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domenica 8 novembre 2015

Il Legislatore Originario (2° Quaderno)

di Fabio Massimo Nicosia

Proseguiamo con la pubblicazione del secondo quaderno 1996-1998, già pubblicato, anche questo, dal sito della Fondazione De Ferrari con il titolo Il Legislatore Originario.

Schmitt vs. Kant. Secondo Schmitt l’occupazione di terra, l’atto fondativo, non una costruzione logica, ma un grande evento storico (Nomos della terra). Il Legislatore Originario (L.O.) è certamente simbolico. È esso un individuo, o rappresenta un concetto collettivo? E’ entrambe le cose. “Individuo” coglie il singolo come protagonista, con le sue specifiche azioni.
Ma “individuo” è anche ciascun individuo. Vale a dire che gli eventi storici sono compiuti da singoli individui in coordinamento, moltiplicando l’efficacia rispetto a un’azione non coordinata. La cooperazione nell’evento è una simulazione dell’auspicata cooperazione futura, successivamente all’evento stesso. Ma qui è funzionalizzata, mentre là è una meta-cooperazione, che ne lascia impregiudicati i contenuti. È perciò in qualche modo un concetto collettivo, perché evidenzia analiticamente, all’altezza del singolo uomo, una condotta che si suppone al contempo comune a più uomini, ossia a un numero di uomini sufficiente a far divenire sistema il proprio modello, a realizzarlo, a renderlo effettivo ed efficace. L.O. sarebbe il primo occupante (Nomos, 27). Se si trattasse di un L.A. (Legislatore assoluto) pretenderebbe il dominio dell’intero territorio, in quanto sovrano. L.O., invece, si ritaglia dei confini a misura di persona. Il diritto pubblico è il regime giuridico di favore che lo Stato è riuscito a strappare, sono le sue condizioni contrattuali. Il contratto cittadino-Stato è la consuetudine. Se riconosciamo che cittadino e Stato sono due cose diverse, affermiamo che le loro relazioni sono collocate in un calderone più ampio, che è la consuetudine per chi acconsente, e l’imposizione per chi dissente. Ma l’imposizione si fonda a sua volta sulla consuetudine, nel senso che questa dev’essere tanto forte, da riuscire a supportare l’imposizione, o a sostituire la rassegnazione. Abbiamo rassegnazione, se abbiamo consapevolezza dell’imposizione, ma non volontà di reagire. La protesta è l’istituto di chi vuol progredire entro quel sistema. Proprio per la funzione di efficienza di cui parla Hirschman, salvo che la finalità può essere strategica: si dice che tutto va male, per proporsi come salvatori, come nuovo management. Quindi la semplice voice è pericolosa, perché è di per sé strategica, si esaurisce in preferenze dichiarate, dunque con tutto il rischio di strumentalità. Vede prevalere un’élite 4 non di operatori, ma di “argomentatori”. La democrazia, per come la conosciamo, è l’apoteosi delle preferenze dichiarate. Ovvio che premi i dissimulatori, piuttosto che i realizzatori. Lo Stato interviene per realizzare le “dichiarazioni”, ossia è uno strumento al servizio di chi “vocia”. Trasferire voice nel mercato significa ipotizzare una figura di “consumatore militante”, alfiere dell’efficienza del mercato stesso, più che non un sostenitore del suo personale benessere. Ciò è innaturale, perché vorrebbe dire trasferire il modo proprio dello Stato (le chiacchiere, la lite, il teatrino) nel mercato, ove contano i fatti concreti e “modesti”, essenziali. Hirschman è semmai più interessante quando lascia trasparire un exit dallo Stato (nei termini della secessione individuale). La norma è rivolta al futuro. Il concetto di consenso implica l’azione, è rivolto all’attuazione pratica di qualcosa. L’obbligo deriva dalla verità come a) coerenza, b) come corrispondenza. Coerenza (soggettiva, interna), tra ciò che dico e ciò che farò; corrispondenza (oggettiva, esterna) tra il contenuto della norma, ossia l’oggetto del consenso, e la realtà, la sua realizzazione pratica. E’ “sua” realizzazione pratica, se intenzionalmente si determina uno stato di cose conforme al contenuto della norma, e proprio in quanto tale è lo scopo perseguito da quell’azione. La norma non indica in sé stessa uno “scopo”, ma uno stato di cose. Lo scopo è quello che guida l’azione umana, ed è la realizzazione di quello stato di cose. Nella discrezionalità non v’è indicazione di “stato di cose”, ma un risultato, astrattamente compatibile con diversi stati di cose possibili. Il giudizio di legittimità deve contenere sia a) il raggiungimento del risultato, sia b) lo stato di cose concretamente realizzato, in quanto idoneo al conseguimento del risultato indicato dalla norma. Le norme sulla discrezionalità indicano per tipi i risultati da raggiungere. L’amministrazione deve individuare, nell’ambito del “tipo”, la realizzazione più coerente con gli altri criteri di legittimità dell’ordinamento. Ossia, può essere che per la norma vi siano più situazioni tutte legittime, ma tale “pari legittimità” si dà solo di fronte alla norma attributiva di quello specifico potere, ma non anche di fronte agli altri infiniti “principi” del sistema. I principi generali implicano che vi sia almeno uno o qualche grado di coerenza nel sistema, tale per cui vi è almeno un principio che vige e opera in esattamente tutte le norme, tutti gli atti, etc. Nell’idea libertaria, tale principio è la consensualità, mentre nel costituzionalismo dovrebbe essere che per ogni atto adottato sia configurabile un giudizio di legittimità, vale a dire che vi è un criterio di giudizio di valore, esterno alla norma o all’atto in sé (quanto dico per il costituzio- 5 nalismo può ben valere anche per un sistema giuridico “libertario”). Ciò rimanda comunque all’idea di consenso e di concorrenza. Se nessuno ha l’ultima parola, ciò non significa che non si agisca per nulla, ma che si fa solo che è controllato o concordato. L’esterno a sé è l’altro, e la giustezza delle nostre azioni dipende dal giudizio altrui. Nel costituzionalismo, ogni atto deve essere controllato e autorizzato da un’altra autorità. Ciò porta al principio dell’incontro di più volontà. Che nel costituzionalismo restano separate, mentre nel mercato si fondono (bilateralità dell’atto come regola). Solo nel deserto è possibile agire senza al contempo dare esecuzione a un accordo concluso. Ad esempio, se scrivo con la penna sto eseguendo il contratto stipulato con chi me l’ha venduta, il quale si è impegnato a) a cedermi il bene, b) a lasciarlo definitivamente nella mia disponibilità, c) a non sindacare l’uso che ne faccio, d) ad addirittura disinteressarsi del bene stesso, una volta uscito dalla sua sfera (il che pretendono di non fare certi produttori di software o di DVD, quando pretendono l’uso nel solo ufficio, vietano il noleggio, etc., non si sa con quale efficacia…). L’obbligo è l’espressione della necessità che quanto affermato sia vero, ossia che si avveri. L’obbligo implica l’indicazione di un termine. Non è il tu devi, men che meno quello dello Stato, ma l’io farò ad avviare il procedimento di costituzione dell’obbligo, nel senso che l’affermazione si presuppone vera e significante. Il cambio di idea, se comunicato, se verbalmente espresso, fa venire meno l’obbligo, salvo che l’altro abbia già eseguito, e lo abbia fatto proprio finché non gli sia stata comunicata disdetta. Non si può pretendere che anche l’inadempiente abbia fatto qualcosa per obbligarsi, altrimenti nessuno mai agirebbe per primo, per paura di rimetterci se l’altro cambia idea. Per cui è inevitabile che l’azione di A in conformità dell’accordo obblighi B alla reciprocità. La reciprocità è un concetto utilitaristico, perché favorisce, incentiva all’azione possibile. L’aspettativa di essere ricambiati induce all’azione. Ergo, la reciprocità garantisce la libertà dell’azione, ossia la serenità nell’accingersi all’azione, determinata dalla convinzione, dalla credenza che l’altro farà altrettanto. Per far ciò, occorre che l’azione passi il vaglio di un giudizio di attitudine all’universalità. “Spero” che l’altro faccia altrettanto, solo se giudico che la mia condotta sia tale da poter essere condivisa, approvata dall’altro. Vi sarà tanto più intensa condivisione, quanto più sarà percepita al contempo come conforme a a) giustizia, b) interesse: giustizia nella forma (consensualità), interesse nel contenuto. 6 Il mercato seleziona le condotte che riescono a conciliare il comune sentimento di giustizia con il giudizio soggettivo di utilità: se scambio con qualcuno, vuol dire che non ho nulla da ridire sulla moralità della sua azione, della sua prestazione. Dato che la sua azione è rivolta a me, e vuol dire che non mi sento leso dalla sua azione, né moralmente, né economicamente. In un contratto di non fare (es., trattato di pace), l’obbligo non è costituito dall’accordo, ma dal fatto che l’altro “non fa”. A seguito dell’accordo, vi è obbligo, fin tanto che l’altro “non fa”. Se uno aggredisce subito, l’obbligo dell’altro non è mai sorto, non si è mai instaurata la relazione giuridica. A fronte di inadempimento (aggressione), l’altra parte può considerarsi sciolta dal vincolo, ovvero invocarne il rispetto. Entrambe le ipotesi richiedono la forza. La sanzione coercitiva è il frutto del compromesso tra chi vorrebbe considerare rotta ogni relazione giuridica con il reo, e chi invoca il diritto in nome della morale. La minaccia della violenza per prevenire violenza. A fronte di un atto di violenza, il contenimento della forza è sempre successivo, mentre prima vi è solo minaccia. Ciò è inevitabile, perché se non fosse solo minaccia, sarebbe esso stesso forza. La minaccia della sanzione serve a indicare i comportamenti che, in quanto violenti, vengono neutralizzati trasferendoli a livello di semplici spauracchi. Il fatto di sanzionare per evitare un comportamento, significa qualificarlo meritevole dell’uso della forza, ossia violenti essi stessi. La sanzione di mercato pone gravi problemi interpretativi, perché è attraverso condotte apparentemente non rivolte nei tuoi confronti (ad esempio, rivolgersi a un altro, invece che