di Fabio Massimo Nicosia
La
dialettica tra opposte o diverse tensioni unisoggettive si esprime tra i distinti poli
del monopolio, o, per meglio dire, della pretesa abusiva, ossia non
giustificata, al dominio, del comune, ossia dell’espressione di quanto è
aspirazione alla condivisione del bene, percepito come suscettibile appunto di
condivisione da parte delle diverse soggettività, e della concorrenza, ossia
l’espressione immediata esattamente della plurisoggettività ontologica e,
quindi, del conseguente carattere intrinsecamente pandespota della capacità di
effusione normativa, estrinsecazione del dato di fatto che ciascuno è
espressione di un proprio diritto, di una propria azione, di una propria iniziativa,
che chiede di potere essere esercitata senza impedimenti e barriere da parte di
altri e, quindi, anche indipendentemente dall’aspirazione alla condivisione dei
beni e dalle contestuali pretese monopolistiche.
L’impressione
è che questa dialettica sia difficilmente componibile, se la vicenda storica ci
suggerisce la compresenza costante, la continua, non solo e non tanto,
convivenza, ma, più precisamente, commistione tra i diversi elementi e le
diverse componenti; ciò ci induce a ritenere non possibile, allo stato,
accantonare sic et simpliciter l’uno o l’altro degli elementi stessi, né
comunque prescinderne utopicamente nell’argomentazione, o nella ricostruzione
della proposta, dato che si tratta semmai di operare al fine di comprendere i
limiti immaginabili di operatività dell’uno e dell’altro, in vista della loro
risoluzione dialettica l’uno nell’altro, o con l’altro; se è piuttosto chiaro
quali siano i fondamenti ontologici della concorrenza, vale a dire la
distinzione tra le soggettività e il loro inevitabile, almeno in una qualche
misura, interagire autonomo e autodinamico, resta da comprendere meglio quale
sia, se c’è, il fondamento ontologico degli altri due elementi, la tendenza al
monopolio e la tendenza comunista, per verificare se non sussista connessione
tra le due tendenze, ovvero se questa sia a propria volta risolvibile
dialetticamente.
Prescindiamo
qui dalla questione relativa alla cosiddetta “concorrenza monopolistica”, ossia
dalla teoria che conduce all’affermazione radicale, concettualmente corretta,
ma in questa fase fuorviante, secondo la quale ognuno è monopolista di se
stesso, o comunque che ogni concorrente presenta caratteristiche pregnanti
proprie che ne fanno in qualche misura un monopolista, e chiediamoci quali
siano le condizioni fondamentali per le quali si possa venire davvero a
costituire un monopolio, ovvero, per meglio dire il monopolio (di tutto); a nostro avviso
le ragioni reali, che possono consentire la costituzione di una simile
situazione sono esclusivamente due: a) che vi siano ragioni naturali
che non consentono l’emersione di un soggetto alternativo al monopolista; b)
che sussistano credenze in ordine alla sussistenza di queste ragioni naturali;
per chi non crede al diritto naturale la prima ragione confluisce nella seconda
e la secondo viene riassorbita nella prima. Paradossalmente, quindi, espungiamo
dal novero la nozione di “monopolio di diritto”, la quale, se nella pratica è
quella comune e apparentemente più logica, in termini di teoria generale e di
approccio puramente analitico al tema è infondata, dato che il preteso
monopolio “di diritto” si fonda inevitabilmente su un mero elemento di fatto,
ossia che sia costituito con atto fondativo il preteso monopolio della legittimità, in grado di costituire
monopoli cosiddetti “di diritto”, che tali non sono, in quanto mera
articolazione esteriore del preliminare e fondamentale monopolio forzoso di fatto, in
grado poi di costituire i monopoli formalmente qualificati “di diritto”.
