di Fabio Massimo Nicosia
Questo è il primo quaderno, tra tanti, di appunti di Fabio Massimo Nicosia, risalenti al periodo 1996-1998, già pubblicato, insieme al secondo, sul sito della "Fondazione De Ferrari".
La presentazione del sito così li introduce: "I quaderni inediti che cominciamo a pubblicare, risalenti al periodo 1996-1998, più che da semplici abbozzi annotazioni o frammenti sono costituiti
da una trama coerente riconducibile a un lavoro che avrebbe potuto chiamarsi
Il legislatore originario. Vanno oltretutto considerati come la necessaria
premessa dei suoi lavori successivi".
Leoni e Buchanan dicono che il ladro non “pretende” di essere tale. Sicché
la sua pretesa è speciale, anomala. In realtà il ladro non avanza la sua pretesa
a essere tale innanzi al giudice, ma la realizza direttamente di fatto- A
livello di preferenze dichiarate, egli non rivendica il suo “diritto a esser ladro”.
Né è detto che chiederà pene basse, perché spera di non essere preso.
Magari sono i garantisti non ladri a chiedere pene basse, o chi ha paura di
essere arrestato ingiustamente. Anzi il ladro dissimulerà, e strategicamente
chiederà pene altre. Tali considerazioni consentono di attribuire uno statuto alle
pretese dichiarate. Nel mercato, si presume che alle pretese dichiarate
corrispondano pretese reali, dimostrate. Se poi nei fatti ci si discosta dal dichiarato,
se ne assume la responsabilità, il costo.
Le pretese dichiarate sono vincolanti, se sono relazionali, ossia se vi è un incontro
di volontà sul contenuto proposto. Se c’è un incontro tra compagnie,
le norme di ciascuna valgono come proposta all’altra, reciprocamente.
Nessuno può imporle all’altro, a meno che non si dimostri che il reo sapeva
quale prevedeva la compagnia della vittima. La compagnia del reo può trattare
o no, a seconda che il mercato le richieda un atteggiamento rigido anche
verso i suoi stessi aderenti.
Le preferenze dichiarate creano affidamento, ma solo se si incontrano (consideration),
non se restano unilaterali: in tal caso valgono come proposte
non accettate.
Il diritto è costituito dagli impegni pubblici sulla condotta da seguire. Qui
parliamo di contratti a effetti obbligatori, non a effetti reali, in cui il trasferimento
del titolo è simultaneo.
Le norme sanzionatorie sono tutti contratti a effetti reciprocamente obbligatori.
Il regime giuridico della sanzione è lo stesso di qualunque contratto.
Il “reo” può invocare nullità, annullabilità, rescissione, risoluzione, etc. Ad
esempio, se la norma non viene mai applicata e la invocano per te, puoi
chiedere la risoluzione per inadempimento (eccezione di inadempimento).
Nel rapporto con la compagnia puoi riservarti il diritto a proporre un sindacato
delle sue norme a un’altra compagnia, o a sondaggi di opinione.
Ad esempio, posso riservarmi, in caso di pena, di chiedere al “pubblico” se
è giusta. Quindi il ladro è un inadempiente.
Le norme del mercato sono strutturalmente, e anche esteriormente, contratti:
“Mi impegno a non…”, “Sono consapevole che, in caso contrario, sarò soggetto
a…”. Ma anche “Mi riservo di…”.
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Il diritto è il grado di appello del mercato. La pretesa è la proposta esercitata
in sede di appello. Le istituzioni sono l’appello del mercato. Sono
l’accumulo dell’esperienza etica collettiva. Gli elementi comuni condivisi,
nella misura in cui sono condivisi. Ecco perché il mercato fornisce diverse
istituzioni, ossia diversi diritti in concorrenza, nel senso letterale che oc/corrono,
sono insieme; perché il composto etico non è uniforme, ma è frutto
dell’apporto distinto di singoli individui. Il problema della convivenza sorge
se alcune istituzioni sono incompatibili. Ciò è il frutto della mancanza di
una meta-norma comune, in ordine alla doverosità-necessità della loro
coesistenza, o meglio, della possibilità della loro esistenza. Manca una meta-norma
sulla necessità della possibilità. Nel mercato, ciò che è necessario
(imperativo, obbligatorio) èl’aver facoltà. Il vincolo è alla liberà, all’esser
liberi, ossia il diritto dell’altro alla sua esistenza.
La pretesa viene dopo la fase proposta/accettazione. Si esercita davanti al
giudice. La pretesa esercitata nei confronti della controparte è solo una proposta
di rinegoziazione. Ove non accettata, trasferisco la proposta al giudice,
e la qualifico “pretesa”, concetto che implica la possibilità dell’invocazione
della forza. Attraverso la giurisdizione, tale possibilità viene
resa pubblica, invocando il giudizio del mercato, e prima la sua attenzione
al caso: il diritto, il ricorso a esso, rende noto al pubblico che è invocato
l’uso della forza, e gli dà il tempo di esprimersi, attraverso procedure, volte
a ottenere quel tanto di attenzione pubblica che il caso merita.
Il grado di “cassazione” del mercato è il terzo (appello in diritto), in cui si
giudica della legittimità, ossia della possibilità di esercizio della forza. Nel
caso in cui è accolta la rivendicazione, si dice che è cassato il vincolo del
mercato contro l’uso della forza. Si tratta di un’autorizzazione alla deroga.
Non è sufficiente, cioè, avere ragione in diritto, per avere altresì diritto alla
coazione. Occorre un terzo grado di giudizio: il primo è il giudizio del
mercato stesso, il secondo è il giudizio di giustizia, il terzo è il giudizio di
forza. Il terzo grado è dedicato interamente all’opportunità, misurata sulla
base di criteri di giustizia, all’utilizzo, in quel caso (ossia, in un caso del
genere), della forza.
Il processo deve consistere nella raccolta di quante più opinioni attorno al
caso, sia sulla vicenda, sia sulla sanzione. Ogni membro del pubblico ha diritto
di veto sull’uso della forza a sostegno del diritto, in quanto ravvisi sé
nel reo, sentendo la reciprocità della condizione.
Rinviando l’uso della forza, indebolendolo, si rafforza lo spazio per il
giudizio di mercato: ad esempio, non si paga il debito approfittando dell’impossibilità
di usare la forza in un dato caso.
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La pretesa è l’appello al pubblico in ordine al rifiuto del singolo a una proposta
ritenuta di efficienza.
Il proponente afferma che la propria ipotesi è pubblicamente vantaggiosa:
del resto, un contratto non può essere stipulato in danno di altri, per cui ogni
proposta contrattuale implica il miglioramento globale del benessere pubblico.
Nel mercato, la proposta è rivolta a uomini specifici; se rifiutata, è proposta
al pubblico tutto, simboleggiato dal giudice, alla ricerca del bene comune. Il
terzo grado di cassazione deve trovare quale soluzione avvantaggi i due e,
con loro, il benessere generale, realizzato da ogni scambio andato a buon fine.
Il “diritto” consiste nella possibilità dell’uso della forza sulla base di un criterio
condiviso (diritto di mercato), o almeno noto (diritto dello Stato di diritto).
Il mercato implica consenso, e il consenso presuppone la conoscenza diretta,
per aver partecipato alla formazione della norma, o almeno della metanorma
che si assume comune a tutti gli atti di scambio.
Lo Stato di diritto implica invece, come detto, la sola conoscenza di una
noma, alla cui formazione non si è partecipato.
Una possibile obiezione statalista è che sia possibile che ciò di cui si viene a
mera “conoscenza” (fatto da altri per te) sia, per te, meglio, di ciò a cui
avresti prestato consenso. Resta la questione di chi sia giudice di tale “meglio”.
Secondo Leoni, l’imperativismo va oltre l’obbligo, trova almeno qualcuno
che “pretende” (il Sovrano), mentre nel mercato è l’individuo. Si tratta di un
realismo dimezzato, decapitato, perché desoggettivizza il titolare della
pretesa che costituisce l’obbligo. Occulta chi si pone dietro, mentre nel mercato
ognuno è titolare di tale sovranità: la sovranità qui consiste nella legittimazione
a invocare la legge, e a renderla effettiva attraverso il diritto, che
mantiene il collegamento tra legge e mercato, valvola che regola i flussi
legge-mercato.
Nel diritto prevalgono le preferenze dichiarate su quelle dimostrate, perché
si tratta di preferenze sull’uso della forza. Il mercato ha selezionato un atteggiamento,
secondo il quale far precedere l’uso della forza da un annuncio
pubblico è funzionale all’efficienza.
La forza è compatibile con il mercato, se preceduta da tale annuncio pubblico.
Il diritto pone una rete di dichiarazioni, di prese di impegni, di assunzioni di
responsabilità, tra il mercato e la condotta consistente nell’uso della forza
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fisica su altri uomini. Il mercato richiede cioè il condizionamento della forza,
ossia il sottoporre sempre a condizioni limitative l’uso della forza.
Nel mercato, tutte le condotte sono direttamente esercitabili (preferenze
pubblicamente dimostrate), tranne l’uso della forza, che va preannunciato,
attraverso una dichiarazione pubblica di preferenza.
La dichiarazione pubblica serve a garantire la condizione di reciprocità,
sicché l’altro possa prendere contromisure: le condotte non lesive possono
essere esercitate direttamente, quelle “lesive” (salvo stabilire quali siano)
vanno mediate dalla proposta pubblica, dall’impegno a non oltrepassare un
certo limite.
La dichiarazione pubblica sull’uso della forza deve indicare esattamente i
casi e i limiti di forza previsti, unico modo per assolvere i compiti di conoscenza:
come nello scambio le parti devono conoscere le condizioni del
rapporto, nel diritto la parte deve conoscere il “costo” per lui previsto dalla
norma, se…
Il mercato seleziona le proposte, attraverso l’atteggiamento dei giudici e degli
avvocati sul mercato, in base alla loro disponibilità a sostenere certe
“cause” piuttosto che altre. Di volta in volta, verranno premiati i casi più
frequenti, più rilevanti, ma anche di nicchia, etc.
Assistiamo a una crisi del postulato di transitività, espresso normalmente
dalla sequenza xpypz.
In effetti, io posso preferire la condotta che porta al risultato y rispetto a
quella che porta al risultato x, se tale risultato è visto come un effetto
collaterale. Ad esempio, posso preferire la cultura alla pittura, ma comprare
un quadro per investimento. Posso preferire star bene a star male, ma posso
rischiare una malattia per amore.
Qui il terzo elemento altera, inverte, l’ordine degli altri due: xpy, ma zpypx.
Ad esempio, preferisco il gioco al denaro, ma, entrando in campo l’amore,
amoreplavoropgioco. Ecco come l’ingresso in campo di una nuova preferenza
sconvolge l’ordinamento interno, e lo stesso capita con le norme di
un ordinamento giuridico: una preferenza dominante nuova seleziona quelle
strumentali, quelle compatibili, quelle derivate.
Le preferenze non vanno infatti viste come singole, come individuali, ma
per aggregati, per panieri, non però casuali, ma funzionali a una destinazione
unitaria che fonda il paniere, dà a esso stesso ragion d’essere dal
punto di vista del soggetto.
