di Fabio Massimo Nicosia
Da tempo è nostra idea che la Terra sia di tutti, e non di nessuno, per ragioni, non di comunità, ma di libertà: nessuno è autorizzato a imporre niente a nessuno, e quindi non mi puoi impedire, sulla base di un criterio di legittimazione che ti inventi tu, e sul quale io potrei non convenire affatto, di fare sulla Terra tutto quello che mi pare.
Che la Terra sia di
tutti è un principio molto antico, presente nel pensiero religioso, come in
quello liberale, da Ambrogio di Milano a John Locke, fino a Henry George; e
persino chi l’ha negato, come Samuele Pufendorf, per il quale il mondo sarebbe res nullius, ha argomentato come fosse
esattamente il contrario, riconoscendo a ognuno pari diritti in situazione
originaria, detta anche stato di natura.
Da questa premessa
abbiamo tratto quella che abbiamo definito “rendita di esistenza”, ossia il
diritto di ciascuno di ricavare un differenziale da qualsiasi attività
produttiva si svolga sul suolo terracqueo, per la semplice ragione che ogni
iniziativa va intesa come da me assentita, diversamente non sarebbe autorizzata,
e quindi non può che comportare una corresponsione in favore dei comunisti, che
in diritto civile significa comproprietari.
Senonché tale
qualificazione in termini renditari appare ora riduttiva, in quanto legata a
troppo antiche concezioni economiche, che vedono nel suolo agricoltura,
edilizia e semplice insediamento di attività produttive. Al contrario, il suolo
è sottosuolo e soprasuolo, sono risorse naturali, lo sono tutti i minerali,
fauna e vegetali, lo sono l’etere e l’atmosfera,
le fonti di energia e ogni e qualsiasi materia prima: tutto ciò viene definito
oggi capitale naturale: e qualsiasi
impresa operante sul mercato ne fa abbondante utilizzo, è suo fattore di produzione in senso tecnico: tutta
roba che, in base alla premessa, è anche mia.
Il presupposto va
quindi a vantaggio anche tuo e di
tutti, perché ognuno è un io; ma per
uscire dall’astrazione e dallo sfioramento alla metafisica, basti pensare che
non esisterebbero nessun Google e
nessun Facebook, se non esistessero i
cavi telefonici, o qualsiasi altra cosa possano inventare; ma i cavi telefonici
passano per il demanio, che è di tutti per usucapione ab immemorabile, e qualsiasi altra cosa possano inventare sarebbe
comunque servitù di passaggio su qualcosa di anche mio (e tuo che leggi).
Ecco allora che siamo tutti azionisti di queste
attività, sovranity sharing, dicemmo
a suo tempo, e ora diciamo earth sharing; e lo siamo anche in quanto prosumatori,
perché questa gente, senza di noi, che usiamo e incrementiamo i loro strumenti,
non conterebbe assolutamente nulla, e invece con il nostro generoso contributo
accumulano, sulla base di un capitale naturale che è totalmente nostro: insomma, non rompeteci le
scatole e dateci la nostra quota di utile: l’utile universale.
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RispondiElimina1. e se non te lo danno il tuo utile universale che fai? gli spari?
RispondiElimina2. in realtà la tua quota di utile già te la danno: si chiama progresso, si chiama opportunità, si chiama libertà di scelta, ...
Le risposte arriveranno.
EliminaIn un libro di prossima (si fa per dire) uscita.
Io la vedrei come un rapporto di reciprocità (benefice partagé): io produco la mia quota di utile universale e ricevo la mia quota di utile universale. Se bastasse nascere sul pianeta terra per averne gli utili, allora saremmo lì ancora nelle caverne a morire di fame e di freddo imprecando contro la terra che non ci sfama e non ci protegge. A parte questo, pienamente d'accordo con la tesi che la terra sia di tutti.
RispondiEliminaNon concordo con il passaggio pessimistico; parte dal presupposto che l'uomo non sia comunque incentivato ad agire, indipendentemente dall'aspettativa dell'utile "garantito"; esiste anche la molla dell'avidità, o anche solo della propria autorealizzazione, che indurrebbe comunque chi vuole rendersi produttivo a farlo. Poi vi è un incentivo ambientalista a rendersi efficiente: perché meno risorse naturali consumi in relazione alla tua produttività, meno paghi.
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