di Fabio Massimo Nicosia
La scomparsa di Marco
Pannella segna un passaggio fondamentale nella storia della cultura politica
radicale in questo Paese, soprattutto sul piano simbolico; tanto era straripante
Pannella, che, venuto meno lui, è fin troppo ovvio dire che non ce ne sarà un
altro, salvo aggiungere immediatamente “e per fortuna”, se si saprà trarne l’occasione
per proseguire di slancio e non parassitariamente, come alcune avvisaglie inducono a temere.
La cultura politica
radicale, in questi decenni, ha praticamente sempre coinciso con la cultura
politica personale di Marco Pannella; senonché Pannella ha non di rado mutato
opinione, senza però mai spiegare adeguatamente le ragioni del mutamento
dell’opinione, oltre a non sottoporre a dibattito l’opinione sopravvenuta, con
la conseguenza dello stratificarsi di generazioni di militanti diversi,
portatori di culture politiche differenziate, che hanno condotto alla
fuoriuscita molto spesso delle generazioni precedenti, con perdita secca di
patrimonio umano e culturale comune.
Ciò ha conseguito al sempre
ostentato disinteresse per le questioni di carattere culturale, liquidate come
poco utili in un partito pragmatico e di militanza. Naturalmente ciò non
corrisponde al vero, dato che Pannella si è al contrario sempre preoccupato di
elaborare in proprio la cultura politica, sulla quale fondare la proprie
iniziative.
*****
Nella cultura politica
di Pannella, agli inizi degli anni ’70, confluivano, da un lato, la tradizione
del vecchio Partito Radicale de “Il Mondo” di Mario Pannunzio e di Ernesto
Rossi, e dall’altro la cultura di derivazione americana del movement della controcultura (ma anche
dai beat nostrani pre-‘68, a Milano e a Roma) e dei “diritti civili”, campo in
cui la questione della libertà del corpo e della sessualità ha trovato la
propria centralità: divorzio, aborto e omosessualità vanno ricondotti a questo
denominatore comune, di cui sono evidenti le implicazioni anticlericali, e
quindi anticoncordatarie: il tema della denuncia del Concordato, del resto,
apparteneva anche al vecchio Partito Radicale, così come, tutti lo sanno,
l’anticlericalismo è sempre stata la bandiera del radicalismo storico (Felice
Cavallotti, lo stesso Garibaldi, etc.).
Fu un mix originale, che
trovò la massima espressione in due momenti:
a) La denuncia, agli inizi degli anni ’70,
della continuità tra Partito Nazionale Fascista e “regime democristiano”, che
si fondava sulle migliaia di “leggine corporative”, con il coinvolgimento dei
partiti di destra e di sinistra, soprattutto di sinistra, Pci in particolare;
b) La prefazione di Pannella al libro del
direttore di “Re Nudo”, Andrea Valcarenghi, “Underground a pungo chiuso”, testo
fondamentale e tuttora impressionante, in cui si dichiarava amicizia nei
confronti di queste aree irregolari dell’estrema sinistra, si contrapponeva la
scelta nonviolenta alla “violenza rivoluzionaria”, si mettevano al centro le
questioni della sessualità e dei diritti civili e si denunciava il regime
democristiano e partitocratico come elemento di continuità con il
corporativismo fascista.
b1) Tale testo, in
particolare, si segnala per una strizzatina d’occhio “anarchica”, da parte di
Pannella, allorché egli afferma di ripudiare ogni forma di potere e di
rafforzamento del potere; anche successivamente, fino al 1979, ai congressi,
Pannella parlava di “deperimento del potere” come obiettivo ultimo radicale.
A tutto questo va
aggiunta la considerazione del modello organizzativo statutario (1967)
“federalista e federativo”, che evidentemente sottintendeva anche una
preferenza istituzionale per la società nel suo insieme.
Nel 1976, un sondaggio
di “Re Nudo” mostrava come la netta maggioranza relativa dei lettori, e
soprattutto delle lettrici, si dichiarasse “anarco-radicale”, e si è trattato
di un filone sotterraneo sempre presente, messo via via in ombra da successive
acquisizioni in chiave liberista e quasi-anarcocapitalista, che avrebbero
potuto trovare anche un senso condiviso con quelle precedenti impostazioni, se,
accanto alla narrazione, fosse stato presente il necessario approfondimento dei
presupposti culturali.
