di Fabio Massimo Nicosia
La campagna
referendaria sulle cosiddette trivelle è partita in sordina; si diceva che il
referendum residuo dei sei originariamente proposti da alcune regioni fosse
insignificante e irrilevante, ma la campagna è via via salita di tono.
Bisogna ringraziare di questo
l’anonimo scostumato copywriter che
ha concepito il poco politicamente corretto slogan
“Trivella tua sorella”, il quale, suscitando improbabili moti di correctness da parte dei trafficanti di
idrocarburi, ha immediatamente acceso il dibattito.
I contrari al
referendum hanno subito accusato i fautori del Sì di prendere a pretesto un
referendum dal contenuto marginale, per porre problemi di ordine generale, di
carattere ecologico e ambientale, decisamente ultronei, rispetto a quello che
veniva presentato come quesito dalla portata estremamente circoscritta.
Facebook,
vicino alle consultazioni di rilevanza nazionale, diventa un ottimo punto di verifica
del polso della situazione, essendo ormai divenuto luogo di mera propaganda
variamente dissimulata, e abbiamo avuto modo di constatare un incrudimento
progressivo dei fautori dell’astensione -volgare trucchetto per vincere facile,
dato il quorum, in un contesto nel quale i votanti sono da tempo in crollo verticale
a ogni consultazione-, i quali hanno sfoderato il consueto bagaglio di accuse
banalizzatrici nei confronti di chi si sforza di fare discorsi non proni
rispetto all’attuale assetto dei poteri politico-economici in campo.
Un’ulteriore spinta
importante al salire della discussione è stata rappresentata dall’appello del
presidente del consiglio a favore dell’astensione; ora, dato che il popolo
votante è, in base a costituzione, il sovrano della Repubblica, non compete al
presidente del consiglio utilizzare la panoplia di strumentazione di mass-media da lui stesso sovvenzionata
per dire al sovrano come deve comportarsi nei rari momenti in cui gli viene
consentito di esercitare il proprio potere sovrano, né tantomeno al fine di
esercitare una decisa moral suasion nella
direzione dell’abdicazione secca dell’esercizio del potere sovrano da parte del
sovrano.
E allora, alla luce
della constatazione che i fautori dell’astensione, i probabili –ma forse l’esito
si può ancora scongiurare- vincitori facili del referendum sono completamente
scatenati nel conato di farlo fallire, occorre chiedersi, a questo punto, quale
sia la vera posta in gioco, che giustifica questo scatenamento avverso alla
sovranità popolare.
Non si tratta, come è
agevole constatare, né delle “trivelle”, né, a ben vedere, per ora, di prossimi
venturi “nuovo modello di sviluppo” e “nuovo piano energetico che avvii la fuoriuscita
progressiva dagli idrocarburi”, ma di qualcosa di molto più importante, guarda
caso finitimo al problema della sovranità di cui si è appena parlato: a chi spetti il controllo delle risorse
naturali, del suolo, del demanio.
Dietro gli
astensionisti, infatti, si colloca nientedimeno che una filosofia politica, per
quanto evidentemente di comodo e piegata ai grandi interessi; la filosofia per
la quale la terra (la Terra) è res
nullius e non res communis; in
base alla dottrina della res nullius,
vagheggiata dagli anarco-capitalisti conservatori e reazionari, da tempo
consulenti dei principi peggiori, chiunque arrivi per primo in un sito si può
impadronire, rapinandole, di tutte le risorse naturali che vuole, e lo Stato –dato
che l’anarco-capitalismo non vige, gli Stati esistendo tuttora, essendo molto
utili alla bisogna- deve garantire tale condizione di res nullius, consentendo a multinazionali di ogni sorta di situarsi
in loco e prelevare, praticamente gratis, tutte le risorse che ritiene
opportune ai propri fini di guadagno e di potere.
In base alla dottrina
della res communis le risorse
naturali e il demanio appartengono a tutti, e chi le utilizza nel mercato deve
ampiamente compensare, in un modo o nell’altro, la comunità (comunisti in senso
civilistico), per l’utilizzo di queste risorse; ne deriva un contrappeso
ecologista nella produzione, dato che più risorse naturali si consumano più si
deve alla comunità, con conseguente incentivo alla ricerca di nuove tecnologie
sempre più leggere, raffinate e immateriali, nella misura in cui il settore
particolare lo consenta: non si tratta tanto di far pagare chi inquina, quanto di
far guadagnare chi non inquina, sostituendo l’incentivo positivo all’incentivo
negativo, in cambio di un utile universale a vantaggio dei comunisti (in senso
civilistico) che siamo noi.
La dottrina della res nullius non risale a Locke, come
cialtronamente gli anarco-capitalisti avevano originariamente cercato di far
credere, poi smascherati, ma a Pufendorf; e tuttavia Pufendorf, nell’approcciare
l’argomento incorre in contraddizioni, giacché descrive le interazioni svolte sulla
res nullius negli stessi identici
termini, con i quali si svolgerebbero in una res communis; occorre quindi semmai far riferimento a Kant, il
quale sostiene ad esempio che gli oceani sarebbero res nullius; ma il grande filosofo intendeva ciò nel senso che il
mare è libero, ossia che ognuno vi può navigare, ma non certo nel senso che il
primo che passa (ad esempio la Exxon) se ne possa impadronire a piacere.
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