di Fabio Massimo Nicosia
(Testo preparato, ma non letto, per la conferenza dell' 8 febbraio 2016)
Con il mio intervento
vorrei, come mi è congeniale, uscire dal coro dissonante favorevole e
contrario, e argomentare a proposito di quello che ritengo il carattere
intrinsecamente statalistico del Ttip, nonostante le apparenze, e nonostante
alcune indicazioni importanti in senso contrario.
A mio modo di vedere,
le vicende economiche sono sempre simultaneamente vicende giuridiche e
politiche e viceversa, in quanto diretta espressione del mutare degli assetti
di potere, sicché la cosiddetta economia è in realtà sempre vicenda di conferma
o redistribuzione del potere, e quelle che ci appaiono come vicende economiche
sono sempre espressione dell’assetto dei poteri in campo, dato che la
realizzazione dei profitti economici va intesa, a mio avviso, come una species del genus potere.
Esposta questa
genericissima e contestabile premessa, val la pena subito di notare che, a mio
avviso, il Ttip rappresenta una tappa fondamentale nuova nella vicenda storica
della sovranità, e un passo avanti, ma anche due indietro, nella direzione del
superamento della stessa, per quanto collocata a un livello più alto di quella
nazionale, che è quello del mercato e del diritto internazionale; e ciò,
proprio in un momento storico, nel quale si constata sempre di più che il
diritto globale è sempre meno diritto legislativo scritto e sempre di più
diritto consuetudinario e contrattuale, con un ritorno, da questo punto di
vista, ai modi dell’antica lex mercatoria.
Perché la sovranità
nazionale vera e propria è defunta da un bel pezzo, a disdoro dei vari
nazionalitari fascisti e comunitaristi alla Alain de Benoist, e occorre
prendersi cura che non rinasca sotto mentite spoglie al livello più alto
dell’Impero, o non risorga addirittura al livello tradizionale, al quale il
Ttip rischia di riportarla sotto molti aspetti. Non mi soffermerò quindi sui profili
tecnicamente economici del Ttip, che non mi competono, ma solo su quelli, che
sono di mio interesse, relativi alle questioni di dottrina dello Stato.
Da tale punto di vista,
la (relativa) novità è quella degli arbitrati tra multinazionali e Stati, l’Investor to State Dispute Settlement (ISDS).
Attraverso tale istituto, lo Stato cede ulteriori quote di sovranità ai suoi
concessionari multinazionali, ponendosi al loro livello nella definizione delle
controversie, che quindi non vengono risolte unilateralmente dallo Stato
sovrano nei confronti dell’investitore privato, ma da pari a pari, come fosse
una normale controversia tra privati.
Si tratta di
un’acquisizione molto importante dal punto di vista dottrinario, dato che si
riafferma che lo Stato non è un soggetto necessariamente dominante o abusante
nel mercato, ma un soggetto nel mercato come tutti gli altri; almeno questa è
la lettura, che viene più immediata, che porta la vicenda alle sue estreme
conseguenze, ma si tratta evidentemente di una lettura piuttosto riduttiva,
alla luce della situazione reale, che è estremamente più complessa.
Queste multinazionali,
infatti, dipinte come campioni di liberismo, che in realtà è liberismo e
lassismo di Stato, vivono di: commesse belliche; opere pubbliche di
ricostruzione post-bellica, concessioni amministrative pubbliche di ricerca
energetica; sovvenzioni e sussidi pubblici al petrolio; grandi opere di ogni
tipo, fiscalmente finanziate e con l'indebitamento, da Expo alle Olimpiadi;
brevetti su ogni cosa possibile e immaginabile, che creano monopoli coercitivi
in danno alla concorrenza; monopoli sui marchi, che danno valore inestimabile
agli stati patrimoniali dei loro bilanci: ad esempio, il marchio Dolce & Gabbana è stato valutato
sino a oltre 2 miliardi di euro, ossia molto di più di un quadro degli Uffizi, con
la differenza che questo, che appartiene a tutti i cittadini, non è
contabilizzato nello stato patrimoniale dello Stato.