*****
Il Partito Radicale
perseguiva in quel periodo (in realtà a partire da un articolo di Pannella su
“Paese Sera” del 1959) la linea dell’”alternativa di sinistra”, che trovava
entusiasti gli intellettuali dell’area socialista, resistenze nel PSI e la
contrarietà del PCI di Enrico Berlinguer, che lavorava per il “compromesso
storico” con la DC. Si leggano gli scritti di Aldo Moro di già prima di quel
periodo, e la derivazione dalla cultura “totalitaria” fascista appare evidente;
non c’è offesa in questa considerazione: il “totalitarismo” va qui inteso come
volontà di convogliare tutte le energie sociali, in modo da poterle
contemperare, coniugare, “fondere”, e in questo approccio Berlinguer si trovava
perfettamente a proprio agio.
Del resto, Pietro Ingrao
da giovane apparteneva alla sinistra fascista di Giuseppe Bottai, sicché il
cerchio si chiude, se si pensa che il teorico del corporativismo Ugo Spirito
tenne un convegno su Hegel a Roma negli anni ’30, per spiegare come il tedesco
fosse in realtà una sorta di cripto-comunista, e riconduceva i comunisti alla
categoria del “fascista impaziente”.
A tali impostazioni
“fusioniste” catto-comuniste si contrapponeva la visione liberale-conflittuale
dei radicali e di chi, tra i socialisti, perseguiva la strategia
dell’alternativa di sinistra. Questa strategia fu poi sconfitta con l’”Unità
nazionale” Andreotti-Berlinguer (1976-1979) e con il penta-partito voluto da
Craxi successivamente (si tralasciano qui tutte le vicende emergenziali e
terroristiche di quel periodo).
*****
Se il quadro, sin qui,
appare abbastanza chiaro sul piano politico-istituzionale e dei diritti civili,
non è mai stata molto chiara la posizione radicale in materia economica.
I riferimenti ideali di
Pannella erano, in quella fase, liberali di sinistra e liberal-socialisti:
Piero Gobetti, Carlo Rosselli ed Ernesto Rossi. Gobetti era un liberista, fautore
nei primi anni ’20, dell’accesa conflittualità capitalisti/lavoratori (per
Gobetti gli operai erano imprenditori a propria volta), che lui chiamava
“Rivoluzione Liberale”: subiva l’influenza di Luigi Einaudi, da un lato, e di
Georges Sorel (anarco-sindacalista) e Antonio Gramsci (consigli di fabbrica)
dall’altro.
Rosselli era il teorico
del “socialismo liberale”, ma scrisse anche il saggio “Contro lo Stato”, in cui
rivendicava continuità con la tradizione anarchica federalista e con il Marx
della “Critica del programma di Gotha”, in cui si parlava del riassorbimento
dello Stato nella società. Rosselli intrattenne stretto rapporto con Camillo
Berneri, detto il liberista dell’anarchismo, fautore del municipalismo
libertario (come poi in anni più recenti l’anarchico americano Murray
Bookchin), ucciso poi dai comunisti stasliniani durante la guerra di Spagna. A
Barcellona (1936), Rosselli lanciò lo slogan “Comunismo sì, ma libertario”. Come
si vede, i richiami pannelliani di quel periodo avevano implicazioni oltre le
attese.
In questo quadro, la
figura di Ernesto Rossi occupava un ruolo centrale. Meno teorico politico degli
altri due, economista einaudiano, Rossi voleva però coniugare il liberismo con
l’”Abolire la miseria” (titolo di un suo libro famoso), proponendo una sorta di
“reddito di cittadinanza” ante litteram,
però non in moneta, ma in servizi uguali per tutti i cittadini (casa,
abbigliamento, etc.). L’approccio era “moralista” (il cittadino avrebbe dovuto
guadagnarsi i servizi, prestando da giovane un servizio civile obbligatorio, e
il reddito era in servizi e non in moneta, per evitare che le persone potessero
spenderlo in modo appunto immorale), ma l’intuizione è quella giusta: ci si può
permettere il liberismo, anche quello più “sfrenato” (monopoli esclusi), se i
servizi di base sono garantiti a tutti.
*****
Di tale tradizione
culturale, nel dibattito radicale c’era ben poco. Solo i continui, ma vaghi,
richiami di Pannella alla triade Gobetti-Rosselli-Rossi: poi ognuno avrebbe
dovuto andare a leggerseli per conto proprio, ma senza alcuna ricaduta politica
concreta. In realtà, ai congressi radicali degli anni ’70 campeggiavano i
cartelloni “Socialismo libertario e autogestionario”, ma di questa
“autogestione”, che è di tradizione anzitutto anarchica, si occupava in realtà
solo “Mondoperaio”, la rivista ufficiale del PSI, per spinta di Luciano
Pellicani, che pubblicò vari testi sul “socialismo di mercato” e rese noto
Bruno Rizzi, ex trotskista, poi primo critico del “collettivismo burocratico”
dell’Unione Sovietica (il libro uscì con introduzione di Bettino Craxi e
prefazione dello stesso Pellicani, successivamente avvicinatosi a Berlusconi e,
in genere, alla cultura liberale, che egli stesso aveva contribuito a immettere
nel socialismo).