Occorre
quindi precisare che i monopoli esistenti sono tutti solo formalmente tali,
perché l’ontologia è concorrenziale, con la conseguenza che i divieti di
concorrenza sono inevitabilmente destinati all’ineffettività, per quanto essi
possano essere e siano fortemente implementati, sicché ogni lotta
all’”abusivismo” e all’informalità è in realtà una fatica di Sisifo; ne deriva
che è molto dubbio che lo stesso fortemente qualificato monopolio “di fatto”
sia mai davvero tale, in quanto normalmente sempre e solo un pretendente
monopolista di fatto, che possa poi proporsi quale fonte costitutiva di
monopoli cosiddetti di diritto in formale divieto della concorrenza, sicché
anche l’affermazione che un monopolista di fatto davvero sussista va poi
verificata alla luce dei fatti “naturali”, che consentano di constatare la
corrispondenza tra l’elemento “naturale” presupposto e il fondarsi su di esso
del monopolista di fatto, fonte in seconda battuta del diritto.
Una
madre che abbia partorito il figlio è inevitabilmente l’unica madre di quel
figlio, salvo condivisioni tecnologiche; ma anche un’affermazione del genere deve poi essere integrata, se non
rettificata: il fatto che la madre sia monopolista di sé in quanto puerpera non
garantisce nulla, né sul fatto che poi possa esercitare supposte funzioni
materne, dato che il figlio le potrebbe essere sottratto, né che ella stessa
avrà voglia o intenzione di farlo, ed ecco allora che il fondamento naturale
delle situazioni di diritto svapora con una certa rapidità, anche solo a
partire da questo esempio, che parrebbe molto importante, dato che si situa a
fondamento di qualsiasi vita umana, e che riguarda ciascuno di noi.
E
allora torniamo più da presso al nostro tema, e chiediamoci quali possano
essere i supposti fondamenti “naturali” di una supposta situazione
“monopolistica” in termini istituzionali e intersoggettivi, ossia prescindendo
dall’affermazione radicale che ognuno è monopolista: orbene, noi ravvisiamo il
fondamento credenziale delle situazioni istituzionali monopolistiche nell’idea
e nella nozione di territorio e, più ancora, nell’idea e nella credenza del
carattere unitario del territorio e, quindi, delle decisioni che lo riguardano.
Posta
cioè la plurisoggettività sul territorio, l’idea che sia indispensabile
assumere decisioni collettive sul territorio, decisioni collettive
nell’interesse comune e collettivo, conduce de plano all’idea del monopolio: ed
ecco allora che abbiamo individuato il pur problematicamente prospettato nesso
tra “monopolio” e “comune”, sicché la sfida è esattamente rompere questo nesso,
riconducendo il comune alla concorrenza, il che, se è operazione certamente
fattibile sul piano teorico e ideale, diviene estremamente problematica nella
pratica e nella prassi politica, in quanto si scontra con credenze fortemente
condivise, e allora si torna all’antitesi tra monopolio “naturale” in sé e
monopolio esistente in quanto fondato sulla credenza che un dato sia davvero
naturale: se non si scalfisce la credenza, che poi è credenza nell’autorità
inevitabile, non si scalfisce la credenza nel carattere necessario del
monopolio.
Eppure,
si dirà, il territorio è necessariamente unitario, e quindi le decisioni
riguardanti il territorio saranno, di conseguenza, necessariamente unitarie;
sono evidenti il salto logico e la
fallacia naturalistica connesse in un simile modo di argomentare, sicché
l’argomentazione stessa deve essere meglio analizzata; anzitutto occorre
interrogarsi su quale sia l’unità di misura, la dimensione minima, massima, o
ideale di riferimento, quando si stia parlando di “territorio” e, quindi, di
quale sia l’estensione delle decisioni che lo debbano riguardare, proprio in
funzione dei fatti “naturali” che investono il territorio stesso. E’ innegabile
che un’opera che impatti sul territorio sia monopolista “naturale” di quella
porzione di territorio; non è però “naturale” che l’opera debba essere
realizzata trattandosi di decisione positiva; può essere invece “naturale” che
opere vi debbano essere? Nemmeno questo è vero; per un primitivista come
Zerzan, ad esempio non vi “deve” essere alcuna opera, nessun impianto, né
pubblico, né privato deve essere realizzato in alcun luogo, sicché anche questa
affermazione richiede di essere riposizionata nei termini dell’affermazione
istituzionale e formale e per nulla affatto nell’ambito delle affermazioni a
fondamento naturale, ammesso e non concesso che affermazioni prive di
fondamento formale e istituzionale sussistano, posto che il linguaggio è già in
sé istituzione, sicché è probabilmente impossibile persino che possa esprimere
proposizioni che non nascano geneticamente di già istituzionalizzate e di
rilievo formale in una qualche misura.