Il fatto è che il soggetto può avere diversi scopi, anche non confliggenti, ma
richiedenti panieri funzionali distinti.
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I due ordinamenti preferenziali si accavallano, rischiando di rimescolarsi,
perché le preferenze accessorie di ognuno possono inserirsi tra le altre, acquisendo
nuovo significato. Ad esempio, io posso fare sport nel paniere
“curare il fisico” (simbolico), in quello “conquistare ragazze” (strumentale
diretto), o in quello “mantenere pubbliche relazioni” (strumentale indiretto),
e passare da una all’altra, attraverso un mutamento di dislocazione funzionale
delle preferenze da un paniere all’altro, ferma restando la sua collocazione
ordinale.
Può però capitare che la diversa dislocazione di paniere incida sull’intensità
della preferenza, ovvero sull’intensità e sulla qualità del modo di aspresione.
Con riferimento al diritto, ciò inciderà sull’intensità della sanzione
richiesta. Non basta cioè la preferenza, ma occorre la funzione ad essa
assegnata: simbolica, meramente dichiarata, strategica, effettiva, etc.
Spesso si dice che solo la disponibilità a spendere dimostra la preferenza; in
tal caso, occorre calcolare esattamente l’incidenza che ha, per ogni soggetto,
il costo affrontato in relazione all’adeguatezza rispetto all’obiettivo e allo
scopo. Ad esempio, io posso “preferire” di diventare presidente degli Stati
Uniti, e spendere tutto quello che ho per conseguire tale scopo, ma è
ancora insufficiente.
L’elemento soggettivo misura l’intensità della preferenza, quello oggettivo
la sua razionalità, ossia la sua adeguatezza.
Ad esempio, spendere molto per controllare le menti e i corpi altrui esprime
un’elevata intensità, ma anche un’elevata irrazionalità della preferenza. La
razionalità individua, attinge a un ulteriore livello di oggettività, e cioè la
raggiungibilità dello scopo in sé. Nessun mezzo è adeguato a uno scopo
inadeguato.
È scopo inadeguato in sé, quello incapace di individuare alcun mezzo adeguato;
sicché un giudizio sull’adeguatezza del mezzo implica un giudizio
preliminare sull’adeguatezza dello scopo, l’uno alla luce dell’altro. Ciò
perché il mezzo è già uno scopo, uno scopo strumentale, preordinato a uno
scopo superiore.
Qualunque giudizio sulla domanda di applicazione delle legge, implica un
giudizio sulla legge stessa. Trattandosi di uso della forza, il pubblico vuole
giudicare della scelta privata che coinvolge tutti, pena la nullità per inesistenza
o impossibilità dell’oggetto, o per errore sull’efficacia.
Ad esempio, un tossicodipendente può dichiarare di avere aderito a un ordinamento
proibizionista, convinto della sua efficacia di deterrente, ma di
essersi poi accorto che questa non sussiste, e che anzi il proibizionismo è
controproducente e dannoso; sicché chiederà la nullità della norma, ne
chiederà l’annullamento per errore o dolo, etc.
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Il diritto nasce quando una persona vuole rendere pubblico il costo che intende
far pagare, o è disposto a pagare, per una data condotta. Il Legislatore
Originario (L.O.) dichiara pubblicamente che farà pagare con la sanzione
l’aggressione e che (fatto nuovo) è disposto a pagare, ove mai dovesse incorrere
nella stessa attività.
Rivendicando la legittimità al proprio uso della coazione, riconosce la
legittimità dell’altrui. Il diritto nasce così con una sanzione preventiva, alla
quale corrisponde la rinuncia a una pretesa: la rinuncia sanziona, legittimando
reciproche sanzioni future.
Il diritto seleziona le condotte che si vorrebbero evitare in una relazione, e
le rende costose. Il ricorso al diritto è infatti antieconomico, perché comporta
quantomeno i costi del giudizio. Nel diritto statuale, poi, per ogni norma
c’è anche il plus-valore dello Stato: se il ricorso al diritto comporta alti
costi di transazione, nello Stato questi sono permanenti in termini di esternalità
negative.
Se nel diritto di mercato la pretesa si esercita direttamente, chiedendo l’intervento
del giudice-arbitro, nel diritto dello Stato essa è mediata dalla norma,
nella quale la pretesa non è mai rispecchiata perfettamente, ma è sempre
spuria, commista ad altre pretese (oltre a quella, costante, del governante);
si presume che invece nel mercato le pretese siano nitide.
Nel mercato di Leoni, ogni individuo esercita un potere nei confronti di altri
individui. L’esercizio di tale potere è subordinato all’approvazione del giudice,
che la concede solo nel caso in cui riconosca la ragione della pretesa,
ragione che deriva dal torto ricevuto. Il giudizio garantisce la discussione
pubblica sulla legittimità del potere che si intende esercitare. L’esercizio del
potere di pretesa ha sempre un costo, che si recupererà se si ha ragione, da
qui la necessità di un’attenta ponderazione. La giurisdizione è la sede
dell’esercizio della libertà positiva, ossia del potere legittimo, e si ha quando
si assoggetta chi ha adottato un comportamento illegittimo e dannoso.
Nella legislazione, il potere è esercitato dai politici. Nello Stato di diritto, la
Costituzione stabilisce i limiti posti alle pretese del legislatore. Nel mercato,
la “legge” fornisce invece i criteri di legittimità delle pretese di ciascuno.
Il diritto è la forma della pretesa. Nel mercato, il regime della pretesa è la
reciprocità, nello Stato è l’unilateralità nell’ordinamento delle pretese
altrui. Nella legislazione, ogni preferenza si vede ordinata unilateralmente
dallo Stato: ognuno può avanzare la propria pretesa, ma è la legislazione a
predeterminarne la sorte. Nel mercato, invece, non vi sono ordinamenti aprioristici.
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Nello Stato, il cittadino può far valere la propria pretesa, solo se il legislatore
la fa sua in una norma, sicché l’attore possa invocare la norma che
gli è più vicina. Nel mercato invece l’attore prospetta direttamente la propria
pretesa in quanto tale; il principio di diritto è modellato, plasmato,
direttamente sulla pretesa, e non è la pretesa a doversi adattare alla norma.
Nel mercato, la pretesa al comportamento altrui è diretta (“Tu devi”), nella
legislazione è sotto forma di minaccia indiretta, è dissimulato il beneficio
per chi pretende-minaccia. Nel mercato, è subito evidente il nesso pretesabeneficio
per chi pretende; nella legislazione si tende invece a occultare, nel
senso che si presume un qualche scopo, interesse “pubblico”, ma non è
sempre chiaro quale sia, data l’impersonalità del precetto. Non c’è una
chiara emersione di chi pretende, non c’è trasparenza su chi invoca quella
prestazione. Nella legislazione noi abbiamo obblighi, e non sappiamo
perché, dato che non si palesa il soggetto avvantaggiato, celato dietro l’apparente
oggettività informatica della norma.
L.O., quando pretende, impone rinunciando. E’ chiaro infatti che, invocando
l’illegittimità di un comportamento altrui, dichiara di volersene
astenere a propria volta; la pretesa è qui una denuncia di violata reciprocità.
Di tale che, nel mercato, chi esercita il “potere” si sta a sua volta sottoponendo
allo stesso precetto che vuole imporre all’altro (Non fare agli
altri ciò che non vorresti fosse fatto a te, ma anche non fare agli altri ciò
che essi non gradiscono).
L’esercizio della pretesa con l’azione giudiziaria, invece che con la forza
bruta, implica l’aspirazione a che il contenuto della pretesa sia universalizzabile,
sia valido anche per sé. La pretesa è giuridica, se è riferita a una
condotta che si dichiara di essere disposti a far propria. Ciò costituisce limite
all’espansione del diritto, perché ognuno è disincentivato ad assumersi
obblighi.
Non è vero, come dice la scuola di public choice, che lo Stato sia costrizione
reciproca. La reciprocità vera, kantiana, si ha solo nel mercato e nel
diritto di mercato, nel quale ognuno, “pretendendo”, si assoggetta a identica
pretesa altrui. Nello Stato si pretende invece unilateralmente, anche se a
turno: questa non è reciprocità, se non forse nelle leggi generali e astratte,
non certo nelle leggi organizzatorie e nelle leggi-provvedimento.
Nello Stato interventista, infatti, nel quale le leggi sono atti puntuali, non
c’è reciprocità possibile, se non aspettando appunto il… proprio turno per
rifarsi. Occorrerebbero cioè tante norme quante sono le persone (o almeno
le categorie) per affermarsi che esse si sono coartate “reciprocamente”,
laddove nel diritto di mercato, la singola norma implica la reciprocità della
costrizione, in quanto precetto universale, in quanto negativo.
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Per Kant, nel mercato ogni atto di costrizione implica l’ingresso nella
“costituzione civile”, ossia il fatto che chi costringe è a sua volta “costretto”
dalla norma che egli stesso ha posto. Con la pretesa, il singolo cerca di
costringere l’altro, sfidandolo su un terreno comune; il giudice-arbitro è
quindi un mediatore (come del resto afferma Aristotele nell’”Etica Nicomachea”),
incaricato di delineare la costituzione di quel rapporto giuridico.
Sen, quando nega la possibilità del “paretiano liberale”, cade in errore allorché
non comprende che l’unanimità dei libertari si colloca al livello del
negativo, astensionista. L’unanimità è sulla legge generale e astratta che invalida
certe condotte. Egli invece cerca l’unanimità su una condotta che il
libertario e il liberale considerano illegittima, come decidere che libro leggerà
l’altro! Il consenso unanime è sull’eguale libertà, non su quale costrizione
imporre unilateralmente.
La guerra è l’unico atto legislativo coerentemente generale e concreto, del
quale tutti indistintamente si fanno esecutori materiali, e tutti gli atti materiali
sono al contempo atti giuridici, esecutivi della guerra quale leggeprovvedimento,
applicativi di una norma giuridica, di ciascuno dei quali
valutare discrezionalmente la validità. La misura dell’efficacia è invece
fornita dalla condizione del nemico.
La guerra è l’apoteosi di tutti i concetti dello Stato: la totalità, la base empirica,
la completa giuridificazione degli atti umani, la totale coincidenza tra
condotta umana e atto giuridico, l’attribuzione del potere totale di decisione
a qualcuno, la possibilità di misurare la legittimità di tutti i suoi atti sulla
base di un criterio unico (si veda il “Diritto Bellico” di Balladore Pallieri),
l’unilateralità: lo stato di guerra di Hobbes trasferito verso l’esterno.
Nella guerra combattono concetti (le due o più entità statuali), mentre gli
uomini sono solo strumenti: ma chi, tra gli “strumenti”, ha il potere di attivare
il concetto?
Anche la credenza ha carattere bilaterale. C’è chi la utilizza e chi la subisce.
V’è da chiedersi se chi la utilizza ci… creda. C’è chi ne approfitta,
avendola già trovata confezionata. Ci crede, a sua volta? Approfittare di un
concetto significa smitizzarlo, non crederci, se non come di un astratto modello.