*****
Gli anni ’80 si aprono
con il “Preambolo” allo statuto del Partito Radicale di Pannella: testo di
aspirazioni elevate, che segna il passaggio dall’”anarchismo” degli anni ’70
allo “Stato di diritto” successivo. In realtà, nel “Preambolo” la locuzione
“Stato di diritto” non si rinviene. Si parla invece di “diritto e legge”, come
fondamento della disobbedienza civile e della lotta nonviolenta. Il tutto va
inserito nel contesto della lotta contro “lo sterminio per fame nel mondo”, i
cui portati concreti non sono apparsi entusiasmanti, anche alla luce di un non
preciso inquadramento teorico della questione.
Gli anni ’80 segnano
anche la centralità della lotta per la “giustizia giusta” con il caso Tortora e
il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Va detto, a tale
proposito, che il “garantismo”, divenuto poi pro domo potenti, nasce negli anni ’70 come istanza dell’estrema
sinistra, dell’Autonomia operaia e simili, contro la “repressione”. Pannella
intrecciò dialogo con l’estrema sinistra su questo terreno, ottenendo
dichiarazione di voto da parte dei maggiori esponenti dell’Autonomia operaia,
anche a prescindere dalla candidatura di Toni Negri. Non è un caso che Emilio
Vesce, imputato del “7 aprile”, fosse poi divenuto tra i radicali acceso
berlusconiano, finché morte non sopraggiunse.
La stessa locuzione
“Stato di diritto” (titolo attribuito, in quel momento, dagli Editori Riuniti,
quindi dal PCI, a una raccolta di saggi politici di Immanuel Kant) viene
rilanciata, negli anni ’70, da quegli ambienti: la cosa non sorprenda, si
trattava infatti sempre di una chiave “difensiva”, che trovò poi teorizzazione
nel filosofo del diritto Luigi Ferrajoli, vicino a Democrazia Proletaria, già
giudice di “Magistratura democratica”, corrente allora di estrema sinistra della
magistratura, che propugnava il “garantismo dinamico”, inizio della pratica
della “via giudiziaria al socialismo”; Tangentopoli ha poi rimescolato le carte
sulla questione dei rapporti tra magistratura progressista, governo del diritto
e mondo politico.
Questo approccio
“statalista” al diritto non ha quindi fondamento radicale, ma di estrema sinistra,
se persino Pannella, come detto, non ne parlava, non solo in epoca precedente,
ma nemmeno nel “Preambolo”. La tradizione giuridica liberale moderna è
anti-statalista, non statalista: basti pensare a Bruno Leoni, a suo richiamo
alla common law e alla sua
teorizzazione del diritto come “scambio di pretese individuali”, che prescinde
dal riferimento monopolistico nella produzione normativa, sicché rule of law e “Stato di diritto” vanno
considerate due nozioni diverse: controllo del potere dal basso, l’uno,
aspirazione a che il potere non tradisca se stesso, l’altro. Entrambe le letture, però, non paiono adeguate a inquadrare la fattispecie "Stato" nel diritto internazionale oggi vigente, che è diritto della concorrenza e del mercato, ambiti nei quali lo Stato si situa, indipendentemente dalle sue interne formule organizzatorie.
*****
Così come negli anni ’70
si proclamava, da parte dei radicali, il “socialismo autogestionario”, negli
anni ’90 esplode il “liberismo spinto” di Antonio Martino. Anche a tale proposito,
si è trattato di una svolta personale di Pannella, alla quale non ha fatto
riscontro alcun dibattito, di modo che si è passati dal “socialismo” al
“liberismo” di colpo (salvo il decennio-cuscinetto anni ’80), senza capire bene
perché si fosse mutata analisi. Ciò ha comportato un cambio strutturale della
base radicale (meno capelli lunghi e più cravatte modello Benedetto Della
Vedova), anche perché “a sinistra” il legame con Berlusconi, che è possibile
sia conseguito anche a motivi di interesse nel mondo televisivo, è stato visto
come un “tradimento”, e sappiamo che ancora si pagano non pochi scotti per
questa ragione.