Questi monopoli sui
marchi, concessi dallo Stato, autorizzano poi “Dolce & Gabbana” stesso e i vari “Louis Vuitton” persino a
risparmiare sugli avvocati e sui contributi unificati dei processi, per le
cause di concorrenza sleale, perché tanto la lotta all’”abusivismo” la fa, a
spese del contribuente, la polizia municipale; copyright che mirano a monopolizzare il web, rallentando lo sviluppo tecnologico e l’open source; brevetti e marchi farmaceutici, per multinazionali che
vivono di spesa pubblica, sicché i farmaci inutili e dannosi si moltiplicano:
sono la nuova Compagnia delle Indie dei tempi del Mercantilismo, che
saccheggiava il mondo in nome dei Re, ai primordi di un capitalismo che, nella
sua storia, se guardate bene, è sempre stato capitalismo di Stato, dato che
persino le Società per Azioni sono nate come costruzione legislativa e non come esito spontaneo del
mercato.
E ora, il Ttip del finto-liberismo
tende a rinforzare e a estendere i diritti di proprietà intellettuale, ossia i
prodotti immateriali, che oggi sono parte predominante dello stato patrimoniale
delle multinazionali. Basti pensare che la Nike
non realizza direttamente neanche un laccio di scarpa, e vive solo ed
esclusivamente del monopolio, che gli è concesso dallo Stato, del suo marchio e
dei suoi brevetti, come quelli sulle suole che rimbalzano e altre amenità.
E si pensi alla Coca-Cola: che cosa vende la Coca-Cola? Acqua spruzzata di colorante
a 10.000 lire al kilo. E che cos’è l’acqua? Capitale naturale dal valore
inestimabile, che i cretini di sinistra hanno dichiarato, nel famoso “Manifesto
sull’acqua”, “BENE NON ECONOMICO”: così, invece di essere contabilizzata, a
valore d’uso sociale, che è un criterio di estimo già noto, come ricchezza dei
cittadini del mondo, finisce con il non valere assolutamente nulla, e può
essere depredata liberamente, dato che le lagne ambientaliste, essendo prive di
risvolto contabile, contano meno di niente.
Poi si litiga sul
dettaglio se a fornire il servizio idrico ai comuni debba essere una società in house, come la Metropolitana
Milanese, o un appaltatore privato, che tanto se non è zuppa è pan bagnato, è
proprio il caso di dire.
Sicché succede che, in
base ad esempio al nostro art. 2424 del codice civile, quel superpremio della
sovranità, quel plusvalore della sovranità, di cui parlava Carl Schmitt, lo
Stato e i cittadini non lo contabilizzano nei propri stati patrimoniali, mentre
invece a contabilizzarlo, rendendole ricche e potenti, sono proprio le
multinazionali concessionarie pubbliche, e tutte sono, da ogni punto di vista,
concessionarie pubbliche, dato che il brevetto nasce storicamente come patente
regia, rilasciata come monopolio in esclusiva da parte del sovrano.
Quindi, oggi come oggi,
tanto per fare un esempio, il WTO propone di privatizzare tutto, naturalmente
sempre attraverso processi di concessione e mai di vero mercato, ma si guarda
bene dal chiedere l’eliminazione dei diritti in esclusiva, concessi dallo
Stato, di proprietà intellettuale e industriale, dimostrando così che i grandi
privati hanno ancora oggi un grandissimo bisogno dello Stato, senza il quale
crollerebbero come un castello di carte da un minuto all’altro.
E poi c’è la questione
della moneta. Chiedetevi come mai gli intellettuali di cultura antiliberista
individuino in Friedrich von Hayek uno dei fondatori ideali di questo presunto
neo-liberismo (che è solo opaco liberismo di Stato), ma sfugge loro che Hayek
voleva abolire il monopolio della moneta a corso forzoso delle banche centrali,
e affidare la moneta al conio libero, privando le banche centrali del loro
immenso potere di controllo.