Comanda chi dall’evocazione di un concetto sa trarre guadagno.
Quando interviene lo Stato, c’è chi trae guadagno e chi ci rimette. Il possesso
del potere si misura dalla frequenza e intensità con la quale si
guadagna dall’intervento dello Stato.
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Mentre ha senso, dalla nostra prospettiva, immaginare un corpo che cresce
all’infinito, non è immaginabile il contrario: vedersi davanti un uomo che
diminuisce all’infinito; esisterà il passaggio in cui per noi è sparito e la
diminuzione finisce. Questo spiega lo sviluppo, l’evoluzione; il regresso all’infinito
è invece impossibile, perché interrotto dal nulla. Un nulla relativo,
non assoluto, essendo infinite le classi di nulla.
Le cose hanno un inizio quando si forma la prima unità di misura, tale da
configurare l’idea di quella cosa. Ogni idea ha un metro, un’unità minima di
reale, che la realizza. Le realizzazioni possibili di un’idea vanno da uno a
infinito. Non v’è idea che sia priva di tale unità minima. Ad esempio, vi è
un limite, sopra il quale si ha “stato”. L’impressione è che tale unità minima
sia il singolo uomo, ossia tutti, essendo ciascuna un singolo uomo. L’”uomo”
è ciascuno di noi in rapidissima successione. L’idea di uomo richiama
immediatamente al primo uomo che incontri (è richiamata da). Lui è
l’Uomo, non v’è bisogno di altro per soddisfare l’idea. Basta un uomo, per
fare, per avere, per vedere, l’uomo, non c’è da chiedere di più
La moneta non è una merce come un'altra, dato il suo valore simbolico assoluto
e universale (cfr. ancora “Etica Nicomachea”). La moneta di Stato, in
particolare, è simbolo della misura del suo potere. Ma lo Stato vive sulla
formula politica della propria inadeguatezza-insufficienza: ne occorre
sempre di più, ma per essere sempre più inadeguato, per giustificare sempre
nuovo Stato Sussiste una soglia oltre la quale il livello di inadeguatezza è
tale, che l’invocazione di nuovi poteri non persuade più di poter essere una
soluzione. “Lo Stato prospera nell’invocazione della sua propria inadeguatezza”
(meccanismo di riproduzione della legittimazione).
La certezza del diritto riposa sulla sua scarsa applicazione, dovuta all’efficienza
degli scambi, dalla solidità-durata degli effetti, che allontanano,
sino a eliminarle, le liti. Il diritto, per essere certo, deve essere vago,
imprecisato, mai specificato, ossia non sviscerato in tutte le sue possibili
implicazioni, che ne evidenzino debolezze, che ne incrinino l’efficacia,
sminuendone l’autorevolezza di fronte ai cittadini. Condizione per mantenere
ciò è che non ci si debba mai cimentare con la sua realizzazione pratica;
infatti, più un enunciato è specifico, più si presta alla confutazione (Popper).
Ciò significa che, date tali condizioni, il diritto diviene irrilevante. E la vaghezza
della norma è il mercato, la sua legge. E la norma più vaga o
indeterminata, e la più certa, è quella negativa, la quale non precisa quali
contenuti siano dovuti.
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Il diritto deve tendere a evidenziare l’unità minima universale, ossia quegli
elementi dell’uomo che sono comuni a tutti gli uomini. L’unica legge
compatibile con tutti gli uomini è quella che prevede la loro presenza uno
per uno. Il che già esclude un’ipotesi, quella che uno sia soppresso. Quindi
la presenza di tutti implica la vigenza di una norma che comandi che ci siano
tutti: tale norma è negativa, nel senso che non comanda condotte, ma solo
le consente, in quanto co-possibili.
La norma negativa implica il rispetto assoluto per l’altro. Ma il rispetto non
basta; perché ci siano tutti occorre anche agire per realizzare l’obiettivo.
Nessuno può eliminare l’altro come “di troppo”, perché nessuno ha ragione
di non ritenere che di troppo potrebbe essere lui stesso. La chiave è
l’identificazione totale di ciascun singolo uomo con l’idea di “tutti gli
uomini”: qualunque discorso attorno agli uomini, può essere riferito a un
uomo, e viceversa. Ogni singolo sa di essere parimenti costitutivo della
totalità, dell’unica totalità tra quelle comprese in una frazione di secondo,
che lo comprenda, senza di che non ci sarebbe quella totalità che lo
ricomprende.
Il dovere morale scaturisce dalla logica dell’azione e dell’interazione,
logica della condotta umana nell’interazione con l’altro. Il d.m. consiste in
un’intuizione, un’anticipazione, ovvero un retaggio di cui sfuggono le ragioni,
sulla condotta umana vantaggiosa, pur quando ciò non emerga a prima
vista.
Il dovere supera i limiti di analisi logica dell’uomo, sostituendo tale capacità
di ragionamento con una soluzione in grado di prospettare situazioni più
vantaggiose, pur in modo non direttamente constatabile. Il dovere è perciò
sempre collegato a una credenza; senza credenza, non vi sarebbe necessità
di disattendere gli esiti diretti del nostro ragionare logico. Il dovere implica
perciò una capacità di analizzare la soluzione più soddisfacente per sé, una
credenza a priori, nonché la disponibilità a rinunciare alla prima in nome
della seconda.
Posto che la “credenza” libertaria si manifesta in norme “negative”, v’è da
chiedersi se essa non induca anche a determinate condotte “positive”. In
altri termini, non si tratta solo di fare i “poliziotti” per controllare che non
avvengano aggressioni o per sanzionare quelle che vengano compiute.
Vale la pena di chiedersi che cosa, in una realtà libertaria, un libertario deve
fare, eventualmente anche discostandosi dai propri calcoli di utilità, per
preservare quella realtà in nome della propria credenza. Non basta invocare
la libertà “negativa”: non si passa infatti il tempo “astenendosi” dal fare
qualcosa, ma si fa qualcosa. E' "astensionista" in una società la classe delle
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azioni che, riferite a qualunque altra della classe, non interferisce con essa
in modo invasivo. Ma che significa che “non interferisce”? Non può significare
altro che essa coopera; ossia, è concepibile una condotta rispettosa
di diritti altrui che non sia anche in qualche misura cooperativa con qualcuno?
Prendiamo una ragazza che passeggia in una via. Rispetta la proprietà
del frontista, ma sta anche cooperando con la ditta di scarpe di cui sta
consumando il prodotto, e così via: non esiste l’atto meramente negativo.
Per cui non ha senso un’etica che prescriva di fare atti meramente negativi:
un’etica dice, per ogni atto che si sceglie di compiere, quale è il migliore: un
“migliore” c’è necessariamente, sicché è illogico, potendo scegliere, non
scegliere il migliore, quantomeno alla luce delle informazioni disponibili.
Se invochiamo la “libertà”, è perché pensiamo che ognuno sia il migliore, il
più titolato, a conoscere che cosa sia meglio per sé; il miglioramento richiede
però uno sforzo, occorre un’espansione proporzionale dell’essere,
armonica.
L’ottimo paretiano è l’espansione del benessere di ciascuno nelle proprie
reciproche relazioni. La soddisfazione universale, lo sfiorare la soglia dell’averne
abbastanza delle preferenze, man mano che si presentano. Tale
criterio etico in sé non vale nulla. Ove fosse davvero realizzata una realtà
nella quale tutti avessero tutto senza sforzo, non vi sarebbe in ciò alcunché
di “etico”. Anzi, sarebbe tutto troppo comodo. Il precetto etico alla
conquista del benessere vale perciò solo in situazioni di difficoltà, sapendo
che quel benessere in sé non ci dà nulla. Se il fatto tende al benessere,
cresce il livello di accettazione dello stesso, e una proprietà è tanto più legittima
quanto più benessere negli altri crea.
Se c’è un dio, e “Dio” crea, vuol dire che preferisce esista l’altro da sé, ma
allora questo “Dio” non è perfezione, a meno che la perfezione non implichi
la coesistenza del proprio contrario, la realizzazione del concetto opposto.
Noi abbiamo logicamente bisogno del concetto di dio, nella misura in cui
sia l’opposto dell’idea che la nostra realtà realizzi: solo il condensato di tutti
i concetti astratti e infiniti può esprimere l’opposto della nostra realtà
concreta e finita. Se il deismo appare più convincente, è perché non prevede
una realtà esterna a Dio, nella quale Dio non sia onnipotente, e il mondo
sarebbe il corpo di Dio.
Il “non uccidere” è combinazione di realtà e di etica. L’atto viene proposto
nella sua validità in considerazione di quali siano gli effetti della sua
universalizzazione pratica. Ciò che vale per un uomo, deve valere (non v’è
ragione che non valga) per qualunque altro uomo, data l’impossibilità di
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giustificare alcuna disparità di trattamento rispetto a una norma purchessia.
Il “non uccidere” deriva dalla previsione dell’impossibilità di effettivamente
generalizzare il precetto opposto garantendo la pace. Infatti il precetto “uccidi”
si generalizza e universalizza solo in guerra.
L’universalizzazione costante del modello di condotta “omicidio” comporterebbe
il perire del genere umano, sicché si può ammettere l’omicidio
solo in quanto si sia ricomprese tra le possibili conseguenze del proprio
operato (non dico che la si persegua) il perire della società. Diversamente,
non si vede come una società possa darsi come norma il proprio perire.
“Non uccidere-me” è l’invocazione che ognuno rivolge al prossimo; anzi, è
una richiesta di prestazione, che ci si propone di compensare con pari moneta.
Lo scambio del mercato è la rappresentazione di questo scambio originario:
lo scambio non migliora di per sé la condizione dell’uomo, salvo a) appagamento
psichico da “sicurezza”; b) sono state poste le premesse, i presupposti
di una libera ricerca di miglioramento delle proprie condizioni a
partire dallo scambio, da quello specifico evento. Se io sostituisco nella mia
tasca mille lire con una penna, le mie condizioni non sono di per sé migliorate
o modificate. Il possedere la penna tuttavia rappresenta una
specificazione del mio ordinamento preferenziale, attraverso la sostituzione
di una preferenza putativa, con la dimostrazione pratica della preferenza,
che viene consumata come tale, trasformandosi da preferenza potenziale in
attuale.
La consumazione della preferenza pone in condizione l’individuo di procedere
nella propria ricerca, attraverso la fruizione del bene, nel quale la
preferenza, consumandosi in quanto tale, si è incarnata: all’espressione della
preferenza corrisponde la sua materializzazione; a questo punto, il soggetto
gode di uno strumento fisico, al quale spetterà di procurare appagamento
psichico nel soggetto, attraverso un processo ulteriore di idealizzazione
della preferenza.
Preferenza – materializzazione – bene – idealizzazione – appagamento.
Il bene è così il medium materiale dell’appagamento psichico delle preferenze,
a partire da un bisogno, la cui elaborazione conduce alla preferenza
e alla successiva individuazione dei mezzi della sua soddisfazione; la
ricerca del mezzo comporta apprensione del bene (fisico o immateriale),
con conseguente ricerca dell’appagamento finale.