Era emerso infatti nel
frattempo l’anarco-capitalismo (o anarco-liberismo), che in Italia aveva
trovato minima diffusione alla fine degli anni ’70, attraverso la rivista di
Riccardo La Conca “Claustrofobia”. La Conca accusava Pannella di “statalismo”
in economia, e propugnava una politica sui diritti civili molto drastica (del
tipo: “Il corpo è mio e lo buco quanto mi pare”): una specie di frikkettonismo
liberista, che si attagliava al personaggio, passato in pochi anni dalla
Lamborghini alla vita di strada romana.
*****
In realtà, socialismo
autogestionario e anarco-capitalismo hanno in comune il riferimento al
“mercato”, salvo che, perdendosi di vista il riferimento “abolire la miseria”,
il liberismo antistatalista senza reddito di cittadinanza, pare a molti
pretesto per tutelare i privilegi dei ricchi e dei pochi, e oggi i think tanks liberali, divenuti punto di
riferimento di molti radicali, in assenza di elaborazione autonoma, sono
avviati esattamente su questa strada di tutela di interessi anche
inconfessabili, o comunque non sempre confessati, in nome di un antistatalismo
di maniera, che attribuisce al capitalismo tutti i meriti e allo statalismo
inefficiente tutte le colpe di questo mondo, come se il capitalismo odierno non
si nutrisse in grande parte di statalismo e di Stato, molto utile a supportare
certi interessi: sicché la lotta allo statalismo diviene anzitutto lotta allo
stato sociale, ossia allo Stato che tutela i deboli o dice di farlo,
strumentalizzando a questo proposito determinate prese di posizione di
Pannella, che vanno inquadrate storicamente, contro il debito pubblico o le
pensioni anticipate; quando oggi invece il tema che si impone è ancora una
volta “abolire la miseria”, e non certo fare del politicamente scorretto a buon
mercato difendendo il ricco contro il povero.
Il tutto, non tenendo conto che -questione della contabilizzazione del patrimonio pubblico a parte, che imporrebbe alla materia un profondo mutamento di paradigma- il "debito detestabile" ha avuto da noi una vera e propria impennata a partire dal 1981, ossia la momento del "divorzio" tra Tesoro e Banca d'Italia, con conseguente assoggettamento dei titoli di Stato al ricatto del mercato finanziario, sicché tutte le letture della vulgata, anche di recente riproposte, vanno considerate strumentali e, non di rado, in vera e propria malafede.
Il tutto, non tenendo conto che -questione della contabilizzazione del patrimonio pubblico a parte, che imporrebbe alla materia un profondo mutamento di paradigma- il "debito detestabile" ha avuto da noi una vera e propria impennata a partire dal 1981, ossia la momento del "divorzio" tra Tesoro e Banca d'Italia, con conseguente assoggettamento dei titoli di Stato al ricatto del mercato finanziario, sicché tutte le letture della vulgata, anche di recente riproposte, vanno considerate strumentali e, non di rado, in vera e propria malafede.
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Val forse la pena di
sorvolare, o di rinviare ad altra occasione, l’analisi di tutta la fase,
meritevole di migliore approfondimento, in cui le posizioni radicali si sono
caratterizzate, anche qui senza adeguata riflessione su tutte le conseguenze e
implicazioni, in termini di vera e propria destra politica sul piano delle
riforme istituzionali e della politica estera, anche qui con repentino
abbandono di posizioni storiche antimilitariste e anti-Nato, salvo susseguenti
resipiscenze, proposte nei termini del diritto alla conoscenza.
A tale filone va ricondotta però anche la questione dell'esaltazione acritica dell'"Europa", un'Europa della finanza che ricatta i paesi meridionali con il pretesto di un debito alimentato ad arte, e che ha visto ad esempio Emma Bonino schierarsi apertamente contro la Grecia in occasione del noto referendum, senza tener conto del fatto che le ricchezze patrimoniali greche erano molto ambite dal capitale finanziario, certo più attento dei politici distratti sulla rilevanza di un demanio, sul quale molti hanno messo da molto tempo gli occhi.
*****
A questo punto, può
essere di un qualche interesse fare riferimento alla questione cattolica con riferimento a Marco
Pannella. Anche a tale proposito si è trattato di sua vicenda personale, anche
se i riferimento latamente “religiosi” sono stati sempre presenti nella sua
“predicazione”, vedi anche il rapporto con i “Cattolici del No” ai tempi del
referendum sul divorzio. Anche se tali “comunità di base” prediligevano il
rapporto con il PCI (pur pendendo la strategia del compromesso storico), dato
il carattere “borghese” dei radicali.
