di Fabio Massimo Nicosia
L’utero in affitto comporta minore rivoluzione culturale di quanto non si ritenga comunemente, almeno dal punto di vista di ciò che icasticamente evidenzia, in effetti più che in altri casi del passato, ossia il fatto che il corpo umano rappresenti immediatamente un capitale, che può essere sfruttato in senso economico.
Un
soggetto femminile A mette all’asta il proprio corpo, mettendolo a disposizione
del mercato per realizzare il bene B, il bene futuro che è disponibile a partorire,
e un soggetto C partecipa all’asta, aggiudicandosi servizio (la gravidanza) e
prodotto (il frutto della gravidanza).
Ciò comporta un’innovazione sul piano della nozione di “bene giuridico”, se oggetto dello scambio sono al contempo il servizio gravidanza e il bene-bambino.
Ciò comporta un’innovazione sul piano della nozione di “bene giuridico”, se oggetto dello scambio sono al contempo il servizio gravidanza e il bene-bambino.
In
realtà, il corpo umano è da sempre capitale nel senso economico: ad esempio,
questo capitale viene dai tempi più antichi investito con il lavoro, dato che
ognuno mette a disposizione di un altro le proprie braccia e la propria mente,
al fine di realizzare in suo favore un determinato bene o servizio in cambio di
una qualche controprestazione; e la prostituzione è un tipo di lavoro, nel
quale il corpo è forse più direttamente coinvolto che in altri: ma solo forse,
dato che non è affatto detto che, a date condizioni, la prostituzione sia più
usurante del lavoro di un muratore o di un minatore.
E
allora, se il corpo umano è un capitale nel senso economico, l’interrogativo cade
su chi sia il titolare di questo capitale: si tratta cioè di comprendere se i
frutti di questo capitale, rappresentato dal corpo umano, vadano a vantaggio
del titolare del corpo, ovvero di terzi; e, a tale proposito, occorre
comprendere se tale evenienza consegua a una preventiva o contestuale compressione
di libertà nella scelta dell’uso del proprio corpo da parte del suo titolare.
In
tal caso, l’uso del proprio corpo non è libero e comporta schiavitù; il
problema dell’utero in affitto è tutto qui: si tratta di sapere se chi “affitta
l’utero” lo stia facendo di propria spontanea volontà, ovvero sia oggetto di un’oppressione
che glielo imponga.
In
una società fondata sul denaro come la nostra, l’unità di misura, che meglio
evidenzia se si tratti di scelta libera o di schiavitù, con tutta la gamma
delle ipotesi intermedie, è il compenso che si riceve per una data attività; è il compenso che si riceve per mettere l’utero a
disposizione di altri che mostra plasticamente la libertà nella scelta: più
alto è il compenso ricevuto, più elevata verosimilmente è la condizione di
libertà, nella quale la scelta sia stata effettuata; e una norma di legge, la
quale imponesse che l’uso dell’utero altrui debba essere gratuito, pertanto,
non farebbe che legittimare la schiavitù, ovvero, più spesso, incentivare la
creazione di mercato nero.
Ciò
non comporta che non si possa scegliere di mettere a disposizione il proprio
utero gratuitamente, ma si tratterebbe di espressione di libertà solo nel caso
in cui la donna sia stata posta in condizione di scegliere tra le due opzioni;
diversamente, la sua disponibilità in tal senso verrebbe viziata, e la sua eventuale
intenzione di ottenere corrispettivo verrebbe costretta alla clandestinità.
In
realtà, il problema della schiavitù si pone essenzialmente per le donne povere
dei paesi poveri, nel momento in cui esse rischiano di essere preda dei
predatori, e di venire segregate e costrette a gravidanze in favore dei ricchi
dei paesi ricchi: queste donne, infatti, non guadagnano nulla dalla propria
prestazione, sicché vietare il compenso non pare proprio una soluzione lungimirante,
per combattere la schiavitù: sarebbe come proporre l’abolizione del salario per
combattere lo sfruttamento del lavoratore, il che appare controintuitivo.
E’
vero che, una norma del genere, potrebbe disincentivare la disponibilità a
farsi lavoratore dipendente, ma ciò presuppone, o un livello di dignità
elevatissimo, o comunque una disponibilità personale di mezzi economici, che
consenta di poter rinunciare a cuor leggero al lavoro salariato: e non è questo
il caso delle donne povere dei paesi poveri, che non sono in condizione di
operare una simile scelta a cuor leggero.
L’accostamento
con il lavoro servile suggerisce un altro genere di prospettazione: e cioè che,
così come i processi di automazione tenderanno via via, storicamente, e
speriamo in tempi piuttosto rapidi, al superamento del lavoro servile stesso –il
che però implica una rielaborazione del concetto stesso della categoria del
reddito-, allo stesso modo, la stessa necessità di affittare l’utero per
produrre il bene-bambino potrebbe venir superata dagli stessi processi di
automazione, mediante la creazione degli uteri artificiali, con
conseguente superamento della categoria “le
gioie della maternità responsabile”: smagliature, rottura delle acque,
travaglio, doglie, etc.
In
conclusione, dal punto di vista libertario, ciò che conta è che le scelte siano
sempre libere, con la consapevolezza che le cattive condizioni economiche,
dovute allo stato di oppressione nel quale molte persone vivono, rendono la
scelta tanto meno libera, quanto peggiori sono le condizioni economiche; sicché
va ribadito che l’entità del compenso ricevuto rappresenta la cartina di
tornasole della condizione di libertà, nella quale la scelta sia stata
effettuata; e ciò generosità unilaterali a parte, che però è difficile poter
effettivamente verificare caso per caso, così come del resto è difficile
verificare quale compenso la donna abbia effettivamente ricevuto per la
prestazione del servizio.
Che
poi tutto ciò vada a vantaggio o a svantaggio del bene-bambino nato, è
questione che non siamo in grado di valutare; probabilmente, data la varietà
dei casi umani, a volte andrà a vantaggio, altre volte andrà a svantaggio:
quindi, buona fortuna a tutti.
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