titoli di Stato) o beni giuridicamente qualificati in un modo o nell’altro, da parte di soggetti aventi forme giuridiche (S.p.a, Sim, etc.), che saranno pur quelle che il “capitalismo” ha prodotto nella storia, ma, guarda caso, il “capitalismo”, per vivere, ha bisogno di produrre incessantemente diritto (e Stato, finché bisogno ne ha avuto e ne avrà), fuor di che non c’è storia possibile.

E qual è l’oggetto del mercato di borsa? Null’altro che la fissazione dei prezzi dei contratti, non si tratta di altro che di una perpetua contrattazione permanente, che utilizza gli istituti giuridici esistenti e vigenti, messi belli pronti a disposizione degli operatori –i più fantasiosi ne inventano di nuovi, con il tempo ed evolutivamente, dato il principio dell’atipicità del negozio giuridico-, ai quali si tratta solo di assegnare un prezzo con riferimento alla prestazione standard indicata, e il sistema dei prezzi è un sistema di standard contrattuali, parametri (La Conca) normativi (indicativi) a loro volta.
Sicché, in questo quadro, compito dell’economista diviene nient’altro che di spiegare perché un prezzo contrattuale sia indicato in un importo piuttosto che in un altro, alla luce dell’andamento di un dato mercato di riferimento; fermo restando che i mercati sono tutti interconnessi, costituendo a propria volta un vero e proprio unico sistema giuridico globale, che gli Stati, o chi si pone retrostante a loro, cercano o di indirizzare, o di condizionare a vantaggio di questo o quell’interesse particolare o potente.

Ed ha alcun senso parlare di “moneta” e del suo andamento, se non si precisa immediatamente che si sta parlando di moneta monopolistica di Stato? E nemmeno si può comprendere l’essenza della moneta, senza cercare di ricondurla a istituti giuridici noti, e parlarne come di un mostro strano incomprensibile, come fanno i filosofi che se ne sono occupati, parlando di questa cosa bizzarra, che non si comprenderebbe se reale o virtuale, senza sapere vedere una cosa banale, e cioè che questo è un tema assolutamente comune a qualsiasi istituto giuridico, dal contratto in su e in giù, Stato compreso, trattandosi di credenze costitutive attorno a determinati eventi, fatti istituzionali, costruiti o emersi quali tentativi di cogliere il senso dei fatti reali e materiali che intercorrono tra gli esseri umani.

Sicché della moneta si occupano gli economisti, per dirci a cosa serve, come funziona e opera; e i filosofi, alla caccia della sua quintessenza metafisica: nessuno che sappia dirci, invece che cosa banalmente è, ossia un istituto giuridico bello e buono, con una propria autonoma fisionomia, riconducibile ai titoli rappresentativi di merce, di credito e, al contempo, di debito, ma differenziatosi via via nella propria specialità, proprio per il fatto di costituire espressione di un debito e di un credito nello stesso identico punto e istante, incorporandoli ed astraendoli, sin quasi alla dissolvenza nella pura simbolica virtualità: ossia la gratuità, in cui basta la parola, anzi, “mafiosamente”, mezza parola, la vera “violenza” del mafioso autentico, al quale la reputazione basta e avanza: e anche questa è innovazione finanziaria, se la finanza è mera virtualità monetaria.

Che poi il diritto abbia la meglio sull’economia, lo dimostra proprio il trionfo della finanza meta-monetaria, nella quale non si “produce” assolutamente nulla, eppure, proprio attraverso l’astrazione, tipica del fatto istituzionale normativo, si creano derivati sull’astratto, e derivati sull’astratto dell’astratto: sicché si “specula” esattamente sui valori che il mercato assegna all’andamento di meri istituti giuridici cartolarizzati, ma che restano quel che sono, res incorporales e nulla più : l’istituto giuridico più puro viene ad assumere un valore di mercato, ma è sempre stato così, non è una novità di questi anni, basti pensare all’istituto giuridico della scommessa, che esiste da sempre, ossia il prototipo del derivato, dato che si scommette sempre su qualcosa che accade ad ”altri” ed in “futuro”, e a volte non è indispensabile nemmeno la stretta di mano, e si attribuisce valore al fatto del verificarsi di un evento, senza “produrre”, proprio come nella finanza, assolutamente nulla di corporeo, dato che non è la scommessa a realizzare l’evento, al quale si limita ad assistere interessata: si pensi a un derivato sugli eventi metereologici: che altro non è, se non una scommessa, o un gioco d’azzardo, sull’evento nevicata?

