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domenica 30 ottobre 2016

Facebook come tendenziale monopolio naturale di diritto

di Fabio Massimo Nicosia

La crescente rilevanza assunta da Facebook nei rapporti sociali impone di inquadrarne la natura giuridico-economica, al fine di evitare di incorrere in gravi abbagli, che comporterebbero gravissime conseguenze nella vita delle persone reali; si tratta, in poche parole, di evitare di conferire a Mark Zuckerberg, o chi altri al suo posto, il potere assoluto sulla vita delle persone stesse.

Iniziamo considerando la natura strettamente giuridica del soggetto “Facebook”, formalmente di diritto privato, nella sostanza un vero e proprio servizio pubblico, concessionario di bene e servizio pubblico stesso, avente per oggetto la gestione di un diritto umano primario come la libertà di espressione e di manifestazione del pensiero.

Applicando al nostro caso quello che John Rawls chiama l’”ordinamento lessicografico”, per il quale la libertà viene sempre al primo posto come valore fondamentale, preliminare a ogni altro, quale che ne sia la natura socio-economica –e, semmai, riconducendo a libertà anche i valori socio-economici, al fine di assicurare il rispetto pieno dell’ordinamento lessicografico- ne deriva che la necessità di assicurare la piena liberà di espressione e di manifestazione del pensiero è limite preclusivo rispetto a qualsiasi attività possa essere svolta dai gestori di Facebook.

Non solo; per meglio comprendere la natura di questa attività, non può sfuggire che essa è caratterizzata da due elementi chiaramente pubblicistici e pubblici: ossia, che non si darebbe alcun “Facebook” se non vi fosse il bene e capitale comune “demanio”, vale a dire la rete telefonica e l’etere, nonché che non si darebbe alcun “Facebook” se non vi fossero cittadini e consumatori-prosumatori che lo tengono in vita e lo alimentano con il proprio continuo e quotidiano lavoro, dato che Facebook altro non è che la raccolta del nostro lavoro quotidiano di scrittori, sulle sue pagine diversamente bianche e immacolate; v’è di più, visto che poi Facebook, che vive di demanio e di “lavoro pubblico”, lucra attraverso la pubblicità, che rivolge nei nostri confronti, nonché attraverso il trattamento dei nostri dati personali, che conferiamo di fatto gratis nel suo patrimonio e capitale.

La situazione di rischio risulta poi aggravata dal fatto che Facebook, data la dottrina della dimensione di scala efficiente, è, per la natura dell’attività svolta, un tendenziale monopolio naturale; e, per le ragioni sopra indicate –uso del demanio e del lavoro dei cittadini-, tale monopolio naturale non è meramente “di fatto”, ma ha fortissime implicazioni immediatamente giuridiche, sicché si tratta di monopolio “naturale” di diritto; ciò lo incentiva a vivere parassitariamente di questa posizione dominante, che diviene abusivo approfittamento di brevetti, marchi e copyrights, fino al punto di incorrere nella fattispecie di nostro conio dell'abuso di posizione dominante per "inefficienza deliberata", data l'assenza di incentivi al miglioramento tecnologico e grafico.

Che Facebook sia tendenziale monopolio naturale alla luce della dimensione di scala ottimale della relativa attività è dimostrato non solo dal fatto che è del tutto improbabile che, data l’estensione globale assunta da Facebook, possa emergere un suo concorrente davvero significativo –non si dice in grado di intaccarne il primato-, ma anche dal fatto che, a ben vedere, l’esistenza di un solo Facebook è vicenda desiderabile e non in sé da osteggiare, dato che, proprio per la sua estensione globale, l’”unico Facebook” consente –come del resto consente il web in quanto tale, del quale Facebook non è altro che una proiezione- di mettere potenzialmente e, auspicabilmente, in rete e in relazione tutte le persone del Globo: a meno di non ipotizzare una pluralità di Facebook interconnessi, ma allora si tratterebbe di mera parvenza di concorrenza, dato che, in termini fattuali, si tratterebbe comunque di riconduzione ad unità.

Da tutto quanto precede emergono non poche conseguenze sul piano della configurazione di quali dovrebbero essere, per essere ricondotti a legittimità e concorrenza, i rapporti tra Facebook e noi “prosumatori” che ci lavoriamo.

Anzitutto occorre risolvere la questione della disciplina fiscale di Facebook, come degli altri colossi del web, e la configurazione del soggetto come concessionario de facto di demanio pubblico ce ne suggerisce la soluzione anche in termini generali, vale a dire sulla base della radicale critica, da noi già formulata, con riferimento alla questione della tassazione come vero e proprio abuso ingiustificato, date le ricchezze patrimoniali pubbliche, che non giustificano in alcun modo pizzi di sorta in danno di chi da quelle ricchezze dovrebbe ricavare utile e non punizione.