Nella fase di ricerca dell’appagamento sorgono però nuovi bisogni da elaborare:
da qui l’insoddisfazione permanente, seppure a livelli diversi,
dipendenti da quanti siano i cicli di appagamento che si siano compiuti, nel
tanto che sorga un nuovo bisogno.
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Lo scambio originario non richiede beni materiali: è scambio puramente
psichico, eppure è quello fondamentale, che sorregge tutti gli scambi materiali
successivi.
Lo scambio originario consiste nell’approvazione dello scambio come
metodo, la cui realizzazione presuppone l’effettività dello scambio di diritti
alla vita.
Il “Legislatore Originario” (L.O.) è il proponente dello scambio, e i suoi atteggiamenti
sono tutti quelli tipici del proponente: obbligazione da parte
sua, imposizione, facta concludentia, o altro, non c’è una risposta unica. In
ogni caso c’è uno che “capisce” è inizia, in qual modo lo decide lui. La
nostra società è come l’ha determinata il primo. Il fatto è l’uomo, la sua
vulnerabilità, la sua capacità di proteggersi, la sua necessità degli altri,
sicché la norma fondamentale è il metodo della cooperazione. Il “non uccidere”
implica il “coopera”, implicato a sua volta dalla non-autosufficienza
di ognuno. Si coopera nell’ordine esteso (Hayek), sicché l’astensione è solo
apparente, e spesso si coopera inconsapevolmente.
È opportuno essere più consapevoli delle proprie cooperazioni involontarie,
per scegliere più a ragion veduta, o magari accettare consapevolmente di
non scegliere in certi casi: ad esempio, può non interessarmi sapere chi sia il
proprietario di McDonald’s o di chi sia una rete televisiva per guardarla.
La pretesa è una affermazione di uno scambio negato, ed L.O può vedersi
anche come uno che reagisce alla mancata cooperazione altrui. E’ l’invocazione
del pubblico nella sua attualità ed effettività. Il processo è
l’invocazione di testimoni e di riconoscimento del fatto che tra A e B uno
scambio sia in atto, ma non si sia perfettamente realizzato per rifiuto di B.
Il parametro per misurare la legittimità delle condotte è lo scambio, in
conformità al criterio fondamentale posto dal legislatore originario. A cita
in giudizio B perché gli imputa di avergli procurato non già costi, ma solo
costi, o costi prevalenti. Ad esempio, se “diffamandoti” ho migliorato la tua
condizione, non ti devo nulla, come nel caso in cui io ti dia dell’”omosessuale”,
tu mi citi, e intanto tu diventi leader del movimento omosessuale
in forza della mia dichiarazione.
L’illecito è l’unilateralità di una relazione. Se in una relazione si ravvisa
unilateralità, la parte che si sente sacrificata può invocare il giudice, al quale
spetta di accertare se si tratti effettivamente di unilateralità, e se si tratti di
unilateralità rilevante, ossia unilateralmente costosa.
La nullità è l’istituto di contratto tra etica e realtà. La nullità è un’inefficacia
qualificata; la nullità può essere efficace nel singolo caso, ma ne è inefficace
la sua universalizzazione.
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Qualunque combinazione tra unilateralità dell’applicazione e ambizione
all’universalizzazione è nulla ed inefficace. Ogni applicazione “d’ufficio” di
una norma allontana dall’universalità, in quanto discriminazione. Solo norme
negative, generali e astratte, possono ambire all’efficacia piena. La
nullità della norma consiste nella previsione del fallimento del tentativo
della sua implementazione universale.
L.O. sfida l’ipotesi della nullità della cooperazione, nel conato di confutarla,
cercando attivamente di falsificarla. L’idea libertaria nasce a sua volta da un
tentativo di confutazione, tuttora in atto, della tesi che l’uomo non può
cooperare. Non basta cooperare in una data ipotesi per conseguire l’obiettivo
della confutazione, tuttavia varie fattispecie cooperative corroborano il
tentativo di falsificazione.
Abbiamo così una tesi dominante, da confutare, e un tentativo di confutazione
che non è stato a sua volta ancora confutato o falsificato. Vale a
dire che è ancora in corso una trattativa tra L.O. e il suo primo interlocutore.
La costituzione dei diritti in regime di reciprocità è quindi un processo
ancora in corso. Sicché non va fissato il contratto sociale nel passato mitico
o nel futuro, esso rappresenta semmai una procedura infinita, dati gl’infiniti
costi di transazione. Il mercato è un modo per risparmiare i costi di transazione,
e l’anarco-capitalismo è il comunismo detratti i costi di transazione,
ossia al netto delle relazioni non necessarie. L’anarco-capitalismo
è l’efficienza del comunismo; ciò significa che il mercato realizza gli
obiettivi etici del comunismo al massimo livello compatibile con la realtà
umana.
La procedura di formazione del contratto sociale va arrestata al livello della
meta-norma, minimizzando tutti i costi di transazione implicati da accordi ai
sub-livelli. Ciò è realizzato solo dalla situazione in cui facciano parte di una
relazione il numero di persone strettamente necessario alla realizzazione
dell’obiettiva che le accomuna. Laddove vi è eccesso, occorre ritirarsi; ove
vi è difetto, occorre intervenire, aiutare, mettersi a disposizione.
La proprietà dei mezzi di produzione sarebbe “potere”, se questi fossero
finiti, “scarsi”. In realtà, ogni uomo è proprietario di “mezzi di produzione”:
la sua mente. La “produzione” implica lo scambio (Proudhon), e lo scambio
originario è il fondamento, il presupposto, la condizione della produzione in
vista dello scambio, e dello scambio in vista della produzione. Dall’idea alla
produzione occorre passare da uno scambio. In tal caso lo scambio è reso
possibile dalla previsione della produzione di un bene atto allo scambio. B
si fa coinvolgere nello scambio da A dalla condivisione della fondatezza
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dell’ipotesi. Il lavoro implica l’assunzione del rischio dell’erroneità dell’ipotesi.
Le teorie redistributive partono dal presupposto che se c’è un povero c’è un
ricco e che riducendo la ricchezza dei ricchi si aumenta quella dei poveri.
Partono dal presupposto che le risorse siano finite e fisse, e stabili, e che
occorra solo spostarle.
Nel mercato ideale ipotetico, ossia davvero imperturbato da interferenze
monopolistiche e/o statuali, la ricchezza dei ricchi aumenta la ricchezza dei
poveri (sempre che in quel modello di mercato, che muove da una
situazione originaria egualitaria, siano ipotizzabili “poveri”). In tale
mercato, infatti, che non conosce esternalità negative (che andrebbero
indennizzate), non è possibile migliorare la propria condizione senza migliorare
la posizione degli altri.
Se A tratta con B il bene x, è perché il bene x gli serve per trattare con C.
Quindi la trattativa A-B ha effetti benefici per C. Sicché nello scambio
esistono avvantaggiati diretti (parti) e avvantaggiati indiretti, terzi
(apparentemente) estranei. Se si trattasse di danno nei confronti di terzi, si
tratterebbe di atto analogo a quello restrittivo unilaterale, e quindi illecito
nell’ottica del mercato. Nel mercato, le relazioni bilaterali sono invece tutte
legittime, perché a qualunque relazione con un uomo ne equivale un’altra,
ogni uomo, come detto, è pienamente rappresentativo dell’umanità, dell’universale.
Lo Stato, invece, vuol rappresentare tutti, essere tutti, quindi deve “trattare”
con tutti. Ma solo una norma negativa può trattare con tutti universalmente,
contestualmente, simultaneamente. Solo la norma negativa ricomprende
davvero tutti. La norma negativa non discrimina sull’uso della forza a
disposizione, è la norma che implica l’egualitaria distribuzione della forza
per la sua applicazione. Non c’è “contingentamento”, “selezione” soggettiva
nell’uso della forza. Ognuno è sovrano, ognuno è fonte e misura dell’uso legittimo
della forza.
La scelta del contraente è libera, perché non v’è alcun criterio per il quale
un uomo debba essere preferito a un altro. La scelta della controparte non è
soggetta ad alcun dovere, perché qualunque scelta è legittima: non v’è modo
di affermare che vi siano uomini più “meritevoli” di una relazione di
altri.
Non è tanto l’uomo ad essere “libero” di scegliere; sono le scelte in sé a
essere tutte buone. Nel mercato le scelte sono tutte buone, perché sono tutte
cooperative, comportano tutte un aumento di benessere.
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L.O. propone all’altro di attendere. È come se dicesse: “Non aggredirmi
subito, aspetta che ti compenserò”, dammi tempo di produrre qualcosa che
ti possa essere utile. Da come viene proposto, è solo un “pagare per non
essere aggredito”, o “essere pagati per essere aggrediti”, o “pagare per aggredire”.
Nello Stato, invece, paghiamo per essere aggrediti, paghiamo e siamo aggrediti.
Si ha “Stato” quando aggredito e pagatore stanno dalla stessa parte
sistematicamente e istituzionalmente: è condizione normale, non patologica,
quale è considerata nel mercato, ove si reagisce, facendo pagare l’aggressore.
Allo Stato si perviene quando l’aggressore riesce a farsi pagare l’aggressione,
promettendo in cambio di limitarla, ovvero di attenuarla, ovvero
promettendo: a) distribuzione eguale delle aggressioni; b) occasionali accessi
alle leve dell’aggressione (privilegi), come compenso delle aggressioni
subite. Nello Stato si paga per attenuare il danno.
L.O. confida che, mentre produce con il consenso dell’altro, l’altro non può
che a sua volta produrre. Ottenere il consenso alla propria produzione
implica che l’altro, astenendosi dall’aggredirci, si dedicherà inevitabilmente
alla produzione, sicché, allo scadere del termine, entrambi avranno qualcosa
da scambiare. Da quel momento è chiaro che la vita e la produzione
dell’altro sono nostro interesse. Perché noi da soli non potremmo produrre
la varietà di beni di cui abbiamo bisogno.
Se A ottiene il consenso di B, B di C, C di D, etc., A si avvantaggia anche
della produzione di D. La “mano invisibile” è la catena che anello dopo
anello lega A-B, B-C, etc. A e D sono legati dai passaggi intermedi, non
sono atomi sganciati, dando senso a un discorso super-individuale,c he studi
le catene di relazioni che legano soggetti che non vengono in relazione
diretta o consapevole.
Sicché nella catena A-B-C-D-E-F-G, D incide e influisce sia sulle
condizioni di A che su quelle di G.
Il contratto di L.O. è soggetto a condizione risolutiva, e la proposta è autosospensiva,
impegnativa per il proponente che già la esegue, mentre il
primo scambio è a termine. Si può parlare di inadempimento solo dopo
l’uno e l’altro.
L.O. agisce sulla base di un credito a termine concesso da Alter sulla base
di una promessa di compensazione futura: la tua “titolarità di diritti” consiste
nell’ammissione allo scambio con quanto io sto realizzando nei termini
del credito concessomi.
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La moneta esprime la cooperazione estesa, esprime cioè la possibilità stessa
di cooperare, almeno indirettamente, anche con coloro i quali non siamo a
stretto contatto di vita (il denaro come diritto di credito).
