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lunedì 2 novembre 2015

Market-communism: humour version

di Fabio Massimo Nicosia

Con questo scritto vogliamo provare a illustrare la nostra ormai antica proposta di comunismo di mercato, detto anche, per anglofoni e anglofili, market-communism.

Il fondamento è geo-comunista, ossia che la Terra sia proprietà comune di tutti gli esseri umani. Tale affermazione ha ancoraggio di diritto positivo, ove si consideri che, per il diritto spaziale vigente, che è branca di diritto internazionale, e quindi diritto di trattati, l’universo tutto è patrimonio comune dell’umanità: naturalmente i trattati parlano di “spazio”, ma perché porre limiti, quando le norme non li prevedono?


Tuttavia noi vogliamo dare un fondamento libertario al geo-comunismo.

Perché la Terra è di tutti e non di nessuno (res communis e non res nullius)? Non certo per motivi religiosi, come ritenevano i teologi cristiani e liberali come John Locke, ossia per la motivazione che Dio avrebbe dato la Terra in comune agli uomini, ma per laicissimi motivi, ossia in grado di risultar persuasivi anche per chi in Dio non crede, o, quantomeno, nutre dubbi al riguardo, pur nella certezza di avere dei dubbi, come gli agnostici.

Ma appunto per il libertarissimo motivo che nessuno è legittimato a imporre unilateralmente obblighi in capo a chicchessia. Le parole, i comportamenti, di A non vincolano mai B, perché è impossibile munire di fondamento logico alcuno siffatta ipotetica pretesa di A: B potrebbe sempre sparare in fronte ad A, come argomenta efficacemente Thomas Hobbes.

Ne deriva che se A si impossessa di una porzione qualsivoglia di territorio, B non è tenuto per nessuna santa ragione a rispettare la pretesa possessoria di A, a meno che non la condivida, o comunque la consenta, esplicitamente o tacitamente, per un qualsiasi motivo, del cui giudizio egli è insindacabile sovrano.

Le ragioni possono appunto essere infinite, e quindi ci limitiamo a ipotizzarne solo alcune:

a)Il pretendente possessore svolge o intende svolgere in quella porzione di territorio un’attività che, autorizzando implicitamente gli altri a fare altrettanto, è considerata del tutto innocua, come ad esempio abitare; in tal caso, opera il silenzio-assenso e l’attività è considerata indifferente;

b) il possessore intende intraprendere un'attività imprenditoriale ritenuta utile dal mercato dei consumatori: ad esempio, in una comunità desiderosa di pane, nella quale nessuno produca il pane, il fatto che qualcuno si insedi per produrre il pane, viene salutato con favore dalla comunità; ciò comporta però che la “proprietà” (tra virgolette, nel senso che i proprietari sono tutti gli esseri viventi indivisibilmente) non è utile per definizione, come riteneva Bastiat, ma tale utilità va verificata sul campo dal mercato di volta in volta: ergo, la proprietà, o, meglio, l’usufrutto, non è un presupposto del mercato, ma è essa/o stessa/o calata/o nel mercato, rappresenta a sua volta il frutto di uno scambio;

c) il possessore intende intraprendere un’attività utile per lui ma impeditiva: ad esempio erigere un muro di cinta; in tali casi, i terzi hanno di fronte a sé due opzioni: l’indifferenza, e allora si ricade sub 
a); l’ostilità, che può giungere al punto, seguendo l’invocazione di Rousseau, di demolire il muro di cinta in quanto impeditivo del passaggio o del co-utilizzo di spazi ritenuti utili anche dagli altri, ai quali vengono unilateralmente sottratti, come nel caso della pastorizia, del legnatico, del raccolto, e così via;

d) in caso di ostilità, i terzi possono rinunciare alla demolizione e richiedere un indennizzo, accedendo alla diminuzione di libertà negativa (nel caso del mero passaggio) o positiva nella nostra accezione (negli altri casi), solo dietro compenso: l’opposto dunque del meccanismo tributario, in cui è chi coarta che richiede compenso, oltre a pretendere obbedienza secondo il modello "Etienne de La Boetie", mentre qui il compensato è il coartato, unica soluzione libertaria possibile;

e) v’è poi l’ipotesi in cui l’attività svolta dal possessore sia francamente dannosa, e allora, ferma restando l’eventualità della demolizione, resta viva quella del risarcimento del danno, peraltro non escludendo l’una l’altro con riferimento ai danni già procurati.

In altri termini, tutto ciò comporta che, sulla Terra comune, è ben possibile che si svolga un mercato, solo che tale mercato non richiede consenso solo in occasione dei singoli scambi, ma lo richiede anche con riferimento al loro fondamento preliminare, ossia l’occupazione del territorio, sede muovendo dalla quale gli scambi particolari vengono resi possibili.

Si dirà che tutto quanto precede vale solo con riferimento alla produzione di beni divisibili, mentre il mercato comunista non sarebbe sufficiente e adeguato, così come descritto, alla produzione di beni ad effetti indivisibili, o comunque in grado di produrre consistenti esternalità positive, la cui realizzazione sarebbe soggetta a frustrazione da free-riding: i cosiddetti beni pubblici.

Riteniamo invece, come da ampia letteratura, che anche i beni pubblici possano essere prodotti dal mercato, senza necessità di ricorrere alla coercizione, che del resto rappresenterebbe il male pubblico per eccellenza, dalle infinite esternalità negative.

Nulla impedisce, infatti, di configurare la figura dell’imprenditore del bene pubblico, ossia un soggetto dotato dell’alertness necessaria a individuare la domanda latente di beni a effetti indivisibili, di avanzare proposte e conseguire i necessari finanziamenti al riguardo: va da sé che, ove ciò non risulti possibile, nessuno viene costretto a finanziare alcunché, e il bene non verrà prodotto: del resto, non ha ordinato nessun medico di produrre beni, per i quali non ci siano persone sufficientemente motivate a spendere (anche in senso metaforico) per realizzarli, dato che, evidentemente, stante la dottrina delle preferenze dimostrate o rivelate, non li ritengono poi così necessari; la tecnologia si incaricherà di individuare i meccanismi di internalizzazione necessari e di abbattimento dei costi in rapporto ai benefici.

Nel comunismo di mercato, infine, vige la piena libertà di adottare condotte non dannose per i terzi, nel senso che il relativo giudizio viene fornito dal mercato: ad esempio, nessuno potrà impedire ad alcuno il conio, che va intesa come attività imprenditoriale non dissimile da qualunque altra, sicché la moneta, esattamente come la proprietà, non è propria volta presupposto del mercato, ma suo oggetto come qualsiasi altro bene.

Può capitare, però, che, alla luce dello sviluppo tecnologico, in una realtà di automazione che consenta la presa nel mucchio o l’autoproduzione sufficiente, il denaro si riveli un puro e semplice costo di transazione, derivante da quella che, in termini tecnici, stipuliamo di definire manfrina monetaria: il che va considerato l’esito ultimo di un processo che preveda, nell’ambito della virtualità, l’acquisizione del concetto per il quale la moneta tende all’infinito, e che i prezzi si stabilizzino in assenza di vincoli di massa, sulla base dell’incontro tra domanda e offerta senza limiti predeterminati di stock.

In tal caso, alla moneta, per quanto elettronica e virtuale, una volta che sia considerata dal mercato, se non proprio dannosa, quantomeno inutile, subentra dialetticamente la gratuità:



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