E che ora, battistrada
la Banca Nazionale Svizzera, iniziano a investire sulle stesse multinazionali,
oltre che, come fa la BCE, creare denaro dal nulla per diventare gratis
creditrice degli Stati, senza peraltro finanziarli, dato che acquista i titoli
al mercato secondario dalle banche, che poi ridepositano le somme che ricevono
in cambio dei titoli che le vendono sul conto della BCE. Poi voi economisti
discutete pure delle chiacchiere sull’inflazione al 2%, quando il problema,
come tutti i problemi, è problema di potere.
E quindi non esiste nessunissima
multinazionale, tantomeno bancaria, che chieda il conio libero, perché va loro
benissimo speculare sui titoli tossici, ricaduta dell’emissione monetaria
monopolistica, che, creando proibizionismo in materia finanziaria, come tutti i
proibizionismi, produce liberismo oscuro, frutti malati e tossicità.
E allora succede che,
con l’ISDS, le multinazionali sono ben liete che sia assegnata agli Stati la
rappresentanza esclusiva del cosiddetto interesse pubblico, che sia riconosciuta
solo agli Stati la capacità di esserne
espressione, perché gli interessi diffusi sono espulsi dagli arbitrati.
E sono gli stessi
oppositori, timorosi dei danni all’ambiente e alla qualità del cibo, a chiedere
che sia affidata allo Stato la tutela di questi interessi, non comprendendo che
invece si tratta di aprire i giudizi arbitrali, o anche se pubblici, se sarà
così, al più ampio intervento da parte degli enti esponenziali, rappresentativi
di interessi diffusi, in modo tale che possano controllare dall’interno l’andamento
di questi giudizi, arbitrali o pubblici che siano.
E’ vero che il
progetto, di cui si ha conoscenza, consente l’intervento di soggetti portatori
di interessi terzi, ma si tratta, stando alla norma per come ora è scritta, di
interessi soggettivi con titolari ben individuati, mentre gli interessi diffusi
di natura ambientale e sanitaria, dei consumatori, dei contribuenti, degli
investitori, restano estranei alla contesa.
Si tratta di un grave
passo indietro, di stampo schiettamente statalistico, perché nessuno oggi,
nella dottrina del diritto pubblico e amministrativo, riconosce in esclusiva
agli Stati la natura di ente esponenziale degli interessi pubblici e
collettivi, se queste parole hanno un senso, dato che, in definitiva, si tratta
pur sempre di interessi individuali, anche se diffusi e comuni a molte persone.
In definitiva, si
tratta di trovare modo per colpire questa esclusiva dello Stato, quale
interlocutore dei grandi interessi finto-privati, anche perché abbiamo visto
che questi grandi interessi sono largamente protetti da quegli stessi Stati,
che dovrebbero poi rappresentare la loro controparte in quegli arbitrati.
Un accenno, infine, a
quella che da un po’ di tempo è la mia issue
principale, alla quale ho peraltro già fatto riferimento, e cioè la
questione della contabilizzazione del capitale naturale, demaniale e
immateriale dello Stato e degli enti pubblici, che fanno sì che i loro bilanci
siano il più eclatante dei falsi in bilancio conosciuti.
Da un po’ di tempo, si
sta effettivamente diffondendo la consapevolezza che gli Stati sono portatori
di infinite ricchezze e capacità di produrre nuove ricchezze, addirittura con
l’innovazione, come sostiene Mariana Mazuccato, secondo la quale non esisterebbe
Internet senza la Cia (e l’ha detto
anche Antonio Martino), così come non esisterebbe Apple senza le ricerche scientifiche di Stato.
Ora, di fronte alla
constatazione che lo Stato è ricchissimo di risorse e per nulla povero, come ci
vogliono far credere, occultando queste ricchezze con la recita
dell’indebitamento; di fronte alla constatazione che è lo Stato a rendere
ricche le multinazionali con la sua ricerca e le sue concessioni a vario
titolo, che cosa sanno proporre i vari Stiglitz e Mazuccato? Tasse, tasse e
sempre solo tasse, non accorgendosi che, legittimandole per i grandi soggetti,
che tanto ne risentono poco per infinite ragioni di carattere contabile e per
la capacità di eluderle, in realtà poi si finisce per legittimarle per tutti,
naturalmente soprattutto per i piccoli contribuenti.