Con l’avanzare degli
anni, Pannella ha sentito sempre più su di sé il richiamo religioso, e questo è
apparso pare comprensibile; Pannella ha
sempre guardato, diciamo seguendo lo stile di Giovanni XXIII, ai “grandi della
Terra” (nei limiti delle sue possibilità, che non sono quelle di Giovanni
XXIII), come leva d’appoggio per ottenere decisioni globali o nazionali nelle
direzioni da lui auspicate: si veda l’appello dei premi Nobel sullo “sterminio
per fame nel mondo”, i continui appelli ai presidenti della Repubblica, il
privilegiare il rapporto politico di vertice rispetto ai riferimenti sociali, i
richiami all’Onu: fa parte di una precisa strategia, di una precisa scelta, dovuta
anche a ragioni caratteriali.
Ora, la cosa
interessante è che questo coltivare sentimenti religiosi ha condotto Pannella
infine ad avvicinarsi idealmente all’idea dell’”ultimo”, più di quanto non
fosse apparso in precedenza. Anche l’attenzione al mondo del carcere può essere
letta in questa chiave, anche se occorre evitare che il carcere divenga per i
radicali quello che per i sindacati è il lavoro salariato: qualcosa da
alimentare, per non perdere il proprio ubi
consistam: se non esistesse lo sfruttato il sindacato non avrebbe di che
cosa parlare: allo stesso modo, non si vorrebbe che, allo stesso modo, i radicali diventassero
organizzazione del controinteresse nel senso di Giovanni Tarello: non si vorrebbe che la logica diventasse quella del "meglio che le
carceri esistano, e che i detenuti non stiano troppo bene, così abbiamo qualcosa di cui continuare a parlare parassitariamente".
*****
Pannella del resto aveva
sentito da tempo, nella sua ricerca personale, l’esigenza di precisare di “non
essere mai stato liberista”, prendendo le distanze dal liberismo come “giungla”;
il punto però oggi è quello detto, ossia che la “giungla” si nutre del rapporto
con il monopolista della forza in tutto, il mondo, sicché fanno sorridere i
cultori del mercato tardivi, travestiti da non credibili antistatalisti, che
pure si sono insediati tra i radicali attraverso Istituto Bruno Leoni, Adam
Smith Society e “Il Foglio”, sostenitori di quel politicamente scorretto che
non scandalizza nessuno, e che invece e di gran comodo per gli interessi
dominanti.
*****
Oggi, si tratta semmai di
aggiornare, destatalizzandolo, l’Ernesto Rossi a un tempo liberista e abolitore
di miseria. Quello che non va è l’approccio statalista-burocratico-poliziesco
(come nella proposta del M5S) al tema del reddito di cittadinanza. Qui si
aprirebbe il discorso sulla spesa pubblica e sui bilanci pubblici (che sono
“falsi”, perché non prevedono, se non con allusioni risibili, in violazione
della legge, la contabilizzazione del valore dei beni demaniali e dei diritti
immateriali dello Stato), che non può essere svolto qui, che però ribaltano
profondamente paradigma e ordinamento lessicografico nell’approccio alle
questioni della finanza pubblica e del debito.
Del passaggio
anarco-capitalista va quindi mantenuta la critica radicale allo Stato:
l’anarco-capitalista “odia” lo Stato più dell’anarco-comunista, perché, anche
se ignora la “questione sociale”, sa che non esiste funzione sovrana
(giustizia, moneta, realizzazione dei beni pubblici e tutela dell’ambiente,
attraverso la tutela dei diritti di proprietà, incluse) che non possa essere devoluta
al mercato.
Ciò porta
l’anarco-capitalismo sano, puramente astratto, però, a rappresentare, contro la propria stessa volontà, una
profonda critica al capitalismo storico, e quindi agli interessi dei
capitalisti di oggi, perché questi vivono “di Stato” da ogni punto di vista. La
questione dei diritti di proprietà intellettuale, ossia brevetti, marchi e copyrights, diviene centrale, perché il fair value dei diritti industriali
occupa oggi oltre la metà dei bilanci della grande impresa, ma i diritti
immateriali sono concessioni amministrative, non un istituto giuridico del
mercato, così come la moneta può essere l’una o l’altra cosa, ma noi siamo
troppo abituati alla sua gestione discrezionale e amministrativa, che ci sfugge
totalmente il fatto che si tratta di strumento del potere arbitrario, perché è
difficile scalfire le abitudini.
Tutto quanto si è detto
vale per dire che, siccome “morto un Pannella, non se ne fa un altro”, su
ciascuna di queste questioni occorrerà tornare con un approfondimento adeguato,
che attribuisca un senso e un significato al proseguire della vicenda radicale:
diversamente, sarà opportuno scambiarsi il saluto della pace e mollare la baracca,
e soprattutto i burattini.
Ottimo commento e corretta ricostruzione storica del Pannellismo.
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