a te). “Peggio” che nel diritto… Che dunque nasce per dare certezza, attraverso l’enunciazione di giudizi di valore sulle condotte individuali. La certezza del diritto poggia però sulla sabbia, perché il tentativo di stabilizzare, uniformandoli e unificandoli, i giudizi di valore sulle condotte, è fondato su quanto viene affermato e solo indirettamente su quanto praticato. La sanzione di mercato si evidenzia più negli effetti, nelle conseguenze, più che non nella forma o nella struttura, che non sono predeterminate. La sanzione di mercato non si differenzia immediatamente come tale, salvo voice o exit motivato o comunicativo. Vi sono tre tipi di exit: a) pratico, b) accompagnato da voice (motivato), c) comunicativo. Quest’ultimo rappresenta una via di mezzo ed è accompagnato da modalità di uscita non verbalizzate, ma in grado ugualmente di trasmettere un a) dissenso, b) 7 insoddisfazione, non apprezzamento, c) indifferenza. Il dissenso, di per sé, non implica exit, anzi, incentiva voice. La sanzione di mercato, però, in sé, colpisce senza spiegare il perché. Occorre superare il livello della facciata –inutili polemiche sulle forme-, per comprendere gli arcana, il sapere non diffuso, tentativo di “privatizzare” il mondo 3 della conoscenza, per conoscere i segreti del “mestiere”, dei reali giudizi non comunicati. Il potere si distribuisce in funzione dell’accesso agli arcana, inevitabilmente connessi alla gestione della “macchina”. V’è del resto un nesso tra proprietà e conoscenza. Sono proprietario di un bene perché lo conosco meglio degli altri e viceversa, lo conosco in quanto ne sono proprietario (asimmetrie informative). Lo Stato è a sua volta “proprietà privata” dei potenti. Ma non è una vera e propria proprietà, dato che lo Stato non agisce nel mercato, non rispetta diritti, quindi non ha diritti. Lo Stato è certamente privato, ma non è una proprietà. E’ più di un dominio, perché non è solo la piena titolarità di un diritto, ma è anche la propensione irresistibile a estenderlo in regime di unilateralità e non di reciprocità. E’ organizzazione della supremazia in vista dell’espansione unilaterale del dominio. Sorge una domanda. E’ inevitabile che nel mercato si differenzi siffatta organizzazione? A limitarla non basta la partecipazione, la vigilanza pubblica, perché questa finisce per lo più con l’esprimersi con una domanda di condivisione del dominio e della supremazia, invece che la riduzione di essi. Nello Stato il dominio si fonda sulla supremazia, non viceversa. Non solo: occorre che questa abbia capacità di espandersi, perché altrimenti il dominio rischia di essere posto in discussione. Non vi sarebbe cioè quel dominio senza la capacità di mantenere adeguato il livello della supremazia. Le risorse si ricavano attraverso l’esercizio dei diritti di dominio. Alla coincidenza geografica tra Stato e mercato corrisponde una distinzione tra aree logiche. La famiglia tradizionale include, internalizza gli arcana sociali e ne fornisce una propria versione. Nella società di massa si ha accesso a molte più fonti di informazione, ma di tipo specifico. Quanto alle questioni generali, si ha invece una prevalenza della facciata, che esprime il livello sostanziale dell’avere, del possesso del potere. Il dominio serve ad acquisire risorse, e le risorse a organizzare le tecniche della supremazia; la supremazia a consolidare ed estendere il dominio. Non basta dire che lo Stato consuma risorse, se non si aggiunge che tali risorse sono la benzina della supremazia e del dominio. 8 Ossia lo Stato si propone come legittimo dominus, e acquisisce risorse in nome di tale suo status legittimo, ma le risorse sono impiegate non direttamente per il consumo, ma per l’organizzazione della supremazia. Non è perciò del tutto esatto dire “lo Stato consumatore”, dato che al vertice il “consumo” è solo strumentale e il vero fine è l’appagamento psichico della preferenza potere. Ora, se tutti i beni sono strumenti di un appagamento che è psichico, i beni utilizzati da chi esercita il potere non sono l’oggetto diretto della sua preferenza. Il “potere” è una preferenza che non trova espressione nel mercato (salvo in un’accezione molto lata) perché non si esaurisce nell’appagamento psichico procurato dall’acquisizione di un bene, ma in un’ulteriore appagamento, procurato dalla consapevolezza che quel bene è stato procurato in un certo modo: ossia senza il consenso del diretto interessato. Anche i “consumatori” diffusi di Stato non si appagano solo di quanto ottengono, ma anche del fatto di averlo ottenuto “contando qualcosa”, incidendo sull’esercizio della coazione: ossia accedendo per un momento agli arcana. Nel mercato, invece, non v’è profitto se non v’è identificazione con l’altro, dato che la mia soddisfazione non deriva soltanto dall’essere “venditore” che “incassa”, ma anche dal fatto che a ciò si accompagni una identificazione, o almeno un apprezzamento, delle ragioni del profitto, ossia del modo in cui il profitto è acquisito. Insomma, il produttore prova anche la soddisfazione del consumatore. Chi svolge un’attività, anche ne usufruisce, perché riceve le sensazioni proprie del fatto in sé dello svolgimento dell’attività, indipendentemente dal suo obiettivo ulteriore, che è quello del compenso monetario, anche in senso metaforico (se non è abbastanza trasparente, rendiamo esplicito che tutti i concetti da noi utilizzati, desunti dal mondo del diritto, dell’etica e dell’economia, vanno sempre intesi in senso metaforico). Capita anche a chi acquista, come nel caso in cui si gode del fatto in sé del fare shopping, indipendentemente da ciò che si acquista. Ora, il produttore ha gli strumenti per far leva sul doppio appagamento del consumatore, ma il viceversa è sui grandi numeri. Il produttore ha di solito più potere del singolo consumatore, ma meno dei consumatori nel loro insieme. Non si tratta tanto di “organizzare” i consumatori, dato che le organizzazioni comportano il taglio di alcune possibilità. Il mercato, quanto meno vede organizzazioni, quanto più sarà differenziato. Quando si dice “il mercato fa questo”, “il mercato fa quello”, sembra eccessivo, ma “mercato” è una mera forma, un’istituzione-cornice, riducendosi a una procedura, a un metodo: lo scambio volontario. 9 Quando si dice “costumi”, “abitudini sociali”, non si dice qualcosa di intrinsecamente o contenutisticamente diverso rispetto al mercato, si dicono invece proprio i contenuti del mercato, che è solo un ordinamento formale, con propri criteri di legittimità e di opportunità. La dottrina libertaria mainstream dice ciò che è legittimo. Ma tale dottrina non ha nulla da dire su ciò che è opportuno? Si direbbe, ciò che massimizza la quota complessiva di libertà. Non “libertarismo utilitarista”, ma “utilitarismo libertario”, ossia della libertà invece che del presunto benessere. Perché che cosa significhi “benessere” è giudizio soggettivo, mentre “libertà” è oggettivo. Sicché nel libertarismo è legittimo tutto ciò che non limita la libertà, mentre è opportuno tutto ciò che l’aumenta. Se la libertà è misurabile, la libertà non è proporzionale al benessere: uno meno libero può sentirsi “meglio”, di più a proprio agio, di uno più libero, pur nella stessa identica situazione, se il secondo ha maggiore fame ed esigenza di libertà. La libertà è un concetto bivalente, perché è un presupposto per l’espressione delle preferenze, ma è essa stessa oggetto di una preferenza: è un’”ideale”, una pre-preferenza. In tal caso, diventa una preferenza dominante, in quanto idealmente preliminare all’espressione di più specifiche preferenze. A meno che non vi sia un’esigenza incessante di libertà, che induce a una ricerca logica funzionalmente volta ad accogliere interpretazioni dei principi in chiave di ampliamento della libertà di scelta. In tal caso, l’attenzione si rivolge esclusivamente a una discussione sul meta-livello, trascurando la possibilità, ai vari livelli, di formulare l’”espressione” di contenuti. Ovvero, la libertà è un presupposto per l’appagamento psichico, nonché una fonte diretta di appagamento psichico. Vale a dire che produttore e consumatore sono pienamente soddisfatti a) se hanno agito liberamente, b) se ne sono consapevoli, c) se anche tale consapevolezza è motivo e componente del loro appagamento. Ossia, l’appagamento psichico viene dalla consapevolezza di essere alla ricerca di una situazione di libertà crescente. Ora, mentre nel mercato la fonte dell’appagamento psichico è la libertà, nello Stato è il potere. Si passa all’aggressione se è lesa non solo la libertà altrui, ma anche la propria, perché la libertà è costituita da quegli specifici confini, e se travalica, se sfonda quei confini costitutivi, non si tratta di “più libertà”, ma del venir meno, con l’altrui, della propria libertà, e del suo sostituirsi con qualcosa d’altro: il potere. Lo sfondamento è determinato a) dall’intensità dell’appagamento strumentale, b) dall’intensità dell’appagamento finale (psichico). In molti casi, finisce con il prevalere, in sede di deliberazione, la considerazione del- 10 l’elemento strumentale su quello finale. Questa è la concretezza, mentre si ha astrazione quando l’elemento finale fa perdere di vista la necessità di procurarsi comunque beni strumentali. Può talora ricadersi in un conflitto, quando un atto è espressione di una scelta libera, ma va a limitare la mia libertà. Ad esempio, “i tedeschi hanno scelto liberamente Hitler”. L’impressione è che possa assistersi a un processo di indebolimento della libertà, a partire però da una situazione nella quale essa sia già piuttosto intaccata, sino a una soglia di inversione di tendenza. E ciò perché le scelte in condizione di “non libertà” tendono a un circuito vizioso di ulteriore riduzione della libertà. Il Proprietario Unico Mondiale (P.U.M.) sarebbe un nudo proprietario con la proprietà ristretta al minimo, sottilissima, mentre l’effettivo godimento delle terre sarebbe distribuito a “usufruttuari”. Nel mercato, P.U.M. è solo un’astrazione, è