O si pensi al buontempone che vendeva quote del territorio lunare, evidentemente assumendosi l’obbligazione di previamente procurarsene la proprietà almeno formale, se non evidentemente il possesso effettivo, il che però presuppone una quadro normativo diverso dall’attuale, nel quale lo spazio rappresenta patrimonio comune dell’umanità, pace  il presidente Obama che lo conferisce in concessione speculativa fuor di attribuzione: eppure quel contratto potrebbe “girare”, essere trasferito e avere un proprio mercato (chi potrebbe negarlo a priori?), essere quotizzato, magari, sicché ancora una volta l’economia non fa che occuparsi dei prodotti del diritto, financo dei più fantasiosi.

E come se ne occupa? Attribuendo a quel contratto un valore di mercato, fissandone il prezzo: ma il prezzo è null’altro che un elemento del contratto, ed è determinato dai rapporti di forza in campo, perché “domanda e offerta” non promanano da angeli, ma da uomini in carne ed ossa, ognuno dei quali esplica una propria energia, di cui è fonte il suo corpo e il suo cervello, che è parte del corpo, peraltro.

A meno di non estendere il discorso del dualismo mente-corpo, fino al punto di individuare una componente “immateriale” nell’elemento della forza promanante da ciascun singolo individuo, ma anche così cambierebbe poco, perché sempre di componente di quell’atto di forza si tratta, che non è evidentemente bruta, ma guidata da un criterio di condotta e azione, per quanto inconsciamente elaborato e derivato.

E l’economista che si occupa di costi di transazione non presuppone forse un concetto di contatto, e addirittura una vigente disciplina contrattuale, oltre a ciò che la circonda, giuridicamente rilevante a propria volta, per altro. E lo stesso vale per i costi di transizione, gli switching cost, che conseguono alla disciplina, statuale e contrattuale, di un dato settore oligopolistico.

E quando l’economia, nel suo sviluppo, sente l’esigenza di strumenti nuovi, non può che chiedere la “consulenza” del giurista: quando nel 1981 fu negoziato il primo swap tra IBM e Banca Mondiale, di chi è stata l’idea, del giurista o dell’economista? Difficile dirlo, certo che l’economista, senza il giurista, non avrebbe avuto in mano nessuno swap: e il concetto di “rischio” è nato prima nell’universo giuridico, o in quello economico? Ah, saperlo! Certo è, comunque, che il termine si trasforma in istituto, che rileva nel mondo economico, perché rileva nella disciplina dell’illecito, dell’assicurazione, dell’investimento finanziario attraverso azioni, derivati e così via. Più probabilmente si è trattato di un prodotto “spontaneo”, ossia, dati gli istituti disponibili in precedenza, a un certo punto è maturata una necessità nuova, e giuristi ed economisti si saranno messi attorno a un tavolo, per cercare di capire insieme come potesse essere conformato il nuovo istituto, adeguato alle nuove esigenze, conforme al nuovo interesse nel frattempo maturato.

E ha poi senso parlare della bolla dei subprimes, se non si precisa che questa cade in un contesto in cui il conio non è libero e in cui il credito è contingentato dalla legge dello Stato, e in cui gli istituti di credito sono legati oligopolisticamente a questo monopolio, con conseguente vincolo artificioso all’astrazione, che lega tutto allo stesso carro, e quindi all’andamento esclusivo di questo e alle sue sbandate, alle sue uscite fuori strada? E che gli istituti finanziari sono too big to fail, sicché vengono salvati in ogni modo? Perché, per quanto si affermi erroneamente che, con la riserva frazionaria, gli istituti di credito emettano moneta “privata”, in realtà questa moneta, sia pure gonfiata, è sempre quella a corso legale: semmai i derivati vanno oltre, speculando su commodities e su ogni cosa, ma sempre riferendosi ad esse in quanto beni della vita giuridicamente rilevanti, a loro volta soggetti a disciplina gius-pubblicistica e contrattuale in ogni aspetto della loro vita.

