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mercoledì 13 aprile 2016

La vera posta in gioco del referendum “trivelle”

di Fabio Massimo Nicosia

La campagna referendaria sulle cosiddette trivelle è partita in sordina; si diceva che il referendum residuo dei sei originariamente proposti da alcune regioni fosse insignificante e irrilevante, ma la campagna è via via salita di tono.

Bisogna ringraziare di questo l’anonimo scostumato copywriter che ha concepito il poco politicamente corretto slogan “Trivella tua sorella”, il quale, suscitando improbabili moti di correctness da parte dei trafficanti di idrocarburi, ha immediatamente acceso il dibattito.

I contrari al referendum hanno subito accusato i fautori del Sì di prendere a pretesto un referendum dal contenuto marginale, per porre problemi di ordine generale, di carattere ecologico e ambientale, decisamente ultronei, rispetto a quello che veniva presentato come quesito dalla portata estremamente circoscritta.

Facebook, vicino alle consultazioni di rilevanza nazionale, diventa un ottimo punto di verifica del polso della situazione, essendo ormai divenuto luogo di mera propaganda variamente dissimulata, e abbiamo avuto modo di constatare un incrudimento progressivo dei fautori dell’astensione -volgare trucchetto per vincere facile, dato il quorum, in un contesto nel quale i votanti sono da tempo in crollo verticale a ogni consultazione-, i quali hanno sfoderato il consueto bagaglio di accuse banalizzatrici nei confronti di chi si sforza di fare discorsi non proni rispetto all’attuale assetto dei poteri politico-economici in campo.

Un’ulteriore spinta importante al salire della discussione è stata rappresentata dall’appello del presidente del consiglio a favore dell’astensione; ora, dato che il popolo votante è, in base a costituzione, il sovrano della Repubblica, non compete al presidente del consiglio utilizzare la panoplia di strumentazione di mass-media da lui stesso sovvenzionata per dire al sovrano come deve comportarsi nei rari momenti in cui gli viene consentito di esercitare il proprio potere sovrano, né tantomeno al fine di esercitare una decisa moral suasion nella direzione dell’abdicazione secca dell’esercizio del potere sovrano da parte del sovrano.

E allora, alla luce della constatazione che i fautori dell’astensione, i probabili –ma forse l’esito si può ancora scongiurare- vincitori facili del referendum sono completamente scatenati nel conato di farlo fallire, occorre chiedersi, a questo punto, quale sia la vera posta in gioco, che giustifica questo scatenamento avverso alla sovranità popolare.

Non si tratta, come è agevole constatare, né delle “trivelle”, né, a ben vedere, per ora, di prossimi venturi “nuovo modello di sviluppo” e “nuovo piano energetico che avvii la fuoriuscita progressiva dagli idrocarburi”, ma di qualcosa di molto più importante, guarda caso finitimo al problema della sovranità di cui si è appena parlato: a chi spetti il controllo delle risorse naturali, del suolo, del demanio.

Dietro gli astensionisti, infatti, si colloca nientedimeno che una filosofia politica, per quanto evidentemente di comodo e piegata ai grandi interessi; la filosofia per la quale la terra (la Terra) è res nullius e non res communis; in base alla dottrina della res nullius, vagheggiata dagli anarco-capitalisti conservatori e reazionari, da tempo consulenti dei principi peggiori, chiunque arrivi per primo in un sito si può impadronire, rapinandole, di tutte le risorse naturali che vuole, e lo Stato –dato che l’anarco-capitalismo non vige, gli Stati esistendo tuttora, essendo molto utili alla bisogna- deve garantire tale condizione di res nullius, consentendo a multinazionali di ogni sorta di situarsi in loco e prelevare, praticamente gratis, tutte le risorse che ritiene opportune ai propri fini di guadagno e di potere.

In base alla dottrina della res communis le risorse naturali e il demanio appartengono a tutti, e chi le utilizza nel mercato deve ampiamente compensare, in un modo o nell’altro, la comunità (comunisti in senso civilistico), per l’utilizzo di queste risorse; ne deriva un contrappeso ecologista nella produzione, dato che più risorse naturali si consumano più si deve alla comunità, con conseguente incentivo alla ricerca di nuove tecnologie sempre più leggere, raffinate e immateriali, nella misura in cui il settore particolare lo consenta: non si tratta tanto di far pagare chi inquina, quanto di far guadagnare chi non inquina, sostituendo l’incentivo positivo all’incentivo negativo, in cambio di un utile universale a vantaggio dei comunisti (in senso civilistico) che siamo noi.

La dottrina della res nullius non risale a Locke, come cialtronamente gli anarco-capitalisti avevano originariamente cercato di far credere, poi smascherati, ma a Pufendorf; e tuttavia Pufendorf, nell’approcciare l’argomento incorre in contraddizioni, giacché descrive le interazioni svolte sulla res nullius negli stessi identici termini, con i quali si svolgerebbero in una res communis; occorre quindi semmai far riferimento a Kant, il quale sostiene ad esempio che gli oceani sarebbero res nullius; ma il grande filosofo intendeva ciò nel senso che il mare è libero, ossia che ognuno vi può navigare, ma non certo nel senso che il primo che passa (ad esempio la Exxon) se ne possa impadronire a piacere.

Del resto, una tale conclusione osterebbe con il principio di diritto positivo internazionale, per il quale i fondali del mare sono patrimonio comune dell’umanità; in definitiva, la posta in gioco del “referendum trivelle” è proprio questa: un’affermazione di principio su chi sia il titolare del patrimonio dell’umanità, e gli scatenati fautori del suo fallimento lo sanno perfettamente: o tutti noi, o nessuno, ma si sappia che di “nessuno” significa dei potenti e dei prepotenti.

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