il pubblico, l’insieme di tutti che è, come detto, nudo proprietario dei diritti di proprietà di ciascuno. P.U.M. potrebbe però avere interesse a creare una gerarchia per godere effettivamente dei “suoi” beni. In tal caso dovrebbe poter organizzare la supremazia per esercitare effettivamente il dominio. Sicché P.U.M. si fa Stato, ossia deve espandere supremazia e dominio, attraverso l’organizzazione, che presiede, rendendolo possibile, al processo. Alla macchina del diritto si sovrappone l’organizzazione del potere, e nello Stato essa è ciò. Il diritto diviene macchina incarnata, ed è l’organizzazione di cui il potere dispone per conservarsi e alimentarsi. Se il comunismo fosse di mercato, sarebbe P.U.M. Lo Stato non si limita a ostacolare le relazioni, ma vuole anche dire la sua, sino a determinarne il contenuto. La forza dello Stato è nella sua capacità di organizzare la propria azione e la spiegazione del suo senso. Lo statalismo rivendica il monopolio della spiegazione del senso dell’azione dello Stato. Il diritto del mercato è: a) sostanziale (consensuale), b) processuale (su iniziativa di parte), c) formato da decisioni (da parte di un terzo). Si instaura tra attore e giudice un rapporto sostitutivo rispetto all’altro rapporto, quello sostanziale, dal quale il convenuto ha defezionato. Il diritto dice al mercato: “non si defeziona, defezionare è costoso”. Il diritto esprime con la minaccia della forza, l’etica con la coscienza, il fatto che la cooperazione è efficiente. Ma il diritto può tutelare la cooperazione solo al meta-livello (cooperazione negativa), mentre l’etica si occupa anche di quella positiva. L’etica riguarda la condotta, dando criteri ordinatori. 11 Valore e rilievo delle preferenze dichiarate stanno nell’esigenza di comunicare direttamente un proprio stato, comunicare come necessità e come rischio di adulterazione. La condizione umana è comunicare, ma raramente la verità. L’unica cosa che l’uomo può accertare per certo è il suo modo di sentirsi. Può comunicare il falso strategicamente, ma il mondo 3 è una commistione inestricabile di falso e di vero. Non c’è la verità sull’uomo, se non a livello formale, è tutto vero, in quanto formalmente vero. Ma la sostanza è ignota, ognuno porta i propri segreti nella tomba. Ciò che è comune (M3, appunto) è falso, ciò che è individuale è vero. Il formalmente vero del comunismo è altro rispetto alla verità sostanziale del mercato, nel quale ogni individuo può utilizzare tutti il proprio potenziale individuale di conoscenza in via esclusiva dei suoi propri stati d’essere. Il margine di dissimulazione è infinito, ma anche delimitato. E’ infinito come varietà di ipotesi, delimitato nell’intensità dalla verità dello stato d’essere, dal fatto impenetrabile e fondativo che quello stato d’essere c’è e dunque ha un suo modo di esprimersi, incidendo in qualche modo sull’azione, sulla condotta. Esiste dunque una proprietà privata sui prodotti della mente, ed è la coscienza e consapevolezza di quale sia il proprio reale stato d’essere, inconscio a parte. Alla consapevolezza corrisponde la verbalizzazione, la differenziazione, la distinzione, l’attribuzione di giudizi di valore sulla base dell’interpretazione, la comprensione dell’essere bene o male dal proprio punto di vista. Ora, in tali fasi è possibile l’errore, ergo la stessa consapevolezza dei propri stati d’essere è imperfetta; e tuttavia è la migliore che può trovarsi sul mercato. E’ imperfetta, perché è confusa, e la confusione può portare all’errore. L’operazione di differenziazione dei concetti, e il riconoscimento del loro carattere positivo o negativo, presenta evidenti difficoltà e di arbitrarietà, fondata sull’intuizione della separazione di circostanze o eventi, percepiti erroneamente come non connessi. La convinzione che due fenomeni non abbiano nulla a che fare, ci porta ad attribuire contraddittoriamente giudizi di valore opposti. Da tale errore deriva il dolore della persona, che permane sin quando non verrà individuato l’errore, ricomponendo il contesto reale della fonte di gioia o di dolore. Il dolore ha dunque due livelli: a) il fatto del dolore in sé, b) il fatto, percepito come più grave, di non saper comprenderne le ragioni; da qui il senso di impotenza a porvi rimedio. Da qui l’ipotesi della rassegnazione: il rassegnato è privo di incidenza sul mercato, non ha capacità di orientare, con l’azione consapevole, l’azione altrui. 12 Chi vuole “orientare” deve dar vita a voice, deve verbalizzare, far cultura, alimentare M3, agitare preferenze dichiarate, ma anche dimostrate. Chi parla influenza più persone, però, di chi “solo” agisce. Paradossalmente, non è del tutto vero che l’”esempio concreto” influenzi di più del discorso. Ecco perché il mercato chiede il diritto, perché chiede accordi, e accordi significa trattativa, ossia comunicazione pubblica di un rapporto che si appella al giudizio, all’alleanza con altri. Il modello proposto è tuttavia sempre modello esteriore, di facciata, strategico. Qual è la fonte della norma? Ecco! La truffa è stata di far credere che le migliaia di contratti esistenti siano tutti regolati da un’unica norma, il cui filo sia tenuto da qualcuno in “cima”. La “norma” è invece il frutto – razionalizzato ex post come elemento concettualmente comune a tutte le ipotesi reali- delle azioni tutte. E, una volta operata tale concettualizzazione, si è stati portati a impersonificarla (lo Stato quasi come Gesù Cristo), non fidandosi della propria e altrui capacità di confidare effettivamente su di un’astrazione. Questa è la difficoltà di ogni ipotetico ordinamento che voglia fondarsi (che si vuole sia fondato) sui principi: la difficoltà di abbinare concetti come astrazione ed effettività. Lo Stato riesce a differenziarsi da una banda di briganti se riesce a convincere dell’effettività della sua propria astrazione, del proprio costituire un’astrazione. La difficoltà dell’anarco-capitalismo è che nessuno vi è incaricato, legittimato, a svolgere tale ruolo di persuasione, né a esercitare la forza a supporto di tale operazione. Quando due si incontrano e si devono salutare fanno un tit for tat rapidissimo, un botta e risposta fulmineo, un D.P. dal quale può scaturire qualsiasi cosa. E poi: “no, io ho fatto così, perché mi sembrava che tu avessi fatto così”. Le preferenze dichiarate nascono dalla necessità di spiegarsi, spiegare è il contenuto della comunicazione pubblica. Qui scatta l’elemento strategico, perché ognuno ha interesse a “spiegare” la propria posizione in termini migliori dal punto di vista dell’interlocutore. Insomma, il diritto in quanto preferenza dichiarata esprime che è pur sempre al dichiarato che dobbiamo attenerci, perché dobbiamo aspettarci che l’altro agirà non tanto per quanto sente, ma per quanto dichiara. Il diritto sorge (è invocato) quando il comportamento reale e quello annunciato divergono in modo intollerabile per il destinatario. Due coniugi si separano a) per incomunicabilità, b) per incapacità di spiegarsi, c) se ci si inganna. Il giudizio investe tutti i passaggi, ma, anche se ne trova erronei alcuni, può salvare l’azione come opportuna nella sostanza o legittima in sé, 13 indipendentemente dalla sua incoerenza con le ragioni addotte, o dalla contraddittorietà o erroneità di queste. In tal caso, il giudizio dà una giustificazione, una spiegazione ex post dell’azione. Chi si differenzia vive di vita propria rispetto alle intenzioni. Ma tale procedimento è legittimo solo dopo svolto il giudizio, che non richiede un procedimento perfetto dall’origine alla conclusione, ma talora si accontenta che quest’ultima sia in sé corretta. In tal caso, occorrono però criteri di giudizio di livello superiore, o comunque distinti, rispetto a quello che ha preceduto e governato l’azione. Si governa la propria azione sulla base di criteri-guida a priori, che però, come detto, possono risultare confutati dal riesame. In alcuni casi si verifica se il criterio posto sia stato rispettato, cioè effettivamente seguito; in altri casi, emergono i difetti del criterio, indipendentemente dalla bontà della scelta. In tal caso, la bontà è casuale, e occorre lo stesso modificare i criteri in vista della propria azione futura. La comunanza di termini tra etica della condotta umana e diritto amministrativo significa che i giuristi trattano la pubblica amministrazione antropomorficamente. Lo Stato si fonda sull’idea che sia una persona (cfr. Schmitt sulla guerra come duello), non credere a questo significa essere anarchici. Sono anarchici inconsapevoli tutti coloro per i quali lo Stato non è una persona ideale, ma molte persone reali che si contendono il comando. Presidiare un negozio 24 h su 24 significa dire “trovati un altro bersaglio”. Se lo fa l’interessato, nulla da dire. Se lo fa lo Stato è discriminazione. Lo Stato pretende di avere come criterio la parità di trattamento, che pretende però di far convivere con migliaia di altri criteri particolari, che, per il fatto stesso di esistere, contraddicono il primo. Lo Stato è un dominio che chiede legittimazione dall’uguaglianza. Ma per un proprietario, non solo è legittimo, ma anzi è inevitabile e necessario “discriminare”: ogni volta che scelgo, “discrimino”. Lo Stato, per giustificarsi, afferma di poter scegliere senza discriminare. Gli Stati vi saranno sinché la gente riterrà che ciò sia possibile. La discriminazione è per definizione una preferenza dimostrata in contrasto con la preferenza dichiarata, dichiarata come guida generale o universale della propria azione. La discriminazione è deroga a principio, senonché il principio può essere sempre invocato, eppure derogato sempre. Si dice che lo Stato “tutela la sicurezza del cittadino”. In realtà, se tale sicurezza è minacciata senza che il potere sia messo in discussione, lo Stato se ne disinteressa. A fronte di “concorrenti dello Stato” (terrorismo, mafia, rivoluzioni) che mettano in pericolo la sicurezza dei cittadini, sembrerebbe 14 esservi una convergenza tra interessi dei