E’ poi materia da economista, parlare di “import-export”, come se tale nozione avesse senso veruno in assenza dei confini tra gli Stati? Certo, l’economista ci fornirà i dati e cercherà utilmente di spiegarci come questi si siano venuti a determinare, ma non coglierà mai l’essenza ultima dell’istituto che è meramente istituzionale, imperativa e coattiva, dato che il “confine” sa di frutto di guerra e dopoguerra, o del ripiegamento dell’impero, più che non di cereali e frutta fresca. Basti pensare al petrolio e a suoi valori, quanto su questi la politica internazionale abbia incidenza, così come sulle scelte nella direzione di una fonte energetica piuttosto che di un’altra, e quindi del relativo prezzo di mercato, sovvenzioni e sussidi a parte, si fa per dire.

Basterebbe questo a far comprendere che l’analisi del contesto normativo e dei rapporti di forza precede necessariamente ogni altra analisi. Il marxista risponderà che quegli assetti istituzionali sono frutto dei rapporti di produzione e del dominio del capitale, ma allora dovrà anche spiegare quale sia il nesso tra dominio del capitale e il fatto che la moneta non sia del capitale ma monopolistica e di Stato, comunque denominato (Banca Centrale Europea, ad esempio). Sarà forse perché non esiste nessun “capitale”, ma piuttosto gruppi di potere, i quali si coalizzano all’ombra dello Stato, e che utilizzano questo come proprio strumento verticale per il perseguimento dei propri obiettivi? Danno il loro contributo alla confusione anche i complottisti, non in quanto complottisti, ma in quanto ignoranti, ogni qualvolta affermano che le banche centrali sarebbero “private”, in quanto indipendenti rispetto ai governi. Ma “privato” significa esposto alla concorrenza, non il fatto di essere il monopolista della finanza pubblica, per quanto “indipendente”, o sia pure in posizione di supremazia, rispetto ai governi.

In ogni caso, le sole vicende di questo “capitale” non saranno mai tali da apportare modifiche sufficientemente profonde, in sé, a quegli assetti istituzionali, perché non è osservando l’andamento della borsa che noi possiamo cercare di comprendere se il monopolio della moneta e delle banche centrali verrà meno nella prossima stagione, in assenza, ovviamente, di un profondo e meditato progetto di radicale riforma politica, e quindi da attuarsi attraverso gli strumenti dell’innovazione normativa, conseguente alla lotta politica, e quindi ancora una volta a mutamenti dei rapporti di forza, che non hanno direttamente a che fare, se non in senso lato, con le vicende della produzione in senso stretto. Che poi qualcuno vaneggi di rivoluzioni, o, più verosimilmente, di crolli improvvisi di un sistema marcio, non toglie che anche il rivoluzionario, una volta al potere –ma anche una volta distrutto questo, come vorrebbero gli anarchici rimasti indietro di quasi un paio di secoli- dovrà pur adottare atti normativi e decisori, se vorrà mutare quell’assetto, comunque gradirà di denominarli.

E si badi che quando un Friedrich von Hayek ritiene di uscire dall’”economia”, per trattare la questione della teoria sociale e del metodo in generale, finisce che ci parla di informazione, sì, ma in quanto fonte di diritto e istituzioni (Legge, legislazione e Libertà), per spiegare come funzioni un “ordine spontaneo”, aprendo così la strada, anzi, ribadendola, alla rivoluzione di Bruno Leoni. Sicché tra giurisprudenza ed economia, in realtà, non c’è partita, tra le scienze sociali, e il vero competitor del diritto è allora semmai la scienza naturale nel suo assieme, nella sua attitudine a creare tecnologia in ogni accezione, la quale a propria volta crea nuovo diritto, dato che, se oggi abbiamo il prosumer, in luogo del consumer, ciò si deve a internet e addentellati, il quale però è stato a propria volta reso possibile da un determinato assetto normativo, che ha consentito alla tecnologia di dispiegarsi, se è vero poi, quel che si dice, che ad inventare internet sarebbe stata la Cia.

In ogni caso, qui davvero siamo all’uovo e alla gallina, dato che abbiamo sconfinato dalla scienza umana e sociale a quella naturale, e tuttavia la tecnologia è a propria volta punto di congiunzione e intersezione tra naturale e umana, una volta che la naturale abbia dato vita a realizzazioni con impatto indivisibile sulla realtà degli uomini e delle cose, bene pubblico e diritto inescludibile, in quanto le sue esternalità, buone o cattive, o addirittura “illecite” (quindi giuridicamente rilevanti anche in senso stretto), che come tali siano percepite, sono valide ed effettive per tutti: esattamente come il diritto, e sono “diritto” esse stesse, a tutti gli effetti, in quanto indirizzano, anche inintenzionalmente, la condotta umana e di tutti.