Le relazioni sindacali vanno viste come rapporti tra compagnie di protezione:
compagnie di protezione esterne, di mera proposta, che non regolano,
se non strumentalmente, le relazioni tra soci, ma organizzano i soci
nelle relazioni esterne. Compagnie tra le più interessanti, perché devono
sempre dimostrare di saper trattare il diritto, che non hanno mai come a
priori.
I “doveri”, nel mercato, non sono mai “giuridicamente obbligatori”. Sono
solo doveri unilaterali, cioè non coercibili, né suscettibili di pretesa da parte
degli altri, mentre il diritto è coercizione universalizzabile.
Il discorso sulla libertà positiva è un discorso sulla pretesa all’adempimento
di un dovere, che alcuni vogliono trasformare in obbligo giuridico. Lo Stato
è qui un cattivo alleato, perché non garantisce questo obbligo di prestazione;
al suo posto, “garantisce” l’obbligo di pagare le imposte, per poi pretendere
di pensare esso ad “adempiere”, come esso vuole, al “dovere” che sarebbe
nostro.
Lo scambio costituisce retroattivamente i diritti di proprietà (cfr. Proudhon).
Come nel caso di L.O., l’istituto si realizza esaurendosi, realizzando
la sua propria funzione. Ognuno di noi è L.O., perché ogni giorno c’è una
“giungla di Hobbes” dalla quale uscire. La contrattazione sociale è un
contratto aperto all’adesione di terzi, più che una associazione.
I giuristi non hanno saputo sviluppare il potenziale dell’istituto contrattuale,
e quando i filosofi politici parlano del “contratto sociale”, non hanno la più
pallida idea di che cosa significhi “contratto”: condizioni, termini, annullamento,
risoluzione per inadempimento od onerosità sopravvenuta,
rescissione, etc.
L’arte esprime bene l’universalizzazione dell’uomo, la relazione individuobene
immateriale-unilateralità universale-comunione individuo/tutti, attraverso
la proprietà comune del prodotto ideale, la comunione naturale del
sapere, del prodotto della mente.
L’autore scrive come espressione profonda di sé, e il suo prodotto, una volta
reso pubblico, è virtualmente di conoscenza comune: per i beni immateriali,
la conoscenza equivale alla proprietà. Per i beni materiali, vale il criterio
della “conoscenza” pratica, ma essa è parziale, finita, perché i limiti del
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corpo sono maggiori di quelli della mente. E solo il possesso diretto
assicura la piena conoscenza del bene materiale.
Nel teatro, la componente fisica è strumentale alla fruizione, è la concessione
che l’idea fa al corpo.
La tecnologia individua i limiti dell’appropriazione. Non è giustificabile
colmare i limiti della tecnologia con il diritto (con la forza), come se i
potenziali utenti della tecnologia che non esiste sostituissero questa con la
forza. Il supposto iato tra tecnologia e aspirazione alla proprietà va colmato
non con il diritto, che assegni con la forza il diritto di proprietà, ma con
l’etica, ossia con un’attività di persuasione da parte degli interessati. Sicché
l’interesse, per affermarsi, deve persuadere della propria giustizia. Tra
privati interessati può esistere come punto d’onore, non come obbligo. E’
attività onorevole quella che comporta un costo, volto ad acquisire considerazione
(costo-considerazione); sono gli sforzi che ognuno deve
compiere per acquisire autorevolezza in sede di contrattazione.
Per un aspirante dittatore, costruirsi uno Stato nel mercato sarebbe molto
costoso. Potrebbe invitare la sua agenzia di protezione a regalare l’offerta
del servizio ai poveri, pagando lui i costi. Quando tutti avessero aderito alla
compagnia, lui sarebbe il vero padrone, e la compagnia la sua burocrazia.
Ergo temete il dono del potente, che non sia accompagnato dalla rinuncia,
dal porsi nelle tue stesse condizioni, dopo il dono. Sicché dovrebbe sempre
convincere i poveri ad accettare il dono.
Nell'impostazione di Nozick, a ben vedere, lo Stato nasce dalla concorrenza
sleale, prima, e dagli abusi di posizione dominante, poi. La confusione di
Nozick è tra “polizia che ci serve” e “polizia che ci controlla”. Nozick dice
che ci risarciscono imponendoci il servizio. Ma, se è imposto, il servizio è
controllo (controllati per essere serviti); e poi l’imposizione non è reciproca,
non c’è risarcimento. Risarcirmi con un servizio imposto è comandarmi due
volte: a) divieto di concorrenza; b) obbligo di adesione. Che non sono
esattamente la stessa cosa, dato che la rimozione del divieto di concorrenza
viene dopo l’eliminazione dell’obbligo di adesione.
Leoni parla dello Stato come della guerra di tutti contro tutti, tra gruppi
coalizzati; rispetto alla giungla di Hobbes, però, lo Stato consente la generalizzazione
degli effetti degli atti aggressivi, consente l’estensione dell’aggressione
oltre le potenzialità naturali del soggetto, è un moltiplicatore
esponenziale degli atti aggressivi e dei loro effetti.
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L’etica è formale, perché è il giudizio sull’esterno (esternalità?), sul modo
della condotta, su ciò che si vede, punta dell’iceberg dell’essere. Il diritto è
meta-formale, è il giudizio sulla legittimità del modo dell’espressione del
giudizio sulla condotta: è il giudizio di legittimità sulla reazione alla condotta.
Ergo il diritto non è la reazione, è il giudizio sulla sua legittimità, quando
implica o prevede l’uso della forza, altrimenti è sempre etica, o etica sull’etica.
Ogni individuo è un “collettivo”: gli individui sono i neuroni del suo cervello
che comunicano e scambiano tumultuosamente e si organizzano in un
unico sistema che si dota di uno scopo: esistere (anche decidere di suicidarsi
è esistere, è esprimersi). L’essere tende a espandersi oltre i limiti dell’involucro
rappresentato dal corpo (il collettivo “uomo” è l’unità di misura
delle scienze sociali) e a entrare in comunicazione con gli altri “esseri
umani”, riproducendo in scala le relazioni inter-neuronali: scambiando
informazioni, ampliando le chance di espressione del singolo. Lo Stato è
come un grumo di neuroni, che rallenta il flusso delle informazioni.
L’unità di misura dell’esistenza del collettivo è lo scopo comune: nelle
scienze sociali, lo scopo comune è un meta-scopo: favorire la tendenza di
ognuno a perseguire i propri scopi, massimizzando le proprie possibilità di
espressione. Si tratterebbe di verificare se nel cervello ci sia divisione del
lavoro, nonché gerarchia funzionale spontaneamente formatasi. E poi
verificare se vi siano elementi che si esprimono individualmente.
La “follia” può essere un difetto di funzionalizzazione unitaria? Se la
società emargina il “folle” (perché non scambia, non comunica), il cervello
emargina i propri elementi centrifughi? Ma questi si esprimono lo stesso in
qualche modo? E questi incidono sulla condotta dell’individuo, o sono neutralizzati?
Esiste una morale biologica? Se valgono le ipotesi avanzate sul cervello
sembrerebbe di sì. Il mercato come scambio è altruismo? Può darsi che nel
DNA umano sia registrata la cooperazione come modulo selezionato per la
sopravvivenza. Può il DNA aver registrato la prevalenza della specie sull’individuo?
In tal caso chi si sacrifica esprime sé, perché il sacrificio
sarebbe parte del suo io.
I geni avrebbero potuto selezionare l’altruismo, quale effetto di un comportamento
egoista, rivelatosi fallimentare.
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Così come L.O. impone la libertà, con l’atto egoistico crea, per contrasto,
l’atto altruistico. La scoperta dell’altruismo non richiede necessariamente il
compimento dell’atto altruista. Vien meno l’interrogativo “come hanno fatto
a cooperare”, dato che la commissione dell’atto egoista (alla luce dei
suoi propri effett), rivela la propensione umana alla distinzione concettuale e
alla individuazione degli opposti) fa conoscere all’uomo anche il senso e gli
effetti (ipotetici) di un atto altruistico.
L’etica nasce come reazione alla condotta fallimentare (se rivelatasi tale
alla prova dei fatti), sicché, se esiste un’etica della non aggressione, vuol
dire che il metodo aggressione si è rivelato fallace, che non ha funzionato,
no ha realizzato gli scopi prefissi.
Il diritto è ipotetico, perché segue logicamente a) la commissione del fatto,
b) la verificazione dei suoi effetti, c) la formulazione in proposito di un
giudizio, d) la prevalenza di un giudizio intensamente negativo.
La morale misura l’intensità di un giudizio come “positivo” o “negativo”
alla luce dell’efficacia della condotta rispetto allo scopo. Essendo la morale
frutto di giudizio collettivo, l’efficacia oggetto della sua riflessione è l’efficienza,
ossia l’armonizzazione dei benefici.
Il mercato è il meccanismo individuato dalla necessità a) di agire, b) agire
efficacemente, c) ricomprendere l’azione di una grande quantità di uomini;
il tutto constatando che la presenza degli altri uomini non fa venir meno
l’aspirazione a realizzare i propri obiettivi razionali.
La constatazione empirica dell’inefficacia, per i più, dell’uso della bruta
forza, li induce a considerare, oltre il proprio benessere, anche quello altrui.
La capacità di individuare, nello specifico, condotte che soddisfino entrambi.
L’incontro delle volontà, il contratto, presuppone la capacità dell’uomo
di misurare l’appagamento altrui o almeno di fare congetture sulle
occasioni di soddisfazione altrui. Se non avesse tale capacità, attitudine alla
comparazione intersoggettiva, l’uomo non potrebbe cooperare, nemmeno se
volesse. Alla volontà deve affiancarsi la capacità. Lo scambio non si
realizza se, valutando molto elevata la soddisfazione altrui, si valuta anche
elevata la sofferenza propria. Giacché si cercherà di ottenere lo stesso grado
di soddisfazione altrui al minor nostro sacrificio.
E spenderemo le occasioni di maggior sofferenza per il conseguimento di
obiettivi più elevati. D’altro lato, se il dolore viene senza contestuale e
immediata contropartita, cercheremo di ottenere noi compensazione, magari
solo attribuendo elevato valore al fatto in sé della propria sofferenza. La
parte “razionale”, che formula i giudizi, compensa entro il sé il danno su-
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bito, realizzando quello scambio, che sempre deve realizzarsi quando c’è
sacrificio unilaterale di preferenza.
L’uomo mantiene inalterata sempre la propria piena dignità, perché a ogni
ferita procurata all’io, il sistema complesso mente-corpo è sempre in grado
di elaborare, produrre e utilizzare, un sistema di ristoro del costo (autoindennizzo).
La complessità del cervello si rivela anche in tale attitudine a
scambiare al proprio interno anche in termini di scambio etico-economico.
Nello scambio etico-economico, a fronte di un evento negativo, la mente
elabora un giudizio positivo a un livello diverso, tale da superare e attenuare
la nocività sulla personalità del giudizio negativo formulato in precedenza.