cittadini e Stato. La convergenza è però solo apparente, perché lo Stato ha energie sufficienti solo a tutelare sé stesso, e non anche la sicurezza dei cittadini, per cui le usa per sé. Inutilmente i cittadini “protestano indignati” perché lo Stato non li protegge. Nessuno li potrà mai “proteggere”. In una guerra Stato-“mafia”, lo Stato “in lotta” è in una fase costantemente fondativa. È come se affermassimo la sovranità dello Stato, ma sapendo che è ancora contesa nella giungla di Hobbes (se tale è). Dalla giungla si sta differenziando un vincitore, ma non ha ancora vinto, dunque non funziona ancora. Lo “Stato in lotta” non mostra i suoi possibili pregi: non siamo in grado di giudicare della qualità dei suoi prodotti, della convenienza della relazione; il tutto ci porta a una fase precedente, quella del “dover essere” a priori dello Stato, come valore in sé, indipendentemente da alcuna sua giustificazione pratica. Lo “Stato in lotta” punta sulla forza e si sottrae al tentativo di confutazione secondo il criterio conseguenzialistico. Con la normativa sulle clausole vessatorie, lo Stato rivendica il monopolio dell’unilateralità. Lo Stato, che non chiede mai il tuo permesso, impone che non vi sia alcun altro soggetto, il quale possa “imporre” qualcosa a qualcun altro e pretende che, nel rapporto tra gli altri, vi sia sempre il consenso; viceversa, se uno pretendesse di dare o negare il proprio consenso alle attività dello Stato, sarebbe considerato un provocatore. Il predispositore unilaterale è percepito come un concorrente: decide competenze giudiziarie, modi del procedimento, etc., a proprio vantaggio, e vorrebbe che il tuo consenso fosse di massima, in pratica vuole una delega a gestire la materia. Lo Stato fa lo stesso, senza nemmeno chiederti la delega uti singulus, e minacciandoti con le armi per farti agire come se tu avessi firmato la delega. La minaccia della forza tiene luogo del consenso e deve trovare un equilibrio sino a raggiungere un livello tanto basso da “giustificare” un apparato militare, ma non così basso da risultare letale per lo Stato. L.O. crea uno spazio etico intersoggettivo, con un comportamento cooperativo, ossia una condotta vantaggiosa per sé e per gli altri. L’”imposizione” è dunque di tipo logico, nel senso che per l’altro è impossibile sottrarsi alle circostanze di fatto. La creazione del campo etico è un fatto, uno può reagire in tanti modi, ma il fatto costitutivo costituito resta. E’ un fatto logico-istituzionale, dal quale è possibile ricavare giudizi di valore. Non è la promessa che vincola interiormente, è il fatto costitutivo che qualifica esteriormente. La promessa segue semmai da parte dell’altro. L’azione este- 15 rna deliberata è unità di misura dell’eticità della condotta altrui. Senza un comportamento cooperativo alla base, è impossibile formulare giudizi di valore sulle azioni successive. L’informazione è “potere” solo se non c’è mercato, ossia in una situazione nella quale gli utenti sono solo destinatari, ma non incidono con la propria domanda, il che è precluso (dietro c’è sempre una minaccia). Le notizie enfatizzate sono predizioni sull’interesse del pubblico e sulla sua propensione a favorire certe soluzioni piuttosto che altre. Quelle enfatizzate dal potere tendono solo a condizionare, il fruitore non ha alternative se non crederci o dubitare, ma non ha fonti alternative per operare confronti. Cooperazione ed etica nascono dalla necessità della conoscenza, dalla curiosità di conoscere l’altro, per verificare se è simile a noi nell’esigenza del confronto. L’etica nasce dunque per enfatizzare il nostro essere simili, mentre il diritto prende atto delle nostre diversità inconciliabili. Ma non potrebbe esservi diritto comune senza una base di “simiglianza”, ergo senza una base etica comune. La differenza tra gli uomini non è incolmabile, non è tale da renderli incompatibili. Quando ciò accade è guerra. La simiglianza è riconoscere sé (qualcosa di sé) nell’altro. L’universalizzazione si fonda sulla constatazione empiricamente universale (cioè, ognuno la fa) che siamo simili. Occorre dunque rifiutare la nozione di uguaglianza e optare per la simiglianza, che implica la comunanza di un universale astratto, a una classe di livello più alto, in una base sicuramente empirica di tipo biologico. Tale astrazione (il carattere dell’umanità) è frutto di un dato naturale, biologico, ossia caratteri genetici comuni, che, percepiti, suggeriscono la (veri)simiglianza. La cooperazione è “suggerita” dalla reciprocità dell’interesse a che individui che si intuiscono appartenenti a un che di comune, a che la libertà riconosciuta e garantita a ognuno sia di pari grado. L’uguaglianza di fronte alla legge è la proiezione formale dell’astrazione di un concetto, della constatazione di elementi biologici universali nell’umanità, che suggeriscono l’opportunità di trattare l’altro da pari: trattarlo come biologicamente titolare di pari libertà, come si ricava dall’importanza delle teorie razziste nelle dottrine autoritarie. La “simiglianza” esclude gerarchie tra giudizi di valore. Proprio la diversità insita nel concetto di simiglianza, esclude che ognuno abbia gli strumenti per giudicare che quella “differenza” esprima inferiorità. Ognuno è metafonte rispetto all’altro e i giudizi non si incontrano, non sono omogenei, nel senso che ognuno dispone di un proprio metro per misurare le parti diverse 16 di ciascun uomo. L’unico metro nostro che ci consente di misurare l’altro, è quello che riguarda le parti comuni. Ossia gli uomini hanno “qualcosa in comune”, ed è solo su questo “qualcosa” che possono pronunciarsi, e la legge copre l’area degli ambiti su cui ciascuno può farlo. Sono in grado di dire la mia, per quanto riguarda le vicende altrui, solo in ciò che riconosco come (anche) mio. Nei casi in cui intuisco la nostra sostanza comune. Tale sostanza è il corpo, da cui è possibile estrarre la legge comune. La titolarità del corpo è fatto individuale e collettivo. Tutti hanno un corpo, quindi il concetto di corpo è posseduto da tutti. Occorre distinguere “avere” un concetto da “possederlo”. Possedere un concetto significa che il concetto è posseduto in quanto qualità costitutiva dell’essere. “Avere il concetto” implica il possederlo, ma comporta una relazione tra un soggetto e un’idea di cui si è in grado di ricostruire un senso pratico. Diritto d’autore e mercato. Dal mercato emerge una precisa domanda di “falsi” che non lede in alcuna sua parte i diritti dell’autore. Chi compra il falso rarissimamente comprerebbe l’originale, sicché l’autore non ha alcun diritto su un prodotto che trova la sua ragion d’essere fuori dalla sfera dell’autore stesso. Verrebbero viceversa violati i diritti dei consumatori, che non invocano alcuna violazione dei diritti dell’autore, ma semplicemente chiedono un falso ispirato a lui. Minacciare la forza per impedire un’ispirazione? L.O. è il primo uomo che ha l’intuizione della simiglianza, il quale, cogliendo sé nell’altro, ipotizza che a) vi siano interessi comuni e compatibili, b) conservare e realizzare la loro astratta compatibilità è reciprocamente vantaggioso. Si tratta di un’opera complessa: a) comporta intuito, interpretazione e logica; b) conoscenza dei fatti, cultura, capacità di previsione. Non ultimo, coraggio. Assumersi il peso di essere l’anello che interrompe una catena che non piace, con il rischio connesso al fatto di essere un anello di quella catena. La condizione di L.O. è contestualmente realizzata nell’altro, come due anelli che si intersecano non possono che farlo reciprocamente. Vi sono fatti in cui la reciprocità non è una possibilità, ma una necessità, costitutiva dell’evento e del concetto (intersecarsi, libertà, diritto, etica), tutti concetti che richiedono due o più soggetti. Se due si incontrano non possono che essere simultaneamente coinvolti nell’evento. La simiglianza riguarda l’essere e implica la comunanza del concetto di avere, realizzato dal possesso. L’universalità dell’avere è data 17 dal denaro, che esprime la più pura astrazione del valore comune. Il denaro individua il meta-livello, identifica la possibilità di ravvisare un concetto comune a tutti i diversi ordinamenti preferenziali, che non pregiudica la libertà di scelta del contenuto di tali ordinamenti. Il denaro, il mercato, come garanzia di convivenza tra ordinamenti. Il denaro consente a preferenze del tutto diverse di individuare un terreno comune, interscambiabile, neutro: che conferisce valore in sé, indipendentemente dal giudizio del soggetto, l’opposto della soggettività dei valori. Il denaro è il presupposto logico della soggettività dei valori nel mercato. Perché, dati giudizi soggettivi, o restano isolati e incomunicabili, o, pur nella loro diversità, possono trovare incontro, individuando l’idea sottesa al possibile evento dell’incontro. L’astratto: il denaro è astratto dalla causa, anzi, da qualunque causa ipotetica, non solo della causa sottostante. Teoria di formazione della moneta: capacità dell’uomo di a) astrarre concetti, b) universalizzare, ossia ravvisare con l’astrazione gli elementi comuni a dare un nome alla classe degli elementi riconosciuti come comuni. L’uomo, comprendendo gli elementi comuni, ha saputo concettualizzare uno strumento che, a tale meta-livello, sapesse comparare confrontare giudicare valutare preferenze di tipo diverso. Naturalmente, il confronto vale solo a quel livello e non coinvolge altre componenti o elementi. Non è che il confronto sia dato dai prezzi, è che il prezzo consente un confronto esclusivamente al livello del valore economico. Il denaro tende a rendere reciprocamente compatibili le preferenze più diverse. Il denaro è il miglior garantista, è l’unica legge uguale per tutti. Il denaro è poi l’unità di misura universale del livello di compensazione del danno. Se io cedo un bene, è come se subissi un danno, che va compensato con il corrispettivo, come nella responsabilità civile con il risarcimento. V’è dunque un carattere di giustizia