Se, come detto, il demanio è fonte patrimoniale di ricchezza, non solo d’uso, ma anche finanziaria per i suoi titolari (che sono direttamente i cittadini sulla base del principio di sovranità popolare, e, quindi, ciascun singolo individuo sulla base del principio di sovranity share, da noi esposto nel “Dittatore Libertario”), è evidente che, per essere tale, non solo sono configurabili operazioni di alta finanza a partire dal demanio come sottostante, ma è anche necessario che l’uso della risorsa pubblica e comune comporti beneficio finanziario diretto per i titolari –noi cittadini e “lavoratori”, in questo caso, d Faebook- di questo bene e capitale comune: in poche parole, si tratta di sostituire l’istituto stesso della tassazione con l’applicazione di canoni di concessione del bene comune (il demanio) in proporzione al consumo e all’uso che della risorsa di capitale comune si fa.

Ecco allora che, se da un lato, è privo di senso logico che Facebook, a differenza di ognuno di noi, non paghi alcuna imposta –non si comprendono davvero le ragioni di una simile eccezione, di  un simile privilegio, come del resto accade di fatto con Google-, nemmeno è opportuno condurre campagne in favore della sua tassazione, che non farebbero che legittimare la tassazione nei confronti di tutti gli altri, e va ricordato come, in gran parte, la tassazione non sia che “pizzo” sul lavoro, il che non trova, a nostro avviso, alcuna giustificazione di carattere etico, dato che non si comprende perché il mio lavoro e i suoi frutti debbano essere assoggettati a “pizzo” di sorta: ne deriva la necessità, puramente e semplicemente, che Facebook paghi un canone di concessione in funzione dell’uso che fa del bene e capitale comune demanio, nonché del bene e capitale individuale, che, in composto, diviene “comune”, “nostro lavoro”.

Tanto più che, come si è detto, la dimensione di scala ottimale di Facebook è l’unità, sicché l’impiego di quei beni e capitali comuni comprende anche il costo sociale dell’esclusione sostanzialmente naturale, e comunque di fatto, di ipotetici concorrenti, che, non dimentichiamo, concorrerebbero nella tutela della libertà di espressione e manifestazione del pensiero, che, al contrario, attualmente e in prospettiva è affidata al monopolista di fatto-diritto.

Ne deriva altresì che, così come Facebook dovrebbe essere indotta a corrispondere finalmente un canone di concessione, vincolato a compensare i prosumatori che siamo noi, dovrebbe essere indotta altresì a rispettare quel vero e proprio testo costituzionale a vantaggio del cittadino-consumatore, che è il cosiddetto “codice del consumo”, che poi altro non è che l’applicazione in moderno e specifico del principio latino dell’interpretatio contra stipulatorem, ossia il principio secondo il quale una disciplina giuridica, normativa o contrattuale, va per sistema interpretata in danno del soggetto più forte, che poi è quello che ha posto unilateralmente quella disciplina, e non in suo vantaggio: come si vede un vero e proprio principio di “diritto costituzionale” materiale.

E’ escluso perciò che Facebook possa, non solo imporre unilateralmente standard normativi di condotta che siano anche solo limitatamente lesivi della libertà di espressione e manifestazione del pensiero, ma anche addirittura interpretarli unilateralmente a proprio piacere, e, ancor di più, portarli a unilaterali esecusioni per facta concludentia, attraverso esclusioni o cancellazioni, oltretutto in assenza di alcun contraddittorio con l’interessato.

Perdurando al contrario l’attuale situazione, si attribuirebbe a Mark Zuckerberg, o a chi per lui, un potere pressoché assoluto e totalitario, per tutto il globo, in quella piazza comune del villaggio globale che è Facebook; non è sostenibile, infatti, che, nel terzo millennio, si possa dire a cuor leggero che di Facebook uno “può fare anche a meno”, e che quindi, aderendo, si accettano le condizioni assurde che abbiamo descritto. Dire che si può fare a meno di Facebook oggi, stante lo stato di addiction che innegabilmente si determina sull’utente, in questa piazza comune del villaggio globale, così come del telefono, sarebbe stato come dire che un cittadino di Firenze del medio evo avrebbe potuto fare a meno di scendere nella piazza comunale, e che quindi, tanto vale, si sarebbe potuto escludere senza danno e lesione da questo accesso, non essendo suo “diritto naturale” scendere nella piazza. Si tratta di argomentazioni di livello risibile, che le considerazioni tecniche sopra esposte confutano ampiamente. #ChiesaNikeista #Aktoprosumo #ServiziAntitrust

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