L’etica nasce anche da tale meccanismo, come frutto dell’elaborazione dei
meccanismi interni di compensazione.
Si tende a proiettare all’esterno e a generalizzare il significato attribuito ai
propri meccanismi di compensazione. L’etica sorge dall’incontroconcorrenza
di tali giudizi, che, nella misura in cui tendono all’universalizzazione,
sono incompatibili. Il giudizio etico è un bene pubblico
(inescludibile), ma rischia di costituire un’esternalità negativa, ove sia
percepito come infondato.
Il destinatario non può essere escluso da chi formula un giudizio etico
generale e astratto (a meno di non modificarlo, derogandovi o specificandolo),
ma può auto-escludersi, attraverso la mera affermazione pubblica
(anche tacita e implicita) della sua non condivisione. Chi agisce in
contrasto con un giudizio etico, si sottrae al giudizio morale del primo: tale
giudizio, se formulato in termini generali e astratti, non lo riguarda
specificamente. Anche qui valgono le mere preferenze dichiarate.
A ogni sanzione corrisponde una mancanza di consenso. E viceversa: ogni
azione non assentita induce alla sanzione. Il fondamento biologico è la
propensione a reagire, la capacità di reazione.
Le preferenze dichiarate sono di solito più edificanti di quelle dimostrate.
Per questo il diritto del mercato, che è primariamente composto di preferenze
dichiarate, sarà sempre più “avanzato” dei comportamenti reali e
spontanei.
Il diritto registrerà sia gl’impulsi più ancestrali, sia i desideri di ammirazione,
di ricerca di approvazione. In certe questioni di repressione, può
essere che le due tendenze si incontrino, ma vale anche l’opposto.
Chi teme di essere sanzionato, è opportuno che chieda eccessivi costi agli
altri, né in termini di preferenze dichiarate, né in sede di dimostrazione
pratica. Il diritto contrattuale registra simultaneamente i cambiamenti di preferenza
reale; esso è in realtà preferenza dimostrata.
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Il diritto ha fondamento empirico se si instaura una relazione tra preferenza
dichiarata (norma di grado formale superiore) e preferenza dimostrata; a)
valuta b), ma b) fonda, dà significato ad a); a) giudica b), ma senza b), a)
non ha senso. La preferenza dichiarata è sempre normativa. E’ sempre a)
espressione di giudizio, b) comunicazione all’esterno del giudizio stesso,
implicante l’affermazione di volersene attenere, c) implicante la richiesta di
autorizzazione al suo svolgimento, d) implicante, dopo un po’ di tempo, il
rilascio dell’autorizzazione.
Il diritto nasce dunque come pubblica segnalazione di una propria preferenza,
al fine di ottenere un “via libera” preventivo, trasferendo sugli altri
l’onere di dimostrarne l’illegittimità, dopo che la condotta è stata svolta.
Una società ha poco bisogno di diritto, se i cittadini si sentono sicuri e non
sentono necessità di rendere note in anticipo le azioni che si vorrebbero
compiere.
Ogni affermazione è un tentativo di influire sulla condotta altrui. Qualunque
trasmissione anche involontaria di informazioni influenza; è coercizione se,
per l’ipotesi che sia trascurata l’indicazione dell’informazione, non sia
prevista alcuna conseguenza negativa per tale ragione. Si può trascurare
l’indicazione senza che sia previsto alcun costo.
È libera l’azione che non preveda costi aggiuntivi rispetto a quelli intrinseci
all’azione in sé: cioè, ogni azione comporta costi, ma solo alcune danno
costi aggiuntivi, deliberati. Mentre il prezzo, nel mercato, non è predeliberato,
nella sanzione coercitiva, oltre al costo non deliberato, ve n’è anche
uno predeliberato (ecco perché si tratta di costo aggiuntivo).
La minaccia comporta tale costo aggiuntivo. Perché oltre al costo insito nel
fatto di dover fare quell’azione od omissione, per non subire costi maggiori,
vi è il costo aggiuntivo del pubblico riconoscimento della sottomissione, il
che abbassa il nostro valore sul mercato e in generale il “nostro prezzo”.
Tale costo aggiunto è quindi di carattere generale, comune a tutte le
minacce, in particolare a quelle subite dal sovrano. Quanto più si alimenta il
costo, e si abbassa il prezzo dei cittadini, quanto più v’è prospettiva di rivolta.
L’etica è la formalizzazione ex post delle condotte efficienti. E’ dunque possibile
un’etica razionale, che richieda un’indagine a tutto campo sulle conseguenze
degli atti, e sul significato e il valore loro attribuiti dagli agenti.
Nella formulazione del giudizio di efficienza, occorre tenere conto dei
valori soggettivi attribuiti a quella condotta. Se essa ha, per l’agente, valore
in sé, essa è per ciò solo “efficiente”.
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La nozione di “dovere” tende a massimizzare l’efficienza “pubblica”,
ponendo un limite all’autosoddisfazione, là dove si realizza anche la soddisfazione
altrui. Il dovere è assoluto quando per noi assume valore esclusivo
la soddisfazione altrui, ad esempio dei figli. Nel potere dei genitori,
lo scambio è potere/benessere. Il genitore esercita potere, e il figlio deve
vedere compensato il proprio stato di soggezione ricevendo solo benefici
dal potere genitoriale, detratto il costo di sottomissione. A differenza che
nella minaccia, nella quale v’è costo aggiuntivo, qui il costo di sottomissione
deve trovare piena compensazione, in quanto relazione naturale e
biologica, in sé, salvo abusi, non “imposta”.
Rothbard garantista: pone limiti solo “in basso”, fissa la proporzione solo
nelle reazioni con uso della forza; mentre “in alto” (cooperazione) non fissa
limiti pregiudiziali: si può sempre rispondere con una cooperazione. Rothbard
aiuta il tit for tat, induce a scegliere l’atteggiamento cooperativo, giacché
con lo delimita a priori, come fa con il diritto (violenza, uso della forza),
mentre pone appunto limiti alla sola defezione, alla sua intensità: solo
l’eccesso di defezione può essere illegittimo, non mai l’”eccesso” di cooperazione.
Il tit for tat dà regole positive anche per l’”alto” (la proporzione), mentre
Rothbard dà regole negative al “basso”. Poiché il tit for tat tiene d’occhio
l’altro, sa che la generosità ha un limite, fissato dal proprio interlocutore
(solo con chi non ti vuole eliminare è possibile cooperare (Hamas-Israele).
Rothbard guarda solo l’azione del singolo, non quella interattiva; la
condotta altrui rileva solo come mero fatto, al quale il singolo può re-agire
(non interagire) nei modi più disparati. Ammesso ciò, Rothbard dice “non
si deve superare un certo limite nell’uso della violenza indipendentemente
dalla condotta dell’altro”. Pone un limite alla pena, quale che sia il reato,
salvo pena di morte ammessa in caso di omicidio (ma è ammesso anche il
perdono).
Nella pena di morte non è posto alcun limite, perché il danno è illimitato.
Quindi la pena di morte non è – contrariamente a quello che ritiene Rothbard
- “libertaria”, dato che non rispetta il principio, secondo cui ogni pena
deve avere un limite.
Il limite è oggettivo e non rispetta le diverse preferenze individuali. Stabilito
che l’uomo è l’unità di misura di tutti i giudizi di valore, tale ruolo gli è sottratto
da una legge oggettiva. L’uomo può premiare all’infinito, ma non punire
all’infinito. Rothbard non dà un’etica positiva, perché non vuole ostacolare
il bene infinito. Dà un’etica negativa, perché vuole limitare il danno.
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“Libertà” è anche scegliersi le dipendenze, i propri vincoli. Quindi L.O. “rinuncia”
all’aggressione, ma ciò non costituisce una compressione di libertà
espressiva, dato che qualunque cosa facesse, implicherebbe una “rinuncia”;
ad esempio, se aggredisse, “rinuncerebbe” alla cooperazione…
L.O. è come il primo che abbia deciso di tenere la destra in strada, rendendo
di fatto necessitato per l’atro di tenere a sua volta la destra (Sugden): perché
la sua “destra” è la sinistra dell’altro! Ecco perché nel creare il proprio
diritto, L.O. stabilisce anche quello dell’altro: perché le aree di pertinenza
sono distinte, ma complementari. Perché nel porre il proprio diritto come
espressione di una norma generale e astratta (la “Legge”), L.O. riconosce al
contempo il diritto dell’altro in necessario accordo alla medesima legge.
Nel porre un concetto (ad esempio, il mio diritto) si individuano al contempo
infinite ipotesi di altri concetti da esso distinti. La ragione può partire
da qualsiasi concetto, per via via individuare gli altri. Così la legge può
realizzarsi per iniziativa di chiunque (nessuno è più legittimato di alcun
altro), il quale per primo l’ha individuata, tra i concetti infiniti, quale concetto
utile.
L.O. riconosce l’utilità della realizzazione pratica del concetto (ad esempio)
di proprietà. Chi, in un contesto associato, agisce in accordo con la legge,
ossia al concetto di proprietà, significa che, sia pure inconsapevolmente,
egli possiede il relativo concetto. L’azione implica il concetto, se non nella
sua consapevolezza attuale, almeno nella sua oggettiva esistenza nel mondo
virtuale delle idee.
Qualunque atto sia realizzato, ciò significa che esisteva la potenzialità che
quel concetto si realizzasse. L’azione è dotata di senso (soggettivo) in
quanto sia realizzata, deliberatamente o no, ossia perseguendo scopi o no, o
in vista di uno scopo o di un risultato. Le azioni coscienti lo sono, ma anche
quelle non coscienti possono realizzare concetti “potenziali”. Infatti,
qualunque azione, anche non dotata di senso in senso soggettivo, può
sempre avere un senso oggettivo, ovvero di un soggetto diverso da quello
dell’agente.
Ogni azione si inserisce perciò nel quadro delle attribuzioni di senso altrui.
Il senso di un atto, ossia comune a più atti, è la norma generale e astratta di
cui è espressione, e il senso può essere descritto senza nominare gli attori
in gioco. Il significato è il senso specifico, il senso che l’atto viene a esprimere
in quello specifico contesto. Per ogni significato vi è un senso di
riferimento, del quale costituisce specificazione.
Il significato della norma è la soluzione del caso specifico. Ogni significato
è dato, più precisamente, dal crocevia di più sensi. Per ogni atto è
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ipotizzabile un numero infinito di norme generali e astratte di cui è, con
riferimento a ognuno, frutto della combinazione di un numero infinito di
ipotesi generali.
Secondo Hirschmann la concorrenza non è sufficiente come “sanzione”. Ma
exit e voice, di cui egli parla, non fanno forse parte della concorrenza? Una
distinzione può forse farsi tra atti del mercato il cui effetto ulteriore è
inintenzionale, e quelli in cui gli effetti ulteriori sono, almeno, in parte –nel
senso che poi vi sono gli ulteriori effetti ulteriori-, intenzionali. Nella
seconda ipotesi c’è un passaggio in più (l’effetto inintenzionale finale c’è
sempre): la previsione che, svolgendo un’azione, non si conseguirà solo
l’effetto insito nell’azione, ma un effetto ulteriore, non direttamente cagionato,
eppure voluto o desiderato.