insito nel concetto di denaro, che, data la sua natura, è l’unico che non discrimina. Il denaro è l’unica preferenza che non conosce divergenza di opinioni. Ogni pagamento è un atto di giustizia, perché sancisce pubblicamente ciò che spetta. Il denaro realizza il concetto di “tutti i beni”. Se io ho del denaro, ho potenzialmente una porzione di qualunque bene. Non v’è tipo di bene che sia discriminato. Beni che possano riceversi dagli altri per azione volontaria di questi. Lo Stato è una turbativa, un insider trading sistematico. E poi se la prende coi privati. Dice: “Fazio ha dichiarato…” e la borsa è salita. La politica è la sede in cui si incide sul mercato con le mere dichiarazioni, e non con i fatti, perché quelle proposizioni sono fatti, sono minacce. Se io agito un martello, 18 è come se dicessi “ti do una martellata”: la minaccia è un fatto costituito dalle parole per rendere il fatto stesso più efficace. La parola realizza la minaccia nella sua fattualità. Il “diritto come fatto”, perché è minaccia e la minaccia è un “fatto”. La minaccia è un’unilaterale aumento del prezzo sino al punto di rendere infinitamente costoso il bene. Infatti non basta aumentare un prezzo, occorre che si stia aumentando un costo di un bene che il minacciato ha già astrattamente acquisito, e che ora scopre che per recepirlo materialmente deve pagare di più di quanto pattuito all’atto dell’acquisto astratto. Il denaro è la realizzazione del concetto di denaro come astratto criterio di misurazione, il quale, una volta materializzato, è quel valore. Il denaro non solo misura il valore, ma è il valore, misurato da sé medesimo, in qualità di unità di misura di tutte le cose, dunque anche di sé stesso. È il contro-valore, il controvalore non ha controvalore. Il controvalore è comune a tutti i beni oggetto di giudizio di valore. Il denaro implica che gli uomini sappiano individuare la comunanza tra gli uomini; il fatto che col denaro si possa intrattenere qualunque tipo di relazione volontaria con qualunque essere umano che sia tale. Il denaro esprime e realizza la co-possibilità tra tutte le preferenze. La copossibilità, nello scambio, implica la misurabilità e la comparazione. Ossia il confronto delle rispettive unità di misura. Il fatto che 10 uova valgano 2 bicchieri di vino significa che, in quella realtà, la preferenza del primo può convivere con quella del secondo nello scambio, che le parti convengono un atto di giustizia, ci si attribuisce reciprocamente “a ciascuno il suo” sulla base di un criterio condiviso dagli interessati. Ossia: è lo scambio a essere giusto per definizione: si noti che la prova del suo carattere di giustizia è dato dalla sua realizzazione pratica. Uno scambio non realizzato dimostra che non era “giusto”, in quanto percepito come inefficiente e perciò abbandonato. Il denaro nasce dall’esigenza che la nozione astratta di giustizia abbia una base empirica, esista uno strumento in grado di misurarla. Il metro misura la lunghezza e la larghezza, il denaro misura la giustizia, o meglio, misura il valore e realizza la giustizia nel passare di mano. E ciò attraverso due fasi, a) misurazione del valore, b) realizzazione della giustizia (c.d. “mezzo di pagamento”). A) non richiede che la moneta entri in campo direttamente, b) sì, la giustizia richiede un’azione pratica. Chiedersi se il diritto libertario debba portare a esecuzione le sentenze significa chiedersi se il diritto libertario debba portare a esecuzione una par- 19 ticolare idea di giustizia, ovvero se la fornitura del servizio sull’atteggiamento assunto nei confronti della giustizia debba essere affidato al mercato. La moneta nasce dall’esigenza di disporre di un criterio universale e astratto di giustizia, uno strumento in grado di comparare il valore attribuito ai fatti più disparati. Le cose più diverse sono suscettibili di comparazione sulla base di un criterio astratto e comune, che poi viene incarnato in una materia, diciamo il metallo, che esprime la giustizia. Il denaro ha sempre a che fare con la giustizia. Giustizia, comparazione, bilancia: con la moneta il raffronto non è tra due beni, ma tra ciascuno di essi e un parametro universalmente valido con riferimento a ogni avere, a ogni atto di volontà, a ogni atto esterno all’essere. Si ha giustizia ed efficienza perfetta quando la valutazione del mio da parte tua, e del tuo da parte mia, è concorde, nel senso che il giudizio di valore che do sul tuo bene è uguale a quello che tu dai sul mio, anche se il tu preferisci il mio bene al tuo e io preferisco il tuo bene al mio: e infatti li scambiamo. L’astrazione della moneta consiste nell’essere numerica. Adam Smith dice che la moneta ha il pregio della divisibilità, ad esempio non puoi darmi mezzo bue (vivo), ma mezza lira sì. A ciò corrisponde il principio di giustizia della proporzionalità. E’ un concetto astratto, ma in fondo matematico. La moneta nasce dalla necessità di calcolare la proporzionalità tra le controprestazioni, dalla necessità di misurare, determinare il corrispettivo, dando al mercato più chance di differenziazione. Allo stesso modo, il principio giuridico della proporzionalità della pena è concetto etico, ma anche economico. Avere come unità di misura un metro, utilizzabile sia nei centimetri che nei chilometri, consente all’economica e alla libertà di esprimersi in tutta la loro elasticità, rendendo possibili oscillazioni e fluttuazioni di ogni tipo. È chiaro che utilizzando come moneta il bisonte le fluttuazioni sono minori. La moneta va a peso, all’inizio. Si “pesa”, si “soppesa” l’intensità della preferenza. Un prodotto a preferenza molto intensa può determinare un prezzo basso se la produzione è stratosferica (pane). Ossia, a fronte di una produzione come quella del pane, la preferenza di non morire di fame, per quanto intensa, non alza il prezzo del pane. Non sempre cioè il prezzo esprime l’intensità della preferenza, perché questa può essere irrilevante, ad esempio rispetto al pane, in cui l’enorme quantità dei consumatori neutralizza il peso che potrebbe assumere isolatamente l’intensità della preferenza di ciascuno. Qui la quantità prevale sull’intensità, che diviene una media standard. 20 Esistono invece prodotti che hanno così pochi consumatori potenziali, o pezzi unici, che l’intensità delle preferenze è un elemento rilevantissimo nella formazione del prezzo; si tratta infatti di un’accettazione del prezzo fissato dal venditore in caso di intensità particolarmente elevata, ed è via via più negoziato in caso di calo della preferenza: una preferenza non particolarmente intensa abbassa i prezzi perché il consumatore ha un’area di indifferenza rispetto a quel bene piuttosto ampia. L’area di indifferenza individua l’ambito entro il quale la capacità di ogni abbassamento di prezzo non fa scattare l’impulso all’acquisto, capacità di attendere il calo di prezzo senza nel frattempo esprimere impazienza in relazione all’atteso acquisto di un bene. L’acquisto si realizza all’atto di oltrepassare la soglia dell’impazienza; impaziente essendo colui che cede al prezzo ultimo proposto dall’altro. Con l’istituzione della moneta l’uomo affina la propria capacità di formulare giudizi di valore, data la sua capacità di proporzionare perfettamente (letteralmente al centesimo) il peso attribuito al bene oggetto di interesse, in vista della soddisfazione del bisogno. Si prende le mosse dagli stimoli. Non c’è distinzione tra il bene oggetto di attribuzione e lo stimolo di partenza, dato che lo stimolo è per lo più procurato proprio dal bene preso in considerazione (come assunzione di un’ipotesi) nello scambio. Il senso oggettivo è la percezione diretta del bene. La fase soggettiva è la sequenza sensazione di bisogno/attribuzione di peso e valore, che si conclude con una fase esecutiva, costitutiva dell’apprensione del bene a mezzo dello scambio. Il denaro consente la più perfetta ponderazione, mentre lo scambio realizzato è la più perfetta espressione dell’azione umana. Con l’istituzione della moneta, l’uomo ha affinato la propria capacità di ragionamento in vista dell’individuazione dei propri reali bisogni e dell’elaborazione dell’attività più idonea alla loro soddisfazione. E’ preferenza dimostrata l’azione di scelta di un bene in funzione della soddisfazione di un bisogno, individuato come tale. Il giudizio di interesse, di valore, sono impliciti. La preferenza disinformata dimostra la meta-preferenza di non informarsi, difetto dei dati nell’attività di elaborazione. La preferenza dichiarata dissimula il difetto di informazione. Ogni preferenza dichiarata va vista come ipotesi, sincera o insincera, vera o falsa, di preferenza dimostrata. Il diritto, in quanto frutto di preferenze dichiarate, sconta i due difetti, a) difetto di informazione, b) dissimulazione del medesimo: presunzione, in tutti i sensi. Una norma giuridica va assunta dal 21 giudice sempre come presunzione in senso proprio e stretto, ossia né presunzione di legittimità, né di illegittimità. Vale a dire che, l’allegazione di una norma a sostegno della propria domanda non è sufficiente, se non accompagnata dalla dimostrazione della sua legittimità ed efficienza a far vincere la causa. In altri termini, chi invoca una norma deve dimostrarne la giustizia. Una norma non vincola semplicemente perché è una norma. Va notato che le attività che soddisfano un bisogno dànno anche piacere in sé, non solo perché soddisfano un bisogno. Se uno prova piacere è certo di aver soddisfatto un bisogno, non viceversa. La mera soddisfazione del bisogno senza il provare piacere viene debolmente percepita dal soggetto, o anche per nulla, se v’è “immediatezza”, quindi brevità, della soddisfazione. “Difetto di informazione” significa mancata conoscenza di un dato, la cui elaborazione avrebbe condotto a una scelta non solo diversa, ma anche per sé soddisfacente. Nessuna interferenza è dunque giustificata dalla nozione di “preferenza disinformata”, perché nessuno può sapere quale sarebbe stata la scelta altrui in