Ammesso
però che noi si viva in società e nella modernità, ammettiamo però anche che
opere che impattino sul territorio, quindi “monopolisticamente”, siano da
realizzarsi, e allora interroghiamoci su relativi impatto e portata; emerge
subito l’interrogativo su quanto esteso debba essere questo impatto, quindi,
banalmente, “quanto grande” debba essere l’opera: appare ineludibile, infatti,
tra estensione dell’opera ed emersione, in una forma o nell’altra,
dell’elemento monopolistico, e anche un’opera privata, riconnessa alla nozione
stessa di proprietà privata, ha rilevanza mopolistica, sia pure circoscritta,
salvo poi verificare quanto circoscritta, dato che si pretende anche la
sussistenza di proprietà private molto estese, con ogni conseguenza nei termini
dell’attribuzione del relativo potere decisionale.
Se
però devo limitarmi a costruire la mia capanna nel bosco, l’elemento
monopolistico viene ricondotto alla concorrenza monopolistica molto ridotta del
mio essere monopolista di me stesso, e la questione perde moltissimo del
proprio rilievo; se invece, per congiungere la mia capanna alla tua emerge l’esigenza
di costruire una strada l’opera, non solo è alquanto “estesa”, ma produce altresì
l’effetto “indivisibile”, e “comune alle parti”, di congiungere la mia capanna
alla tua, sicché ne emerge quello che parrebbe un interesse comune; l’interesse
cioè di congiungere la mia capanna alla tua si direbbe comune a me e a te e da
noi condiviso. Ma anche una tale affermazione non pare così fondata al punto di
divenire assiomatica; infatti, io potrei
non avere nessun interesse a congiungere la mia capanna alla tua, a fronte
invece di un tuo interesse di segno esattamente opposto, o viceversa, sicché
emerge con chiarezza come quello che si direbbe bene pubblico e comune è
viceversa a propria volta geneticamente intriso, almeno virtualmente e
potenzialmente, di conflitti di interessi a fondamento stesso della decisione
stessa, e non solo in relazione al contenuto ipotetico della decisione, sicché
delle due l’una: o la strada si realizza, ovvero non si realizza, ma, in
entrambe le ipotesi, ci troviamo di fronte a una scelta collettiva dagli
effetti indivisibili, dato che, nel primo caso il mio interesse si impone sul
tuo, mentre nel secondo caso è il tuo ad essersi imposto sul mio. ecco allora
che, se questa è una supposta situazione originaria non istituzionalizzata,
qualcuno comincia a sentire l’esigenza di un decisore.
Vero
è però che, se io non voglio che la congiunzione tra le due capanne attraverso
la strada si realizzi, preferirei che non venisse istituito alcun decisore, laddove
la tua preferenza sarebbe di segno esattamente opposto; ma anche a tale
proposito occorre essere vigili nella ricostruzione: se, infatti, prevalendo la
mia sensibilità, non si viene a costituire alcun decisore, in modo che trovi
inveramento l’obiettivo di non realizzare la strada, permane però un vuoto decisionale, diciamo pure un vuoto
di potere, che però potresti colmare tu, realizzando direttamente la strada, o facendola realizzare da qualcuno di tua
fiducia; da qui l’emersione di un paradosso, ossia l’evidenziarsi della
necessità che sia costituito un decisore, quand’anche egli non faccia assolutamente
nulla, come garante –e allora si
tratterebbe di “stato minimo” e di garante liberale- del fatto che, ove sia
preferibile non far nulla, non si faccia poi davvero effettivamente nulla; ed
ecco allora però anche che, in tal modo, si viene a rafforzare l’eventualità
che si viene a trasferire sul decisore, delegandoglielo, il potere di decidere
quando fare, e quando non fare, quando agire e quando non agire, quando scegliere e
quando non scegliere, e quindi quando gli compete decidere: ma già questa è una decisione e una
pre-decisione, una competenza sulla propria stessa competenza.