Non vi è un nesso causa-effetto tra l’azione e la conseguenza prefigurata,
ma la consapevolezza del futuro (pur incontrollato) effetto, fa sì che questo
sia appunto voluto, nel senso anche di desiderato.
In exit e voice vi è una volontà di penalizzazione che non basta a esprimere
il semplice atteggiamento di mercato di chi “sceglie” il suo locale. Vi è anche
la volontà di determinare un effetto ulteriore sotto un piano diverso:
quello etico, di ciò che si ritiene debba essere una giusta condotta nel
mercato.
Può capitare che ciò conduca a conflitti giuridici, quando lo scontro è tra
due diverse concezioni della giustizia.
Lesione dell’interesse economico – Sentimento che la lesione sia frutto di
condotta ingiusta – Dissenso su ciò che debba essere una condotta “giusta”
– Conflitto “etico” – Insufficienza pratica del giudizio etico – Conflitto
giuridico – FORZAInteresse
– Giustizia – Forza.
Nel diritto, la forza colma i limiti della giustizia nella soluzione dei conflitti
di interesse.
Chi pratica exit o voice svolge una funzione di rango più elevato rispetto
alla mera “scelta”. E’ la sottolineatura della rilevanza della scelta,
l’affermazione del suo valore, l’evidenziazione del carattere elevato del valore
(giudizio negativo) attribuito alla condotta altrui. E ciò perché si ritiene
più leso il proprio valore, il proprio prestigio, la propria rispettabilità, la
propria stima e auto-stima.
Exit e voice si praticano quando ci sente svalorizzati, sminuiti e si vuole
reagire, riaffermando a) quello che si ritiene il proprio effettivo valore; b)
quello che si vorrebbe fosse il proprio effettivo valore; c) di far credere di
valere (agire come se si valesse). Spesso si confonde b) con c).
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Si ha passaggio al “diritto” quando si ritiene che il costo (la deminutio arrecata)
sia tale da giustificare la minaccia dell’uso della forza per prevenirlo
e l’uso della forza per punirlo.
L.O. è colui il quale per primo intuisce la coincidenza degli interessi suoi
con quelli dell’altro. Riflettendo sull’interesse proprio si avvede che esso è
compatibile, oppure realizzato con/dall’interesse altrui.
Vi sono due livelli: a) uno è sinceramente convinto di tale coincidenza, ma
l’altro non è dell’idea: egli non persegue quello che io ritengo il suo bene;
b) Vi è condivisione della coincidenza di interessi.
L.O. cerca di convincere l’altro, sino al raggiungimento di un equilibrio,
che le parti si sono impegnate a rispettare, acconsentendo a subire l’uso
della forza in caso contrario. Ognuno chiederà precise garanzie sull’uso
della forza da parte dell’altro, ovvero da parte di un terzo. L’unico modo per
fidarsi è infatti di affidare insieme a un terzo l’impiego della forza. E il
terzo può intervenire solo con il consenso di entrambi, il che significa a
seguito di una procedura preventivamente accettata.
Il problema nasce se non è però condiviso l’esito. In realtà, in caso di esito
condiviso, perde di ragion d’essere la previsione dell’uso della forza,
giacché la pronuncia verrà eseguita spontaneamente. Occorre però distinguere
il caso in cui, pur essendo intimamente condivisa, si sfugge strategicamente
in quanto contraria al proprio interesse, sicché, in tal caso, la
forza tutela l’etica contro l’interesse.
Si presume, fino a prova contraria, l’intima condivisione, quando a) avevo
firmato prima; b) v’è reciprocità; c) il comune sentire, incontestato
pubblicamente, è in quella direzione.
Il “comune sentire” è un concetto artificiale, perché non riguarda ciò che le
persone pensano veramente, ma quanto dichiara pubblicamente di sentire.
E’ la sfera esterna, posta a fondamento del diritto, ossia dei reciproci confini
esterni. Non è detto che corrispondano a quanto si “sente” veramente.
Fanno parte non dell’essere, ma dell’avere (essere esterno), della comunicazione.
Rapporti tra una compagnia di protezione e il diritto.
Chiamiamo compagnia di normazione un’impresa che persegua utili, anche
immateriali, fornendo un servizio di formazione e applicazione del diritto.
Che ruolo vi giocherebbero i cittadini?
Individuiamo tre figure: a) clienti; b) utenti (compresi cioè i free-riders); c)
soci: a) può convivere con c), ma non con b); b) può convivere con c), ma
non con a).
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Il free-rider può godere delle esternalità positive, come patire di quelle
negative. L’unico modo che ha per rendere illegittime le negative, è di
dichiarare preventivamente la rinuncia a quelle positive, sempre che queste
siano divisibili.
Il soggetto a)-c) può vivere un conflitto di interessi; ad esempio, come socio
può chiedere pene più alte, come cliente no. Il socio potrebbe avere un
trattamento di favore, come tariffe o anche come diritto applicabile.
In ogni “servizio” offerto dallo Stato è insinuata la possibilità che si trasformi
in esercizio di potere, essendo unilaterale la definizione delle regole
del servizio: contenuti, modi, costi. In certi casi, il momento della prestazione
del servizio e l’esercizio del potere coincidono. Ciò avviene a due
condizioni, che devono ricorrere entrambe: a) la relazione è necessaria; b)
le regole della relazione sono fissate unilateralmente. A) implica alla fine
anche b), perché se un soggetto ha la forza di importi la relazione, sarà
anche in grado di stabilirne le condizioni.
Del resto, “imporre una relazione” comporta già l’imposizione di alcune
regole: quelle della relazione, ossia il fatto in sé della relazione come regola.
Non disponendo di alternative legittime, il cittadino non è in grado di
contrattare quelle regole. Ergo, l’imposizione della relazione monopolistica,
si porta dietro la potestà di legislazione. L’ordinamento diviene legislazione
nel momento in cui diviene monopolistico.
Voice: per essere efficace, dev’essere accompagnata da comportamenti concreti
di defezione, altrimenti rimane al livello di preferenza dichiarata. Abbiamo
qui la dimostrazione di una preferenza deliberata e funzionale, cioè
dotata di scopo ulteriore, oltre a quello diretto.
In democrazia c’è solo voice, il comportamento concreto è solo dimostrativo,
ossia non costituisce piena preferenza dimostrata, ma è semmai
l’ostentazione di una dichiarazione.
La “voce” come forma esterna al mercato è la minaccia. Chi protesta, in
politica minaccia. La politica è una contesa sull’uso della forza. Il diritto è
qui la quota di “politica” su cui vi è opinione comune (sulle regole).
Ma vi sono aree della politica non regolate, perché ogni politico vuole riservarsi
un’area esclusiva, in cui le regole dell’agire sono fissate unilateralmente:
sono mero fatto per gli altri, che se le trovano predefinite.
Nel mercato, il diritto assolve la stessa funzione delle scorte (Hicks). Dare
certezza, base concreta alla propria speculazione, al calcolo economico; le
scorte-diritto sono l’armamento a disposizione.
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Il concetto stesso di scorta implica una stabilità, ossia l’aspettativa di poter
fare affidamento su qualcosa di definito, in vista della realizzazione dei
propri scopi. Stabilità in vista della possibile incertezza, situazione di incertezza
che si ipotizza possa venire a determinare.
La rivendicazione della norma nasce dall’incontro della convinzione della
necessità con quella della precarietà. Il tentativo, il conato, di rendere effettivo,
di realizzare, quanto si ritiene indispensabile per la propria vita.
Attraverso la “scorta”, si ritiene di poter condizionare il prezzo, porsi dalla
parte di chi fissa i prezzi, i costi per gli altri.
Lo “sfasamento temporale” è giustificato da una promessa, un compenso
sul giudizio di valore, da un consenso e un impegno a compensare la
prestazione, il che manca nella responsabilità civile e nell’aggressione. Lo
sfasamento temporale è conseguenza del tentativo di sottrarsi alla sanzione.
Gli Stati si impongono e poi ottengono il consenso, inevitabile, ossia l’accettazione,
o, meno ancora, la constatazione dello stato di cose. Lo Stato è
l’organizzazione che si sottrae alla sanzione, oltrepassando quella soglia di
solidità e intensità, oltre la quale è materialmente impossibile costringerlo a
pagare per i danni che procura.
La soglia che divide mercato e Stato è quella che divide un soggetto che è
possibile costringere a pagare i danni da quello che è impossibile. Semmai è
esso che ti costringe a pagare per subire quei danni, che non solo non
vengono risarciti, ma anche spacciati per benefici.
Le esternalità sono negative o positive a seconda del giudizio soggettivo;
ebbene, lo Stato è il soggetto che rivendica ed esercita il potere di imporre
la propria qualificazione, il proprio giudizio, come imposto a tutti, sulla natura
delle esternalità.
La sottrazione dei diritti del mercato consiste nell’impedirgli di far
emergere i giudizi reali sul carattere delle esternalità. L’intero mercato può
essere descritto nei termini di un’infinita transazione sulle reciproche
esternalità. Il senso del mercato è che ognuno esprime i propri giudizi sul
segno delle esternalità altrui.
Il mercato può quindi includere l’aggressione in una teoria generale delle
esternalità: che è il soggetto interessato a giudicare del suo carattere positivo
o negativo. Con la teoria delle esternalità, anche la proprietà viene
fagocitata nel mercato, perché la definizione dei reciproci diritti di proprietà
è esattamente l’esito di una transazione sui rispettivi ambiti di esternalità.
Non è che la proprietà internalizzi le esternalità, quanto le delimita: fuori
dallo stretto ambito del corpo dell’agente, tutti i suoi interventi sull’esterno
(sui beni e sulle cose) sono esternalità dal punto di vista degli altri. Quindi
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la proprietà non internalizza nulla, ma è quanto consenso si ottiene attorno
alle nostre ambizioni di espansione. L’esternalità è frutto dell’espansione: è
negativa se quello specifico livello di espansione non ottiene consenso.
Il che significa che le esternalità negative sono la punta dell’iceberg di una
distesa di esternalità positive e compatibili. Vi è un livello di compatibilità
naturale: è aggressione tutto ciò che tende a rendere incompatibile tutto ciò
che sarebbe naturalmente compatibile, sopprimendo l’altro elemento, come
quando si elimina, si sopprime, una teoria concorrente (Feyerabend).
Il pregio del mercato è la capacità di far coesistere reciproche esternalità.
Ciò che impone L.O. è un’esternalità consistente in un progetto esecutivo
sui rispettivi ambiti di proprietà. Per ogni azione che svolgo rivolgo a te sto
siglando un patto di reciprocità, non solo di fatto, ma in termini di
riconoscimento della legittimità, insito nella rivendicazione.
Il diritto del mercato consiste in ciò, che nella rivendicazione di un
comportamento come legittimo, si sta al contempo affermando, riconoscendo,
la legittimità del tipo di comportamento, a meno che l’uomo non consideri
i suoi propri atti come espressione di un tipo esclusivo di condotta,
senza eguali o simili. Ma chi si sente parte di un genere, non può che
realizzare tale reciprocità.