Senonché tra diritto e tecnologia si viene a porre in essere una dialettica, dato che il diritto, in quanto tale, è misura della scarsità (non c’è bisogno di ripartire il mio e il tuo in regime di abbondanza), laddove “missione storica” della tecnologia è di condurci esattamente verso l’abbondanza e la Manna dal Cielo, verso la gratuità, e  l’estinzione della moneta tradizionale, non in quanto la moneta sia lo sterco del demonio, dal quale tenere lontane le nostre narici, ma per quel che si è detto, ossia che la moneta è istituto giuridico e la manfrina monetaria un costo di transazione; sicché la stessa verrà meno in funzione dell’esaurirsi della funzione del diritto quale espressione emergenziale delle funzioni di scarsità nei rapporti intersoggettivi.

A quel punto, diremo che la scienza sociale della ricostruzione non sarà quella giuridica, ma quella anti-giuridica, ossia la capacità di misurare le quote di non-diritto esistenti, non in quanto prevaricate dal sovrano, che imponga costi ed esternalità unilateralmente, ma in quanto proprio non vi siano costi da misurare, se non quelli virtuali connessi alla varietà delle reputazioni. Ma non, però, quelli relativi alla ripartizione dei beni, una volta che di beni ve ne saran per tutti.

Ciò significa tutt’altro che una realtà statica, da concorrenza perfetta malamente intesa, o da comunismo definitivo, dato che vi sarà sempre spazio per l’imprenditore schumpeteriano e kirzneriano, nel senso che vi saranno sempre deficit d’informazione da colmare, ma il metro giuridico e monetario in senso stretto perderà via via la propria funzione essenziale, nella direzione anti-giuridica e virtuale. La scienza giuridica sarà quindi sempre utile ex negativo, per spiegare quanto di non diritto viga in società, mentre l’approccio economico alla Gary Becker troverà la sua più ampia espressione per misurare autorità, autorevolezza e reputazione nei rapporti interpersonali. E quindi la teoria dei giochi, salvo che, porca miseria, anche il “gioco” è un istituto giuridico (art. 1933 c.c.).

Il “diritto” è come il diavolo: ne parli, e ne spuntano le corna, perché il linguaggio giuridico non è altro che linguaggio naturale tecnicizzato: ma tale tecnicizzazione diviene formale e “ufficiale”, per cui diviene dominante rispetto ad altre discipline, che subiscono il destino di divenirne ancelle: ad esempio, la psicologia elabora una quantità di nozioni, desunte dal linguaggio comune, sul carattere delle persone, e in effetti dallo stesso linguaggio religioso (si pensi a ira, superbia, avarizia, e il resto). 

Ma siccome anche religione, almeno in buona parte, è a propria volta vicenda normativa, sempre di linguaggio giuridico si tratta, perché quel linguaggio viene utilizzato con modalità prescrittiva, o quantomeno indicativa, dalle scritture, le quali pure prevedono vere e proprie sanzioni umane, e non solo divine, per le trasgressioni (Levitico). Per cui lo “stato d’ira” è giuridicamente rilevante, e lo psichiatra e lo psicologo si faranno “consulenti tecnici” del legislatore, del giudice e del giurista per delinearne i contorni, adeguando all’oggi concetti di tradizione millenaria.

Tornando all’economia, questa e il giure si condizionano, in effetti, reciprocamente in un feed-back, nel quale l’uno preme sull’altra, per cui il primo costituisce l’oggetto della seconda, e la seconda misura e studia i modi e gli andamenti della produzione del primo: ma occorre considerare che il “mercato” è a propria volta sistema giuridico in quanto tale direttamente, perché nel mercato si incontrano e scontrano “pretese” (sull’uso della forza) e non mere “preferenze” (innocue in quanto tali): vale a dire che, fin quando la propensione all’uso della forza e della violenza non sarà riassorbita attraverso percorsi evolutivi dell’umanità, che riusciamo a malapena a intravedere, pur quando non vi sarà bisogno di ripartire il tuo dal mio, pur cioè quando vi fosse superamento dello stato di scarsità dei beni materiali oggetto di desiderio, ciò che continuerà a non scarseggiare sono le divaricazioni tra i modi di vedere delle persone, e quindi del pericolo che si passi a vie di fatto, non necessariamente per la ripartizione dei beni: ma magari in nome dell’onore, della reputazione, dell’accesso alla sessualità, dato che beni giuridicamente rilevanti e tutelati non sono solo quelli “economici” nell’accezione classica, se pure l’approccio di Gary Becker ci ha insegnato a utilizzare le categorie economiche per misurare l’allocazione di qualsiasi cosa.

