di Fabio Massimo Nicosia
Con questo scritto vogliamo
provare a illustrare la nostra ormai antica proposta di comunismo di mercato,
detto anche, per anglofoni e anglofili, market-communism.
Il fondamento è geo-comunista,
ossia che la Terra sia proprietà comune di tutti gli esseri umani. Tale
affermazione ha ancoraggio di diritto positivo, ove si consideri che, per il
diritto spaziale vigente, che è branca di diritto internazionale, e quindi diritto
di trattati, l’universo tutto è patrimonio
comune dell’umanità: naturalmente i trattati parlano di “spazio”, ma perché
porre limiti, quando le norme non li prevedono?
Tuttavia noi vogliamo dare un
fondamento libertario al
geo-comunismo.
Perché la Terra è di tutti e non
di nessuno (res communis e non res nullius)? Non certo per motivi
religiosi, come ritenevano i teologi cristiani e liberali come John Locke,
ossia per la motivazione che Dio avrebbe dato la Terra in comune agli uomini,
ma per laicissimi motivi, ossia in grado di risultar persuasivi anche per chi
in Dio non crede, o, quantomeno, nutre dubbi al riguardo, pur nella certezza
di avere dei dubbi, come gli agnostici.
Ma appunto per il libertarissimo
motivo che nessuno è legittimato a imporre unilateralmente obblighi in capo a
chicchessia. Le parole, i comportamenti, di A non vincolano mai B, perché è
impossibile munire di fondamento logico alcuno siffatta ipotetica pretesa di A:
B potrebbe sempre sparare in fronte ad A, come argomenta efficacemente Thomas
Hobbes.
Ne deriva che se A si impossessa
di una porzione qualsivoglia di territorio, B non è tenuto per nessuna santa
ragione a rispettare la pretesa possessoria di A, a meno che non la condivida,
o comunque la consenta, esplicitamente o tacitamente, per un qualsiasi motivo,
del cui giudizio egli è insindacabile sovrano.
Le ragioni possono appunto essere
infinite, e quindi ci limitiamo a ipotizzarne solo alcune:
a)Il pretendente possessore
svolge o intende svolgere in quella porzione di territorio un’attività che,
autorizzando implicitamente gli altri a fare altrettanto, è considerata del
tutto innocua, come ad esempio
abitare; in tal caso, opera il silenzio-assenso e l’attività è considerata indifferente;
b) il possessore intende
intraprendere un'attività imprenditoriale ritenuta utile dal mercato dei consumatori: ad esempio, in una comunità
desiderosa di pane, nella quale nessuno produca il pane, il fatto che qualcuno
si insedi per produrre il pane, viene salutato con favore dalla comunità; ciò
comporta però che la “proprietà” (tra virgolette, nel senso che i proprietari
sono tutti gli esseri viventi indivisibilmente) non è utile per definizione,
come riteneva Bastiat, ma tale utilità va verificata sul campo dal mercato di
volta in volta: ergo, la proprietà, o, meglio, l’usufrutto, non è un
presupposto del mercato, ma è essa/o stessa/o calata/o nel mercato, rappresenta
a sua volta il frutto di uno scambio;
c) il possessore intende
intraprendere un’attività utile per lui ma impeditiva:
ad esempio erigere un muro di cinta; in tali casi, i terzi hanno di fronte a sé
due opzioni: l’indifferenza, e allora
si ricade sub
a); l’ostilità, che può
giungere al punto, seguendo l’invocazione di Rousseau, di demolire il muro di
cinta in quanto impeditivo del passaggio
o del co-utilizzo di spazi ritenuti utili anche dagli altri, ai quali vengono
unilateralmente sottratti, come nel caso della pastorizia, del legnatico,
del raccolto, e così via;
d) in caso di ostilità, i terzi possono rinunciare alla demolizione e richiedere un indennizzo, accedendo alla diminuzione
di libertà negativa (nel caso del mero passaggio) o positiva nella nostra accezione (negli altri
casi), solo dietro compenso: l’opposto dunque del meccanismo tributario, in cui
è chi coarta che richiede compenso, oltre a pretendere obbedienza secondo il modello "Etienne de La Boetie", mentre qui il compensato è il coartato, unica soluzione
libertaria possibile;
e) v’è poi l’ipotesi in cui
l’attività svolta dal possessore sia francamente dannosa, e allora, ferma restando l’eventualità della demolizione,
resta viva quella del risarcimento del
danno, peraltro non escludendo l’una l’altro con riferimento ai danni già
procurati.
In altri termini, tutto ciò
comporta che, sulla Terra comune, è ben possibile che si svolga un mercato, solo
che tale mercato non richiede consenso solo in occasione dei singoli scambi, ma
lo richiede anche con riferimento al loro fondamento preliminare, ossia
l’occupazione del territorio, sede muovendo dalla quale gli scambi particolari
vengono resi possibili.
Si dirà che tutto quanto precede
vale solo con riferimento alla produzione di beni divisibili, mentre il mercato
comunista non sarebbe sufficiente e adeguato, così come descritto, alla
produzione di beni ad effetti indivisibili, o comunque in grado di produrre
consistenti esternalità positive, la cui realizzazione sarebbe soggetta a
frustrazione da free-riding: i
cosiddetti beni pubblici.
Riteniamo invece, come da ampia
letteratura, che anche i beni pubblici possano essere prodotti dal mercato,
senza necessità di ricorrere alla coercizione, che del resto rappresenterebbe
il male pubblico per eccellenza, dalle infinite esternalità negative.
Nulla impedisce, infatti, di
configurare la figura dell’imprenditore
del bene pubblico, ossia un soggetto dotato dell’alertness necessaria a individuare la domanda latente di beni a
effetti indivisibili, di avanzare proposte e conseguire i necessari
finanziamenti al riguardo: va da sé che, ove ciò non risulti possibile, nessuno
viene costretto a finanziare alcunché, e il bene non verrà prodotto: del resto,
non ha ordinato nessun medico di produrre beni, per i quali non ci siano persone
sufficientemente motivate a spendere (anche in senso metaforico) per
realizzarli, dato che, evidentemente, stante la dottrina delle preferenze dimostrate o rivelate, non li
ritengono poi così necessari; la tecnologia si incaricherà di individuare i
meccanismi di internalizzazione necessari e di abbattimento dei costi in
rapporto ai benefici.
Nel comunismo di mercato, infine,
vige la piena libertà di adottare condotte non dannose per i terzi, nel senso
che il relativo giudizio viene fornito dal mercato: ad esempio, nessuno potrà
impedire ad alcuno il conio, che va intesa come attività imprenditoriale non
dissimile da qualunque altra, sicché la moneta, esattamente come la proprietà,
non è propria volta presupposto del
mercato, ma suo oggetto come
qualsiasi altro bene.
Può capitare, però, che, alla
luce dello sviluppo tecnologico, in una realtà di automazione che consenta la
presa nel mucchio o l’autoproduzione sufficiente, il denaro si riveli un puro e
semplice costo di transazione, derivante
da quella che, in termini tecnici, stipuliamo di definire manfrina monetaria: il che va considerato l’esito ultimo di un
processo che preveda, nell’ambito della virtualità, l’acquisizione del concetto
per il quale la moneta tende all’infinito,
e che i prezzi si stabilizzino in assenza di vincoli di massa, sulla base
dell’incontro tra domanda e offerta senza limiti predeterminati di stock.
In tal caso, alla moneta, per
quanto elettronica e virtuale, una volta che sia considerata dal mercato, se non proprio dannosa, quantomeno inutile, subentra dialetticamente la gratuità:
Nessun commento:
Posta un commento