I prezzi e le sanzioni nel mercato presentano questo stesso meccanismo,
che ognuno, ponendo in essere una certa condotta, ne afferma la legittimità,
rendendo così legittimo, dal suo stesso punto di vista, l’esercizio di quella
condotta nei suoi confronti. Legittimo, non “doveroso”, dato che noi non
siamo vincolati ai giudizi di legittimità altrui: perciò io posso rinunciare alla
pena di morte, perché nego legittimità al fatto in sé dell’omicidio, mentre
nella pena di morte riconosco tale legittimità.
L.O. autorizza gli altri, e costituisce il diritto attraverso una autorizzazione
costitutiva, integrata da un fatto, da un comportamento concreto.
La proprietà è frutto di una preferenza dimostrata, non dichiarata, è fatto di
mercato, non di mero “diritto”. Chi si afferma proprietario crea l’istituto
della proprietà, modellandolo per tutti, creando un prodotto del Mondo 3
(Popper) a disposizione di tutti, come è tipico dei beni del Mondo 3: la
proprietà è un concetto comune, non appropriabile in via esclusiva.
La proprietà presuppone beni appropriabili in via esclusiva, ma non è
escludibile in sé come concetto, né come realizzazione pratica. Ha senso
parlare infatti di proprietà, in quanto siano tutti proprietari, o almeno vi sia
più di un proprietario: diversamente mancherebbe un elemento costitutivo
del concetto di proprietà, la concorrenza, e avremmo sovranità. Il sovrano è
unico (ma lo è anche il proprietario sul “suo” territorio…), i proprietari sono
32
molti, e si tratta di proposizioni analitiche, non sintetiche, esplicative degli
elementi costitutivi, definitori del concetto.
La sovranità non è una nozione giuridica, perché non è un concetto
universalizzabile. I concetti sono giuridici, se le condizioni di fatto in essi
richiamati sono suscettibili di essere riferiti a ciascuno dei soggetti dell’ordinamento.
L’universalità è costitutiva della giuridicità.
Chi rivendica un “interesse” come diritto, sta con ciò affermando il diritto di
ognuno a perseguire quell’interesse. Il diritto nasce dalla rivendicazione della
legittimità del modo della relazione, ossia dalla contrattazione. Se il modo
è unilateralmente determinato non v’è diritto, perché non v’è reciprocità
nella rivendicazione e nell’autorizzazione.
In tale quadro, emerge l’illegittimità dello Stato, dato che, non trovando in
esso spazio la rivendicazione contrapposta, non sorge autorizzazione
costitutiva nei suoi confronti; sicché ciò che lo Stato fa, lo fa abusivamente
(ius abutendi).
Lo Stato, a confronto con L.O., è legislatore abusivo, perché si sottrae alla
reciprocità, proibendo a tutti gli altri di compiere tutti, molti, o alcuni, degli
atti che lui stesso compie.
L.O. crea il diritto con un atto omnistrutturale e omnifunzionale; l’atto ha
gli effetti al contempo della proposta, dell’offerta, dell’esproprio, della
concessione, dell’autorizzazione costitutiva, e crea tutta la gamma delle situazioni
giuridiche soggettive immaginabile; è anche un’immissione (nel
sistema). Può essere costruito sia in termini di diritto privato, sia in termini
di diritto pubblico, dato che, come lo Stato, ogni individuo è monopolista,
almeno di sé.
Non è che la moneta abbia due funzioni, la funzione è la stessa in due fasi:
essere criterio di giudizio di valore di un bene. E’ un criterio ultimo, che
non rimanda ad altro, se non a sé stesso, come il metro, che è misura e unità
di misura.
Nel mercato, il criterio di giudizio è condiviso. I prezzi del mercato sono
l’unico criterio di giudizio per definizione condiviso dai coinvolti, in una
prima fase, dichiarativa-accertativa, di formazione dell’accordo e di formulazione
consensuale del giudizio; in una seconda fase, consistente nella
dazione materiale, atta a dare concretezza al giudizio previamente formulato,
realizzando così lo scambio.
Lo scambio di un bene per una somma di denaro è un procedimento che si
sviluppa in una fase ricognitiva-dichiarativa bilaterale e nella sua esecu-
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zione pratica. Le due fasi sono entrambe costitutive, non avendo senso l’una
senza l’altra, in mancanza di che non si dà lo scambio. Infatti, se si ha solo
la prima fase, non si esce dal meramente intellettivo, fine a sé stesso. Se si
ha solo la seconda fase, si ha furto, illecito civile o abuso.
La moneta esprime materialmente un giudizio di valore sul bene, rendendone
possibile il trasferimento di proprietà. Non si tratta di due funzioni,
ma di una sola: se non c’è la fase del giudizio comune, non è possibile lo
scambio consensuale, due momenti di un’unica funzione. Nella prima, non
rileva la moneta in sé, solo se si fa riferimento a essa come unità di misura,
perché si sa che è utilizzandola che lo scambio avverrà, sicché è inutile far
riferimento ad altre unità di misura.
Vale a dire che la prima fase è preordinata alla seconda, è il modo di renderla
possibile. Nella prima fase il riferimento è astratto, nella seconda è
concreto, come nel diritto, la cui essenza è la realizzazione pratica, così
come non ha senso parlare di una norma giuridica in astratto.
Ecco che nel mercato il diritto è sempre effettivo, perché solo il diritto
effettivo è diritto, nel senso che solo gli scambi realizzati sono davvero
scambi. Lo scambio è tale se realizzato, lo scambio è realizzato per definizione,
altrimenti si ha solo proposta o tentativo.
Tutto ciò introduce la nozione di prezzo, giudizio di valore pratico, che va
pagato perché vi sia scambio.
Il concetto di “obbligo” si spiega in considerazione dello sfasamento temporale
tra il momento dell’espressione comune del giudizio e il momento
del suo pagamento materiale. Se vi fosse contestualità non vi sarebbe
bisogno di tale concetto, che presuppone a) un giudizio condiviso, b) l’intento,
all’atto della formulazione del giudizio, di portarlo a conseguenze
pratiche.
L’obbligo collega il momento della preferenza dichiarata a quello della
preferenza dimostrata. Per agire d’intesa occorre parlarsi, v’è uno sfasamento
temporale inevitabile tra il momento della conclusione dell’accordo e
la sua esecuzione. Negli atti conformi a convenzione, l’”accordo” è tacito, è
dato per presupposto e per scontato.
La credenza nell’obbligo è ciò che rende possibile confidare nell’esecuzione
dell’accordo. Il diritto si occupa anzitutto di quella delicata fase che va dalla
conclusione dell’accordo alla sua esecuzione per rinforzare la probabilità
che esecuzione vi sia. Nel diritto delle compagnie, vi è una pluralità di
momenti, di sub-procedimenti.
Il contratto è uno scambio attuale, la norma di mercato è uno scambio
ipotetico, è il tentativo di dare struttura di scambio all’atto unilaterale. Si
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impone la forma dello scambio a chi lo rifiuta, a chi utilizza l’altro come
proprio strumento, prescindendo dal contributo fornito dal suo (dell’altro)
giudizio di valore. Il giudizio di valore dell’altro viene recuperato ex post.
Occorre distinguere se la lesione è intuitu personae: in tal caso, il giudizio
di valore è riservato al soggetto leso; se è accidentale, operano criteri
oggettivi (?) universali.
La norma delinea una fattispecie di scambio a formazione progressiva, non
come ipotesi necessaria, da realizzare a ogni costo, ma come ipotesi
condizionata dall’evento squilibrante. La norma reagisce a ogni condotta
che determina squilibri, ossia altera la distribuzione dei costi e benefici
senza il consenso degli interessati, ossia senza che alcuni degli interessati
siano stati posti in condizione di esprimere il proprio giudizio di valore
sull’ipotesi di modificazione che lo coinvolge, ovvero ignorando tale giudizio
di valore.
Il mercato implica la conoscenza del giudizio di valore altrui, conoscenza
che vincola al suo rispetto, o almeno alla sua considerazione. Sorprende
che, apparentemente, sembrerebbe trattarsi di un sistema soggetto a paralisi,
mentre è il sistema più dinamico.
Un problema è rappresentato dal caso che l’obbligo non sia sentito o se uno
si dichiari sciolto dall’accordo, e se in tali casi sia legittimo l’intervento
dell’applicazione normativa. D’altra parte, se si ritiene che la volontà di A
basti a obbligare B, perché la volontà di B non dovrebbe bastare a disobbligarsi?
Il diritto è legittimato non dal semplice accordo, ma dall’accordo più la sua
esecuzione in conformità all’accordo da parte di una delle parti. Chi non
adempie non è legittimato a invocare l’inadempienza altrui. Ciò dimostra
che non basta l’accordo, ma occorre l’accordo più un fatto, un comportamento.
E’ solo il fatto compiuto a rendere irrilevante il mutamento della
volontà dell’altro (consideration).
A fronte di un accordo eseguito da uno, l’inadempienza dell’altro equivale
ad aggressione, e viceversa, nel senso che anche l’aggressione può essere
percepita come un inadempimento a un accordo generale, mentre gli altri
adempiono. Il fatto che gli altri agiscano in conformità a una legge generalmente
accettata, legittima la sanzione solo se l’accordo è reale.
Lo scontro con i free-riders è l’occasione per estendere la rete del consenso.
E’ l’occasione per proporre loro nuovo diritto. Naturalmente, l’impedimento
al diritto di recesso non vale nei confronti dello Stato, perché a) non è stato
espresso alcun consenso esplicito; b) l’impedimento non opera nei rapporti
a tempo indeterminato.
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Non si può però recedere, in caso di consenso esplicito, dopo commesso
l’atto sanzionato. Qui è la condotta propria a impedire il recesso, come nel
contratto lo impedisce quella altrui.
Il contratto è la norma dello scambio. Ma possiamo chiamare “contratto”
anche l’intero procedimento che va dalla stipulazione all’esecuzione. In
questo senso, il giudice non fa che realizzare lo scambio interrotto. Il
diritto, nel mercato, è legittimo non per forzare lo scambio, ma per
agevolarne l’esecuzione, dopo che è già iniziata.
La norma la pone l’interessato, l’esecuzione anche, il diritto interviene solo
come levatrice di un’esecuzione interrotta, per evitarne l’aborto. Ora, una
società di mercato può benissimo rinunciare a tale funzione: può cioè
accettare, come rischio, l’inadempimento, salvo nel caso di rischi ritenuti
inaccettabili. Una società che teme eccessivamente il rischio finisce con il
diventare una società con troppe leggi, e che non coglie il… rischio di avere
troppe leggi!
Una società sarà più disposta ad accettare il rischio dell’inadempimento, se
è ricca e dinamica, dato che è più costoso insistere per l’adempimento, che
non approfittare dell’occasione immediatamente successiva.
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16
biblioego
Fondazione De Ferrari, Piazza Dante 9/18, Genova
Tel. 010587682
http://www.deferrari.it/ - fondazione@deferrari.it
novembre
2014
fogli di via
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