condizione di conoscenza perfetta o diversa, se non statisticamente. L’incidenza del “difetto” sulla scelta è un’incognita. I “diritti del reo” sono i diritti di tutti. Sono concepiti come “del cittadino”, di tutti. Perché nel patto si è detto, se incappo, è questo. La mitezza della pena è frutto della previsione del contraente di poter peccare. Sono previsti diritti per gl’imputati perché tutti sanno di poterlo diventare. Chi invoca pene alte fa ciò per dimostrare la propria “purezza”, la propria estraneità, l’impossibilità di incorrere in peccato. Diffidare di costoro. La proporzionalità è l’unico concetto veramente universale. Giustizia come scambio legittimo. Vi possono essere scambi “illegittimi”? Certo, quelli in danno di terzi, volti a creare esternalità negative: scambi di potere (Leoni). Accordi pubblicistici: si può applicare il diritto privato a un’espressione del potere? Il potere è l’energia, il possesso delle fonti di energia. Gli Stati, se non riescono a impadronirsene, cercano almeno di incidere sull’uso dell’energia. In tal caso lo Stato è tale, si ha “Stato”, se la forza supera quella dei possessori di fonti di energia, sommati tutti insieme. Privacy e copyright. E’ legittimo impedire solo azioni che impediscono altre azioni. Chi fa fotocopie o foto non impedisce alcuna azione. Su tali attività 22 il giudizio non può essere affidato alla forza, ma al mercato, all’etica, all’interesse. Quando vien meno il bene che ci soddisfa abbiamo le due ipotesi: a) mero venir meno del piacere, b) carenza dell’appagamento di un bisogno. Se la fonte del piacere viene totalmente meno, non c’è indifferenza, ma dolore, perché, come detto, una fonte di piacere è necessariamente una fonte di appagamento anche di un bisogno. Per “totalmente” intendo l’eliminazione dell’intera catena di atti, il cui culmini è il piacere. L’indifferenza è una soglia astratta, la O dell’Asse Cartesiano, lo 0 del Casino, se nella roulette lo 0 non ci fosse. Si è indifferenti a ciò che non si conosce. L’indifferenza consapevole è una scelta, dunque a rigore non una ”indifferenza” in senso stretto. Indecisione – disordine – disorganizzazione. In realtà ci è indifferente nella seconda accezione solo ciò che non ci turba, non ci tocca, ma anche approviamo eticamente, ad esempio il fatto che il mio vicino indossi una maglia rossa o blu non mi tocca, ma è anche espressione della sua libertà, e io approvo che egli possa scegliere il colore della sua maglia. Il colore della maglia non è dunque indifferente, e proprio per questo mi è indifferente. La prassi di prendere le distanze rischia di avvalorare l’idea che chi non le “prende” sia colpevole. Sancire che qualcosa sia “diritto” vuol dire che è contestato: discorso sull’opportunità del bill of rights: quelli “non elencati” non sono contestati. I “diritti sociali” sono molto contestati: hanno bisogno non solo del “diritto”, ma anche di un apparato burocratico-militare. Sul mercato uno può contrattare diritti di prestazione a qualunque condizione: se ci sono le compagnie di assicurazione, vuol dire che il mercato non è in grado di offrire prestazioni di mera assistenza generalizzata o universale. Il mercato è “razionale” e dirige e concentra le ipotesi di assistenza là dove ve n’è bisogno: la soglia del “bisogno” qui è oggettiva ed è fissata dal mercato stesso, che qui rischia di somigliare più a un rapporto di forza. L’indifferenza non va demonizzata, perché si fonda sulla non conoscenza. L’uomo non è onnisciente, quindi una vasta quota di indifferenza sulle vicende altrui è naturale. Il mercato è un sistema che contempla l’indifferenza, ed è in grado di registrarla. 23 Dato che la “proprietà” è un’attività, contrattare l’uso della proprietà, significa trattare la proprietà: la proprietà è nel mercato. Il discorso di H. Steiner sul “sarcofago” significa che non è possibile sopprimere totalmente la libertà altrui. Significa cioè che, salvo uccidendo l’altro, non è possibile imporgli costi infiniti: anche “privato della sua libertà”, l’uomo ha sempre risorse da spendere: questa è la natura “proprietaria” dell’uomo. Una soggettività più definita. Capace di formulare ed esprimere giudizi di valore con decisione (senza indecisione). L’indecisione è la compresenza di giudizi di valore opposti, non solo diversi; o diversi, ma tali da determinare una tensione irrisolta tra giudizi, tale da condurre all’incapacità di scelta. La non scelta è però a sua volta una scelta, anche se di grado inferiore, perché comporta in quanto tale un effetto inintenzionale: l’accettazione di quanto fatto dagli altri. Si tratta di opzione conservatrice, che può conseguire a) scelta consapevole, o appunto a b) indecisione. Si ricava che le indecisioni comportano conseguenze, solo si tratta di conseguenze non scelte, non desiderate, nel senso che non si è specificamente deliberato di ottenerle, ma semmai solo di accettarle o subirle, come rischio, come possibilità (dolo eventuale). Insomma, l’indeciso ha una responsabilità. Ci sono attività rivolte al pubblico, richieste dal pubblico. Ad esempio il calcio è un bene pubblico fondato davvero sulla domanda del mercato. Il mercato sa ben individuare i beni pubblici dei quali le persone hanno davvero bisogno. Il calcio può piacere o no, ma il suo successo dimostra inconfutabilmente la propria capacità di raccogliere e soddisfare la domanda di un bene pubblico pressoché perfetto: l’inescludibilità è pressoché assoluta, e si realizza una pressoché ottimale corrispondenza tra soggetti fruitori e soggetti soddisfatti. L’ottimo paretiano si realizza pur senza astensioni da parte di terzi. I costi di transazione sono assai bassi, data l’estensione immensa sia di domanda, sia di offerta. Pensate se lo Stato, in nome del “bene pubblico”, pensasse di interferire più di quanto non faccia nel mondo del calcio e dello sport. Il “calcio” è un meta-bene, un’astrazione composta da altri beni (TV, etc.). Il mercato realizza perfettamente, sa “fornire” anche un’astrazione, non solo singoli beni, riconoscibili in quanto tali in base alle leggi fisiche. Il calcio non è proprietà privata di nessuno, epperò vive totalmente di mer- 24 cato, perché oggetto della domanda del tifoso non è la singola partita, ma IL CALCIO, e “calcio” viene venduto. “Venduto” significa che il soggetto che ha fruito del “calcio” gratis, tramite i mass-media, decide poi di spendere del proprio per ottenere una dose aggiuntiva di calcio. Qui il denaro non serve per “esprimere” una preferenza, ma per sottolinearne una esistente. A volte il denaro è usato per comprare ciò che si ha già, ponendo come oggetto dell’acquisto non il bene in sé, ma ciò che esso rappresenta per il soggetto. Il giudizio di valore sorge non dalla considerazione dell’oggetto, ma dall’interpretazione di ciò che esso rappresenta per noi. Ogni scelta rimanda perciò a un contesto più ampio ed estremamente inconoscibile di giudizi di valore non esplicitati nell’occasione, ma in qualche misura sotteso. Si è già detto che l’ideale di Stato è l’esercito; occorre affiancare il carcere. L’esercito è il modello che vuole i cittadini “partecipanti”, il carcere è lo Stato che li vuole passivi. Per misurare l’effettività di un ordinamento statale bisogna vedere quanto esso è “esercito” e quanto “carcere”. L’esercito lede la libertà imponendo di fare, il carcere impedendo di fare. Si ha imposizione quando, a causa dell’azione deliberata, finalizzata e intenzionale di qualcuno diretta nei miei confronti, io vorrei operare una scelta, ma facendolo il beneficio verrebbe annullato da un costo superiore, e addirittura mi costa meno fare quanto imposto. Si ha impedimento nel caso opposto. Rispetto ad altre astrazioni, il calcio non è mistificabile. Se io accedo a ciò che si propone come “informazione”, non sono sicuro di ricevere “informazione”. La cattiva informazione non è informazione. Il cattivo calcio invece è calcio. Nell’informazione, la qualità (la verità di quanto comunicato) è costitutiva. Nel calcio, la qualità è eventuale e soggettiva. Non è soggettiva la verità dei fatti, l’essere o no avvenuto un fatto, mentre è soggettiva l’interpretazione. Un concetto la cui qualità è costitutiva, è un concetto sostanziale, contenutistico, in cui il giudizio di contenuto è sottratto ai giudizi soggettivi di valore. Sono i concetti che implicano la verità del proprio contenuto. E’ una funzione di verità. Secondo Mathieu, il valore del denaro (ma vale anche per l’etica) è dato dall’altro: che cosa ti dà in cambio per quella somma. Lo stesso vale nel diritto di mercato: io posso spendere molto per una norma, che poi resta inapplicata, perché nessuno compie l’atto sanzionato. In questo caso mi res- 25 ta il dubbio: non so se l’atto non è stato commesso per merito della mia norma, o se questa sia stata ininfluente. Nel denaro opera al contrario: data una somma, constato che cosa sono disposti a darmi in cambio; nel diritto, dato un atto ipotetico (o reale nella responsabilità civile), si valuta “quanto” si vuole come risarcimento: questo perché nel primo caso ci sono i tempi della consensualità, mentre nel secondo c’è il fatto compiuto, un costo imposto unilateralmente che va quantificato ex post. Il linguaggio del diritto è dichiarativo. Ma il contenuto della “dichiarazione” consiste in una minaccia. Dunque in tal caso l’enunciato è effettivamente costitutivo, non solo del “meccanismo”, ma del fatto della minaccia come violenza in sé. Il meccanismo è il meccanismo della minaccia e della violenza. “Chiunque… se… allora…”, etc., è la misura della felicità della minaccia. La misura della felicità è il grado di violenza di quel sistema. Non solo la “base” è empirica, ma il sistema tutto, in quanto fatto-minaccia: la base empirica è quella del passaggio dal fatto-minaccia al fatto-esecuzione della minaccia. Lo Stato interventista è il frutto della consapevolezza che gli uomini percepiscono la minaccia in modo differenziato. Lo Stato calibra così il livello della minaccia per categorie. Il livello di violenza (minaccia-fatto) non è uguale per tutti: questo è il fondamento della crisi del modello della legge generale e astratta, che è incompatibile con l’apparato. La legge cessa di essere “uguale per tutti” nel momento in cui è affidata a qualcuno in particolare. La minaccia è violenza, perché è costo deliberatamente imposto (costopaura più costo-probabilità). Mentre Nozick contro il ricatto sbaglia. Il ricattatore migliora le condizioni del ricattato, il quale ora a) sa che qualcuno sa, b) ha “certezza” che questo qualcuno non amplierà la conoscenza. Spetta al ricattato stabilire la soglia di costo accettabile in relazione al danno che presume di ricevere in caso contrario. Mentre al ricattatore non conviene infierire per non perdere una fonte di reddito. Lo Stato democratico-sociale è comunismo inegualitario, tutti sono comproprietari, “comunisti”, ma in quote ineguali. Il politico è come l’amministratore di una comunione con quote di maggioranza, salvo l’eredità. Lo Stato non è un’impresa, ma una mera comproprietà non produttiva, organizzata per consumare le risorse che il comproprietario fornisce indipendentemente dalla produzione. 