Attenzione: non sto affatto proponendo un discorso di taglio conservatore, per il quale “occorre la legge per tenere a bada gli uomini”, al contrario: sto dicendo che, pur quando non vi fosse legge, ognuno comunque tenderebbe a far valere la propria nel mercato della forza. Pur quando non vi fosse, per modo di dire, mercato del pane, in quanto il pane divenisse risorsa abbondantissima, pur quando il mercato giuridico-monetario fosse sostituito dal mercato virtuale della gratuità, vi sarà sempre ancora un mercato fondamentale della forza, giacché altro non si fa, nel mercato, che scambiare ognuno la propria energia fisica, e ciò significa che ciascuno preme sull’altro nel tentativo di far valere un proprio presunto “diritto”, una propria visione del diritto, e ciò in senso soggettivo: con la conseguenza che dallo scontro reciproco emerga una qualche situazione più o meno in equilibrio, più o meno desiderabile, che possiamo anche chiamare il diritto oggettivo (momentaneamente) vigente nella città, in quanto frutto emerso da quel confronto intersoggettivo.

Ma, appunto, si tratta di equilibrio instabile, perché per essere stabile occorrerebbe che fosse inverata e incarnata la meta-norma di co-possibilità, la quale sia in grado di ammettere le contraddizioni, il che è tanto nei nostri voti, quanto però anche nella testa di Giove: ebbene, ove una siffatta meta-norma non si inverasse, continuerebbe ad esempio a darsi taluno, il quale facesse saltare per aria i medici che procurano aborti, come capita di tanto in tanto negli Stati Uniti, e questo è il loro “diritto”, che fanno valere nel mercato delle pretese a quello che 
viene rivendicato come uso legittimo della forza.

Vale a dire che chi pone in essere interruzioni della gravidanza, in una situazione nella quale non vi sia perfetta condivisione in ordine alla completa legittimità di una tale condotta, si espone al dato che sussista chi, ritenendo l’aborto un omicidio, e al contempo ritenendo legittima la pena di morte nei confronti dell’omicida, uccida chi pratica aborti nella piena convinzione della legittimità del proprio operato: e non c’è rimedio possibile a una tale situazione, ove non si superino unanimemente le due pre-condizioni logico-argomentative: che l’aborto consista in un omicidio e che l’omicida meriti pena di morte: alle quali si aggiunge una terza pre-condizione, ossia la disponibilità personale del convinto a passare, con coraggio proprio, a vie di fatto, esponendosi chiaramente al pericolo della ritorsione, che è la contro-prestazione attesa della sua propria pretesa per facta concludentia.

In definitiva, finché non vi sarà totale e completa riconduzione delle pretese all’uso della forza a unità, o quantomeno a co-possibilità, e quindi a riconduzione delle pretese a innocue preferenze, delle quali si attende paciosamente soddisfazione, il mercato, non solo continuerà a sussistere nella storia, ma continuerà a consistere in mercato sulle condizioni di ammissibilità della forza, come dire un mercato di produzione del diritto. E nel mercato del diritto, non sempre alla competizione corrisponde mera libera concorrenza, giacché può trattarsi, e anzi lo è spesso, di mercato agonistico, in cui al trionfo di una pretesa di legittimità corrisponde la soccombenza di un’altra, per quanto mai in via definitiva, ma sempre nel caso particolare, trattandosi di volta in volta di realizzazione di un bene pubblico, che si impone anche al recalcitrante, dato che la disciplina e la statuizione normativa, in ciascun caso particolare, produce effetti indivisibili alle parti: se io uccido un abortista, non meno che se uccido un anti-abortista, questa uccisione non segna mai il trionfo definitivo in comunità di una visione sull’altra, ma segna un momento di indivisibilità, perché il morto, se è morto, è morto agli occhi di tutti. E, salvo eccezioni controverse, non si risuscita.

Il diritto si pone esattamente nel cuore di questo sistema, inverando e dando forma alla linea del Caos che sorvola e attraversa ciascuno dei fenomeni molecolari descritti, come una freccia scagliata al centro del mondo e tra le stelle al tempo stesso.