Invece, bisogna entrare
in un paradigma nuovo, per il quale, se si constata che lo Stato è fonte di
ricchezza -ma non secondo il vecchio modello delle partecipazioni statali e
dell’impresa pubblica, che semmai è fonte di spreco, ma in quanto fonte di
diritti immateriali-, deve essere fonte di ricchezza per i cittadini e farsi
impresa utile da questo punto di vista, e solo da questo punto di vista, che è
il suo proprium.
Ad esempio, il Comune
di Milano è titolare di un marchio, che si chiama “Comune di Milano”, che vale
moltissimo; anzi, il Comune stesso lo definisce, nel proprio sito, “prezioso”.
Senonché il Comune regala questo marchio preziosissimo a cani e porci, senza
che i cittadini ne ricavino una lira; anzi, ai cittadini vengono chieste tasse,
tasse e ancora tasse e tariffe.
Vi è poi un altro
marchio, ancora più prezioso, probabilmente: “Teatro della Scala”, che è una
voragine per il contribuente, per realizzare spettacoli, che possono piacere,
ma che a me appaiono spesso pacchiani, e che invece potrebbe essere addirittura
quotato, dato in licenza e rendere profitti elevatissimi per la cittadinanza.
Ma lo Stato e gli enti
pubblici trovano la propria ragion d’essere nello spreco e nel controllo
sociale che le tasse consentono –partita di giro rispetto alla moneta emessa-,
e non viene minimamente in mente loro di poter essere fonte di ricchezza per i
cittadini; la conseguenza è che poi arrivano le proposte di “reddito di
cittadinanza”, come quella del Movimento 5 Stelle, dal chiaro carattere e
sapore poliziesco, e a sua volta di controllo sociale sul disoccupato.
E così, mentre i
preziosissimi marchi “Comune di Milano” e “Teatro della Scala” vengono
utilizzati gratis da cani e porci, o
comunque non valgono mezza lira, marchi molto meno preziosi, come Dolce & Gabbana e Luivuitton, non solo valgono
infinitamente nei loro stati patrimoniali in forza della concessione pubblica
del monopolio, ma vengono tutelati dalla polizia e dalla magistratura penale a
spese del contribuente.
Al punto che, almeno in
teoria, se vendi una maglietta, o una borsa di plastica, che, in definitiva, fa
solo pubblicità a costoro, ti arrestano, o comunque ti sequestrano la merce,
perché lo Stato fa per costoro gratis
le cause di persecuzione di una poco credibile concorrenza sleale, per una poco
attendibile contraffazione; dato che nessuno, il quale spenda due euro per una
maglietta “contraffatta”, ne spenderebbe duecento per una “vera”.
E poi, società
di rating che fanno quello che
vogliono, come dimostra le numerose vicende che hanno visto coinvolta Standard & Poor's, dato che non
esistono società di rating che fanno
il rating alle società di rating, e persino Draghi le ha definite
screditate.
Insomma, Stato e
multinazionali sono fratelli gemelli, non vive l’uno senza le altre e
viceversa, dato che sono reciprocamente funzionali, e i governi tengono in
piedi le seconde, che hanno bisogno dei governi per continuare a prosperare, da
qui il lobbying e tutto quel che ne
consegue, e i politici in grado di decidere ne diventano sostanzialmente degli stipendiati;
sicché, se non si intaccano questi presupposti, che privano i cittadini della
loro sovranità e della loro titolarità diretta dell’interesse pubblico e
diffuso, questi arbitrati tra Stati e multinazionali saranno solo finte liti
tra compari e, per sovrammercato, saranno i cittadini a pagare, con le loro
tasse, i risarcimenti che gli Stati dovranno pagare alle multinazionali, quando
perderanno, e capiterà spesso, le cause arbitrali.
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