Quando si parla di
radicali, in Italia, non si sa mai quale dizione impiegare, perché le sigle si
sprecano; era così bello quando si chiamava “Partito Radicale” e basta, e poi
il resto erano movimenti federati, che ne condividevano in vario modo l’orientamento
libertario.
Da allora moltissima
acqua è passata sotto i ponti, e non sempre acqua cristallina, e stiamo
parlando solo di idee. In realtà, c’è stata sovente una sovrapposizione e un
intreccio di orientamenti diversi, che non ha giovato alla chiarezza e alla linearità,
in assenza di una chiara sintesi, che consentisse di superare le differenze,
anche di fondo, delle culture, che si sono accatastate, sovrapposte e
intrecciate negli ultimi trentacinque anni, e quindi non è certo poco, dopo l’età
dell’oro dei diritti civili degli anni ’70; da allora si è andati per tentativi
ed errori, ma in assenza di una chiara linea direttrice, che consentisse di
coordinare questi “tentativi ed errori” in una direzione sufficientemente
precisa, tra liberalismi, liberismi, giuridicismi e democraticismi di varia
natura.
E però veniamo a oggi;
la vulgata, che si ferma alle
apparenze, non prive evidentemente di riscontro empirico, vede anzitutto la
manifestazione più plateale di divisione, ossia quella, da una parte, tra i
pannelliani di stretta osservanza, raccolti attorno al cosiddetto “Partito
Radicale Nonviolento Transpartito e Transnazionale”, impegnato in buona
sostanza nella declamazione di un imprecisato “diritto alla conoscenza”, e di
un ancor più sfuggente concetto di “Stato di Diritto”, o come altrimenti
denominato; e, dall’altra parte, dall’unica manifestazione associativa reale,
che è quella raccolta attorno a “Radicali Italiani”, che, formalmente,
rappresenta un’articolazione di quel PRNTT, con tutto quel che ne consegue in
termini di uggiose beghe altrettanto formali, oltre che finanziarie e
patrimoniali; a parte resta l’”Associazione Luca Coscioni”, a sua volta formalmente
articolazione del PRNTT, che però vive di vita autonoma e di finanziamenti
autonomi, che pure periodicamente vengono rimessi in discussione.
Se questa è la
manifestazione pubblica del dissenso più visibile, che ha toccato da ultimo la
questione della partecipazione di una lista “radicali” a Milano e a Roma, si
direbbe invece che la vera distinzione, ossia quella davvero politicamente
significativa in prospettiva, sia un’altra –anche perché entrambe le componenti
sembrano impegnate in una rincorsa nella direzione renziana, sia pure con
alterne espressioni di sentimenti- e, molto banalmente, si tratta della
distinzione che ha attraversato qualsiasi partito politico da sempre: la distinzione
tra una “destra” e una “sinistra”.
E’ possibile, cioè, che
se resterà ancora in piedi qualcosa di tutto ciò in prospettiva, ossia se non
prevarranno i personalismi e le controversie patrimoniali, quella che appare la
divisione più evidente sia ricomponibile, mentre quella più difficilmente
superabile, se non attraverso uno sforzo davvero significativo, sia invece
interna proprio a Radicali Italiani: l’ha dimostrato proprio la vicenda sul
cosiddetto “referendum trivelle” –che pure ha visto prevalere i fautori del “Sì”-,
in cui queste due anime si sono evidenziate con la maggiore rilevanza
possibile: da un lato coloro i quali credono ancora, peraltro confusamente,
agli slogan “liberistici” degli anni ’90, senza dar mostra di saperli superare
in una sintesi superiore; e chi invece sostiene che occorre tenere conto, nella
ricerca di questa sintesi, della tradizione radicale storica, che impone una
collocazione del movimento alla sinistra dello schieramento politico, con ogni
conseguente opzione sul piano della ricerca degli interlocutori anche oltre le
forze politiche degli schieramenti ufficiali, e dei cosiddetti think tanks liberali, più o meno
qualificati o credibili; e ciò, tanto più in una situazione, nella quale la
sinistra oggi appare sguarnita, ovvero coperta da paleo-sinistre di scarso appeal, sicché si tratterebbe anche di
una intelligente strategia di marketing;
come sempre, chi vivrà, vedrà.
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