26 È illogica qualunque dottrina, da Hobbes a Rawls, secondo la quale si possa uscire d’accordo dallo Stato di natura, dalla posizione originaria. Si esce con un atto unilaterale, costitutivo di un nuovo contesto come fatto compiuto. Di modo che l’eventuale conflitto successivo è per eliminare o difendere il nuovo contesto, e semmai se vi è accordo è per mantenerlo, non per costituirlo. Già il fatto di unilateralmente proporre la cooperazione costituisce il nuovo contesto. Nel denaro l’unità di misura è oggettiva, ma è un’oggettività solo formale, la misurazione (ossia l’uso dell’unità oggettiva) è soggettiva, con la parametrazione di un giudizio di valore all’unità di misura disponibile. Lo scambio si realizza quando si conviene sulla misura (non sull’unità di misura) nel caso specifico. Ossia, abbiamo un “metro”, ma il suo impiego è arbitrario, perché ciò che è oggettivo è solo l’unità di misura, mentre è arbitrario, ma da concordare, quante “unità” valga quel bene. C’è l’idea che vi sia un criterio universale, ma che siano gli uomini a usarlo. L’ordine è garantito dal fatto che nel mercato ogni fattispecie d’impiego dell’unità di misura è concordata. Lo stesso accade nel diritto di mercato. Il problema sorge se non matura l’accordo: a) lo scambio non si perfeziona, e tutto finisce lì; b) uno dei due pretende di imporre il proprio giudizio di valore. Nel caso b), l’altro può controimporre il proprio, ma senza dar vita a una spirale di coercizioni; chi reagisce all’imposizione deve in buona fede agire come se stesse concordando con il primo un giudizio di valore comune per neutralizzare il vulnus arrecato e ricostituire l’equilibrio alterato. Il mercato applica direttamente la legge, la giustizia, con il pagamento. La moneta è l’introduzione dell’elemento “giustizia” nel mercato; meglio, il mercato incorpora la giustizia, la presuppone, la realizza. Il diritto è il tentativo di realizzare tale ideale di giustizia (proporzionalità), laddove lo scambio non si realizzi per non collaborazione di una delle parti, non certo per imporre lo scambio, ma nel caso di inadempimento o di aggressione. L’accordo realizza la giustizia distributiva tra le parti. La rete degli accordi realizza la giustizia distributiva tra tutti. L’a priori è l’unità di misura, ma la giustizia è realizzata dal suo uso, da a) l’atto del misurare, b) l’accordo. L’accordo sulla misurazione è costitutivo del suo essere giusto, in quanto coinvolgente solo chi ha preso parte alla misurazione. Il numero è lo strumento perfetto di misurazione della giustizia: il prezzo. Il sistema dei prezzi realizza la società giusta, sistema 27 informativo anche nel senso che ognuno, conoscendo i prezzi delle transazioni altrui, conosce i parametri di giustizia utilizzati dagli altri. Lo Stato è l’organizzazione gerarchica di uomini e di beni per la (re)distribuzione forzosa delle risorse in un dato territorio. Nello Stato di diritto, sia l’organizzazione, sia l’acquisizione, sia la distribuzione sono regolate da norme espresse dallo Stato stesso, sulla base di norme da lui stesso poste all’atto di costituirsi. Ergo la costituzione dello Stato avviene attraverso la posizione di una meta-norma, volta a regolare la futura normazione. La creazione dello Stato di diritto consegue alla previsione di dover in futuro porre norme. L’elemento di doverosità, nello Stato, sta nel fatto stesso di venir posto, per, in vista del fine, da realizzarsi in futuro, della posizione di norme. Lo Stato è lo strumento organizzativo della gerarchia generale su un dato territorio. Il mercato, invece, crea gerarchie, ma non stabili e non organizzate in un’unica gerarchia. Lo Stato odierno è un esercito democratico, che ascolta la truppa. Il ladro Schulze deve andare in galera, nel senso che lo Stato è intrinsecamente obbligato ad arrestarlo. L’effettività non deriva dalla norma, ma dall’organizzazione sottostante, regolata da quella norma; dall’adeguatezza dell’organizzazione. Kelsen dice: siccome dalla norma Schulze non va in galera, allora il diritto non ha logica! Ma l’effettività della norma è affidata all’efficacia dell’organizzazione rispetto allo scopo. Ciò non significa che nel diritto non vi sia logica, perché la logica sorregge il tentativo di azione, non garantisce la riuscita del tentativo, che è condizionata dai puri rapporti di forza. Dire che il diritto non ha logica, sarebbe pretendere di ricomprendere nella voce “diritto” tutti gli sforzi fisici, umani, volti alla realizzazione dello scopo. Il diritto, sia chiaro, non ha un suo scopo: lo scopo è nell’organizzazione retrostante, non nella norma, ossia la norma non ha un suo scopo, essa esprime lo scopo delle forze organizzate dietro la norma, che intendono usarla per i propri scopi. Chi cerca lo “scopo del legislatore” fa il gioco del potere, se lo fa in senso soggettivo; il contrario se in senso oggettivo, ossia astraendo uno scopo del legislatore presunto o ipotetico, in quanto conforme a dati principi: questa è l’interpretazione legittimante, come quando il giudice decide scegliendo l’interpretazione costituzionale, ossia costitutiva dell’enunciazione degli scopi. 28 La posizione dei principi è la fase delle preferenze dichiarate dello Stato: la loro realizzazione pratica (il modo della) è la fase delle preferenze dimostrate dei governanti. Lo Stato si compone di due livelli della a) preferenza dichiarata dall’organizzazione, e della b) preferenza dimostrata effettivamente, che è diversa dalla prima data la componente gerarchica. Ossia chi ha più forza per imporre determinati principi regolatori, ha di norma anche più forza per discostarsene, per modificarne il contenuto al di là della facciata. “Lo Stato è un’organizzazione” va inteso sia in senso soggettivo che oggettivo. Lo Stato è l’atto dell’organizzare sulla base di un’organizzazione: diviene inevitabilmente un’auto-organizzazione. Ossia, l’organizzazione incaricata di organizzare un ambiente, ha come modo più conforme quello di internalizzarlo nell’organizzazione. Lo Stato sono uomini in azione. Tale azione è l’organizzazione e il tentativo di realizzare scopi, proclamati all’atto che ha dato impulso all’organizzazione. I principi sono fissati con l’atto che decide l’organizzazione. L’organizzazione inizia con un’enunciazione di principi alla quale corrisponde la predisposizione di assetti dei mezzi ritenuti adeguati per la realizzazione di quegli scopi. Lo Stato si differenzia dal mercato in quanto organizzazione militare. Per capire se una compagnia di protezione può divenire “stato” occorre approfondire se lo Stato goda di una credenza di legittimità. In un sistema di mercato, la credenza di legittimità è l’efficienza, efficacia rispetto a un criterio di legittimità. L’unico Stato legittimo, in base ai criteri del mercato, sarebbe uno Stato che avesse il consenso unanime dei soggetti coinvolti. Ossia, la compagnia dominante può diventare legittimamente monopolistta esclusivamente dimostrandosi efficiente nel mercato. Se non che, venendo dal mercato anche una domanda di differenziazione, la compagnia monopolista, se non vuol perdere consenso, deve rispondere anche a quella domanda. Da qui la necessità per quell’impresa di fornire anche un servizio di pesi e contrappesi. Il monopolio può far ciò in due modi: dando in subappalto il proprio servizio a terzi, ovvero accentuando il proprio carattere monopolistico e burocratico, fornendo direttamente anche il servizio di pesi e contrappesi. Basta dir questo per comprendere come siano inefficaci per efficienza e libertà. Quindi è un nonsenso (in senso paretiano) parlare di efficienza senza il consenso di tutti. Data l’enormità dei costi di transazione la gente si ritira dalle votazioni unanime continue, “delegando”, riconoscendo di fatto a ciascuno la delega di trattare l’affare che lo riguarda personalmente. 