-->

domenica 6 marzo 2016

Utero in affitto, versione sottilmente ironica

di Fabio Massimo Nicosia

L’utero in affitto comporta minore rivoluzione culturale di quanto non si ritenga comunemente, almeno dal punto di vista di ciò che icasticamente evidenzia, in effetti più che in altri casi del passato, ossia il fatto che il corpo umano rappresenti immediatamente un capitale, che può essere sfruttato in senso economico.

Un soggetto femminile A mette all’asta il proprio corpo, mettendolo a disposizione del mercato per realizzare il bene B, il bene futuro che è disponibile a partorire, e un soggetto C partecipa all’asta, aggiudicandosi servizio (la gravidanza) e prodotto (il frutto della gravidanza). 

Ciò comporta un’innovazione sul piano della nozione di “bene giuridico”, se oggetto dello scambio sono al contempo il servizio gravidanza e il bene-bambino.

In realtà, il corpo umano è da sempre capitale nel senso economico: ad esempio, questo capitale viene dai tempi più antichi investito con il lavoro, dato che ognuno mette a disposizione di un altro le proprie braccia e la propria mente, al fine di realizzare in suo favore un determinato bene o servizio in cambio di una qualche controprestazione; e la prostituzione è un tipo di lavoro, nel quale il corpo è forse più direttamente coinvolto che in altri: ma solo forse, dato che non è affatto detto che, a date condizioni, la prostituzione sia più usurante del lavoro di un muratore o di un minatore.

E allora, se il corpo umano è un capitale nel senso economico, l’interrogativo cade su chi sia il titolare di questo capitale: si tratta cioè di comprendere se i frutti di questo capitale, rappresentato dal corpo umano, vadano a vantaggio del titolare del corpo, ovvero di terzi; e, a tale proposito, occorre comprendere se tale evenienza consegua a una preventiva o contestuale compressione di libertà nella scelta dell’uso del proprio corpo da parte del suo titolare.

In tal caso, l’uso del proprio corpo non è libero e comporta schiavitù; il problema dell’utero in affitto è tutto qui: si tratta di sapere se chi “affitta l’utero” lo stia facendo di propria spontanea volontà, ovvero sia oggetto di un’oppressione che glielo imponga.

In una società fondata sul denaro come la nostra, l’unità di misura, che meglio evidenzia se si tratti di scelta libera o di schiavitù, con tutta la gamma delle ipotesi intermedie, è il compenso che si riceve per una data attività; è il compenso che si riceve per mettere l’utero a disposizione di altri che mostra plasticamente la libertà nella scelta: più alto è il compenso ricevuto, più elevata verosimilmente è la condizione di libertà, nella quale la scelta sia stata effettuata; e una norma di legge, la quale imponesse che l’uso dell’utero altrui debba essere gratuito, pertanto, non farebbe che legittimare la schiavitù, ovvero, più spesso, incentivare la creazione di mercato nero.

Ciò non comporta che non si possa scegliere di mettere a disposizione il proprio utero gratuitamente, ma si tratterebbe di espressione di libertà solo nel caso in cui la donna sia stata posta in condizione di scegliere tra le due opzioni; diversamente, la sua disponibilità in tal senso verrebbe viziata, e la sua eventuale intenzione di ottenere corrispettivo verrebbe costretta alla clandestinità.

In realtà, il problema della schiavitù si pone essenzialmente per le donne povere dei paesi poveri, nel momento in cui esse rischiano di essere preda dei predatori, e di venire segregate e costrette a gravidanze in favore dei ricchi dei paesi ricchi: queste donne, infatti, non guadagnano nulla dalla propria prestazione, sicché vietare il compenso non pare proprio una soluzione lungimirante, per combattere la schiavitù: sarebbe come proporre l’abolizione del salario per combattere lo sfruttamento del lavoratore, il che appare controintuitivo.

E’ vero che, una norma del genere, potrebbe disincentivare la disponibilità a farsi lavoratore dipendente, ma ciò presuppone, o un livello di dignità elevatissimo, o comunque una disponibilità personale di mezzi economici, che consenta di poter rinunciare a cuor leggero al lavoro salariato: e non è questo il caso delle donne povere dei paesi poveri, che non sono in condizione di operare una simile scelta a cuor leggero.

L’accostamento con il lavoro servile suggerisce un altro genere di prospettazione: e cioè che, così come i processi di automazione tenderanno via via, storicamente, e speriamo in tempi piuttosto rapidi, al superamento del lavoro servile stesso –il che però implica una rielaborazione del concetto stesso della categoria del reddito-, allo stesso modo, la stessa necessità di affittare l’utero per produrre il bene-bambino potrebbe venir superata dagli stessi processi di automazione, mediante la creazione degli uteri artificiali, con conseguente superamento della categoria “le gioie della maternità responsabile”: smagliature, rottura delle acque, travaglio, doglie, etc.

In conclusione, dal punto di vista libertario, ciò che conta è che le scelte siano sempre libere, con la consapevolezza che le cattive condizioni economiche, dovute allo stato di oppressione nel quale molte persone vivono, rendono la scelta tanto meno libera, quanto peggiori sono le condizioni economiche; sicché va ribadito che l’entità del compenso ricevuto rappresenta la cartina di tornasole della condizione di libertà, nella quale la scelta sia stata effettuata; e ciò generosità unilaterali a parte, che però è difficile poter effettivamente verificare caso per caso, così come del resto è difficile verificare quale compenso la donna abbia effettivamente ricevuto per la prestazione del servizio.

Che poi tutto ciò vada a vantaggio o a svantaggio del bene-bambino nato, è questione che non siamo in grado di valutare; probabilmente, data la varietà dei casi umani, a volte andrà a vantaggio, altre volte andrà a svantaggio: quindi, buona fortuna a tutti.



Nessun commento:

Posta un commento