di Fabio Massimo Nicosia
La crescente rilevanza
assunta da Facebook nei rapporti sociali impone di inquadrarne la natura
giuridico-economica, al fine di evitare di incorrere in gravi abbagli, che
comporterebbero gravissime conseguenze nella vita delle persone reali; si
tratta, in poche parole, di evitare di conferire a Mark Zuckerberg, o chi altri
al suo posto, il potere assoluto sulla
vita delle persone stesse.
Iniziamo considerando
la natura strettamente giuridica del soggetto “Facebook”, formalmente di
diritto privato, nella sostanza un vero e proprio servizio pubblico,
concessionario di bene e servizio pubblico stesso, avente per oggetto la
gestione di un diritto umano primario come la libertà di espressione e di
manifestazione del pensiero.
Applicando al nostro
caso quello che John Rawls chiama l’”ordinamento lessicografico”, per il quale
la libertà viene sempre al primo posto come valore fondamentale, preliminare a
ogni altro, quale che ne sia la natura socio-economica –e, semmai, riconducendo
a libertà anche i valori socio-economici, al fine di assicurare il rispetto
pieno dell’ordinamento lessicografico- ne deriva che la necessità di assicurare
la piena liberà di espressione e di manifestazione del pensiero è limite
preclusivo rispetto a qualsiasi attività possa essere svolta dai gestori di
Facebook.
Non solo; per meglio
comprendere la natura di questa attività, non può sfuggire che essa è
caratterizzata da due elementi chiaramente pubblicistici e pubblici: ossia, che
non si darebbe alcun “Facebook” se non vi fosse il bene e capitale comune “demanio”,
vale a dire la rete telefonica e l’etere, nonché che non si darebbe alcun “Facebook”
se non vi fossero cittadini e consumatori-prosumatori che lo tengono in vita e
lo alimentano con il proprio continuo e quotidiano lavoro, dato che Facebook altro non è che la raccolta del nostro
lavoro quotidiano di scrittori, sulle sue pagine diversamente bianche e immacolate;
v’è di più, visto che poi Facebook, che vive di demanio e di “lavoro pubblico”,
lucra attraverso la pubblicità, che rivolge nei nostri confronti, nonché
attraverso il trattamento dei nostri dati personali, che conferiamo di fatto gratis nel suo patrimonio e capitale.
La situazione di
rischio risulta poi aggravata dal fatto che Facebook, data la dottrina della
dimensione di scala efficiente, è, per la natura dell’attività svolta, un tendenziale monopolio naturale; e, per
le ragioni sopra indicate –uso del demanio e del lavoro dei cittadini-, tale
monopolio naturale non è meramente “di fatto”, ma ha fortissime implicazioni
immediatamente giuridiche, sicché si tratta di monopolio “naturale” di diritto; ciò lo incentiva a vivere parassitariamente di questa posizione dominante, che diviene abusivo approfittamento di brevetti, marchi e copyrights, fino al punto di incorrere nella fattispecie di nostro conio dell'abuso di posizione dominante per "inefficienza deliberata", data l'assenza di incentivi al miglioramento tecnologico e grafico.
Che Facebook sia
tendenziale monopolio naturale alla luce della dimensione di scala ottimale
della relativa attività è dimostrato non solo dal fatto che è del tutto
improbabile che, data l’estensione globale assunta da Facebook, possa emergere
un suo concorrente davvero significativo –non si dice in grado di intaccarne il
primato-, ma anche dal fatto che, a ben vedere, l’esistenza di un solo Facebook è vicenda desiderabile
e non in sé da osteggiare, dato che, proprio per la sua estensione globale, l’”unico
Facebook” consente –come del resto consente il web in quanto tale, del quale Facebook non è altro che una
proiezione- di mettere potenzialmente e, auspicabilmente, in rete e in
relazione tutte le persone del Globo:
a meno di non ipotizzare una pluralità di Facebook interconnessi, ma allora si
tratterebbe di mera parvenza di concorrenza, dato che, in termini fattuali, si
tratterebbe comunque di riconduzione ad unità.
Da tutto quanto precede
emergono non poche conseguenze sul piano della configurazione di quali
dovrebbero essere, per essere ricondotti a legittimità e concorrenza, i
rapporti tra Facebook e noi “prosumatori” che ci lavoriamo.
Anzitutto occorre
risolvere la questione della disciplina fiscale di Facebook, come degli altri
colossi del web, e la configurazione
del soggetto come concessionario de facto
di demanio pubblico ce ne suggerisce la soluzione anche in termini generali,
vale a dire sulla base della radicale critica, da noi già formulata, con
riferimento alla questione della tassazione come vero e proprio abuso ingiustificato,
date le ricchezze patrimoniali pubbliche, che non giustificano in alcun modo
pizzi di sorta in danno di chi da quelle ricchezze dovrebbe ricavare utile e
non punizione.