La teoria del Caos non é una teoria del disordine, come si potrebbe pensare, bensì, al contrario, dell’ordine inteso in modo diverso, se non addirittura di un ordine superiore di cui siamo poco consapevoli.

Per la prima volta la nozione di Caos applicata ai mercati finanziari fu impiegata dal trader americano Bill Williams: il Caos é la libertà, la libertà di sensazione del mondo, di pensiero, di movimento, la linea del minore sforzo che segue l’energia.

Se dunque il diritto è l’emersione della linea del Caos, in quanto adeguato standard di riferimento ordinato e ordinante nel disordine costituente, e il Caos sociale si esprime nel mercato finanziario in modo particolarmente evidente e suscettibile di quotidiana fotografia, emerge altresì la stretta connessione tra diritto e fiducia, in quanto il mercato si fonda sulla fiducia. Ma l’istituto giuridico che più di ogni altro esprime l’elemento fiduciario è la moneta, quindi per comprendere al meglio quale sia il regime giuridico del diritto vigente (giuridicità del diritto), occorre subito guardare al regime giuridico della moneta.

Ciò suggerisce subito che esistono due nozioni piuttosto distinte di moneta e, quindi (o viceversa), due nozioni piuttosto distinte anche di “diritto”: diritto monopolistico, ad amministrazione discrezionale, e diritto di mercato, a produzione libera e diffusa, con conseguente emersione spontanea di quanto il mercato ritiene, a torto o a ragione, adeguato all’istante.

Per cui di accezioni del diritto ne emergono almeno tre: a) soggettiva, a emanazione individuale; b) oggettiva, a intersezione intersoggettiva; c) monopolistica, soggettiva del rivendicatore abusivo di esclusiva.

Forse, la branca che si occupa meglio delle prime due è la cosiddetta sociologia del diritto, che forse potrebbe più utilmente definirsi sociologia giuridica, sempre alla ricerca della giuridicità del diritto, della sua essenza ultima quale emersione dai rapporti sociali, scienza dell’individuazione degli standard di condotta reale, dei prezzi e dei costi, sociali ed economici delle condotte in relazione ai discostamenti dagli standard. Consuetudine? Non esiste nessuna consuetudine, esistono molti mores individuali che si intrecciano ed intersecano, e quel tanto di consuetudine che c’è,  ne è solo una risultante involontaria, e il monopolista è calato in questa risultante, i suoi atti non sono mai self-enforcing, ma sempre soggetti al mercato in cui sono calati, le sue gride manzoniane sull’uso della forza e della coercizione, che avranno un tasso di operatività che non supera percentuali da prefisso telefonico, tale è l’inflazione normativa rispetto alla copertura finanziaria e amministrativa, per non dire di quella giurisdizionale, ormai alle soglie del ridicolo.

Tant’è che per deflazionarla hanno dovuto di fatto cassarla, ponendo barriere d’accesso fiscali al giudizio elevatissime e introducendo ogni forma di mediazione assistita pre-processuale. Nessuno rimpiangerà gli avvocati da ambulacro, portaborse di se stessi, redattori di verbali spiegazzati sui tavolini degli uffici giudiziari, in ansia da parcella e da cappuccino e brioche al bar, fonte del diritto a propria volta, come si diceva.

Il monopolista è sempre distorsivo e inefficiente per definizione, e tanto più lo è quanto più presume da sé, e il monopolista (preteso e presunto tale) pretende davvero troppo da sé: realizzare i beni pubblici e il bene pubblico! Vien da sorridere, tanti auguri, se la cosa non fosse tragica. La tragedia consiste anzitutto nel legalismo etico diffuso ai livelli infimi della società, i vari “lo dice la legge”, “ci vuole una legge”, “c’è un regolamento in merito”, “e lo Stato che fa?”, che non si sopportano più, da parte di chi sia minimamente dotato di sensibilità umana, non si dice di… inclinazione libertaria.

Per fortuna, come dice il Sacco, esiste anche il “diritto muto”: basta mezza parola, lo si diceva, le persone intelligenti si intendono al volo, i minus habens invece riempiono carta e cartoni, falde e faldoni, e l’informatizzazione del monopolista chiede però anche la “copia di cortesia”. Per piacere, fatemi una cortesia…

E allora concludiamo anche noi con una definizione di “diritto”, non ve ne fossero abbastanza: “l’insieme degli standard delle condotte individuali e sociali, lo standard per eccellenza”.


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