29 Il mercato è una democrazia che ha saputo eliminare i costi di transazione. Il mercato puro è senza diritto, ossia se privato di ogni residuo, non di preferenze, ma di organizzazione per la realizzazione forzosa delle preferenze dichiarate (la norma è l’enunciazione, il diritto implica l’organizzazione, lo Stato implica il monopolio di enunciazione e organizzazione). “Come si fa a sapere” è il senso comune del falsificazionismo. Ossia si chiede se ci sono conferme, ma si vuole sindacare la bontà di queste conferme, in caso contrario per accantonarle (falsificarle). La falsificazione non può che investire ipotesi già confermate. Quelle mai confermate non meritano confutazione. Come dire che è inutile chiedere un referendum su una norma mai applicata, sarebbe un autogol, il partito dell’applicazione si coagulerebbe. Il referendum è ammissibile solo per eliminare restrizioni. Per questo è abrogativo. E’ ammesso il referendum propositivo solo se la proposta è di ridurre il peso dello Stato: altrimenti lo Stato utilizzerebbe il referendum come strumento per ampliarsi. Questo sarebbe plebiscito: una richiesta di poteri, di investitura, mentre il referendum è la scelta del “popolo” su se ridurre i poteri del sovrano. Non si ha “diritto allo Stato”, ma si ha diritto a migliorare la propria condizione, eventualmente cambiando Stato. Il secessionista in fondo è un pigro: vuole cambiare Stato senza spostarsi. Il suo attaccamento alla terra è tale da trovare meno costoso “battersi per la secessione” piuttosto che andarsene. Non è vero che andarsene sia di per sé più costoso che restare lì. Se ciò avviene è perché sul “costo” incide l’elemento psicologico e affettivo. Si tratta però anche di una fatica di Sisifo, di un’azione inefficiente: spaccare uno Stato per crearne un altro. Dice A. Smith: il “fornaio” e il “birraio” sono mossi dall’interesse. Va bene. Ma occorre spiegare perché l’interesse porti a vendere e non a rapinare. E’ un’etica introiettata, ossia non percepita come tale, si agisce in conformità perché si crede che sia più vantaggioso, senza bisogno di rifletterci. E’ quello che Kant chiama il superamento dell’amor proprio nell’amore razionale di sé (Critica della ragion pratica). Fondamento empirico della norma – fattualità della minaccia – effettività dell’ordinamento = organizzazione di mezzi e di uomini Nella gerarchia funzionale delle fonti, il principio non è “in basso”, ma poggia direttamente sul fondamento empirico, e ciò che attribuisce signi- 30 ficato a quell’azione. Il significato di quell’atto materiale è dato dai principi ai quali si ispira. Il significato può essere legittimo, ma non è detto sia legittimo l’atto, la cui legittimità si misura anche dalla sua effettiva coerenza rispetto ai criteri, dal suo realizzare quel significato. Ogni fonte poggia sia sul fatto che sulla capacità, attitudine della norma superiore di poggiare a sua volta sul fatto. Potrebbe ipotizzarsi una grande multinazionale della protezione civile, che faccia pagare premi di assicurazione differenziati a seconda del rischioterremoto, della sismicità della zona. In certe zone i premi potrebbero essere così alti da suggerire il trasloco (come il mercato “previene” i danni da terremoto). La concorrenza tra le aree è anche in base alla sismicità (è chiaro che saranno più sviluppate le aree non sismiche). Solo lo Stato può far sviluppare zone sismiche, perché il rischio-terremoto è un costo redistribuito anche alle aree non sismiche, dunque rende conveniente rimanere in zone a rischio, tanto è un rischio che non si paga come tale (è una disinformazione, un’alterazione dei segnali del mercato). La norma è minaccia (violenza, costo) se è supportata da una strumentazione volta alla sua realizzazione, attuazione. L’effettività dell’ordinamento è tale strumentazione tridimensionale che è regolata dalla sua azione dalla norma, e al contempo dà senso alla norma. L’organizzazione è il senso della norma. Una norma senza strumentazione è senza senso. L’organizzazione è la misura della felicità, della serietà della minaccia. Può utilmente minacciare chi dispone della strumentazione. In sede di input lo Stato sociale è largo di manica, ma la strumentazione non è affidata a chi introduce l’input. La classe dirigente è evidenziata dal possesso della strumentazione, non dal semplice fatto di essere “legislatore”. Nel diritto di mercato, chi “pretende” (l’attore) dispone effettivamente della piccola strumentazione necessaria: ergo, il cliente della compagnia è meglio sia anche socio. Ma non deve essere grande per evitare la distinzione tra proprietà e gestione della compagnia. Nello Stato democratico c’è la scissione tra legittimazione all’input, che è generale, e possesso dei mezzi di attuazione, che è esclusivo. Nel mercato è generale anche il secondo. Titolo per un saggio: “La norma come minaccia: carattere dichiarativo ed efficacia costitutiva del diritto”. 31 Nella minaccia, l’enunciato non esaurisce l’azione. Occorre anche il riferimento alla strumentazione che renda seria la minaccia, ossia felice in quanto enunciato. E’ un atto di ostensione di un apparato reale o virtuale, al quale fanno riferimento tutte le altre norme “secondarie” (“Se…, se…, etc.”). La performazione non è nel mero enunciato, ma nell’enunciato più il riferimento all’attrezzatura sui fatti istituzionali che sottintendono la forza. Non v’è nulla di “magico” nel costitutivismo, giacché gl’istituti presuppongono la forza: è questa che viene contestualmente costituita, assieme all’enunciato “Bene (o male) pubblico”: è tale qualunque bene o servizio che viene goduto o subito anche da chi non ne ha pattuito la produzione. Nello Stato, qualunque bene pagato anche da chi non ne usufruisce (l’esternalità è duplice, anzi triplice). Ossia, non un bene che non viene prodotto, ma che non viene prodotto se i benefici che il contraente ne ricava sono decisamente sproporzionati ai costi, mentre gli altri benefici sono goduti gratuitamente. Il “promotore” può quindi chiedere (senza diritto di ottenerlo) il compenso, salvi i costi di transazione. La produzione di un bene pubblico è sempre un’alterazione dell’ordinamento preferenziale altrui, sia che operi come minaccia o invasione, sia che operi come offerta o fornitura non richiesta. Ad esempio, nel nostro sistema la donazione deve essere accettata dal destinatario, perché anche le “invasioni” unilaterali positive vanno assentite. La chiave del bene pubblico è nella sua unilateralità nell’imposizione di effetti, indipendentemente dal fatto che siano positivi o negativi. Infatti ciò è frutto di un giudizio soggettivo e non può essere valutato a priori, se non come una previsione fallibile da parte del fornitore. Si può ledere la libertà anche imponendo una fornitura (oltre che un costo), dato che è l’interessato a decidere se trattasi o non di “costo” per lui. Realizzare un bene pubblico è quindi un azzardo, è un tentativo, un tat, che può dar vita a un tit di qualunque genere. Si dice: come si fa senza polizia pubblica, con compagnie solo “private”? Ma la polizia è già oggi “privata”! La polizia è la compagnia di protezione degli interessi dominanti. Non solo e non tanto perché fa più che altro la scorta dei potenti e non tutela il cittadino (gli fa più che altro le multe). Ma anche e soprattutto perché tutela comunque istituzionalmente quegli interessi che sono riusciti a trovare protezione da parte della legge dello Stato. 32 Guardando la polizia in giro non hai mai la percezione che ti “tuteli”, ma hai sempre paura di non essere “in regola”. La tutela è “indiretta” (fittizia), perché è fondata sul presupposto che la legge applicata tuteli di per sé. Ma sappiamo che ciò che la legge tutela è altro. L’ideologia (la formula politica) è paternalistica: ti sanziono perché violi le regole che io (Stato) ho posto nell’interesse (anche) tuo. Ma non abbiamo mai la percezione che la regola sia effettivamente utile e vantaggiosa e giusta. Infatti non lo è. Quasi mai. Gli Stato, l’uno verso l’altro, sono compagnie distinte, ma non in concorrenza. Nesso monopolio moneta/legislazione/pianificazione- free banking/diritto di mercato/concorrenza Se la moneta è la giustizia nello scambio, free-banking significa libertà nella giustizia, libertà nell’interpretare la giustizia, libertà nella ricerca del miglior sistema di realizzazione della giustizia. Il potere dello Stato di battere moneta altera, allo stesso modo della legislazione, tale ricerca e attribuisce ad alcuni il potere di modificare a piacere l’unità di misura della giustizia dello scambio. La “preferenza dichiarata” è l’autoassegnazione di un modello di condotta e implica una deliberazione. La deliberazione altrui si trasmetta attraverso il fatto, la sua azione. Per noi, all’azione altrui corrisponde come funzione il modello auto-imposto. Ergo L.O. decide il modello che ha ricavato dall’azione altrui. L.O. non fa che razionalizzare e formalizzare quanto vede attorno a sé, la sua interpretazione di quanto vede. La legge nasce dalla constatazione e dalla comprensione di quanto accade, attraverso la fissazione di previsioni sull’avvenire. L.O. prevede la cooperazione possibile. La dottrina dei diritti naturali implica logicamente l’obbligo di cooperare. Tale obbligo non è in sé “naturale”, ma implica una teoria della giustizia, della felicità e del benessere. Dire che il diritto naturale è gerarchicamente superiore al contratto, significa che disapplicare questo è obbligatorio, doveroso. Dicesi “Mercato” il sistema nel quale a ciascuno è concesso di applicare la teoria libertaria della giustizia alle questioni che lo riguardano. Il mercato è la rete dei tentativi di rendere vigente la legge. I contratti tentano solo di applicare la legge e la giustizia e come tali non sono di per sé vincolanti. 33 Il diritto nasce dopo che l’altro ha accettato l’offerta di L.O. ed è volto a) ad applicare il loro contratto se l’altro lo viola, dato che L.O. sta adempiendo, b) a confermare la giustizia di L.O. L.P. conferisce un credito all’altro, e si prende il tempo necessario ad onorarlo, rendendo profittevole la proprietà. Il denaro fonda la società civile come promessa di una reciprocità futura, fondata sulla produzione e sul credito, ossia sulla fiducia: ossia sul riconoscimento di una simiglianza che consente di ipotizzare un’idea comune di giustizia destinata a durare nel tempo. Il proviso di Locke è rispettato dal credito che L.O. attribuisce all’altro, al pagamento alla base della sua separazione proprietaria. La proprietà nasce con il mercato, non ne è un presupposto, e si consolida onorando il credito, ossia con la produzione. La proprietà si legittima divenendo impresa che avvantaggia l’altro, nella prospettiva dello scambio. Sicché la constatazione dell’inefficienza del contratto giustifica la sua violazione. 34 19 biblioego Fondazione De Ferrari, Piazza Dante 9/18, Genova http://www.deferrari.it/ - fondazione@deferrari.it gennaio 2014 fogli di via 

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