A
fondamento del monopolio si viene a collocare perciò non solo la necessità di
fare, ma anche quella di non fare, perché anche questa è scelta indivisibile;
ma poiché il presupposto di questo è che il monopolista decisore, nella propria
attività deliberativa, esprima un interesse –nel nostro esempio, l’interesse
mio a non realizzare la strada, o l’interesse tuo a realizzarla
effettivamente-, emerge altresì l’esigenza che il decisore sia anche capace di
farsi conciliatore e arbitratore dei diversi interessi, introducendo però in
questa attività anche l’interesse proprio nel momento in cui si fa decisore,
non potendo prescindere in tale attività dalla sua propria entità di soggetto
autonomo.
La
questione che si pone, e che emerge prepotentemente, è però che, in un caso
come quello dell’esempio prospettato, non è possibile contemporaneamente sia
realizzare la strada, sia non realizzarla, sicché uno dei due interessi viene
inevitabilmente sacrificato, e nella scelta il decisore introdurrà elementi
arbitrari suoi di valutazione: la via di fuga è quindi quella di realizzarla,
ma con determinato modalità e accortezze, che concilino in qualche modo,
soddisfacendolo in qualche misura, anche l’interesse di chi non vuole che la
strada sia realizzata. Ecco allora che la ricerca di un interesse comune e
condiviso, nonché la sua implementazione, invoca la partecipazione e il
coinvolgimento dei diversi interessi, e quindi l’affermazione di un qualche
nesso, la cui estensione va sottoposta a verifica, tra monopolio e comunismo,
fermo restando che il monopolista rivendica propri caratteri di “creatività”
nel ravvisare i contenuti della decisione: e quindi il monopolista si impone, in
quanto sia da implementarsi un bene comune, un interesse pubblico, una scelta
indivisibile, che sia scelta di fare, scelta di non fare, scelta di fare, ma in
modo anche da non scontentare del tutto chi non vuol fare, o chi vuol fare diversamente,
e, trovandosi nella difficoltà di accordarsi, si aprono spazi per il
monopolista di farsi elicitatore tra i diversi interessi.
Emerge
quindi subito però anche la nozione di contratto, dato che se vi sono interessi
da conciliare, il modo immediato della loro conciliazione è la negoziazione tra
gli interessi differenziati; però è anche scelta pubblica indivisibile quella che
il contratto sia poi davvero stipulato, quando si potrebbe ancora scegliere di
non stipularlo affatto, e allora ricadremmo in quella situazione di incertezza,
per la quale io, non volendo che la strada sia realizzata, preferisco che non
si decida assolutamente nulla, incorrendo però nel pericolo che, non volendo
decidere nulla, sia poi tu a decidere unilateralmente anche per me, realizzando
direttamente la strada. Tale situazione di incertezza apre la strada alle ricoradate
tematiche relative alla teoria dei giochi, ai dilemmi del prigioniero, ai
falchi e colombe e così via, in funzione della necessità di esprimere le
diverse sensibilità umane, allorchè ci si accosta alla teoria delle decisioni. E
allora, tornando a noi, se questa pulsione nella direzione del monopolio è
difficilmente eludibile, resta ancora aperta la questione di come questa possa
fondersi con la tensione nella direzione, a propria volta necessitata, della
concorrenza, nonché del carattere comune degli interessi perseguiti, e quindi
della partecipazione nella decisione, cercando di fare sì che la dimensione
territoriale non finisca con l’emergere talmente preminente, al punto da
opprimere le esigenze alternative rispetto a quella brutalmente monopolistica.
La soluzione, epperò, non ve la dico: non parlo svizzero e ragazzino lassiami lavorare, che non siamo mica qui a darla via gratis...
Di difficilissima lettura. Mi dichiaro non all'altezza e abbandono poco oltre la metà un testo scritto per iniziati.
RispondiEliminaE' satira...
Eliminaahahahaha mi sono sbellicato :)
RispondiEliminaÈ supercazzola
RispondiEliminaNon so se è veramente opportuno tentare di andare così alle origini del comportamento sociale umano. Si rischia di trovarsi, così come avviene nella fisica astronomica, di fronte a "singolarità" che prescindono dalle regole antropologiche che noi conosciamo e che sono nate dopo. Ma ci rifletterò lo stesso. Mario Caruselli
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