Se, come detto, il
demanio è fonte patrimoniale di ricchezza, non solo d’uso, ma anche finanziaria
per i suoi titolari (che sono direttamente i cittadini sulla base del principio
di sovranità popolare, e, quindi, ciascun singolo individuo sulla base del
principio di sovranity share, da noi
esposto nel “Dittatore Libertario”), è evidente che, per essere tale, non solo
sono configurabili operazioni di alta finanza a partire dal demanio come
sottostante, ma è anche necessario che l’uso della risorsa pubblica e comune
comporti beneficio finanziario diretto per i titolari –noi cittadini e “lavoratori”,
in questo caso, d Faebook- di questo bene e capitale comune: in poche parole,
si tratta di sostituire l’istituto stesso della tassazione con l’applicazione
di canoni di concessione del bene
comune (il demanio) in proporzione al consumo e all’uso che della risorsa di
capitale comune si fa.
Ecco allora che, se da
un lato, è privo di senso logico che Facebook, a differenza di ognuno di noi,
non paghi alcuna imposta –non si comprendono davvero le ragioni di una simile
eccezione, di un simile privilegio, come
del resto accade di fatto con Google-, nemmeno è opportuno condurre campagne in
favore della sua tassazione, che non farebbero che legittimare la tassazione
nei confronti di tutti gli altri, e va ricordato come, in gran parte, la
tassazione non sia che “pizzo” sul lavoro, il che non trova, a nostro avviso,
alcuna giustificazione di carattere etico, dato che non si comprende perché il
mio lavoro e i suoi frutti debbano essere assoggettati a “pizzo” di sorta: ne
deriva la necessità, puramente e semplicemente, che Facebook paghi un canone di concessione in funzione dell’uso
che fa del bene e capitale comune demanio, nonché del bene e capitale
individuale, che, in composto, diviene “comune”, “nostro lavoro”.
Tanto più che, come si
è detto, la dimensione di scala ottimale di Facebook è l’unità, sicché l’impiego
di quei beni e capitali comuni comprende anche il costo sociale dell’esclusione sostanzialmente naturale, e comunque
di fatto, di ipotetici concorrenti, che, non dimentichiamo, concorrerebbero
nella tutela della libertà di espressione e manifestazione del pensiero, che,
al contrario, attualmente e in prospettiva è affidata al monopolista di
fatto-diritto.
Ne deriva altresì che,
così come Facebook dovrebbe essere indotta a corrispondere finalmente un canone
di concessione, vincolato a compensare i prosumatori che siamo noi, dovrebbe
essere indotta altresì a rispettare quel vero e proprio testo costituzionale a
vantaggio del cittadino-consumatore, che è il cosiddetto “codice del consumo”,
che poi altro non è che l’applicazione in moderno e specifico del principio
latino dell’interpretatio contra
stipulatorem, ossia il principio secondo il quale una disciplina giuridica,
normativa o contrattuale, va per sistema interpretata in danno del soggetto più forte, che poi è quello che ha posto
unilateralmente quella disciplina, e non in suo vantaggio: come si vede un vero
e proprio principio di “diritto costituzionale” materiale.
E’ escluso perciò che
Facebook possa, non solo imporre unilateralmente standard normativi di condotta che siano anche solo limitatamente
lesivi della libertà di espressione e manifestazione del pensiero, ma anche
addirittura interpretarli unilateralmente
a proprio piacere, e, ancor di più, portarli a unilaterali esecusioni per facta concludentia, attraverso
esclusioni o cancellazioni, oltretutto in
assenza di alcun contraddittorio con l’interessato.
Perdurando al contrario
l’attuale situazione, si attribuirebbe a Mark Zuckerberg, o a chi per lui, un
potere pressoché assoluto e totalitario, per tutto il globo, in quella piazza
comune del villaggio globale che è Facebook; non è sostenibile, infatti, che,
nel terzo millennio, si possa dire a cuor leggero che di Facebook uno “può fare anche a meno”, e che quindi,
aderendo, si accettano le condizioni assurde che abbiamo descritto. Dire che si
può fare a meno di Facebook oggi, stante lo stato di addiction che innegabilmente si determina sull’utente, in questa
piazza comune del villaggio globale, così come del telefono, sarebbe stato come
dire che un cittadino di Firenze del medio evo avrebbe potuto fare a meno di
scendere nella piazza comunale, e che quindi, tanto vale, si sarebbe potuto
escludere senza danno e lesione da questo accesso, non essendo suo “diritto
naturale” scendere nella piazza. Si tratta di argomentazioni di livello
risibile, che le considerazioni tecniche sopra esposte confutano ampiamente. #ChiesaNikeista
#Aktoprosumo #ServiziAntitrust
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